Storie originali > Soprannaturale
Ricorda la storia  |      
Autore: yonoi    11/03/2020    17 recensioni
Un vecchio casolare immerso nella campagna russa di inizio Novecento. Un pittore squattrinato dà vita, nel vero senso del termine, a un quadro rappresentante i suoi figli perduti. Il pittore scompare misteriosamente e l’opera passa di mano in mano, lasciando dietro di sé una lunga scia di persone sparite nel nulla. Fino a quando due studenti di una famosa università americana decidono di dare un senso a tutta questa strana vicenda. L’avventura che vivranno sarà in bilico tra il surreale e l’incredibile, ma servirà a rafforzare ancora di più la loro straordinaria amicizia.
Questo racconto è stato scritto a quattro mani con SSJD e partecipa al contest "Feat. Masters" indetto da Soul_Shine sul Forum di EFP.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
I custodi della soglia
 
 
Campagna di Dzerzinskij (Russia), primi del Novecento

 
Le sagome degli alberi s’indovinavano appena, ombre sull’orizzonte piegate dalle raffiche. Un edificio isolato, quasi un rudere, tutt’intorno la pioggia che scrosciava incessante, tamburellando sui vetri con lunghe dita fredde.
A una prima occhiata, pareva che là dentro non ci vivesse nessuno. Sicché un ipotetico viaggiatore smarrito, che fosse sopraggiunto sotto a quel nubifragio che assediava i campi e la notte, si sarebbe stupito nel sorprendere un’ombra che si stagliava netta nella luce di una finestra.
Forse avrebbe pensato a un fantasma evocato dalla tempesta, perché quel casolare che sorgeva nel bel mezzo del buio aveva un aspetto del tutto solitario, abbandonato all’incuria del tempo e della natura.
Eppure, la figura che s’intuiva dietro alle cortine di pioggia non era uno spettro.
Davanti alla finestra che si apriva tra i nidi del sottotetto, c’era davvero un uomo o meglio c’era la sua ombra in controluce, immobile e circondata dalle volute lente di una sigaretta.
Una minuscola brace accompagnava il gesto di portare quel filo di fumo alle labbra, mentre l’uomo fissava l’oscurità rischiarata da lampi improvvisi, il velo della notte percorso dai tragitti irregolari dei fulmini.
Qualcosa di simile a un istinto di fuga lo spingeva a rinviare, a sottrarsi al lavoro che lo attendeva pochi passi più in là, dritto su un cavalletto.
Mancava poco, in realtà, un paio di pennellate per completare l’opera.
Alle sue spalle, la tela catturava il fulgore dei lampi, dopo di che la stanza ricadeva nella penombra.
Eppure, anche al buio le tinte conservavano una fioca luminescenza, continuavano a splendere di una luce propria. Un richiamo insistente, un fruscio di sussurri proveniva dalla tempera ancora fresca, e l’uomo non sapeva per quanto tempo ancora sarebbe riuscito a ignorarlo.
 
***
 
Il vento sbatteva le imposte con rabbia. L’uomo alla finestra non ci faceva caso. Riviveva il passato.
Si era sposato giovanissimo con la donna che aveva catturato per sempre la sua immaginazione, sin da quando l’aveva vista la prima volta. Il suo profilo pensoso, i colori autunnali e un temperamento malinconico avevano esercitato il loro dominio suggestivo su un numero incalcolabile di schizzi e di ritratti. Sfumata a carboncino, all’acquarello o a matita, la bellezza di lei si era fatta strada dapprima sui banchetti dei mercatini e di seguito in qualche spazio espositivo, in quegli angoli bui che i galleristi affittavano al prezzo più basso.  
L’aveva sposata senza clamore e senza invitati, né avrebbe potuto fare diversamente: la famiglia della donna considerava il suo talento alla stregua di un sogno, i suoi dipinti improbabili, le nozze quanto meno una mancanza di buon senso.
Lui e la donna autunnale si erano ritirati in quel casolare, continuando a coltivare patate e illusioni, a trascorrere inverni assediati dal gelo, primavere in cui rinascere in un quieto tepore.
A cadenze che ignoravano i tempi della fame, l’uomo riusciva a vendere una delle sue tele. Investiva quei guadagni in doni per lei: cappellini che erano saldi di saldi, collane da poco prezzo con cui la ritraeva come una principessa.
Decisa a ricambiare a sua volta quelle attenzioni, la donna autunnale diede alla luce un figlio.
Fu allora che cominciarono le visite al casolare. La madre di lei giungeva senza preavviso, sobbalzando sulla sua carrozza a doppio tiro. Subito ripartiva, non senza avere lasciato qua e là una moneta, un paio di banconote, come le fate buone delle leggende.
Seguì un breve periodo di quiete. L’uomo aveva trovato uno stile mediamente apprezzato in città, e grazie anche a quei foglietti che spuntavano come i premi di una caccia al tesoro, al casolare decisero che c’erano spazio e solidità sufficienti per un secondo figlio.
Le doglie arrivarono insieme a un nubifragio annunciato, avvertito da tempo nelle ossa dei contadini della zona, ma che riuscì ugualmente a sbalordire per la violenza del tutto inconsueta. Il vento aveva cominciato a volare basso fin dal mattino, l’atmosfera era carica di una livida fosforescenza. Nel giro di un paio d’ore, la campagna era precipitata nell’oscurità più totale. A stento il casolare riusciva a contrastare gli urti che piegavano le cime degli alberi e mutavano le strade in torrenti di fango. Il cielo buttava acqua come se lassù si fosse aperta una falla e i tuoni a tratti coprivano le grida della donna, incapace di dare alla luce quella creatura che lottava a sua volta per farsi strada.
La notte era sopraggiunta con un silenzio irreale, un mormorio sbigottito di scoli dalle grondaie.
L’uomo si era ritrovato tra le braccia il corpicino freddo di una neonata, una bambola inerte, gli occhi spalancati nell’aria ferma.
Poco più in là, il corpo della donna diventava di neve. 
L’uomo della finestra aveva trascorso un tempo incalcolabile in uno stato di stupore sognante. Molti giorni erano venuti e se n’erano andati finché a un certo punto, insospettiti dall’odore che giungeva di là, erano arrivati i contadini e poi le guardie.
L’uomo aveva consegnato i corpi avvolti in lenzuoli candidi, disteso altri teli sul resto della mobilia, affidato il primogenito ai parenti della donna di neve. Solo per qualche giorno, si era ripromesso. Ma di fatto quel breve periodo di tempo si era dilatato fino a diventare per sempre.
 
***
 
Da quella notte era passato molto tempo o forse un’ora soltanto, rimasta impigliata nelle lancette dell’orologio senza riuscire a trascorrere mai del tutto.
L’uomo della finestra mangiava e dormiva, senza percepire il sapore dei cibi e il significato dei sogni. Mescolava i colori quasi senza vederli, tracciava linee e immagini solo per abitudine.  
Finché non gli era venuto in mente di liberarsi dei suoi incubi affidandoli alla tela. A quella, in particolare, che ora lo attendeva quieta sul cavalletto.
Ci stava lavorando da più di un anno.
Di giorno e di notte, senza interruzioni.
Quando era esausto, riposava per qualche ora sulla branda che aveva trascinato fino in solaio, in quella stanza satura di tinte e di solventi in cui s’era ristretto tutto il suo mondo.
Dormiva un sonno agitato e si destava di soprassalto, richiamato da una voce che parlava nella sua testa e gli intimava di alzarsi e proseguire il lavoro. In mancanza di altre parole e sentimenti, lui l’ascoltava sempre. Non poteva fare a meno di rimettersi in piedi, armarsi di pennello e ricominciare a mescolare le tinte.
Vi era tuttavia un fatto, ancora più sconcertante di quegli ordini sussurrati. Ogni volta che tornava a mettersi all’opera, l’uomo della finestra aveva l’impressione, poi via via la certezza, che qualcosa fosse cambiato nell’aspetto del quadro.
Si trattava di particolari impercettibili, in grado di sfuggire a un osservatore meno attento o forse meno stordito.
La prima figura al centro ritraeva un ragazzino di età indefinita, che puntava diritto verso l’osservatore uno sguardo accigliato. Eppure lui aveva ritratto suo figlio con un volto, se non sorridente, quanto meno sereno. Accanto, una bambina o piuttosto una bambola a grandezza naturale, la figlia mai nata, il fantoccio inerte che si era ritrovato fra le braccia. I particolari del volto erano da definire, mancavano ancora gli occhi, ma le orbite buie possedevano un loro sguardo o per lo meno l’uomo se lo sentiva addosso. 
Dietro alle due figure, un’ampia vetrata completava la scena. Nessuna trasparenza mostrava cosa ci fosse al di là.
 
