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Autore: Le Sconosciute    11/03/2020    4 recensioni
A New Chicago, o si nasce ricchi o si nasce poveri.
Lo sa bene Mikael, figlio di un rinomato genetista e industriale. E lo sa bene anche Coleran, orfano costretto a lavorare per la mafia russa per potersi permettere di pagare le cure della sua malata sorella.
A causa di uno sfortunato evento, le loro esistenze così distanti saranno costrette a collidere, e laddove Coleran vedrà una possibilità nell’oscuro segreto che Mikael porta con sé, questo imparerà a conoscere quei sentimenti che gli sono stati tanto a lungo preclusi.
Cosa si è disposti a fare per amore? Fino a dove ci si può spingere, per proteggere ciò che di più caro si ha al mondo?
[Storia scritta a quattro mani da Ice Angel e Dark Sider]
[Storia partecipante al contest "Feat. Masters" indetto da Soul_Shine sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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«Hai il diritto di rimanere in silenzio. Qualsiasi cosa dirai potrà essere e sarà usata contro di te in tribunale. Hai diritto a un avvocato durante l'interrogatorio. Se non puoi permetterti un avvocato, te ne sarà assegnato uno d'ufficio» cantilenò il poliziotto che lo stava ammanettando, ma Coleran colse a stento il senso di quelle parole. Tutto ciò che riusciva a percepire con chiarezza erano le fitte lancinanti al braccio destro, così intense da mozzargli il fiato: due, forse tre proiettili l’avevano colpito tra il polso e la spalla, facendogli perdere la presa sulla pistola e cedere le gambe.

«È morto» annunciò un altro poliziotto e questo, invece, Coleran lo sentì con una nitidezza tale da sopraffare persino il dolore. Un sorriso gli arricciò le labbra: aveva sparato per uccidere e non dubitava di esserci riuscito. Aveva visto sangue e materiale cerebrale schizzare sul muro, sulle coperte, addosso a lui: in alcun modo l’altro poteva essersi salvato, ma sentirne la conferma sgretolò il macigno che gli aveva gravato sul petto negli ultimi giorni, spandendogli dentro una serena quiete.

Sollevò la testa, fattasi terribilmente pesante, per guardare il ragazzo disteso sul letto davanti a lui. Mikael. Mikael che era immobile e irrigidito, ma comunque bellissimo; il sangue gli sporcava il viso pallido, serpeggiandogli sugli zigomi e sul collo, gocciolando sul lenzuolo candido, macchiato di rosso.

Sembrava il macabro ritratto di una creatura angelica ingiustamente martoriata, il muto grido dell’innocenza contro la boriosa malvagità dell’uomo.

Il sorriso di Coleran vacillò a quella vista. Mikael non l’avrebbe mai potuto capire, ma lui l’aveva fatto per salvarlo.

 

 

 

 

Rescue me

 

 

 

Coleran aspirò una boccata di fumo dalla sigaretta e sbirciò la via principale dal vicolo in cui si era appostato: la macchina della polizia di pattuglia in quella zona era appena passata, mentre il suo obiettivo sarebbe sopraggiunto entro pochi minuti. Tutto procedeva secondo i piani.

L’Organizacija, per cui lavorava da anni, l’aveva incaricato di fare in modo che il figlio di Faustus Bergmann, rinomato genetista e ricco industriale, tenesse la bocca chiusa sulla conversazione che aveva casualmente ascoltato qualche giorno prima. Di norma, Coleran avrebbe sparato all’interessato, per assicurarsi il suo silenzio eterno, ma in quel particolare caso i superiori gli avevano ordinato di non uccidere, e comprenderne il perché era semplice persino per uno come lui: nessuno avrebbe voluto inimicarsi una delle persone più influenti di New Chicago assassinando suo figlio, neppure la mafia russa.

Coleran soffiò fuori il fumo e sbuffò: non lo entusiasmava l’idea di doversi occupare di quell’imprevista seccatura; non che solitamente ci fosse qualcosa che riuscisse a smuovere in qualche modo la sua aridità emotiva, ma per lo meno avrebbe preferito occuparsi della vendita di un carico di armi o di droga, piuttosto che intimorire un ricco studente universitario.

«Tutto per colpa di quel blackout del cazzo» borbottò, occhieggiando di nuovo verso la via principale.

Le interruzioni di corrente erano all’ordine del giorno nella sovraffollata New Chicago, che non riusciva a soddisfare l’intensa richiesta energetica dei suoi abitanti, tuttavia quella avvenuta qualche giorno prima era stata particolarmente problematica per l’Organizacija, perché aveva provocato un errore di sistema nella piattaforma videoludica a realtà virtuale più frequentata al mondo, e che la mafia russa utilizzava per alcuni dei suoi affari illeciti, sfruttando le aree ad accesso limitato; a causa di quell’errore, alcuni giocatori, che erano online al momento del blackout, si erano ritrovati, al riavvio della piattaforma, in una locazione differente da quella originaria: era stato così che Mikael Bergmann - o, meglio, il suo avatar - era ricomparso nell’area riservata dell’Organizacija e aveva assistito alla stipula di un accordo circa la compravendita di un carico di cocaina. La sua presenza era stata notata troppo tardi, quando oramai il ragazzo era entrato in possesso di informazioni che avrebbero potuto essere controproducenti, se avesse deciso di rivolgersi alle autorità: impedire che lo facesse era il compito di Coleran.

Quando il giovane arrivò a metà della sigaretta, Mikael comparve nel suo campo visivo: era solo, come previsto. In quella settimana passata a osservarlo e studiarlo, Coleran aveva appreso molte cose sul suo conto, prima fra tutte che mai nessuna espressione turbava lo sguardo vuoto e il viso impassibile e privo d’imperfezioni: aveva trovato strano quel fatto, se ne era anche domandato il motivo, ma non si era soffermato a pensarci troppo. Non faceva parte dei suoi compiti.

Coleran si ritrasse e rimase in attesa; udì i passi leggeri e cadenzati di Mikael, quando questo si fece prossimo, e poi vide la sua esile e ignara figura oscurare l’ingresso del vicolo: fu quello il momento in cui scattò agilmente in avanti, afferrando l’altro per un braccio e trascinandolo nella penombra con un impeto tale da farlo cadere a terra. Dopodiché, si portò sopra di lui altrettanto prontamente, sovrastandolo con la propria imponente mole: Mikael era così piccolo e gracile rispetto a lui, da sembrare uno sparuto bambino tra le grinfie di un orco crudele.

Impietoso, Coleran aspirò una boccata di fumo dalla sigaretta, poi assestò un calcio nel fianco destro dell’altro, che nel frattempo stava tentando di rialzarsi: con uno schiocco secco, le costole si spezzarono e Mikael ricadde a terra con un tonfo sordo. non ci furono gemiti, o grida: solo un irreale silenzio, un’inquietante assenza di rumore.

Coleran si accovacciò, per portarsi all’altezza dell’altro, e afferrò di malagrazia le sue ciocche dorate, reclinandogli la testa verso l’alto perché lo guardasse: due grandi occhi azzurri e vuoti, privi di paura o dolore, ricambiarono il suo sguardo furente, destabilizzandolo per un lungo istante d’immobilità. Poi, Mikael allungò le mani verso di lui, in uno scomposto e blando tentativo di liberarsi dalla sua stretta, di difendersi; Coleran ghignò dinanzi a quella debole protesta: sentì il corpo dell’altro contorcersi, mentre gli intrappolava le gambe tra le sue e gli imprigionava le braccia dietro la testa, trattenendogli i polsi sottili con una mano: di nuovo, quasi si stupì nel constatare quanto quel ragazzo fosse piccolo e indifeso, eppure per nulla spaventato, come se non fosse davvero consapevole di ciò che gli stesse accadendo.

Coleran si portò la sigaretta quasi del tutto consumata tra le labbra, poi con la mano libera iniziò a colpire ripetutamente il volto di Mikael; la violenza lo faceva sentire bene, così come procurare dolore agli altri: si trattava di una sorta di riscatto per la terribile vita che aveva dovuto subire; per suo padre che aveva abbandonato la famiglia, scomparendo; per sua madre che era stata brutalmente assassinata; per il lavoro a servizio della mafia russa che svolgeva da anni, per poter pagare le cure per la sua malata sorella minore.

Ogni pugno era una liberazione, un grido di vittoria per quelli che, come lui, vivevano ai margini di una società in cui il benestare era appannaggio di pochi ricchi, che si rinchiudevano nella sicura tranquillità della Central City, fingendosi ignari della povertà e della malavita che dilagavano nelle Slums. Ogni pugno era una liberazione, una boccata di ossigeno che lo aiutava a respirare, a liberarsi dei macigni che lo opprimevano.

