CAPITOLO UNDICESIMO: SCONTRO TRA FRATELLI.
Pegasus non fu troppo sorpreso di vedere una cortina di nebbia
rossastra circondare il Grande Tempio, quasi volesse stringerlo in un abbraccio
mortale. Lungo le mura esterne e i sentieri che tra le montagne conducevano da
Atene al santuario della Dea Guerriera erano fioriti migliaia di cespugli di
rose rosse, riproducendosi ad un ritmo spaventoso e diffondendo nell’aria il
malizioso aroma della rabbia che Ares aveva instillato in loro. Una rabbia che
aveva portato i soldati e i servitori di Atena, che avevano inalato per ore
quell’aria inquinata, a scontrarsi gli uni con gli altri, dando libero sfogo ai
loro primordiali istinti. Poche ore prima, in quel torrido pomeriggio, un
gruppo di soldati aveva avuto persino l’ardire di lanciarsi lungo la scalinata
di marmo diretti verso la Prima Casa, ma il Grande Mur dell’Ariete aveva
frenato la loro avanzata con un muro di energia, prima di respingerli,
scaraventandoli a terra. Non voleva fare loro del male, ma non poteva
permettergli di avvicinarsi ad Atena.
Il cosmo della Dea pareva
rappresentare l’ultima difesa delle Dodici Case, un freno intangibile
all’avanzata delle rose di rabbia, che non riuscivano ad aderire alle pareti
rocciose della Collina della Divinità, concentrandosi lungo i fianchi esterni e
alla base, dove la nebbia risplendeva di un acceso color rosso. Reso ancora più
forte dal sangue dei soldati che si stavano uccidendo tra di loro.
“Atena!” –Aveva mormorato Mur
poco prima, volgendo lo sguardo verso le Stanze della Dea, e sentendo
improvvisamente un canto risuonare per l’intero Grande Tempio. Un canto di
pace, una voce melodica, piena di speranza, come quella che aveva echeggiato
nel Regno Sottomarino durante la prigionia di Atena nella Colonna Portante di
Nettuno.
E infatti la Dea aveva cercato
di contrastare l’effetto della rosa di rabbia, di cui Mur l’aveva avvisata,
infondendo pace e di serenità nei cuori corrosi degli uomini del suo santuario.
Ma l’impresa, che aveva considerato facile all’apparenza, si era rivelata
ostica e fallimentare, poiché il veleno delle rose di rabbia era intriso del
diabolico cosmo di Ares, che le aveva create secoli addietro, e di un’ombra
immensa con cui Flegias le aveva potenziate. Atena aveva potuto soltanto
alleviare i loro cuori per pochi minuti, sentendoli ansimare per il dolore e
per la colpa di cui sapevano di macchiarsi, ma non riusciva a estirpare per
sempre quel male di vivere. Così, su suggerimento di Ariete, la Dea aveva
creato una cupola difensiva attorno alle Dodici Case, per limitare al minimo il
contagio, augurandosi che Andromeda tornasse presto dalla missione nelle
Andamane.
Pegasus apparve sul Cancello
Principale del Grande Tempio nel tardo pomeriggio, in jeans e maglietta, e con
lo scrigno dell’Armatura sulle spalle. Si guardò intorno e non vide guardia
alcuna. Soltanto mucchi di feriti sparsi nel piazzale antistante e altri
soldati che si affrontavano poco distante. E mura altissime di rose che
sembravano saturare l’aria con la loro presenza. Pegasus le osservò, con lo
sguardo spento, quasi annebbiato, e le sembrarono proprio le stesse che aveva
osservato crescere, negli ultimi giorni, lungo la parete esterna della sua casa
alla Darsena di Nuova Luxor, e che avevano risvegliato in lui il desiderio di
rivedere Isabel.
Giusto qualche giorno prima,
Patricia aveva aperto la finestra del monolocale, per cambiare l’aria e
occuparsi delle pulizie, che il fratello era solito rimandare, e aveva sorriso
alla vista di quel bel mucchio di rose rosse, piantate di recente in un’aiuola
al piano terra. E i ragazzi avevano creduto fosse stato il vecchio custode, che
amava dilettarsi col giardinaggio, a farne loro dono. Ma adesso, alla vista di
quell’immensa nube tossica, foriera di sangue e di morte, Pegasus pensò di aver
sbagliato tutto. E che forse avrebbe fatto bene a non lasciare il Giappone e
tornare in Grecia. Ma l’istinto, che negli ultimi giorni si era impossessato di
lui come mai prima di allora, lo dominò ancora, facendolo accasciare sulle
ginocchia, tenendosi la testa, in preda a violente fitte, che cercavano di
piegare la sua volontà.