***
 
Quando l’ultima goccia cadde sul davanzale, l’uomo spense l’ennesimo mozzicone e finalmente si decise a terminare il lavoro. Girò attorno al cavalletto e diede una rapida occhiata. Il nero della vetrata gli parve ancora più cupo e senza fondo del solito. Anche le orbite della bambina avevano assunto un inquietante color tenebra.
L’uomo scosse la testa, richiamò alla memoria l’azzurro degli occhi della piccola morta, la sensazione di quel peso inerte tra le sue braccia. Quindi iniziò a impastare una punta di bianco con una di celeste, finché non ottenne la giusta gradazione. Intinse il pennello ed era sul punto di appoggiarlo sulla tela, al centro di quell’orbita scura, quando avvertì un senso di mancamento. Barcollò verso la finestra, in preda alla fame d’aria. Riuscì a malapena a sfiorare il vetro, a lasciarvi l’impronta tiepida delle dita, un alone di fiato destinato a svanire presto.
Pochi minuti dopo, tutto ciò che restava di lui era una mano che affiorava da dietro la vetrata del quadro. Ormai imprigionate in quel lembo di oscurità, le sue nocche continuarono a bussare fino a perdere le forze e a rimanere immobili.
 
***
 
Detroit, 2015
 
Yuri Maximilian Alexander Smirnov, per tutti Max, aveva conosciuto Lukas Marinetti online. Entrambi pubblicavano le loro opere su un sito per amanti della pittura, e mentre Lukas era letteralmente affascinato dallo stile in puro realismo di Max, alias YMAS, quest’ultimo era ammaliato dalle tinte forti e dai tratti duri delle pennellate di 4Lucky, nick scelto goliardicamente dall’amico di origini italiane.
Il giorno in cui decisero di incontrarsi, ancora non sapevano a quali strane avventure sarebbero andati incontro.
 
***

Il tintinnio della campanella sulla porta d’ingresso annunciò l’arrivo di un nuovo cliente.
Max alzò lo sguardo. Era seduto da più di un’ora a quel tavolo ad attendere l’arrivo di 4Lucky. Non che quest’ultimo fosse in ritardo. Semplicemente, a Max piaceva sedere in una caffetteria, sui gradini di una piazzetta o sulla panchina di un parco, e guardarsi un po’ intorno finché un particolare non attirava la sua attenzione. A quel punto, apriva il suo album e iniziava a rappresentare a matita il mondo intorno a sé.
Quando Lukas fece il suo ingresso nel locale, Max si fermò a osservarlo da dietro allo spessore dell’albo. Se lo era sempre immaginato come un tipo bizzarro, con i capelli blu come l’avatar del sito su cui si erano conosciuti, e in tuta da ginnastica, visto il suo amore maniacale per lo sport. Invece Lukas era quasi normale, certo con qualche difficoltà a rapportarsi col pettine e un’evidente passione per gli anelli, con cui s’era agghindato otto dita su dieci. Sì, decisamente era un eccentrico.
Lo vide indugiare sulla soglia. Lo spazio tra loro prese la forma delle gigantesche braccia della barista di colore, incrociate davanti a una rivista sul bancone.
“Cosa prendi, ragazzo?”
“Cerco un amico…” Lukas allungava il collo in perlustrazione, frugando tra i tavolini e le locandine di vecchi film western appesi alle pareti.
“Che faccia ha questo amico?” buttò lì la barista, prima di ricominciare a voltare le pagine. “Comunque, laggiù c’è un tizio che è qui da più di un’ora. È l’unico cliente, non puoi sbagliare.”
A quel punto Max decise di uscire allo scoperto, dalla sua postazione dietro all’album da disegno. Sul volto di Lukas comparve un sorriso rilassato.
“È un onore conoscerti, Max.”
“Il piacere è tutto mio. Prendi qualcosa?”
“Un cappuccino chiaro, bollente e senza schiuma,” ordinò Lukas, pignolo. “Con due bustine di zucchero. Tre, per sicurezza.”
 “Per me un caffè, grazie.”
La barista di colore, una torre di treccioline e un menu sottobraccio, prese nota senza scomporsi.
“Allora? Cosa mi racconti?” riprese Lukas, rompendo gli argini. “Come ti accennavo per mail, mi sono trasferito da poco in città, non conosco molto di qui. So solo che fa un freddo maledetto rispetto alla California. I miei abitano ancora là, mio padre ha una pizzeria. Tu di dove sei?”
Solo in quel momento Max si rese conto di quanto Lukas fosse diverso da lui. Gli aveva stretto la mano da solo due minuti e già lo stava investendo con un fiume di parole, come se dovessero recuperare in una sola mattina tutto il tempo perduto.
“Io sono nato qui, ma sono di origine russa. I nonni erano proprietari terrieri. Da bambino avevo sei nomi, tanto per dire. Appena ho potuto sono andato all’anagrafe e ne ho fatti cancellare tre,” disse tutto d’un fiato, salvo rendersi conto di aver dato di sé delle notizie completamente inutili.
“Certo che sei parecchio preciso quando ordini,” riprese, sorridendo.
“Se fossimo in Italia, anch’io avrei chiesto un caffè,” rise Lukas. “Ma quello americano, senza offesa, somiglia a una minestrina. Però i gusti non si discutono. Altrimenti, non sarei qui a chiederti come fanno a piacerti i miei scarabocchi.”
 “Ma quali scarabocchi? Credo tu abbia un talento notevole.”
Così disse l’uomo in grado di dipingere un vaso di fiori a cui manca solamente il profumo…” Lukas allungò la mano verso il tavolo a fianco per impossessarsi di una quarta bustina di zucchero.
“Sul serio, dovresti frequentare un istituto d’arte. Te l’avrò scritto un centinaio di volte…”
Era vero. Da quando avevano iniziato a condividere qualcosa in più delle recensioni sui dipinti dell’uno e dell’altro, Max aveva insistito più volte sulla possibilità che l’amico frequentasse un corso di disegno.
Rimase quindi sorpreso quando si sentì rispondere che Lukas si trovava a Detroit proprio per cercare casa, dal momento che al campus della Siena Heights University, a cui si era iscritto, non aveva trovato posto.
“Ti sei iscritto alla Siena? Sul serio?”
“È un’ottima università, o sbaglio? Altrimenti non ci andresti anche tu,” rispose Lukas facendogli l’occhiolino.
Max scosse la testa, incredulo. Fin dall’inizio aveva parlato all’amico dei suoi studi, ma mai avrebbe immaginato che questi avrebbe lasciato l’amata California per trasferirsi in quel buco freddo del Michigan e iscriversi alla sua stessa facoltà.
A quel punto, lanciò la proposta:
“Il mio compagno di stanza si laurea il mese prossimo. Tra poco il suo posto letto sarà libero. Se vuoi...”
Lukas si limitò a un sorriso ammaliante e rispose semplicemente:
“Che razza di domanda. Certo che voglio.”
 