Coleran fissava con inferocita esaltazione le sue nocche macchiarsi di sangue, il viso senza difetti di Mikael che si deturpava man a mano che lo colpiva: gli aveva rotto il naso, uno zigomo e qualche dente, gli aveva spaccato il labbro e un sopracciglio, ma quello, per tutto il tempo, era rimasto in silenzio. Non aveva iniziato a gridare, non aveva pianto, non aveva emesso gemiti. Gli occhi azzurri, persi in un vuoto inespressivo, non avevano abbandonato i suoi neppure per un istante, e non c’era dolore in quello sguardo, né paura.

Era assurdo e agghiacciante; era come prendere a pugni un automa.

Coleran si fermò, la mano dolorante e il respiro affannato. Prese un’ultima boccata di fumo dalla sigaretta, poi se la sfilò dalle labbra e l’avvicinò al viso di Mikael: gliela spense su una guancia diafana e macchiata di sangue e l’altro aggrottò le sopracciglia, come se tutto ciò che gli avesse causato quel gesto fosse stata confusione.

Coleran digrignò i denti e gli strinse i polsi con maggior forza: era terrorizzato e al contempo infastidito da quella totale assenza di emozioni. «Adesso ti spiego perché ho preso a pugni la tua schifosa faccia da ricco» ringhiò, avvicinando il viso a quello di Mikael. «Perché, una settimana fa, mentre giocavi a chissà quale videogioco del cazzo, sei finito nel posto sbagliato, e hai ascoltato una conversazione che riguardava un carico di cocaina. Devi dimenticartene, fingere di non averla mai sentita, non parlarne con nessuno. Se dovessi venire a sapere che ne hai anche solo accennato a qualcuno, ti verrò di nuovo a cercare e ti assicuro che non sarai fortunato come questa volta. Hai capito bene quello che ho detto?»

Ci furono degli istanti di silenzio, in cui Mikael si mordicchiò il labbro inferiore con un incisivo rotto, come se si trovasse in un pub e non disteso sull’asfalto, intrappolato sotto al suo aggressore; poi, il figlio di Faustus Bergmann parlò e ciò che disse paralizzò Coleran in un raggelato stupore. «Puoi anche lasciarmi andare, perché non me ne importa nulla di quello che succede su Internet e non lo direi a nessuno» soggiunse, con una voce suadente e delicata, che era impossibile non trovare piacevole, benché fosse priva di inflessioni. «E poi, sarebbe più logico che tu prima mi minacciassi e dopo, solo nell’eventualità in cui non accettassi la tua richiesta, mi prendessi a pugni: sarebbe più efficace come strategia.»

«Cosa?» biascicò Coleran, confuso, allentando la presa sui polsi di Mikael.

«Pensavo di essere stato chiaro» rispose l’altro, sempre con un tono asettico ad accompagnare le sue parole. «Ho detto che non me ne importa nulla di quello che succede su Internet, quindi puoi lasciarmi andare, perché non ho parlato con nessuno di ciò che ho sentito e non ho intenzione di farlo. E non serviva che mi prendessi a pugni: è un comportamento che trovo alquanto stupido.»

Coleran sgranò gli occhi e boccheggiò: era consapevole di non doversi mostrare così poco risoluto dinanzi alla persona che avrebbe dovuto spaventare, ma quei comportamenti fuori da ogni logica e normalità lo avevano destabilizzato, rendendogli impossibile ragionare con lucidità. Puntò lo sguardo in quello vuoto di Mikael e non vi trovò assolutamente nulla da leggervi, né menzogna, né derisione, né paura. Lo liberò dall’oppressione del suo corpo e fece qualche passo indietro, indeciso su come comportarsi.

Mikael si alzò in piedi con sorprendente agilità: non pareva dolorante o frastornato per l’accaduto e per le percosse; si guardò gli abiti impolverati e sporchi di sangue con quella che pareva somigliare a disapprovazione, poi riportò la propria attenzione su Coleran. «Ti chiedo, per favore, di lasciarmi andare via» sussurrò pacatamente.

Coleran lo fissò come avrebbe fatto con una creatura sconosciuta e apparentemente pericolosa: lasciò vagare lo sguardo sul volto insanguinato, sul corpo esile e longilineo, sugli occhi azzurri e vacui. Fu allora che si accorse che la ferita sul sopracciglio sinistro era scomparsa: eppure, era assolutamente certo che, fino a pochi istanti prima, ci fosse stata. Assottigliò lo sguardo, vigile: cominciava a temere quello strano ragazzo, che nulla sembrava avere di umano; era diverso da chiunque altro avesse mai conosciuto e non riusciva a comprenderlo, a capire chi fosse o cosa fosse.

«Sparisci» si risolse infine a borbottare Coleran, perché la silente figura dell’altro lo metteva a disagio e lui iniziava a sopportarne malvolentieri la presenza. Voleva che se ne andasse, voleva liberarsi di quegli occhi vuoti che lo guardavano come se fosse stato nulla.

«Ti ringrazio» rispose Mikael e, nell’istante che impiegò per formulare quella breve frase, Coleran vide la bruciatura di sigaretta sulla sua guancia rimpicciolire gradatamente di dimensioni, fino a scomparire. Spalancò la bocca, incredulo: continuò a fissare la pelle diafana, dove prima c’era stata una ferita e ora più nulla, senza capacitarsi di ciò a cui aveva assistito. Sembrava che, per qualche motivo, quel ragazzo fosse in grado di rigenerarsi: com’era possibile? Come ci riusciva?

Mikael iniziò a incamminarsi verso la via principale senza badare alla costernazione dell’altro; semplicemente, se ne andò come se nulla fosse accaduto.

Coleran rimase a guardarlo scomparire, con le braccia abbandonate lungo i fianchi e il petto chiuso in una morsa di meraviglia e terrore. Aveva appena visto un essere umano rigenerare un tessuto a una velocità sorprendente: aveva guarito le sue ferite, le aveva cancellate con una semplicità disarmante. Cos’altro poteva rigenerare Mikael Bergmann? Ossa? Muscoli? Come un doloroso pugno, il pensiero di sua sorella Sue colpì Coleran, facendolo sobbalzare. Sua sorella, che soffriva di Distrofia muscolare congenita tipo 1A - era riuscito persino a imparare quel nome lungo e odioso, alla fine - e che languiva a casa, distesa su un letto ad attendere una morte che le cure potevano solamente ritardare. Se solo avesse potuto rigenerarsi come faceva quello strano ragazzo, sanare i suoi muscoli, forse avrebbe potuto avere salva la vita, avrebbe potuto vincere la malattia che la consumava dalla nascita.

Fu quello il momento in cui Coleran decise che si sarebbe avvicinato a Mikael Bergmann, che lo avrebbe spinto a fidarsi di lui, a legarglisi indissolubilmente e a rivelargli ogni cosa di sé. Fu quello il momento in cui decise che avrebbe fatto tutto ciò che era necessario per sentirgli svelare il segreto della sua rigenerazione, quella sua straordinaria e inspiegabile capacità, che avrebbe forse potuto salvare la vita di sua sorella.

 

 

 

 

***

 

 

 

Mikael guardò con minuzia il suo riflesso nello specchio del bagno. Come aveva calcolato, le ferite sul viso erano sparite in dieci minuti e ventiquattro secondi, il tempo necessario per tornare nel suo appartamento e valutare con i suoi occhi l’entità del danno. Aprì la bocca: anche l’incisivo rotto stava guarendo senza intoppi, nel giro di altri tre minuti e sedici secondi sarebbe tornato alla normalità. Non sentiva particolare dolore, solo un lieve intorpidimento nei punti in cui era stato colpito e che, ora, il suo corpo stava provvedendo a guarire.

Sospirò, ripensando a ciò che aveva subito appena dodici minuti e quarantatré secondi prima. Anche se non era nulla che il suo corpo non potesse rigenerare da sé, quel ragazzo aveva avuto la mano pesante.

Quando era stato trascinato nel vicolo aveva provato molta confusione, la probabilità di venire coinvolto in un pestaggio a Central City, il quartiere d’élite e statisticamente più sicuro di New Chicago, era meno dell’1%; era più prevedibile venire molestati verbalmente da qualche studente strafatto o drogato: secondo un suo rapido calcolo, le possibilità si aggiravano attorno al 3,5%. E poi, chi diamine ti pesta senza dirti prima il motivo? Quel ragazzo doveva avere un QI decisamente inferiore alla media; se solo l’avesse minacciato dal principio - come gli aveva spiegato logicamente -, si sarebbero risparmiati entrambi un sacco di tempo e fatica.