Ansimò, battendo la terra con le
mani, sputacchiando e sudando copiosamente. Poi si rimise in piedi, deciso ad
andare fino in fondo. Voleva rivedere Isabel, per stare con lei, per parlare
con lei, anche solo per perdersi una volta nei suoi occhi. E trovare il
coraggio di confessare ciò che ormai non riusciva più a nascondere. Sospirò,
ricordando una notte stellata, di un anno e mezzo prima, quando, nelle montagne
fuori da Nuova Luxor, l’aveva vista per la prima volta in maniera diversa. Non
come la proprietaria della Grande Fondazione, non come la figlia dell’uomo che
gli aveva portato via sua sorella, ma come una donna. Come una Dea. La sua Dea.
La stessa per cui aveva sempre rischiato la vita. La stessa che ormai non
rappresentava più solo un ideale universale ma un progetto più personale. Si
scosse, iniziando a correre lungo le vie del Grande Tempio, passando in mezzo a
mucchi di feriti che si trascinavano sul terreno e a resse di altri soldati,
intenti a fare a botte.
Doveva raggiungere le Stanze del
Grande Sacerdote, ma per farlo non poteva passare dalle Dodici Case. No, Mur
non glielo avrebbe permesso. In una situazione di emergenza nessuno poteva
incontrare la Dea, soprattutto un uomo il cui simbolo era un animale, e come
tale preda dei più bassi istinti. Così Pegasus si lasciò alle spalle il nucleo
centrale del Grande Tempio, dove sorgevano alcune abitazioni, il mercato e le
residenze dei soldati, per spingersi lungo il fianco occidentale della Collina
della Divinità, in una zona spoglia e poco frequentata.
Là, su un piccolo rialzo del
terreno, un tempo era stato costruito il primo osservatorio dagli antichi
Grandi Sacerdoti, presto caduto in disuso e sostituito da quello in cima alla
Collina delle Stelle. Là iniziava un sentiero, irto e poco battuto, che tagliava
le montagne, aggirando le Dodici Case dello Zodiaco e permettendo di giungere
fino alla residenza del Grande Sacerdote. Glielo aveva insegnato Castalia, poco
dopo la fine della battaglia con Gemini, chiedendo al vecchio allievo di
mantenere il segreto. Era una via di fuga, apprestata un tempo per mettere in
salvo gli Oracoli, ma adesso per Pegasus era l’unico passaggio per raggiungere
la Dea.
Isabel, presto saremo
insieme! Si disse, iniziando la scalata.
Impiegò soltanto un paio d’ore
per arrampicarsi lungo gli scoscesi pendii del fianco della Collina della
Divinità, esperto scalatore quale era, e in tutto quel tempo nessuno fermò la
sua avanzata. Pegasus sorrise, convinto che ormai non vi fosse più alcuna
persona a conoscenza di tale via segreta. Senza sapere invece che qualcuno
aveva avvertito la sua presenza. Qualcuno i cui sensi erano affilati quanto
quelli di un felino e che non avrebbe mai lasciato sfuggire un topo dalla sua
gabbia.
Con un ultimo balzo Pegasus
raggiunse la cima e rotolò dall’altra parte della parete rocciosa, trovandosi
proprio a metà della scalinata di marmo che separava la Dodicesima Casa dalle
Stanze del Sacerdote. Proprio dove Castalia lo aveva raggiunto l’anno prima,
per aiutarlo con le rose di Fish. Senza perdere troppo tempo con i ricordi,
Pegasus scattò verso la cima, raggiungendo con un balzo il piazzale antistante
alla Tredicesima Casa. Nonostante i lavori proseguissero ormai da mesi, con
costanza e solerzia, vi era ancora molto da fare per riparare ai danni causati
dagli scontri con Ares e i suoi figli. Alcuni soldati gli si fecero incontro,
ma Pegasus li colpì con una serie di calci volanti, senza dare loro tempo
neppure di aprire bocca. Atena, ne era certo, si trovava nelle sue stanze, sul
retro del grande complesso architettonico della Tredicesima Casa.
Ed infatti in quel momento Lady
Isabel era distesa sul letto, nella stanza riservata alla Dea, con il viso
rigato dalle lacrime. Poiché sentiva tutto quello che stava accadendo. Sentiva
tutto ciò che i Cavalieri covavano nel cuore, dolendosi per non poterli
aiutare. Dolendosi per essere nuovamente inerme. Quel demone rabbioso che li
aveva infettati era anche nel suo cuore, e gli permetteva di vedere con i loro
occhi. Vide così Pegasus apparire tra le tende della Sala del Sacerdote, mentre
il sole scendeva nel mare lontano, abbagliando l’orizzonte con un acceso rosso
sangue. Vide Pegasus sollevare il trono e afferrare lo scrigno che vi era
nascosto, lo scrigno contenente l’arma macchiata dall’odio e dall’infamia. La
stessa che il ragazzo le rivolse contro poco dopo.