***
 
Da quel giorno, divennero inseparabili.
Stessi corsi universitari, stessi locali frequentati con gli amici. Tutto condiviso, compresa la polmonite che Lukas si beccò per essere uscito a correre a meno dieci gradi e la varicella di Max, che l’amico continuò a prendere per il culo per mesi, ritenendo che si trattasse di una malattia da poppanti.
Ormai in dirittura d’arrivo, i due si apprestarono di comune accordo a seguire la stessa tesi di laurea. Sulla scelta del tema avevano già un’idea, approfondire l’opera dei pittori minori del ventesimo secolo. Tutto stava nell’individuare una pista che valesse la pena di esplorare e che fosse in grado di stuzzicare la curiosità di entrambi.
L’argomento di tesi si presentò sotto le vesti, scarse, della signorina Loren Thompson: capelli neri, occhi verdi, piercing al naso, maglietta del peggior album degli Iron Maiden che si potesse ricordare e pantaloncino in jeans sicuramente fatto in casa, dal momento che la sfrangiatura della gamba sinistra era più lunga di parecchi centimetri rispetto alla destra.
Si erano conosciuti alla mensa universitaria. Lorel si era seduta accanto a loro, s’era infilata una cucchiaiata di purè in bocca e senza tanti preamboli aveva domandato:
Siepfe una coppfia?”
Di fronte alle occhiate stupefatte dei due, aveva insistito:
“Allora, sì o no? È da un po’ che vi tengo d’occhio, mi sembrate affiatati e non vorrei disturbare. Se però siete del tipo: noi siamo fatti per stare insieme per sempre e avere dei figli e avete bisogno di una portatrice sana di vagina, contate su di me. Potrei farlo con uno di voi o con tutti e due, il che sarebbe anche più divertente.”
“Okay, okay, frena,” l’aveva interrotta Max. “Siamo soltanto amici, amici fraterni. Per tutto quanto il resto, puoi parlarne con Lukas. Io devo proprio andare. Puoi anche non crederci, ma la mia ragazza mi aspetta.”
Detto questo si era alzato, tirandosi dietro il vassoio. 
Lorel aveva abbassato per un istante le orecchie e anche il tono, salvo recuperare terreno quasi subito. “Vedi a voler fare del bene alla gente… Però voi due sembrate veramente una coppia. Non ci sarebbe niente di male, anch’io qualche volta ho fatto sesso con la mia compagna di stanza. Aveva un sacco di giocattolini che sapeva usare divinamente. Me ne ha lasciati un paio per ricordo. Il sesso con lei era fantastico, da provare, assolutamente.”
“Chi? La tua amica?” Lukas, piantato in asso di punto in bianco, cominciava a trovare interessante l’idea di sostituirsi ai suddetti giocattolini.
“Sai cosa intendo.”
“Beh, una volta io e Max eravamo ubriachi fradici, dopo una festa. Abbiamo dormito seminudi nello stesso letto.” 
“E cosa avete fatto?”
“Dormito, te l’ho detto.”
Era la verità. Quella notte erano rientrati con un tale tasso alcolico in corpo che c’erano ragionevoli probabilità di scatenare un incendio se uno dei due avesse acceso una sigaretta. Il calore eccessivo, l’istinto, la curiosità li avevano spinti a spogliarsi e a infilarsi nel letto. Lukas si era ritrovato con Max sdraiato sopra, le labbra vicine, a supplicare un bacio che però non era mai arrivato.
Appoggiando la fronte a quella dell’amico, Max gli aveva sussurrato:
“Ti voglio un fottuto bene, fratellino, ma non in questo modo.”
Lukas si era limitato a sorridergli. Sapeva di amarlo fin da quando si erano conosciuti, di essere disposto ad assecondare ogni suo desiderio, persino quello di fare l’amore con lui, se questo fosse servito a creare un legame più forte. Di fronte a quella rinuncia si era semplicemente adeguato, ma aveva fatto posto all’amico sul cuscino, tacitamente invitandolo a restare con lui.
Il mattino seguente nessuno dei due ricordava granché dell’accaduto, ma avevano l’impressione che il loro rapporto si fosse ulteriormente rafforzato.
Esaurite le confidenze, Lukas e Lorel passarono il resto del tempo a discutere su quali fossero i minori più interessanti dal punto di vista biografico.
Quando Loren se ne uscì con la storia del pittore scomparso e del suo ultimo dipinto rimasto incompiuto, Lukas si entusiasmò.
Guardandola negli occhi le comunicò il suo stato adrenalinico. Pochi minuti dopo, facevano sesso nello sgabuzzino della mensa.
Fu così che quando Lukas non stava con Max, dieci a uno stava con Lorel, al dormitorio femminile, camera 326.
 
***
 
Detroit, 2020
 
Max lasciò cadere la cornetta del telefono, abbandonandola a penzolare mentre correva verso l’uscita, diretto al dormitorio femminile.
Arrivato alla stanza 326, infilò dentro il naso senza neanche preoccuparsi di bussare.
“Cazzo, Lukas, vestiti, l’ho trovato.”
Si pentì subito di esser stato tanto irruento quanto indiscreto, e di aver visto i famosi giocattolini in azione. Richiuse la porta e si dispose ad attendere.
Quando il più giovane uscì trafelato, Max lo interrogò con lo sguardo.
“Beh? Che c’è di strano? Sai che mi piace sperimentare le novità, e poi anche Van Gogh era masochista: si tagliò un orecchio da solo…” Si parlava sui piedi, affannato ad allacciarsi le scarpe. Poi si rialzò e concluse: “Dovresti provare anche tu a uscire dai soliti schemi. Forse anche a Tina piacerebbe.”
Max si affrettò a chiudere il discorso:
“Van Gogh era pazzo, si tagliò un orecchio dopo aver litigato con il suo migliore amico e due anni dopo la fece finita con un bel suicidio. Hai in mente di seguire le sue orme? Andiamo, fra una settimana lo batteranno all’asta a Filadelfia, dobbiamo partire.”
Si avviò nel corridoio, e fu a quel punto che Lukas lo afferrò per un braccio.
“Che c’è, Lu?” Max alzò gli occhi al cielo, convinto che l’amico volesse ancora discutere su cosa non facesse a letto con Tina.
Come al solito, Lukas riuscì a stupirlo. Fissò i suoi occhi emozionati in quelli dell’amico e domandò:
“È veramente lui?”
 
***
 
Partirono all’alba su una vecchia Pontiac dell’85 che sembrava pisciare olio anziché bruciare benzina, presa a noleggio con pochi spicci, giusto per risparmiare in vista dell’asta. Durante la prima parte del viaggio non riuscirono a scambiare una sola parola. Non tanto per il frastuono della Pontiac, che ruggiva con grandi vibrazioni di specchietti, poltroncine e marmitte, come se fosse sul punto di sparpagliare i pezzi lungo la strada. Il fatto era che entrambi si sentivano pervasi da un senso di eccitazione e, insieme, di inquietudine.
A un certo punto, un borbottio era emerso dal sedile del passeggero:
“Ho fame.” Max continuava a fissare un punto lontano, oltre la carreggiata.
“Cosa?” Per superare il trambusto che in autostrada aveva raggiunto il suo picco massimo, Lukas dovette urlare.
“Vuoi fermarti, per favore?” 
“Siamo appena partiti, come puoi avere già fame?”
“Lukas, ferma questa cazzo di macchina, okay?”
Sostarono a un autogrill, tra due autotreni di dimensioni ragguardevoli. Uno dei due esibiva un bisonte di pezza appeso allo specchietto retrovisore.
“Allora? Non scendi?” Il tono di Lukas oscillava tra il perplesso e lo scocciato. “Si può sapere che succede?”
L’amico sfogliò il catalogo dell’asta e si soffermò sulla foto, in formato parecchio ridotto, di quell’opera attribuita al misterioso artista di cui aveva parlato Lorel. Fissò i particolari, sfuocati dai pochi pixel con cui l’immagine era stata stampata. Per quanto ci avesse riflettuto più volte, il significato del dipinto continuava a sfuggirgli.
Una vetrata immersa nell’oscurità, un ragazzino e quella che, a una prima occhiata, pareva a tutti gli effetti una bambina. Ma il quadro era ricco di simbologie misteriose: vista da vicino, la seconda figura pareva piuttosto una bambola o un manichino, con le giunture snodabili in evidenza e al posto degli occhi due cavità vacue.
La rappresentazione stessa dell’assenza di vita.
Secondo quanto riportato dalla didascalia, l’opera era stata rinvenuta nel luogo dell’ultima dimora del pittore, un casolare sperduto nella campagna russa. Era citato anche l’indirizzo di un antiquario, un certo Pungetti, che malgrado le notizie del tutto frammentarie s’era arrischiato a mettere la propria firma e il timbro per garantirne l’assoluta autenticità. 
“Vuoi dirmi che succede?” Lukas non voleva darlo a vedere, ma cominciava a preoccuparsi sul serio. 
“Penso a quel vecchio libro che ci ha mostrato Lorel, quando ci ha raccontato la storia del dipinto. Pare che alcuni dei precedenti proprietari siano scomparsi senza lasciare traccia. C’è chi ha rischiato di finire sul lastrico finché non ha deciso di sbarazzarsene. Questo il nostro catalogo non lo dice.”
“E dai Max, sono solo leggende! Secondo quel libro, Van Gogh si sarebbe tagliato l’orecchio perché era innamorato del suo amico Gauguin. Non so se mi spiego.”
“Ci sono troppe coincidenze. Molti degli acquirenti erano a loro volta dei pittori. A questo punto, non sono così sicuro di volerci avere a che fare.”
“Andiamo. Ti offro la colazione, così ne parliamo.”
Nei momenti più critici, Lukas sapeva essere convincente. Seduto al tavolino dell’autogrill, tra conducenti di camion, autotreni e bisonti vari, diede fondo a tutti i possibili argomenti per persuadere l’amico a non dar peso a simili stramberie. Roba a cui non avrebbe creduto neanche sua nonna, che pure viveva nel più profondo Sud, in un borgo sperduto tra i campi di limoni dove il malocchio era affare di ogni giorno. 
“Cerchiamo di non farci suggestionare. È soltanto un disegno. Da quando in qua la pittura porta sfiga?”
Ma non era quello, il punto.
“Max, io non posso andare da solo a Filadelfia. Però non voglio andarci nemmeno con te, se non sei d’accordo. Vuoi che torniamo indietro?”
A quel punto, inspiegabilmente, Max aveva cambiato faccia e anche parere.
“No! Dobbiamo andare a prenderlo! È la nostra tesi di laurea, dannazione!”
E poi lo senti anche tu che ci sta chiamando.
 