Ripensò brevemente al volto dello sconosciuto: non doveva avere molti anni in più di lui, anche se la differenza di stazza era enorme. Ciò che l’aveva colpito di più, però, erano stati quegli occhi scuri, così pieni di vita e rabbia, così terribilmente umani.

Si diede un’ultima occhiata allo specchio, che gli restituì uno sguardo inespressivo. Dal suo punto di vista, gli esseri umani erano molto interessanti, così emozionali e irrazionali, mentre lui era soltanto vuoto, nulla più che un agglomerato di ossa, muscoli e organi senza nient’altro al suo interno. Per un istante si chiese se avrebbe dovuto sentire qualcosa per il pestaggio subito. Paura? Rabbia? Tristezza? Non provava nulla. Le sue giornate erano sempre avvolte da una patina di indifferenza.

Scosse la testa e uscì dal bagno: ormai era accaduto, ed era totalmente illogico ragionare su cose che non poteva cambiare. Decise, pertanto, che avrebbe ripreso la sua routine quotidiana e si sarebbe fatto una buona cena, relegando quello strano accaduto nei meandri della sua mente, come se non fosse mai avvenuto.

 

 

 

 

Per i successivi sei giorni funzionò. Mikael non pensò più a quel pestaggio e a quello strano ragazzo e non ne fece parola con nessuno. Ma dopo sei giorni, due ore e quarantotto minuti dall’accaduto, esso tornò a tormentarlo e lo fece sotto l’insospettabile forma di una tazza di caffè.

Mikael aggrottò appena le sopracciglia quando vide il cameriere del bar universitario appoggiarla sul suo tavolo. Aveva deciso di andarci mentre attendeva l’arrivo di Trisha e Barry, i suoi migliori - e unici - amici. Gli orari delle loro lezioni non coincidevano, e aveva quindi pensato di riempire quei ventidue minuti d’attesa portandosi avanti con lo studio.

«Scusi,» disse senza una particolare intonazione al cameriere, «ha sbagliato tavolo, io devo ancora ordinare.»

Di risposta, il suo interlocutore fece un sorrisetto che non riuscì a interpretare. «Ha offerto il ragazzo seduto al tavolo laggiù» spiegò, per poi allontanarsi prima che lui riuscisse a replicare alcunché, andando a servire gli altri avventori.

Mikael lasciò che il proprio sguardo vagasse fino a dove gli era stato indicato, verso il tavolo più nascosto del locale, a cui sedeva, sorprendentemente, il giovane da cui aveva subito quell’illogica aggressione pochi giorni prima. Inclinò appena la testa, mordendosi il labbro inferiore, come era solito fare quando non capiva qualcosa di difficile, che lo confondeva.

Cosa diamine voleva ancora da lui? Era finito in un altro guaio con la mafia russa senza saperlo? No, pensò tra sé, le probabilità erano praticamente nulle: in quei sei giorni non aveva fatto niente che avrebbe potuto metterlo in contatto con quel mondo, non aveva nemmeno usato la realtà virtuale.

Decise che lo avrebbe ignorato, era la soluzione più logica, non voleva avere niente a che fare con lui. Bevve un sorso di caffè - era irragionevole lasciarlo lì, tanto aveva comunque intenzione di ordinarsene uno - e portò gli occhi sul pc acceso sul tavolo, per poi prendere a scriverci sopra, facendo finta che l’altro non esistesse.

Erano passati appena settantadue secondi quando Mikael sentì qualcuno sedersi sulla sedia davanti a lui. Non aveva bisogno di alzare lo sguardo per sapere chi fosse, poteva benissimo intuirlo da sé. Non che cambiasse qualcosa nel suo comportamento.

«Sai, non è per niente gentile ignorare chi ti offre da bere.» Fu la prima cosa che gli disse, con voce più calma e quasi cordiale rispetto a qualche giorno prima.

«Ti ho già detto che non dirò nulla alla polizia. Posso sapere cosa vuoi da me? Si tratta di soldi?» gli chiese incolore, senza staccare gli occhi dal computer. Non era la prima volta che le persone si avvicinavano a lui per i soldi della sua famiglia o la fama di suo padre: normalmente se ne andavano via da soli, appena Mikael smascherava le loro intenzioni, cosa che gli occupava un lasso di tempo tra i trenta secondi e i tre minuti.

«Non è per i soldi. Volevo chiederti scusa per la storia del vicolo: quello era solo lavoro. Sai, mi ha colpito la tua reazione.»

A quell’affermazione, Mikael decise di portare gli occhi chiari sul suo interlocutore. Nel vicolo non era riuscito a vederlo chiaramente, a causa del caos della situazione, ma ora poteva ammirarne il viso squadrato, i capelli scuri e folti e il corpo asciutto ma muscoloso, con le braccia piene di tatuaggi.

«La mia reazione?»

L’altro annuì, accendendosi una sigaretta. Mikael avrebbe voluto fargli notare quanto il fumo danneggiasse la sua salute, ma l’altro rispose prima che potesse proferire parola. «Di solito la gente si mette a piangere, implora, cose così. Tu no, non hai fatto un cazzo di niente. E poi quella cosa che hai fatto con la faccia è stata interessante. Tu sei interessante.»

Mikael aggrottò le sopracciglia, non capendo fino in fondo il discorso dell’altro. Non aveva provato il minimo dolore, quindi perché avrebbe dovuto mettersi a piangere? Non aveva senso. E poi lui non era interessante, era vuoto, non c’era nulla dentro di lui che valesse la pena di essere approfondito. Era solo ciò che appariva. Certo, aveva un QI di 208 e delle straordinarie capacità psico-fisiche, ma non si trattava di nulla che potesse attrarre un essere umano. Mikael aveva compreso da molto tempo che ciò che lo rendeva speciale, unico - come lo definiva suo padre -, lo allontanava dalle altre persone, spaventandole. Quel ragazzo lo avrebbe capito molto presto e, come altri prima di lui, sarebbe sparito dalla sua vita. Non che gli importasse: non provava interesse per individui oggettivamente più stupidi e incapaci di lui.

«La cosa con la faccia? Intendi la mia rigenerazione?» domandò soltanto, senza che il tono esprimesse le sue perplessità. Probabilmente se ne sarebbe andato nel giro di tre minuti e quindici secondi. Quando lo vide annuire, Mikael si limitò a scrollare le spalle. «Ci sono nato così.»

L’altro sbarrò gli occhi scuri, come se non si aspettasse quella risposta. Era così espressivo, al contrario di lui che non riusciva a esprimere alcuna emozione.

«Nato?»

«Già» ribatté soltanto, e riprese a scrivere sul pc, sperando che la conversazione fosse finita lì. Nemmeno Trisha e Barry conoscevano le circostanze della sua nascita. Era una cosa di cui non aveva piacere di parlare, gli dava brutte sensazioni al petto.

«Il mio nome è Coleran, comunque.» Mikael alzò nuovamente lo sguardo e lo portò prima al ragazzo, che stava esibendo uno strano ghigno, poi alla sua mano tesa. Piegò appena la testa, incredulo.

«Tu sei l’essere più irrazionalmente stupido che abbia conosciuto» affermò, senza che la sua voce o la sua espressione facesse emergere la confusione che sentiva nella testa.

Vide l’altro contrarre il viso in una smorfia che non sapeva identificare, un misto fra la rabbia e il fastidio.

«E che cazzo vuol dire? È un insulto?»

«No, solo una semplice constatazione.» Coleran fece per replicare, ma Mikael riprese a parlare. «Prima mi pesti e poi mi offri da bere e ti comporti come se ci conoscessimo da anni. Immagino tu abbia un QI drasticamente inferiore alla media per non capire quanto sia irrazionale questo tuo comportamento.»

Non c’era derisione o ironia nella sua voce. Il suo tono non era mai cambiato durante quella loro bizzarra conversazione.

Coleran deglutì: se si fosse trattato di un’altra persona, lo avrebbe picchiato senza esitazione per quelle parole; come diavolo si permetteva di rivolgersi a lui in quel modo? Chi cazzo credeva di essere, il fottuto principe di New Chicago? Non li sopportava quei figli di papà ricchi e viziati, ma avrebbe dovuto fare uno sforzo e ingoiare il rospo, se voleva avere le informazioni su quella maledetta rigenerazione che avrebbe potuto cambiare la vita a sua sorella.