***
 
La sala designata per lo svolgimento dell’asta si trovava al primo piano di un palazzo in stile Ottocento. Non appena Lukas e Max varcarono la soglia avvertirono entrambi un senso di straniamento. Il soffitto intarsiato saliva fino a perdersi in un’oscurità colma di echi, un enorme lampadario dondolava catturando spifferi tra i cristalli.
File di sedie erano rivolte in direzione di un palco allestito con un cavalletto, un pulpito di legno e un tavolo intarsiato a losanghe.
“Mi sento soffocare,” sussurrò Max, che esibiva un pallore grigiastro, tono su tono con il resto dell’ambiente.
“Sai che c’è stato un tizio in Italia, un imbalsamatore, che ha realizzato un tavolo usando organi umani pietrificati?” Lukas allungava il collo, euforico. “Magari si tratta proprio di quel tavolo là. Chissà se è nel catalogo.”
“Piantala, deficiente. Sono già abbastanza nervoso.”
“È colpa tua se mi vengono in mente certe cose. Hai la faccia di uno che studia da morto.” Lukas si fece strada attraverso le file di sedie ordinate. “Mettiamoci in fondo, magari dalla porta arriva un filo d’aria.”
I partecipanti si contavano sulle dita di una mano. Due tizi attempati, in bombetta e cravatta di Pippo e Paperino, erano appollaiati in seconda fila e intenti a parlare fitto tra loro.
All’altro capo del salone, una vecchina esile sfiorava a malapena il pavimento con un paio di grosse scarpe da basket. La sagoma emergeva a stento nella penombra, un mucchietto di pizzi con la veletta in testa e a lato una carrozzina, un vecchio modello a volute metalliche del genere molto in voga negli anni Sessanta. Di tanto in tanto la nonna sbirciava il contenuto finché si decise a cavar fuori una bambola di pezza, avvolta in una copertina da neonato.
“A me le bambole hanno sempre dato sui nervi,” commentò Max. “Più che mai di questi tempi.”
“È perché hai visto troppi film dell’orrore. Troppi film e troppi libri.”
Pochi minuti dopo, da una porticina sgusciò fuori una bionda in tailleur e tacco dodici. Avanzò fino al pulpito sollevando uno strepito di assi indolenzite.
“Adesso ci casca dentro,” osservò Lukas. “Gambe all’aria, non vedo l’ora. Chissà di che colore ha le mutande. Ma una così, mica le porta...”
“Buon pomeriggio e benvenuti all’asta numero 4896 dello Stato del New Jersey,” attaccò la bionda, che a dispetto di ogni contraria previsione era riuscita a raggiungere il microfono indenne. “Oggetti d’arte appartenuti al signor Arthur Myer, deceduto lo scorso mese a Filadelfia. Se non ci sono domande, passiamo alla presentazione del primo pezzo: vaso in porcellana Luigi XVI…”
“Un bidè, tale e quale,” sghignazzò Lukas, più che altro interessato a riesumare l’amico dal suo umore sepolcrale.
“Ma la pianti, cretino? Vuoi che ci sbattano fuori? E poi non può essere un bidè, ai tempi di Luigi XVI non sapevano neppure cosa fosse.”
“Che c’entra? Qui in America non sanno neanche adesso cos’è un bidè. Ciò non toglie che quel vaso è uguale al bidè che ha in casa mia nonna. E forse t’interesserà anche sapere che nonna Vincenzina è capace di fare l’occhiatura.”
“Sarebbe?”
“Levare il malocchio, naturalmente.”
“Ottocento dollari la signora là in fondo, ottocentocinquanta come da offerta telefonica pervenuta alla Casa, novecento di nuovo la signora. Novecento e uno, novecento e due… Aggiudicato alla signora in ultima fila,” concluse la bionda, battendo il martelletto e riempiendo di vibrazioni tutto il pulpito.
“Novecento dollari per un bidè. Certo che la gente è strana.”
“Qui dentro è tutto strano,” osservò Max. All’altro capo della sala, l’anziana in veletta e bambola di pezza, probabilmente un’eccentrica collezionista, aprì un ombrellino nel momento stesso in cui fuori incominciava a piovere.
Sul palco si susseguirono stramberie di ogni genere, sotto forma di lampade e soprammobili, cristallerie e tappeti. Tra i pezzi memorabili, un puma di ceramica a grandezza naturale e un orologio a cucù col cartiglio memento mori: alle ore canoniche, invece del solito uccellino saltava fuori il tristo mietitore in persona, con falce, cappuccio e pipistrello d’ordinanza.  
Finalmente iniziò il carosello dei quadri.
Le due bombette in cravatta di Pippo e Paperino si aggiudicarono una serie di stampe nel più perfetto stile del surrealismo pop: una coppia di maiali travestiti da clown e impegnati al trapezio, sui pattini a rotelle, intenti a giocare a tennis. Il fortunato acquisto fu suggellato da un bacio così passionale da indurre la vecchietta a coprire gli occhi alla bambola. 
         “Beh, quando vinceremo l’asta per il nostro quadro, non ti aspettare che faccia lo stesso,” sussurrò Lukas.
“Sul serio? Pensavo che un rapporto di quel genere ti piacesse, considerato quello che combini con Lorel.”
“Sei tu che non sai cosa ti perdi. Meno libri di favole e più giocattolini.”
“Preferisco crogiolarmi nella mia beata ignoranza. Preparati, il prossimo è il nostro.
“…E veniamo all’opera ultima del pittore Dobrivsky, prematuramente scomparso, nel senso più stretto del termine, agli inizi del Novecento. Si tratta di un olio su tela sessanta per ottanta, dotato di certificato di autenticità rilasciato dall’antiquario Polipetti… Pungetti.” La bionda dovette inforcare un paio di occhiali a catenella da zia per riuscire a leggere correttamente il nome. “La base d’asta parte da cinquecento dollari.”
Di tutto quel discorso, Lukas e Max non afferrarono nemmeno una parola. Entrambi erano già totalmente soggiogati da quel dipinto che avevano inseguito per così tanto tempo e che adesso era lì, dritto sul cavalletto, ed esibiva quell’aria di quieta indifferenza che hanno le opere d’arte quando stanno per essere valorizzate al meglio. 
Si trattava, in realtà, di una calma apparente.
Mentre i ragazzi si lasciavano ammaliare dal quadro, le immagini ritratte – il bambino, la bambola, ma anche la vetrata cupa alle loro spalle – li avevano già puntati e nelle teste dei due iniziava a farsi strada un richiamo sussurrato.   
Era un mormorio lieve, più simile al fruscio che muoveva i cristalli del grande lampadario, eppure irresistibile.
Lukas alzò immediatamente la paletta.
“Cinquecento il ragazzo in ultima fila, seicento il signore con la bombetta,” annunciò la bionda al microfono.
“Dannazione, Lukas, rilancia!” lo incitò Max, alle strette.
L’amico lanciò un’occhiata a Pippo e Paperino, immersi in una discussione confabulante. Poco più in là, la dama con la veletta aveva estratto un vezzoso binocolo in madreperla e scandagliava il dipinto con aria meditabonda.  
Ora o mai più. Lukas balzò in piedi brandendo la paletta:
“Milleduecento dollari e sessantacinque centesimi.”
Che era poi tutto quello che avevano in tasca.
Gli occhiali sulla punta del naso della bionda vibrarono con un sussulto di catenelle. La loro proprietaria guardò di sotto in su, oltre la montatura da vecchia zia presbite. In tanti anni di carriera non le era mai capitato di sentire un’offerta tanto precisa.
“Milleduecento dollari e sessantacinque uno, due, e… aggiudicato al giovanotto in penultima fila. Complimenti. E passiamo ora all’ultimo pezzo…”
La carica di adrenalina che Lukas aveva in circolo poteva essere assimilata a una buona dose di eroina. Con gli occhi dilatati dall’emozione, saltò al collo di Max e lo strinse forte.
“Ce l’abbiamo fatta, fratello! Il quadro è nostro!”
Ci stava chiamando da chissà quanto tempo.  
Lo sentivi anche tu? 
Era come un sussurro. 
Hai visto come ci guardava il bambino? 
È soltanto un dipinto. Sono solo leggende.  
 
***
 
Al termine dell’asta, la bionda non mancò di commentare l’offerta:
“Ecco qui mister sessantacinque centesimi. Complimenti per l’acquisto, ragazzi. Si tratta di un’opera di assoluto pregio, destinata ad acquistare valore nel tempo.”
“Complimenti un accidente,” commentò la dama con l’ombrellino e la bambola, spuntando all’improvviso dietro alle loro spalle. “Potevate ben offrire qualche cosa di più. Gustav, procedi pure,” aggiunse, rivolgendosi a un maggiordomo in livrea lugubre e faccia ancor più lugubre, che si fece carico del bidè e degli altri acquisti.  
Non appena la donna uscì seguita da Gustav, che pareva anche di lui di pezza come la bambola, Max brontolò a denti stretti:
“Poteva rilanciare, se ci teneva tanto.”
La bionda assunse un’espressione complice:
“Non fateci caso. Viene qui spesso, ha molto denaro da spendere, ma ha anche perso una figlia.”
Lukas non si era neanche accorto dell’intermezzo, assorto com’era a contemplare il quadro che, rispetto alla foto riprodotta sul catalogo, mostrava dei dettagli che fino a quel momento non aveva mai notato.
Nella tenebra dello sfondo galleggiavano giochi di ombre.
Lunghe dita emergevano dal buio della vetrata.
“Sembra proprio una mano. Strano, prima non c’era.”  
La bionda gli rivolse un’occhiata perplessa. “Ovviamente le foto che illustrano il catalogo sono realizzate con la massima cura, ma hanno solo uno scopo dimostrativo. Non sempre rendono giustizia all’originale.”
“Non c’era neanche sul libro che ci ha prestato Lorel,” insistette Lukas.
“La prego di scusarci,” intervenne a quel punto Max. “Il mio amico è emozionato per l’acquisto. Andiamo, fratellino.” Non gli sembrò il caso di precisare che di mani, nel quadro, lui ne vedeva due. Evidentemente, le foto riportate sul libro e sul catalogo erano state scattate da dilettanti. Non c’era altra spiegazione.
“Non dimenticate il certificato di autenticità a firma dell’antiquario Polipetti.
La bionda li inseguì fin sulla porta, sventolando una scartoffia che Max prese in consegna insieme al quadro, all’amico e a un insolito senso di spossatezza.
In strada il trambusto del traffico, gli odori di fritto e curry dei ristoranti indiani, cinesi e vietnamiti, risultarono meno opprimenti di quel mondo incolore in cui avevano trascorso le ultime ore.
Si sgranchirono le gambe correndo sotto alla pioggia, saltando tra le pozzanghere lustre sui marciapiedi, fino a sentirsi esausti come se avessero corso la maratona di New York.
Al motel, sistemarono quadro e scartoffie dell’antiquario in bella vista sul tavolo, deposero le rispettive carcasse nel letto e si apprestarono a riposare fino all’ora di cena.
Fu uno squillo improvviso a ridestare Max, apparentemente dopo pochi minuti.  
“Buongiorno! Cosa gradite per colazione? Pancake, uova strapazzate, succo d’arancia…” La voce dell’addetta alla reception era tarata su un volume da martello pneumatico, con annesse vibrazioni frastornanti.
“Colazione? Ma che ore sono?” Gli occhi ancora appiccicati dal sonno, due dita a massaggiare le tempie, Max s’impegnò a fondo nel tentativo di tornare alla realtà il più in fretta possibile.
“Sono le nove e mezza. La colazione viene servita fino alle dieci. Se per caso desiderate riceverla più tardi non è inclusa nel prezzo,” recitò la tizia della reception, zelante. “Vi ricordo anche che è opportuno liberare la stanza prima di mezzogiorno.”
“Okay, okay, grazie.” Un mal di testa dalle analoghe qualità pulsanti cominciava a insinuarsi tra i neuroni ancora in parte assopiti di Max. “Ci porti due pancake, un caffè e un cappuccino chiaro, bollente e senza schiuma. Con tre bustine di zucchero. Quattro, per sicurezza.”
“Molto bene,” registrò il martello pneumatico della reception, “due minuti e siamo da lei.” Seguì un sonoro CLICK, che rimbombò nella testa di Max come una vecchia sveglia a molla.
Gli ci volle ancora un po’ per rimettere insieme i pezzi del presente, recuperare un’andatura in verticale e dirigersi verso la branda dell’amico. La mano sulla spalla, lo scosse leggermente:
“Lukas, sveglia. Arriva la colazione. Fortuna che dovevamo riposare solo per qualche ora.”
La stanza era immersa in una foschia indefinita, che preludeva a una mattinata di pioggia. Un rettangolo di oscurità segnava il punto in cui il quadro se ne stava ritto in piedi, appoggiato alla parete. Strane forme affioravano sulla sua superficie come se fossero state dipinte in quel momento.
Lo sguardo di Max indugiava per la stanza, in attesa che l’altro si decidesse a emergere dalle coperte. Fu allora che quelle sagome che sbocciavano nell’ombra attirarono decisamente la sua attenzione.
Si fermò a fissarle, sentendosi a sua volta osservato. Poi si aggrappò a Lukas, incominciando a scuoterlo con più energia.
“Dio mio, non posso crederci… Lukas, svegliati! Cos’è successo al quadro?”
L’amico sobbalzò, già con il cuore in gola. I mobili a poco prezzo che arredavano la stanza proiettavano ombre, il brontolio di un tuono si perdeva in lontananza. Il quadro era il punto di maggiore oscurità ma anche di maggior luce, grazie a quelle pennellate di tempera bianca.
Allo scoppio del primo lampo, Lukas riuscì a dar voce a una sola domanda:
“Di chi sono tutte quelle mani, Max?”
 