Così si limitò a scrollare le spalle e a prendere un altro tiro dalla sigaretta, ormai quasi finita.

«Te l’ho detto: sei interessante. Chi cazzo se ne frega se è irrazionale, voglio conoscerti meglio. E conoscere il tuo numero di telefono, magari.»

A quelle parole, Mikael sentì le sue gote accaldarsi appena. Era una strana reazione, non gli era mai capitato prima. Quel ragazzo lo metteva a disagio, ma non per il fatto che lo avesse picchiato solo pochi giorni prima: non ne aveva paura, no.

Era il primo che gli aveva detto di trovarlo interessante: si trattava di una reazione che non aveva minimamente preso in considerazione. E poi a che diamine gli serviva il suo numero di telefono?

Decise quindi di raccogliere le sue cose velocemente e di andarsene: avrebbe aspettato i suoi amici da un’altra parte. Quel ragazzo lo mandava in confusione e lui aveva bisogno di schiarirsi le idee.

«Ora devo andare» disse, forse troppo velocemente, mentre si dirigeva fuori dal bar, senza rendersi conto dello sguardo di Coleran che non lo aveva mai abbandonato.

 

 

 

 

Coleran si presentò a quel tavolo anche il giorno dopo e per tutti gli altri giorni della settimana successiva. Mikael trovava anche piacevole la sua compagnia: era semplice parlare con lui e gli lasciava una calda sensazione al cuore, nonostante trovasse stupide alcune sue affermazioni ed evitasse molte sue domande - come quell’insensata richiesta del suo numero di telefono. Si vedevano solo lì, quindi che motivo c’era di darglielo?

Alla fine decise di espore quella sua perplessità al suo migliore amico Barry, mentre stavano mangiando un panino sul prato del campus.

«È da dieci giorni che un ragazzo mi chiede il numero di telefono: secondo te a cosa gli serve?»

Il suo amico sgranò gli occhi castani, fissandolo in un modo che non gli aveva mai visto fare da sotto le spesse lenti degli occhiali. Poi gli sorrise e, con voce calma e paziente, com’era solito fare quando Mikael se ne usciva con quelle domande elementari, gli rispose: «Probabilmente vuole conoscerti meglio, di solito è per questo che si chiede il numero di telefono. Magari vuole invitarti a uscire, cose così. Chi è questo ragazzo, lo conosco?»

Mikael rifletté su quelle parole qualche istante, prima di replicare: «No. Si chiama Coleran, e non frequenta l’università. L’ho conosciuto due settimane fa mentre tornavo a casa dalle lezioni. Secondo te dovrei dargli il mio numero?»

Barry trovava strana quella situazione, ma sapeva che Mikael, nonostante sembrasse sempre fuori dal mondo, era in grado di allontanare da sé gli opportunisti e i malintenzionati, quindi si limitò a scrollare le spalle.

«Se fossi in te, lo farei: ti farebbe bene conoscere gente nuova. Se poi non ti piace, poi sempre ignorarlo o bloccarlo; io ho fatto così con l’ultima tipa con cui sono uscito: era più appiccicosa di una lumaca!»

E così, il giorno dopo, Mikael si presentò da Coleran con un cartoncino bianco, su cui erano stati scritti a penna una serie di numeri. Tutto ciò che gli disse, prima di scappare a lezione, fu un atono: «Questo è il mio numero, se lo usi per scopi impropri ti blocco e ti denuncio alla polizia.»

 

 

 

 

***

 

 

 

Quando Mikael gli aveva dato il suo numero di telefono, in maniera improvvisa e del tutto inaspettata, Coleran non aveva potuto fare a meno di rimanerne sorpreso e costernato. In quella settimana in cui aveva tentato di conoscere più a fondo quell’apatico ragazzo, aveva avuto modo di constatare quanto fosse difficile penetrare le sue ferree difese, e aveva iniziato a credere che non sarebbe mai stato in grado di avvicinarsi a lui in alcun modo. Quel suo inatteso gesto, dunque, aveva riacceso in lui la speranza di riuscire nei suoi intenti.

In fin dei conti, tutto stava procedendo esattamente come aveva preventivato. Con un po’ di tempo e una regolare frequentazione, sarebbe riuscito a ottenere le informazioni che desiderava, e poi avrebbe potuto porre fine a quella farsa che sentiva come una costrizione. Fu ciò che pensò con un ghigno divertito, rigirandosi quel biglietto tra le dita, senza ancora sapere quanto le sue convinzioni fossero lontane dalla realtà.

 

 

 

 

La prima cosa che Coleran apprese, frequentando Mikael, fu che fosse totalmente incapace d’identificare le emozioni che provava, ma che non per questo ne fosse scevro; la seconda fu imparare a leggere le sfumature nei gesti, i piccoli cambiamenti in fondo agli occhi inespressivi, quei dettagli che disvelavano i suoi pensieri e le sue sensazioni, oltre il velo di apatia che lo avvolgeva strettamente. La terza cosa che Coleran apprese fu che gli piaceva passare il tempo con Mikael, anche quando lo tempestava di domande banali e assurde, o quando analizzava il mondo con un rigoroso distacco supportato dalla statistica; gli piaceva passare il tempo con Mikael anche quando lui si lamentava della sua irrazionale stupidità, o quando gli ripeteva in continuazione che, per la sua salute, avrebbe dovuto smettere di fumare, e gli sfilava la sigaretta dalle labbra.

Coleran apprese, poi, che a piacergli era anche Mikael stesso; lo capì a poco a poco, entrando in punta di piedi nella sua vita, nel suo tempo, nelle sue inflessibili abitudini. Lo capì quando lo baciò per la prima volta, assaggiando il sapore dolce delle sue labbra morbide e ascoltando i suoi sospiri lievi. Lo capì quando Mikael si stringeva a lui, la sera sul grande divano del suo lussuoso appartamento, come se lo pregasse silenziosamente di fargli da scudo, di proteggerlo da un mondo che poteva essere spietato.

E infine, quando oramai era divenuto troppo tardi per allontanarsi, per prendere le distanze, Coleran comprese di amare Mikael. Accadde la sera in cui lui gli confessò la verità sulla sua dolorosa esistenza, piangendo lacrime amare dagli occhi chiari e vacui.

Fu allora che Coleran apprese che Mikael era nato da un delirio di onnipotenza del padre. Faustus Bergmann, nell’intenzione di creare l’essere umano perfetto, aveva selezionato i geni migliori suoi e di sua moglie e li aveva combinati: così era nato Mikael, in una provetta da laboratorio. Suo padre lo considerava alla stregua di un esperimento, un esperimento da studiare per carpirne i segreti: per tutta la giovane vita di Mikael, non aveva fatto altro che compiere su di lui test di qualsiasi genere, per scoprire fino a che punto potessero spingersi le sue potenzialità.

Mikael era cresciuto tra le sterili mura di un laboratorio, circondato da scienziati che per lui non avevano amore, ma solo un curioso interesse; era cresciuto credendo di non essere un uomo, ma solamente un mero esperimento. Quando sua madre, l’unica persona che gli aveva mai mostrato affetto, si era suicidata davanti ai suoi occhi, gettandosi da un balcone, Mikael aveva creduto che l’avesse fatto perché anche lei non sapeva amarlo, senza riuscire a capire che, invece, il gesto della donna era stato dettato dalla disperazione, disperazione nel vedere il proprio figlio sottoposto a tante violenze dal suo stesso padre.

Crescendo, Mikael aveva imparato ad accettare la sua condizione e aveva appreso cosa fosse in grado di fare: un QI di 208 e un fisico praticamente perfetto erano solamente le più evidenti qualità che la sua condizione di essere umano superiore gli aveva concesso; la più interessante, invece, era senza dubbio la rigenerazione cellulare estremamente accelerata, che gli consentiva di riparare qualsiasi tipo di danno più rapidamente di chiunque altro. Fu così che Coleran venne a conoscenza del motivo per il quale la bruciatura di sigaretta sul volto di Mikael fosse scomparsa tanto velocemente, quella volta nel vicolo, ottenendo anche la risposta al quesito che lo aveva spinto ad avvicinarsi a lui, e che poteva concretamente rappresentare una possibilità di salvezza per la sua malata sorella.