***
 
“Di chi sono le mani? Parecchie mani, non è vero? Ecco l’arcano che è custodito in quel quadro.” Arrancando con la stampella e un paio di gambette così corte e storte che il vero mistero era capire come facesse a reggersi in piedi, l’antiquario Pungetti li invitò a scendere nel suo studio. Un vero e proprio antro a cui si accedeva tramite una scaletta a chiocciola e traballante.
Lukas si appoggiò a Max per non scivolare, mentre i gradini si attorcigliavano sempre più stretti e il vecchio antiquario li precedeva con una torcia elettrica.
“Al piano di sopra si trattano le cose di tutti i giorni,” aveva sentenziato Erasmus Pungetti, barcamenandosi tra la torcia, l’equilibrio precario e la stampella. “Ma ciò di cui non è bene discutere ad alta voce, ciò di cui si può soltanto sussurrare, è bene trattarlo giù.”
“In cantina?” aveva chiesto Max, confuso più che guidato dal beccheggio della torcia.
“Ci sono cose che non tollerano la luce del giorno,” gli fu risposto da qualche parte nel buio.  
I due ragazzi avevano contattato il Pungetti dopo aver visto il quadro mutare letteralmente dinanzi ai loro occhi, senza possibilità di dubbio o di errore. Sulla superficie della vetrata, sorvegliata dalle figure del bambino e della bambola, erano spuntate dapprima delle impronte, dopo di che le mani, parecchie mani erano apparse una di seguito all’altra. Alcune nettamente visibili, altre che s’intuivano appena sullo sfondo. Erano grossolane o più esili e scarne, tutte ugualmente bianche e affioravano premendo il palmo contro al vetro.
Il fascino che emanava da quella visione aveva prevalso sull’impulso di fuggire a gambe levate dal motel, dal quadro, da Filadelfia.
Deve per forza esserci una spiegazione. A chi possiamo chiedere?
Avevano passato in rassegna tutte le facce note o soltanto intraviste, dalla bionda dell’asta alla vecchia della bambola. Secondo Max, l’anziana collezionista ne sapeva più di quanto volesse dare a intendere. Aveva osservato a lungo il quadro col suo binocolo, aveva criticato la loro offerta ma si era ben guardata dal rilanciare a sua volta.
“Hai voglia di scherzare. Quella è fuori di testa.” Lukas aveva bocciato subito la proposta di mettersi sulle tracce della vecchia signora. Molto meglio rivolgersi a quel Pungetti, che aveva esaminato il quadro apponendovi il proprio timbro, nome e indirizzo. L’idea non gli era sembrata più così azzeccata quando si era trovato di fronte all’omino in vestaglia e papalina, cravatta a fiocco e impugnatura della stampella raffigurante un gatto.
“Il mio vecchio Siddharta. Mi ha fatto compagnia per una vita intera e adesso, come vedete, mi accompagna ancora.”
Lo studio dell’antiquario era più o meno come lui: bizzarro e minuscolo.
Sotto a un soffitto di legno scuro, erano impilati scaffali colmi di carte, fascicoli e oggetti strani. Maschere provenienti da qualche remota tribù africana, statuette votive e quelle che, a ben guardare, erano a tutti gli effetti due teste rimpicciolite, dalle cui bocche uscivano dei nastri colorati.
La stanza era immersa in un riverbero abbacinante.
“Non ha detto che certe cose non sopportano la luce del giorno?” chiese Max, coprendosi gli occhi soprattutto per non vedere le due testine jivaros.
“Infatti questa non è la luce del giorno. Si tratta di normalissime lampadine da cinquanta watt,” assicurò Pungetti. Liberò un po’ di spazio sopra alla scrivania e indicò a Max una scala che saliva precaria, tra i mucchi di faldoni impilati. “Salga lei, giovanotto, che è in gamba. E non si preoccupi, Siddharta qui farà in modo che non le accada nulla di male.”
Max si avventurò, seguito dallo sguardo ligneo del gatto e dagli sghignazzi di Lukas, il quale evidentemente aveva già scordato che quella di rivolgersi all’antiquario era stata un’idea sua. “Più in basso, no, più su. A destra, no, a sinistra.” Dopo un’infinità di tortuosi aggiustamenti, Max ridiscese con un fascicolo sottobraccio.
“Ecco qua,” esultò Pungetti, incominciando a sfogliare. “Su Dobrivsky, in realtà, non c’è molto da dire. Alcuni lo considerano un pittore naif. Di certo non possedeva una cultura accademica, e neppure un grande talento. Quello appartenuto al fu Arthur Myer, è l’unico dipinto che abbia raggiunto una certa notorietà.”
“Ci siamo rivolti a lei perché le informazioni in nostro possesso sono piuttosto scarse,” precisò Max. Alle sue spalle, le teste rimpicciolite cominciavano decisamente a innervosirlo. Con la coda dell’occhio, vide Lukas ronzarci attorno. “Non siamo riusciti a risalire al titolo e non abbiamo idea di cosa rappresentino le diverse figure. Il ragazzino, la bambola… le mani, per l’appunto.”
“Ammetto che nel periodo in cui mi sono occupato della faccenda per conto del signor Myer, mi sono posto le stesse domande.”
“E che risposta si è dato?” chiese Max, sulle spine.
“Nessuna, naturalmente,” rise l’omino. “Si sa poco riguardo a Ian Dobrivsky, a parte il fatto che non ha avuto una vita facile. Oltre a essere un artista di scarso talento, e non so se esista al mondo una disgrazia peggiore, sua moglie morì di parto. Alcuni critici ipotizzano che sia stato lui stesso a ucciderla, perché era matto, diciamolo. Pare che abbia trascorso giorni interi a vegliare il corpo della donna e della figlia morta, prima di liberarsene.
I parenti della moglie gli portarono via l’altro figlio, forse temevano che prima o poi avrebbe ammazzato anche lui. In mancanza di altro, Dobrivsky si suicidò. Non c’è altra spiegazione. Il fatto che il suo corpo non sia mai stato trovato, in realtà, non prova nulla. La campagna di Dzerzinskij è un pantano, ci sono stagni, torbiere, un sacco di posti fatti apposta per scomparire. Che fine abbia fatto Dobrivsky non si sa e del resto a quel tempo non interessava a nessuno. La famiglia di lei temeva lo scandalo, poi c’è stata la guerra, la rivoluzione, e i compagni sovietici hanno avuto altro a cui pensare.”
“È sorprendente,” intervenne a quel punto Max. “Vede, signor Pungetti, noi siamo studenti d’arte e l’opera di Dobrivsky è l’argomento scelto per la nostra tesi di laurea. Abbiamo consultato parecchie pubblicazioni, ma nessuna ci ha fornito notizie così precise.” Allungò a Lukas una gomitata, che non gli venisse in mente di dire che, a parte il libro di Lorel, avevano cercato solo sul web.
“Voi due, al massimo, sarete andati a zonzo su Internet,” indovinò l’antiquario, senza bisogno che Lukas si scomodasse. “Ma una ricerca seria richiede tempo e pazienza. Il punto, però, non sono neppure le disavventure del nostro artista. Ho già detto che era matto?”
Max annuì, sorridendo.
“Ebbene, questo è l’elenco, da me ricostruito, di tutti i successivi proprietari del quadro. Frutto di un lavoro certosino, se posso dirlo. Abbiamo qualche collezionista di rarità, un distillatore di vodka che teneva il quadro in cantina perché la moglie non sopportava di vederselo davanti, alcuni pittori più o meno squattrinati, praticamente dei colleghi del Dobrivsky.”
“Mi risulta che molti siano scomparsi a loro volta,” sparò a bruciapelo Max. “Soprattutto i pittori.”
“Avvicinatevi,” disse a quel punto Pungetti. “Queste non sono cose che si possano dire alla luce del sole.”
“Spengo l’interruttore?” rise Lukas, che con tutta la buona volontà non riusciva a prendere il vecchio troppo sul serio.
“Serietà, giovanotto, e soprattutto la smetta di giocare con quelle teste. Non è saggio scherzare con ciò che non si conosce e con l’energia segreta nascosta nelle cose.”
 
***
 
“Che cosa intende dire?”
Folgorato da un’occhiata di Max, Lukas si affrettò a riconsegnare la testa jivaro al suo legittimo proprietario.
Sulla punta del naso, Pungetti inforcò un paio di occhiali a catenella, appena meno vezzosi di quelli della bionda dell’asta. Quindi tornò a immergersi nel faldone, scorrendo con il dito sulle pagine fragili, fitte di annotazioni.  
“Il primo proprietario del quadro, in seguito denominato… un momento, signori, la mia pratica del cirillico è un po’ arrugginita: Krani ponga…”
“Crani di pongo?” sghignazzò Lukas.
Khraniteli poroga,” intervenne Max, traducendo all’impronta. “I custodi della soglia.”
“Ecco, precisamente. Dicevo che il primo proprietario fu un certo Vasilji, di professione carpentiere, che entrò in possesso del casolare subito dopo la sparizione del Dobrivsky. Pare che questi considerasse il dipinto opera del demonio e fosse fermamente intenzionato a bruciarlo. Non fece in tempo, perché poco dopo l’acquisto l’edificio crollò, seppellendolo con tutta la famiglia. Stando alle cronache di quel tempo, il fatto si verificò nel corso di una bufera particolarmente violenta.”
“Era una notte buia e tempestosa,” sghignazzò Lukas. Assestò a Max una gomitata, che non gli venisse in mente di prendere quella vicenda a fosche tinte troppo sul serio.
“Dopo che Vasilji fu tratto dalle macerie, piallato come una delle sue assi,” riprese Pungetti, “il quadro finì nelle mani di un certo Kanaev, distillatore di vodka da quattro generazioni. Era lui a tenere il quadro in cantina perché la moglie temeva di fare brutti sogni. Sembra che Kanaev fosse un pittore dilettante e che volesse completare di propria mano il dipinto. Anche a lui mancò il tempo, perché di lì a poco scomparve senza lasciare traccia e senza che vi fosse un motivo ragionevole.
Gli affari procedevano a gonfie vele, non c’erano debiti né altre donne nei paraggi e l’unica novità era la strana ossessione che Kanaev aveva sviluppato nei confronti del quadro. Pare che trascorresse molte ore nel sotterraneo, impegnato non a fabbricare vodka ma a farneticare su quello che chiamava lo sguardo profondo.
Immagino si riferisse alla bambina del quadro, a cui quell’altro matto del Dobrivsky non aveva fatto a tempo ad aggiungere gli occhi, probabilmente per la fretta che aveva di suicidarsi.”
Pungetti era una vera miniera di informazioni. Per di più, parlava degli scomparsi con tale dimestichezza che pareva conoscerli di persona.
“Con la sparizione del capofamiglia,” riprese, “la distilleria arrivò a un passo dal fallimento e Helèna Kanaeva dovette ricorrere al banco dei pegni. Tra gli oggetti depositati figura anche quel dipinto che, in mancanza di altra e più sicura indicazione, fu inventariato alla voce pittura a olio di due bambini alla finestra. Definizione, questa, quanto mai erronea, perché come voi stessi avrete senz’altro constatato, i custodi si trovano davanti alla porta d’ingresso e di sicuro non dietro...”
“Custodi? Porta d’ingresso?” domandò Max, sconcertato. “A me risulta che quelle due figure rappresentino i figli del Dobrivsky e la vetrata uno scorcio della sua casa di campagna.” O almeno, quella era la versione divulgata nel libro di Lorel e nei vari blog consultati sul web.
“A prima vista, infatti, sembrerebbe così,” rispose l’antiquario. “Eppure i miei studi in campo esoterico, che occupano il mio scarso ma assiduo tempo libero, mi hanno condotto a formulare un’ipotesi piuttosto azzardata ma oserei dire esatta. Ovvero, che gli occhi della bambina o meglio quelle due orbite mai completate, possano nascondere un varco.”
 “Un varco? Su una tela dipinta?” domandò Max, scettico.
Lukas intervenne per dar man forte all’amico. 
“Ci spieghi, signor Pungetti. A cosa si riferisce?”
L’omino si aggiustò la papalina sulla zucca, quindi si pronunciò:
“Francamente, signori, non saprei dirvi molto di più. La mia teoria si basa unicamente sul fatto che alcune emozioni particolarmente oscure, come l’angoscia e la desolazione, possono aprire un varco tra più dimensioni. Quando Dobrivsky pose mano a quel dipinto aveva appena perso la moglie e una figlia.”
Succede anche quando ti girano le palle?
Lukas lo pensò senza avere il coraggio di dirlo ad alta voce, un po’ per educazione e un po’ perché iniziava a sentirsi sempre più inquieto. La voce del quadro, il suo mormorio persuasivo stavano ricominciando a farsi sentire.
Si voltò a spiare di sottecchi l’amico.
Lo senti anche tu, non è vero? Ci sta chiamando.
Non vuole rimanere lontano da noi troppo a lungo.
Torniamo al motel, vuoi?
L’antiquario Pungetti si limitò a scrutare prima l’uno poi l’altro, come se stesse assistendo a uno scambio di pareri tra due clienti.
Riprese quindi il filo del discorso: “Sappiate che ho formulato la mia teoria sulla base di circostanze che oserei definire incontrovertibili. Ho dedicato anni a raccogliere tutte le possibili informazioni, pagine e pagine di diari e testimonianze, giungendo alla conclusione che praticamente tutti gli artisti scomparsi erano tormentati dalla medesima ossessione, quella di aggiungere al dipinto ciò che mancava. Mi riferisco ovviamente agli occhi della bambina. Proprio là, a mio parere, si troverebbe il varco.”
“Nello sguardo profondo?” domandò Max, che non voleva ammetterlo ma era impressionato.
“Esattamente, ragazzo. In più, vi era il fatto che tutti coloro che erano entrati in contatto con quel dipinto, mercanti d’arte o semplici collezionisti, avevano subito varie vicissitudini finché non erano riusciti a sbarazzarsene. Senza andare neppure troppo lontano, potrei citarvi il caso di Arthur Myer, l’ultimo proprietario. Non so se siete al corrente del fatto che il signor Myer si è tolto la vita poco dopo essere entrato in possesso del dipinto e di nuovo senza alcun motivo apparente. Voi senza dubbio direte che si tratta di un caso, ma è sui semplici indizi che si costruiscono le certezze.”
“Chiedo scusa, signor Pungetti,” intervenne a quel punto Lukas, che in realtà non vedeva l’ora di correre al motel. “Ma qui mi sembra che ci sia un po’ troppa carne al fuoco. Gente che scompare, incidenti anche a chilometri di distanza… insomma, stiamo parlando di un quadro.”
“Un quadro che sembra attrarre attorno a sé eventi piuttosto insoliti.”
“Ed è proprio necessario tirare in ballo l’occulto?” osservò Max, che certe cose non le aveva mai digerite e non aveva nessuna intenzione di cominciare in quel momento.
“Più spesso di quanto crediate, signori miei, una soluzione logica non esiste,” rispose Pungetti. Sul volto aveva la stessa espressione sorniona del gatto Siddharta, che seguiva la scena dal suo punto di osservazione scolpito sulla stampella.
 
***
 
“Cosa ne pensi, Lukas?”
“Penso che se riusciamo a mantenere questo ritmo saremo a Detroit prima di domattina. Se la Pontiac non comincia a perdere i pezzi, naturalmente.”
“Lo sai che non mi riferivo a questo. Stavo parlando del quadro.”
Max alzò gli occhi in direzione dello specchietto retrovisore, incontrando il proprio sguardo dilatato dall’oscurità. Quindi tornò a inquadrare per l’ennesima volta il dipinto, che vibrava in sinergia col sedile posteriore. Di tanto in tanto, il rettangolo dei fari di un camion scolpiva un bagliore rapido, sfrecciando nel sorpasso.
Persino attraverso l’imballaggio di protezione, s’insinuava quella voce persuasiva e avvolgente. L’effetto che provocava era simile a ovatta premuta sul cervello.
“Che hai detto?” sbraitò Lukas, cercando come al solito di vincere il fracasso della Pontiac. “Hai fame e ti vuoi fermare?”
È inutile che fai finta di non capire. Stai correndo come un pazzo con una carriola che rischia di sfasciarsi in mille pezzi, hai superato il limite di velocità tante di quelle volte da rischiare la galera e tutto perché non vedi l’ora di arrivare, prendere in mano il pennello e verificare se quello zombi di antiquario aveva ragione. Ma io non ti lascerò solo, fratellino, puoi scommetterci.
“Prima di rientrare, propongo di fermarci alla nostra caffetteria” suggerì Lukas, uno sguardo alla strada e la coda dell’occhio fissa su Max. “Dobbiamo festeggiare la nostra tesi di laurea. Sento già il profumo del cappuccino, chiaro, bollente e con almeno quattro bustine di zucchero.”
Sappi che neanch’io ti lascerò varcare quella soglia da solo. Perché è là che vuoi arrivare, dico bene, Max? Là dove a Dobrivsky ha dato di volta il cervello. Mi lascerai almeno il tempo di godermi il mio cappuccino?
Fuori iniziava a piovere, un ticchettio di gocce sbavate via subito dai tergicristalli. Si ammucchiavano negli angoli del parabrezza come lacrime agli occhi, per poi volarsene via tutte insieme. Da qualche parte, a Filadelfia, una donna apriva un ombrello infiocchettato di nero, per ripararsi dal maltempo anche se era seduta comodamente nel suo salotto. Due isolati più in là, un anziano antiquario constatava suo malgrado che quattro crani spacciati per jivaros originali erano in realtà roba di cartapesta, e l’unica cosa vera era l’umidità che gli faceva scricchiolare le ossa. A Detroit, una ragazza in calzoncini sfrangiati digitava per l’ennesima volta, sul cellulare, un numero a cui non rispondeva nessuno.
A bordo della Pontiac, sul volto dell’utente al momento non raggiungibile risplendeva un sorriso di una lucentezza mai vista.
 