Coleran aveva atteso per mesi quel momento, il momento in cui l’altro gli avrebbe rivelato come salvare Sue. Sapeva che Mikael s’era estremamente affezionato a lui, glielo aveva dimostrato ampiamente, anche se con quei suoi modi intellegibili, e dunque era anche consapevole del fatto che, se gli avesse chiesto di aiutarlo con quella sorella di cui non gli aveva mai parlato, lui avrebbe accettato di buon grado, pur di compiacerlo. Avrebbe potuto donare a Sue il midollo, e permetterle di riparare i suoi muscoli, concedendole quella straordinaria rigenerazione.

Lo avrebbe fatto senza esitazione e Coleran lo sapeva bene. Ma, mentre lo guardava piangere, piccolo e fragile e impotente come non lo aveva mai visto da quando lo conosceva, si rese conto che quella questione aveva improvvisamente perso d’importanza, sostituita da una profonda rabbia nei confronti di Faustus Bergmann, che aveva osato arrecare tanto dolore a Mikael, e da disprezzo per se stesso, per aver considerato quel ragazzo alla stregua di un oggetto, qualcosa da poter utilizzare per il raggiungimento dei propri scopi. Come chiunque altro.

Tutto ciò che Coleran riuscì a fare fu avvicinarsi a Mikael e abbracciarlo, sussurrandogli quanto gli dispiacesse; pensò a Sue, a sua sorella che stava lentamente morendo, e sentì le lacrime pungergli ai lati degli occhi, senza essere in grado di traboccare. Pensò di non poter dire nulla, di non poter rendere quel ragazzo uno strumento, una medicina per qualcun altro, anche se si trattava di un familiare, l’unico che gli rimanesse al mondo. Non fu in grado di accollarsi il peso di farlo sentire usato per l’ennesima volta. Non umano, non amato.

Così rimase in silenzio e ingoiò il dolore che gli premeva in gola e nel petto, seppellendolo sotto i sentimenti che provava per Mikael, sotto la sua inespressività che Coleran aveva imparato a leggere, sotto tutti i momenti di quotidiana semplicità che avevano condiviso, sipari di normalità in una vita di caos e di violenza. Seppellì il dolore, il rimpianto, la tristezza, e continuò a stringere quella persona che era diventata tutto, ogni cosa, senza che lui l’avesse previsto o voluto.

Ti amo, Mikael” pensò, ma non seppe dirglielo.

 

 

 

 

Coleran e Mikael non parlarono più del padre di quest’ultimo né della sua condizione; continuarono ad amarsi come avevano sempre fatto, senza lasciare che quell’ombra oscurasse il loro rapporto, che, anzi, andò rafforzandosi sempre di più.

Coleran aveva imparato a dimenticare la labile speranza che aveva nutrito per la salvezza di sua sorella, soffocandola nell’accettazione, come aveva sempre imparato a fare: la vita di nessuno valeva più o meno di quella di qualcun altro, e Mikael e Sue non costituivano un’eccezione, per quanto potesse amarli.

Sospirò, seduto sul vecchio divano sfondato della sua misera casa, e aspirò una boccata di fumo dalla sigaretta, con lo sguardo perso fuori dalla piccola finestra. Sue dormiva nella stanza accanto: avevano guardato insieme un film noioso sul vecchio televisore nella camera da letto di lei, ma sua sorella era sprofondata nel sonno a metà proiezione e Coleran aveva abbandonato la visione, spostandosi nel salotto per fumare. Mikael avrebbe fortemente dissentito, se lo avesse visto in quel momento.

Il suono del cellulare che squillava interruppe d’improvviso quella solitaria quiete; Coleran lo afferrò, scrutando di malavoglia il display, credendo che lo stessero chiamando per lavoro: sì stupì grandemente nel constatare che, invece, a contattarlo era proprio il ragazzo che fino a un istante prima aveva occupato i suoi pensieri. Aggrottò le sopracciglia, sospettoso: Mikael non lo aveva mai chiamato a quell’ora e lui era sempre, estremamente abitudinario.

Coleran accettò la chiamata e portò il cellulare all’orecchio. «Cosa c’è?» domandò bruscamente.

«Devi venire a prendermi» rispose Mikael dall’altro capo del telefono: la sua voce risuonò monocorde, come sempre, ma era anche lievemente sporcata da qualcos’altro, qualcosa che somigliava forse all’agitazione o alla costernazione. «Ti aspetto alla fermata della metro.»

Coleran scattò in piedi, allarmato, avvertendo una morsa dolorosa stringergli il petto. «Che cazzo stai dicendo? Cosa succede?» sbraitò, non riuscendo a impedirsi di alzare la voce.

«Te lo spiego di persona» ribatté laconico l’altro, dopodiché chiuse la chiamata prima che lui potesse aggiungere qualsiasi altra cosa.

 

 

 

 

***

 

 

 

Mikael strinse nervosamente le dita attorno alla cinghia del borsone in cui aveva gettato in fretta e furia gli oggetti di prima necessità. Il suo robot domestico, PIT, era accanto a lui e teneva tra le braccia meccaniche una scatola con dentro Newt, la sua iguana. Non poteva lasciarli all’appartamento, erano troppo importanti per lui.

«Mi vuoi dire che cazzo succede?»

Portò lo sguardo su Coleran, specchiandosi nei suoi occhi scuri. Era accorso appena lo aveva chiamato, come aveva previsto. In pochi mesi, Coleran era diventato una delle persone più importanti della sua vita: per la prima volta in tutta la sua esistenza, lo aveva fatto sentire vivo, vedendo al di là del muro di apatia che tanto lo caratterizzava.

E adesso aveva bisogno di lui più che mai.

«Mi sono rifiutato di farmi asportare un polmone per gli esperimenti. È troppo pericoloso, non so fino a dove si possa spingere la mia rigenerazione, ma mio padre mi ha urlato contro che sono inutile se non mi sottopongo alle sue analisi. Così mi ha tagliato tutti i fondi, la mia ID Card è bloccata e sono dovuto andare via dal mio appartamento. Ora sono senza soldi e casa.» Il tono monocorde nascondeva la paura che provava in quel momento. Ancora ricordava quelle gelide parole: “io ti ho creato, tu sei mio, senza di me non vali nulla”.

«E adesso cosa vuoi fare?» Coleran aveva esitato undici secondi prima di parlare, con voce più gentile, anche se aveva i pugni stretti sui fianchi e lo sguardo acceso di rabbia. Di norma la metro in cui si trovavano era sempre affollata, ma a quell’ora della notte non c’era nessuno e le sue parole rimbombavano tra le pareti curve.

«Mi trasferisco da te. Dopo un’attenta analisi della situazione, sono giunto alla conclusione che sia la soluzione più sicura per me.»

«Eh?! Col cazzo, non se ne parla. Vai dai tuoi amici ricchi: non ti rendi conto di quanto siano pericolose le Slums!» gridò; il suo respiro era accelerato e gli occhi sbarrati: sembrava spaventato e a disagio, come se ci fosse qualcosa che lo turbava profondamente, qualcosa che non aveva a che fare con i bassifondi di New Chicago.

«E tu non ti rendi conto dell’influenza di mio padre. Trisha lavora in un suo centro di ricerca, le renderebbe la vita un inferno se sapesse che mi sta aiutando, e la madre di Barry insegna all’università, mio padre la farebbe licenziare. Vuole bloccarmi per avermi alla sua mercé, ma la sua influenza non raggiunge le Slums.» Il tono incolore nascondeva i suoi reali sentimenti, un nodo alla gola costante che gli faceva tremare leggermente le mani. Mikael conosceva la paura, l’aveva provata per tutta la vita, quando mani coperte di lattice si allungavano sul suo corpo, violandolo senza chiedere mai il permesso. Ma ciò che sentiva in quel momento era amplificato: non si trattava di semplice paura, era qualcosa che non aveva mai provato prima, ma di certo non era positivo.

Avvertì le braccia di Coleran avvolgerlo e stringerlo a sé: erano calde e confortanti, lo facevano sentire protetto. Il corpo dell'altro era ancora rigido e teso, ma poi Mikael lo sentì rilassarsi gradatamente mentre quel contatto proseguiva.

«D’accordo,» lo sentì dire con un sospiro, una mano che gli accarezzava i capelli biondi, «ma solo per stanotte. Domani vedremo insieme cosa fare.»

Insieme.

Mikael sorrise appena, stretto nell’abbraccio di Coleran. Finché fossero rimasti uniti, sarebbe andato tutto bene, ne era sicuro al 100%.

 

 

 

 

Il viaggio in metro trascorse in uno strano silenzio.