***
 
Era stato Max, stavolta, a chiedergli di restare a dormire con lui per il semplice desiderio della sua vicinanza. E come l’altra volta, tra loro non era accaduto nient’altro che il sonno. Max si era assopito già durante il viaggio, mentre lungo la fiancata della Pontiac sfilava un paesaggio di rilievi ondulati, speroni di roccia cancellati dalla pioggia, alti abeti di tenebra.
Seduto al posto di guida, Lukas si era sobbarcato l’intero percorso in autostrada senza accusare il minimo segno di cedimento. All’arrivo era apparso lucido e sveglio, come se fosse stato al volante solo pochi minuti e non una notte intera. Sul cruscotto della Pontiac, che ruzzolava nel garage dell’autonoleggio, l’orologio segnava le sei di un mattino che si prospettava uggioso.
Una volta arrivati in camera, i due amici posarono il quadro su un cavalletto.
Ansiosi come bambini la mattina di Natale, strapparono l’involucro e s’immersero nuovamente nella visione di quell’opera che, nella luce del primo mattino, più che una sensazione di pericolo suscitava tristezza.
C’erano la vetrata, il ragazzino e la bambola – un giocattolo o forse una sorellina immaginaria. Mani affioranti su quella superficie che in fondo non sembrava neppure così nera, in quel momento non ce n’erano. La scena pareva così innocua che Lukas e Max, per un attimo, dubitarono che tutto quel polverone di fantasmagoriche congetture si basasse su qualcosa di reale.
A quel punto la stanchezza aveva cominciato a farsi sentire e i due s’erano stesi a riposare vicini, stavolta non in preda ai fumi dell’alcool ma all’unico piacere di restarsene là, mentre fuori cadeva una pioggerella ad aghi sottili.
“Dormi?” aveva domandato Max, dopo un po’. Quella penombra sospesa tra il tepore dei corpi e il ritmo della pioggia sembrava fatta apposta per inaugurare il tempo dedicato alle confidenze.
“No, riposo un po’ gli occhi. Penso a ciò che ci ha raccontato l’antiquario.”
“Poi sarei io, quello che si fa suggestionare.”
“Si tratta di indagare in maniera scientifica ai fini della tesi.”
“Ti ricordo che per la tesi non occorre soffermarsi su leggende e folklore vario. L’occulto, le mani bianche, è tutta roba che non c’entra con l’analisi critica e l’inquadramento dell’autore in una corrente, ad esempio come precursore dei surrealisti.”
“Il folklore è il motivo principale d’interesse dell’opera. Diversamente, tutto si riduce a una crosta senza valore e questo lo sai anche tu. Lo sai fin dall’inizio.”
“Si può sapere che ti prende? Eri tu il primo a dire che Pungetti era matto, che non è possibile che la pittura porti sfiga, che è roba a cui non crederebbe neanche tua nonna.”
Se prima quel richiamo era forte, adesso sta diventando assordante.
Dobbiamo fare qualcosa per farlo smettere, altrimenti finiremo per dare di matto.
“Vuoi disegnare gli occhi della bambina? Credi di poter riprodurre lo sguardo profondo, che nessuno ha mai visto?”
“Vuoi farlo tu?” propose Lukas, ed era come una supplica. “In fondo, sei tu il ritrattista.”
“Ecco dove volevi andare a parare,” commentò Max. 
Tornarono di nuovo a osservare il quadro, esaminandolo fin nei minimi dettagli. Lo sguardo del ragazzino era così triste che ai due amici salì un groppo in gola. L’intera scena raccontava una sofferenza che non era possibile descrivere a parole, ma che risultava perfettamente espressa nelle pennellate del Dobrivsky.
A suo tempo, l’artista doveva aver provato una pena indicibile nel ritrarre i suoi figli perduti e consegnarli a una dimensione fuori dal tempo. Le linee del quadro sfumarono in una sorta di dissolvenza sotto allo sguardo indagatore di Max, che nemmeno si era accorto di avere gli occhi velati dalle lacrime.
“Che ti succede?” domandò Lukas, preoccupato.
L’amico si concesse un lungo istante di tempo, per poter riflettere e descrivere appieno le proprie sensazioni.
“Il vecchio ha detto che alcuni sentimenti, come l’angoscia e la desolazione, potrebbero aprire un varco tra più dimensioni. Guarda questo bambino. Non ti sembra il ritratto della disperazione? Io l’ho fissato solo per qualche istante e mi è venuto da piangere. Forse è infelice perché non ha nessuno con cui giocare, d’altra parte quale maschietto sarebbe contento di divertirsi con una bambola? Rotta, per di più?”
“Beh, io troverei il modo di combinarci qualcosa. Chissà se Lorel approverebbe,” commentò Lukas, nel tentativo di far tornare il sorriso sul volto dell’amico.
La battuta sortì l’effetto desiderato, visto che Max rispose:
“Pazzi come siete, dubito che si rifiuterebbe di provare.”
Dopo un tempo indefinito, fu di nuovo Lukas a interrompere quella strana meditazione.
“In realtà non sappiamo di che colore fossero gli occhi della bambina.”
“È importante? Li farò come quelli della persona che amo.”
“Tina li ha celesti, se non sbaglio.”
“Li farò verdi, come i tuoi. Con dentro tutte quelle pagliuzze dorate,” precisò Max, intingendo il pennello nella tempera già pronta sopra alla tavolozza.
“Certe volte avrei voglia di baciarti, come Pippo e Paperino all’asta.”
“Non provarci nemmeno. Le stampe coi maiali le vendono anche qui, potrebbe venirmi in mente di regalarti l’intera serie.”
 
***
 
Era ormai notte quando Lorel entrò nella stanza. Quei due sarebbero dovuti rientrare già in mattinata, ma al campus nessuno li aveva visti e per di più il cellulare di Lukas non dava segni di vita.
Entrò e il suo sguardo registrò in primo luogo il letto disfatto, poi il quadro sul cavalletto che, da solo, pareva riempire tutta la stanza. Di fronte, una tavolozza posata su due sgabelli. Dalla finestra spalancata su un cielo cupo, un fruscio affannoso di tende segnalava l’approssimarsi di un temporale.
Lorel mosse qualche passo per chiudere le imposte che sbattevano ricacciate qua e là dal vento. Un lampo improvviso la spinse a voltarsi in direzione del quadro e fu allora che vide affiorare sulla vetrata due mani, una vicina all’altra. Erano entrambe bianche, di un candore irreale. L’unica differenza consisteva nel fatto che una era agghindata con un’intera collezione di anelli, come se il suo proprietario amasse quegli accessori in modo particolare.  
 
***
 
Da qualche parte a Filadelfia, Erasmus Pungetti puntò la stampella con cautela, sul selciato sconnesso da buche numerose e da altrettante possibilità d’inciampo.
Lo sportello dell’elegante limousine si schiuse leggermente non appena l’anziano antiquario arrivò a tiro. Pungetti salutò la dama che lo attendeva seduta, con la bambola in braccio.
“Buon pomeriggio, madame.”
All’orizzonte, si addensavano nuvole incombenti. Dietro allo spessore della veletta, la dama diede un’occhiata fuori dallo sportello, vide le prime gocce e, pur essendo al riparo, pensò bene di aprire l’ombrello infiocchettato di nero.
“Salute a voi, Erasmus Pungetti.” Il sorriso della donna aleggiava sospeso nella doppia oscurità dell’ombrellino e dell’abitacolo. “Dunque, alla fine siete riuscito a recuperare il capolavoro del povero Ian.”
“Diciamo che una volta revocato il sequestro giudiziario, le famiglie dei due mocciosi non hanno più voluto averci a che fare.”
“L’importante è che Ian e i bambini stiano bene. Milleduecento dollari e settantacinque centesimi dovrebbero bastare, fino alla prossima vendita,” sospirò la donna. Strinse per un istante la bambola di pezza, quindi bussò contro il vetro che divideva i sedili dei passeggeri dalla cabina autista.
“Gustav, possiamo andare.”
 
***
 
Max scattò a sedere sul letto, in preda all’angoscia e al sudore. Gli ci volle un po’ per liberarsi da quell’incubo che l’aveva catturato nel sonno.
“Hey, Max! Che ti prende?”
Fu l’abbraccio caldo di Lukas ad accoglierlo, scacciando quel senso di profonda desolazione che pareva averlo imprigionato d’un tratto.
“Tutto bene? Cos’è successo?”
Max non rispose. Si limitò ad alzarsi, a raggiungere il cavalletto e l’astuccio dei colori. Di là, prese le tempere color rosa e beige, depositò due parti di entrambe le tinte sopra alla tavolozza e le mescolò fino a ottenere la giusta gradazione. Quindi, scelse un pennello e lo immerse in quella tonalità color pelle.
“Che intenzioni hai?” domando Lukas, più incuriosito che preoccupato.
“Dobrivsky ha aperto questo varco, che ha portato solo perdite e sofferenze per quasi cent’anni. Direi che è giunto il momento di mettere la parola fine a questa storia.”
Fece per appoggiare la punta del pennello sulle orbite della bambola, ma Lukas lo bloccò.
“Se finisci là dentro, come ti tiro fuori?” chiese, apprensivo.
“Non succederà,” rispose semplicemente Max.
Il giovane rivolse tutta la sua attenzione al dipinto. Un lampo illuminò la stanza nello stesso istante in cui la tempera color carne sfiorò la superfice del quadro.
Furono sufficienti poche pennellate e pochi istanti, oltre alle necessarie rifiniture, per trasformare quel fantoccio in una bambina con gli occhi chiusi. La piccola era intenta a contare fino a dieci, per permettere al fratellino di nascondersi dietro a una porta finestra aperta su un cortile.
Dopo che Max ebbe staccato il pennello dalla tela, qualcosa mutò nella stessa consistenza dell’aria.
Seduti a braccia conserte, i due giovani osservavano il quadro.
Nel buio della vetrata, la figura di Ian Dobrivsky s’indovinava appena: un profilo sfumato, intento a osservare i suoi figli impegnati a giocare a nascondino con la tipica serietà dei bambini.  
Nella stanza regnava un profondo silenzio, interrotto soltanto dal brontolio di un temporale in avvicinamento.
“Dovremmo scriverla, questa storia,” commentò Max.
“Già, dovremmo…” concluse Lukas.
 
 
Fine
 
 
 
Nota
Questo racconto trae ispirazione dalla leggenda urbana legata a “The hands resist him”, opera dell’artista californiano Bill Stoneham (1972), altrimenti noto come “il quadro maledetto di eBay”.
Di seguito, si segnala uno dei numerosi link dove è possibile vedere l’opera e che che ne ricostruiscono la storia. A questa, noi però ci siamo solamente ispirati per raccontarvi qualcosa di assolutamente nuovo.
http://www.latelanera.com/misteriefolclore/misteriefolclore.asp?id=56
  
Leggi le 17 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: yonoi