Coleran gli aveva avvolto le spalle con un braccio e lo teneva stretto a sé, in una maniera che lo faceva sentire protetto, ma Mikael continuava a percepire che c’era qualcosa che non andava. Il segnale più evidente consisteva nell’ostinazione dell’altro a guardare fuori dal finestrino e non lui. Maledisse per un istante la sua incapacità di comprendere i sentimenti del prossimo: era una cosa per cui si era spesso odiato, avvolto nella fredda solitudine della sua esistenza. Coleran, però, non lo aveva mai fatto sentire inadatto. Fino a quel momento.

«Sei arrabbiato?» gli domandò, allora, diretto, con tono atono. Voleva togliersi dalla mente quel tarlo insopportabile. L’altro si girò a guardarlo con gli occhi sgranati, come se non si aspettasse una simile domanda. Mikael si sentì stringere di più, mentre lui gli faceva poggiare il capo sulla sua spalla.

«No. Cioè, spaccherei volentieri la faccia a quel pezzo di merda di tuo padre, ma non sono arrabbiato con te. Non preoccuparti, Mika» gli rispose, riservandogli un ghigno che sembrava simile a un sorriso. Per sua fortuna o sfortuna, Mikael gli credette.

 

 

 

 

Mikael si era sempre vantato dei suoi calcoli statistici. Grazie a essi e al suo QI di 208, era in grado di anticipare le azioni di qualsiasi individuo, di prevedere qualunque variabile. Era raro che qualcosa o qualcuno lo cogliesse di sorpresa, anche se nell’ultimo periodo aveva constatato che Coleran sfuggiva a qualsiasi sua previsione, sorprendendolo in modi spesso piacevoli, donandogli attenzioni che mai nessuno gli aveva dedicato.

Ma quella volta era diverso. Non era soddisfatto di ciò che non aveva calcolato, di quella variabile che non aveva mai preso in considerazione.

«Mika, lei è mia sorella, Sue» disse Coleran, irrequieto e a disagio.

Mikael non capiva. Osservò il viso della ragazzina stesa a letto; la somiglianza col fratello era incredibile: stessi occhi e capelli scuri, stessi lineamenti del viso e stesso modo di sorridere. Perché Coleran gli aveva nascosto una cosa del genere? Lui gli aveva raccontato tutto della sua vita, perché lui non aveva fatto lo stesso?

«Io mi chiamo Mikael, sono il ragazzo di Coleran» si presentò educatamente, ma era come se l’avesse fatto in automatico, distante, perso nei dubbi della sua mente.

Posò gli occhi sul corpo magro e contorto della ragazzina, le braccia sottili e le mani rachitiche e deformi. Conosceva quella malattia, era una disforia muscolare, l’aveva letta più di una volta sui manuali di Trisha, quando studiavano insieme.

E allora capì.

Sgranò gli occhi azzurri, le voci degli altri due che diventavano dei suoni distanti, di sottofondo.

Coleran l’aveva visto rigenerarsi, quella volta nel vicolo.

Pensò a lui che gli chiedeva il numero; che lo baciava, sdraiati sul divano. Pensò a lui che lo toccava e accarezzava, a lui che gli faceva provare tante di quelle sensazioni da mandarlo in confusione.

Era stata tutta una bugia?

«Io… io non dovrei stare qui, mi dispiace di avervi disturbato, è meglio che me ne vada» proruppe, interrompendo il discorso degli altri due. Non si accorse dello sguardo confuso di Sue e di quello sorpreso di Coleran, non si rese conto di essere corso via, verso l’uscio, o degli occhi che stavano diventando lucidi. Percepiva solo un insopportabile nodo alla gola e una stretta dolorosa al cuore.

Si sentì afferrare per un braccio da Coleran, che lo fece voltare e cercò di guardarlo negli occhi; lui però teneva lo sguardo acqueo troppo basso, inchiodato al pavimento umido.

«Senti,» lo udì parlare, nel suo solito modo un po’ rozzo e irruento, «lo so che ti avrei dovuto dire prima di Sue, ma-»

«È per lei?» lo interruppe. Mikael portò gli occhi su di lui, specchiandosi nei suoi. Coleran riuscì a decifrare perfettamente quello sguardo e ciò che vide gli fece male.

Accusa.

«È per lei che hai voluto frequentarmi?» incalzò Mikael e il silenzio dell’altro fu la più glaciale delle conferme. «Ti ho raccontato di mia madre» continuò, mentre una lacrima gli scendeva sul viso pallido. «Mi hai detto che devo considerarmi umano, che non devo permettere a nessuno di trattarmi come un oggetto. E invece tu mi ha usato per tutto questo tempo.»

«No» ribatté all’istante Coleran, portando le mani sulle spalle dell’altro ragazzo, così piccolo e gracile in quel momento. «Cioè, cazzo, all’inizio sì: volevo solo capire come funzionava la tua rigenerazione, per poter aiutare Sue, ma poi ti ho conosciuto meglio e l’idea di usarti mi faceva venire da vomitare, perché… Porca puttana!» imprecò, titubando per un istante. «Mi sono innamorato di te. Mi dispiace ti averti ingannato, davvero, ma tutto quello che ti ho detto, quello che provo, cazzo, quello è vero.»

E, inevitabilmente, a quelle parole Mikael crollò in un pianto disperato.

Pianse per il sé stesso di otto anni che aveva visto la madre abbandonarlo, preferendo l’abbraccio della morte. Pianse per tutte le volte che un dottore gli aveva piantato un ago nel corpo, ignorando i suoi “no”. Pianse per ogni volta che si era sentito usato, sfruttato e consumato, trattato come un oggetto e non come una persona. Si aggrappò a Coleran, perdonandogli tutto, perché era stata la sua sola ancora in quella solitudine, l’unico che lo avesse compreso fino in fondo.

E Coleran lo tenne stretto, ricomponendo i cocchi della sua anima martoriata.

Quella notte fecero l’amore, al buio sul letto di Coleran, e Mikael si lasciò amare, anche se l’amore era ancora un sentimento troppo complesso da capire per lui, il cui cuore era rimasto atrofizzato per troppo tempo.

Dopo, Mikael si addormentò con la voce di Coleran che gli sussurrava nell’orecchio quanto gli dispiacesse e quanto lo amasse.

 

 

 

 

Alla fine, Mikael si trasferì stabilmente nell’appartamento di Coleran.

Inizialmente non fu una convivenza facile, poiché avevano entrambi due stili di vita molto diversi, ma col passare delle settimane raggiunsero una sorta di equilibrio. Non mancavano i litigi e le discussioni, ma anche quelle servivano a rafforzare il loro rapporto.

Mikael, nonostante ora si trovasse in un posto più piccolo e disordinato, sentiva sempre una tiepida sensazione al petto, come se qualcosa fosse finalmente al posto giusto. Malgrado tutti i problemi, le sue preoccupazioni verso Coleran e il lavoro pericoloso che faceva, stava davvero bene, e sorrideva anche di più, libero dall’influenza di suo padre.

Si chiese, mentre baciava Coleran sul divano sfondato, se fosse quella la felicità.

 

 

 

 

«Ho intenzione di chiedere a Sue se vuole accettare un trapianto del mio midollo.»

Mikael se ne era uscito con quella frase una mattina qualsiasi e Coleran si era quasi strozzato con il caffè che stava bevendo. Subito, si era fermamente opposto; non voleva che lui si sentisse obbligato ad aiutare sua sorella: ormai entrambi avevano fatto i conti con la morte, ma Mikael era rimasto inflessibile. non era una decisione che spettava a Coleran: era di Sue, e sua soltanto.

E lei aveva accettato, piangendo dalla contentezza, perché ogni giorno si svegliava pensando che sarebbe stato l’ultimo, ma ora, grazie a quel ragazzo gentile dalle capacità straordinarie, avrebbe potuto aspirare ad avere una vita dignitosa, anche se non sarebbe guarita completamente.

Mikael aveva pensato a tutto: aveva contattato Trisha, che si stava laureando in medicina, e lei era riuscita mettere in piedi una piccola equipe che fosse disponibile a fare l’operazione.

Coleran non aveva idea di cosa avesse dato loro in cambio, dato che avevano dovuto procedere alle spalle di quello stronzo di Faustus Bergmann, ma evitò di chiederlo. Non lo chiese nemmeno dopo, a procedura ultimata, mentre guardava tutto il suo mondo riposare su due letti. L’operazione era andata bene: Sue avrebbe risanato i suoi muscoli col tempo.

E, mentre Mikael apriva quegli occhi azzurri che tanto amava, Coleran seppe che non avrebbe mai potuto essere più felice di così.

 

 

 

 

***

 

 

 

Coleran camminava avanti e indietro, tormentandosi le mani e lanciando occhiate nervose al cellulare abbandonato sul tavolo, accanto alla pistola. Nell’ultima ora, aveva chiamato Mikael dieci volte, trovando sempre la segreteria telefonica a rispondergli all’altro capo.

Era preoccupato, e percepiva il petto ghermito da una morsa che gli rendeva difficile respirare e pensare lucidamente. Erano dieci giorni che si sentiva in quel modo, da quando Mikael, mentre lui stava tornando a casa a termine di un lavoro per l’Organizacija, gli aveva mandato un messaggio, dicendogli che si sarebbe dovuto assentare per una settimana per alcune questioni, ma di non preoccuparsi, perché stava bene. Ed era stato in quel momento che, invece, Coleran si era preoccupato: non era da Mikael essere così vago e non dargli spiegazioni dettagliate. Aveva cercato di chiamarlo più volte, ma lui non gli aveva mai risposto.

Durante l’interminabile viaggio in metro, Coleran aveva pensato che Mikael volesse lasciarlo, ma che non sapesse come dirglielo. Aveva pensato che volesse abbandonarlo, come avevano sempre fatto tutti. Si era dovuto ricredere quando, rientrato precipitosamente in casa, aveva trovato PIT fermo in un angolo, e Newt a camminare pigramente sul pavimento del salone. Mikael non li avrebbe mai lasciati, se avesse deciso di non tornare.

Quella consapevolezza, tuttavia, non era servita a tranquillizzare Coleran: aveva iniziato a pensare che l’allontanamento dell’altro fosse stato causato da Faustus Bergmann e dai suoi esperimenti, e quella possibilità aveva fatto montare in lui una rabbia cieca, una furia irrazionale e disumana che gli aveva reso difficile non precipitarsi fuori di casa, a cercare Mikael senza neppure sapere dove fosse.

Aveva chiamato Trisha e Barry, ringraziandosi mentalmente per aver memorizzato controvoglia i rispettivi recapiti, ma loro si erano mostrati stupiti e allarmati alle sue parole, e avevano asserito di non sapere dove si trovasse Mikael.

Coleran si era imposto la calma, nonostante il panico gli serpeggiasse nelle vene, gelandole, e una sensazione di inquietudine lo schiacciasse; aveva deciso di attendere la settimana annunciata da Mikael, benché quella decisione gli fosse costata molto, e ancor di più prestarvi fede.

Aveva passato quei sette giorni nell’angoscia e nella paura, e aveva contato le ore che mancavano al teorico ritorno di Mikael. Alla mattina dell’ottavo giorno, quando l’altro non si era fatto vedere, mancando alla sua maniacale puntualità, Coleran aveva abbandonato qualsiasi forma di autocontrollo e aveva permesso all’irrazionalità di guidarlo: aveva iniziato a chiamare incessantemente Mikael, Trisha e Barry; aveva raccolto informazioni tra i propri contatti nelle Slums, per tentare di capire se qualcuno lo avesse visto; aveva persino pensato di chiamare la polizia e denunciare la scomparsa di Mikael, benché questo avrebbe significato esporsi: non ne aveva avuto il coraggio, e si era sentito un codardo per questo. Si era odiato.

Aveva continuato a chiamare Mikael e i suoi amici, incessantemente, fino a quel pomeriggio. Si sentiva sciocco, una bestia spaventata di cui non riusciva più a controllare le azioni. Lui, che aveva passato anni nell’odio, nell’apatia e nell’indifferenza nei confronti di chiunque non fosse sua sorella, ora si preoccupava per qualcuno. Se ne preoccupava così tanto che credette d’impazzire.

Quando il suo cellulare squillò, s’affrettò a rispondere con talmente tanta foga che non controllò neppure chi fosse a chiamarlo. Sperò che si trattasse di Mikael con disperato accoramento, perciò si pietrificò nel dolore della delusione quando sentì la voce concitata di Trisha che gli parlava. Non comprese subito cosa gli stesse dicendo, poiché la costernazione che l’aveva sconvolto era così intensa da ottenebrargli i sensi.

«Puoi ripetere?» mormorò, quando riuscì a ricordare come si facesse a parlare.

Ci furono dei lunghi, interminabili istanti di silenzio, poi Trisha sospirò, come a volersi imporre la calma. «So dov’è Mika: suo padre lo tiene in una stanza isolata nella struttura dove sto facendo tirocinio, per condurre non so quali esperimenti, ma non deve essere niente di buono, perché sta facendo tutto in gran segreto. Io l’ho scoperto origliando una conversazione tra due medici.» Nel pronunciare le ultime parole, la voce si era incrinata, spezzata, e Coleran poté immaginare gli occhi di Trisha colmarsi di lacrime che non sarebbe riuscita a trattenere. «Non so come aiutarlo» singhiozzò infatti.

Coleran abbassò lo sguardo sul tavolo e portò la mano libera a sfiorare il profilo familiare e freddo della pistola.

Faustus Bergmann aveva convinto Mikael a sottoporsi a uno dei suoi esperimenti, chissà sotto quale minaccia. Provò rabbia nel pensare all’altro disteso su un lettino, violato da mani brutali e ricoperte di lattice, mentre suo padre lo fissava con un glaciale e scientifico distacco, come se stesse studiando un animale particolarmente interessante, e non suo figlio; provò rabbia nell’immaginare il sangue, le grida e il dolore. E, soprattutto, provò rabbia perché Mikael gli aveva taciuto la verità: poteva comprendere che l’avesse fatto per proteggerlo, per tenerlo al sicuro, ma lui non se ne faceva nulla di quelle premure, non le voleva, se il prezzo da pagare era la sofferenza di Mikael. Mikael, che era una persona, e non un oggetto d’interesse scientifico.

Serrò la mascella così forte da farsi dolere i muscoli. Forse avrebbe dovuto essere disperato come Trisha, forse avrebbe dovuto sentirsi smarrito e piangere, ma tutto ciò che riusciva a sentire era una furia profonda e cieca, posatasi sul suo petto come un demone crudele.

I suoi occhi rimasero asciutti e la sua voce risuonò ferma e cupa mentre diceva: «Lo so io».

 

 

 

 

Coleran si sistemò meglio il camice immacolato, in modo da celare il più possibile i tatuaggi sul collo; sotto, la pistola assicurata alla cintura gli sfiorava il fianco, carezzevole, come a voler rimarcare il motivo per cui si trovasse in quel luogo.

Erano le prime ore del mattino e la maggior parte del personale non era ancora arrivata, pertanto i corridoi della struttura erano quasi deserti; nonostante ciò, Coleran avanzava tenendo la testa abbassata, perché le rare persone che incontrava non notassero la differenza tra il suo volto e quello sulla foto del cartellino appuntato al camice. Trisha camminava accanto a lui cercando di ostentare una calma serafica, e porgendo saluti e sorrisi ai colleghi: alcuni tentarono anche di fermarla e iniziare una conversazione, ma lei continuò a proseguire, asserendo di avere molto da fare e scusandosi per la fretta.

Era stata Trisha a far entrare Coleran in quella struttura medica dove, a quanto lei aveva compreso, si trovava Mikael; i due s’erano incontrati poco lontano e poi, fingendo di essere impegnati in un’amichevole conversazione, avevano raggiunto l’edificio, dove erano stati accolti da una guardia assonnata e in procinto di smontare il suo turno, e che li aveva osservati con uno sbadiglio e un’occhiata sbrigativa. L’uomo aveva riconosciuto Trisha, che lo aveva salutato con entusiasmo, per poi tornare a chiacchierare affabilmente con Coleran: forse il vigilante non lo aveva riconosciuto, ma vedere Trisha in atteggiamenti così amichevoli con lui era stato sufficiente per farlo desistere dal porre domande.

Una volta entrati, avevano raggiunto gli spogliatoi, dove Trisha aveva indossato il suo camice e ne aveva procurato a Coleran uno che fosse della sua taglia: il ragazzo ritratto sul cartellino - un altro tirocinante - non gli somigliava per nulla, ma Trisha gli aveva assicurato che i dipendenti non vi avrebbero posto attenzione, se non avessero dato nell’occhio e non si fossero fermati a parlare con nessuno.

Le parole di Trisha si rivelarono veritiere, e i due percorsero in relativa tranquillità i corridoi che li separavano dalla loro meta.

Coleran cercò di reprimere l’impazienza e di mantenere un’andatura lenta e regolare, che non facesse presagire nulla della sua urgenza. «Sei sicura di sapere dove si trova?» domandò bruscamente, pur mantenendo un tono di voce basso.

«Certo che lo sono.»

«E sei sicura che il codice per aprire la porta sia corretto?»

«Con chi credi di avere a che fare? Non hai idea di quello che ho rischiato per ottenere quel codice» sbuffò Trisha, tra l’indispettito e il nervoso. «Concentrati, piuttosto. Ricorda che abbiamo poco tempo prima che si accorgano che abbiamo fatto irruzione nella stanza e allertino le forze dell’ordine. Se non c’è nessuno, prendiamo Mika e ce ne andiamo; se invece troviamo qualcuno nella stanza, tu lo minacci e gli dici di stare buono, e poi portiamo via Mika. Chiaro?»

«Certo» sussurrò Coleran, sfiorando la pistola. Avevano ripassato quel piano innumerevoli volte e ne avevano definito i dettagli il più possibile. Ciò che non sapeva Trisha, tuttavia, era quanto odio Coleran avesse alimentato per Faustus Bergmann: sperava d’incontrarlo, che si trovasse in quella stanza dove teneva in gabbia Mikael, per poter stroncare quella sua crudele vita indegna.

Arrivati dinanzi al loro obiettivo, Trisha si guardò intorno nervosa, dopodiché si avvicinò alla porta e digitò il codice lentamente, con le dita che le tremavano; Coleran estrasse la pistola e le si appressò.

Quando Trisha digitò l’ultima cifra della combinazione, un segnale acuto riempì il corridoio, colpendo Coleran come un doloroso pugno, poi ci fu uno scatto metallico che annunciò che il meccanismo si era sbloccato.

I due si scambiarono un breve sguardo inquieto, dopodiché entrarono, spingendo la pesante porta scorrevole.

Un forte odore di disinfettante e medicinali assalì Coleran, che storse il naso, disgustato da quell’esalazione pungente e persistente. La stanza era di un immacolato candore, quasi accecante, così come lo era il letto sul quale era disteso Mikael, sedato e attaccato a innumerevoli macchinari, e così come era pure il camice dell’uomo che lo fissava e che si voltò quando udì lo scatto della porta.

Per un istante, un lungo, doloroso e terribile istante, Coleran fu rapito dalla figura addormentata di Mikael e dal pensiero di tutto ciò che poteva aver subito e patito in quegli ultimi giorni; poi, la mano che stringeva la pistola si mosse quasi istintivamente e Coleran si ritrovò a mirare alla testa dell’uomo senza quasi rendersene conto. Lo fissò con rabbioso astio, e seppe con lucida chiarezza che era Faustus Bergmann. Assomigliava al figlio: aveva i suoi stessi lineamenti affilati e gli stessi capelli biondi, ma gli occhi, al contrario di quelli del suo Mikael, erano piccoli e scuri, così distaccati e viscidi.

L’uomo sgranò leggermente gli occhi dinanzi a quell’inaspettata intrusione, poi la sua espressione si distese e un sorriso cordiale comparve sul suo volto. «Buongiorno, Trisha» salutò affabile, per poi spostare la propria attenzione su Coleran. «E tu sei il delinquente di cui quell’ingrato di Mikael si è infatuato. Coleran Williams, giusto?»

Coleran serrò la mascella, ma non rispose. Aveva i muscoli così tesi che quasi gli facevano male e sentiva che la ragione lo stava abbandonando, sostituita da una furia cocente.

«Sai, sono venuto a conoscenza della tua relazione con Mikael quasi da subito: faccio sempre controllare molto strettamente mio figlio, e non c’è niente della sua vita che possa nascondermi. Perciò, so anche quanto tenga a te: avresti dovuto vedere con quanto zelo è corso da me, quando gli ho detto che, se non si fosse sottoposto a questi esami, avrei mandato la polizia ad arrestarti.»

La mano che reggeva la pistola tremò leggermente, mentre Coleran spalancava gli occhi, raggelato. Dunque, era colpa sua se Mikael si trovava su quel letto? Era davvero colpa sua, del solo fatto che esistesse?

«Cosa cazzo gli hai fatto?» gridò Coleran, rinsaldando la presa sull’arma.

Il sorriso di Faustus si allargò. «Nulla che non fosse in nome della scienza. Volevo vedere fino a che punto potesse spingersi la sua rigenerazione, se fosse in grado di riparare anche i suoi organi interni, di farli ricrescere» spiegò, con un fervore che gl’infiammò lo sguardo. «Vuoi sapere la risposta?»

Trisha si portò una mano alla bocca, sconvolta, dopodiché si voltò disperata a guardare Coleran. Questo fece un passo avanti, in un gesto di sfida che parve intimorire Faustus.

Nei suoi lunghi anni di lavoro, Coleran aveva imparato a riconoscere un uomo che cercava di prendere tempo, ed era esattamente quello che stava tentando di fare il padre di Mikael. Probabilmente, aveva già allertato le forze dell’ordine senza che lui se ne fosse accorto, con qualche dispositivo di sicurezza che aveva sempre con sé, forse nascosto in una tasca del camice, e stava solamente attendendo il loro arrivo.

Coleran tentò d’ignorare le parole che Faustus aveva pronunciato con tanto compiacimento, cercò di non pensare alla portata di quelle frasi, a cosa potessero concretamente significare. Non capiva molto di medicina, ma se Mikael fosse stato morto, non avrebbe avuto senso tenerlo attaccato a tutti quei macchinari. Tentò d’aggrapparsi a quella convinzione per non perdere la lucidità.

Coleran sorrise, con un ghigno crudele e disperato che gli deturpò il viso; non riusciva a sentire nulla che non fosse odio, odio per quell’uomo che aveva rovinato la vita di Mikael e stava continuando a farlo; odio che aveva coltivato per molto tempo e che ora bruciava nel suo sguardo scuro, infiammandolo di vendetta.

Non gl’interessava essere arrestato e venire processato. Non gl’interessava vedere la sua vita definitivamente rovinata. Voleva solo liberare Mikael dall’ombra di quel mostro che si proclamava suo padre e donargli un’esistenza libera da quel giogo. Voleva che potesse finalmente respirare.

Per un breve istante, pensò a sua sorella e a cosa ne sarebbe stato di lei, ma poi seppe che Mikael se ne sarebbe occupato, che non l’avrebbe lasciata sola, e quella consapevolezza fu sufficiente a rendere definitiva la sua decisione.

Forse Trisha comprese le sue intenzioni e gli disse qualcosa, ma lui non l’ascoltò. Non riuscì a sentirla.

«Non me ne frega proprio un cazzo delle tue merdose risposte» sibilò. «Se avessi tempo, mi piacerebbe restituirti tutto il male che hai fatto a Mika, ma purtroppo non ne ho. È proprio vero che agli stronzi gira sempre bene.»

Coleran aggiustò la mira e sparò; il colpo rimbombò assordante nella stanza e si mischiò alle grida di Trisha. Risuonò come un grido di vittoria, mentre il cranio di Faustus si fracassava per l’impatto con il proiettile e il suo sguardo stupito veniva mascherato dal sangue, che schizzò anche sulle pareti, sul volto pallido di Mikael, addosso a Coleran. Questo ebbe appena il tempo di fare un passo in avanti, con l’intento di avvicinarsi a Mikael e di assicurarsi che stesse bene, prima che la polizia irrompesse nella stanza e gli sparasse al braccio destro, facendogli sfuggire la pistola di mano.

Il mondo divenne confuso e Coleran cadde in ginocchio: l’impatto con il pavimento fu un dolore sordo e distante.

La sua mente si fece ovattata e leggera; riuscì solo vagamente a pensare che Mikael fosse finalmente libero. Libero di essere felice e di sentirsi umano.

E tutto il resto non aveva alcuna importanza.

 

 

 

***

 

Note delle autrici: Non avevamo mai scritto una storia a quattro mani, prima d'ora, ed è stato divertente e stimolante scambiarci idee e vedere pian piano questa storia prendere vita, così come il mondo in cui essa è ambientata (che per esigenze di spazio è rimasto sullo sfondo), e soprattutto i due protagonisti di questa vicenda, a cui ci siamo affezionate talmente tanto da aver pensato a un sequel per questa storia, a cui inizieremo a lavorare a breve.

Vi ringraziamo per essere arrivati fin qui e ringraziamo soprattutto Soul per il bellissimo contest.

Ice Angel e Dark Sider

   
 
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