“Isabel…” –Mormorò Pegasus,
apparendo sulla porta della stanza della Dea, con il volto straziato
dall’angoscia e dal dolore, e gli occhi, solitamente pieni di voglia di vivere,
adesso carichi di rabbia. –“Isabel… devo farlo… questo è quello che sento!”
–Mormorò, socchiudendo gli occhi, prima di scattare contro di lei, sollevando
il gladio d’oro con cui Gemini aveva tentato di ucciderla quasi quindici anni
prima.
“Pegasus!!!” –Gridò Isabel,
espandendo di colpo il suo cosmo e scaraventando il ragazzo indietro, fino a
farlo schiantare contro il muro alle sue spalle. Lo scrigno dell’Armatura
ricadde rumorosamente sul pavimento, e anche Pegasus si accasciò a terra,
perdendo la presa del pugnale d’oro. –“Fermati, Pegasus! Torna in te! La rabbia
di Ares ti domina! La rabbia di un Dio che non è riuscito a vincerci con
l’onestà e adesso torna a torturarci con l’inganno! Sei un Cavaliere, sei un
uomo! Non puoi farti sconfiggere da lui!”
“Io… io…” –Esclamò Pegasus,
confuso, tenendosi la testa con le mani. –“Io volevo soltanto vederti… soltanto
vederti ancora! Mi sei mancata, Isabel!” –Mormorò il ragazzo, ma subito si
scosse, afferrando il gladio d’oro e rialzandosi di scatto. Come se mettere in
campo i suoi veri sentimenti, tirare fuori la passione che covava nel cuore,
non facesse altro che infiammare il suo spirito, lasciandolo divorare dall’ira.
Da quel fuoco che ardeva dentro di lui e che gli ricordava continuamente ciò
che non avrebbe mai avuto. –“Sei una Dea! Ed io non potrò mai averti!!!”
–Ringhiò Pegasus, con gli occhi stravolti dal dolore. –“Ad un uomo non sarà
concesso di unirsi ad una Divinità, neppure se è colei che ama!” –Aggiunse in
lacrime, prima di lanciarsi di nuovo contro Lady Isabel, con il pugnale diretto
alla sua gola.
“Pegasus, nooo!!!” –Gridò la
ragazza, lasciandosi avvolgere da un globo protettivo di energia, su cui si
schiantò la lama dorata, senza incrinarlo minimamente. –“Pegasus, ascoltami!
Mur mi ha spiegato il funzionamento della rosa di rabbia! Agisce sui tuoi
sentimenti, sui tuoi istinti, potenziandoli e privandoti di ogni raziocinio!
Torna in te Cavaliere! Io so che puoi farlo! Tu devi farlo!” –Esclamò Isabel,
prima di volgere lo sguardo verso destra, verso il mobile a cui aveva
appoggiato lo scettro di Nike, e abbassarlo poi con un sospiro, spaventata da
ciò che avrebbe potuto, e forse dovuto, fare. –“Basterebbe così poco…” –Mormorò
la Dea, rivelando il suo lato fragile e umano.
Ma Pegasus non le diede tempo di
riflettere ulteriormente, caricando il pugno destro del suo cosmo acceso e
scagliando migliaia di pugni luminosi contro la barriera della Dea, la quale,
presa alla sprovvista, venne spinta indietro, sbattendo contro il muro dietro
di lei. Pegasus approfittò di quel momento per balzare sopra di lei, con il
gladio sguainato, ma si ritrovò bloccato a mezz’aria dal potere della Divinità
e avvolto in un caldo e confortevole cosmo. Isabel affannò, rimettendosi in
piedi e chiamando a sé lo Scettro di Nike, a cui si appoggiò stanca, come se
quel semplice gesto l’avesse sfinita. O forse il significato di ciò che stava
dietro.
“I… Isabeeelll!!!” –Gridò
Pegasus, dimenandosi come un disperato, cercando di liberarsi dal cosmo della
Dea, che lentamente lo depositò a terra, senza mai smettere di lasciarlo anche
solo per un momento. Senza mai smettere di restare avvolto al suo corpo e
liberarlo dall’ombra e dalla rabbia. Per qualche istante a Isabel parve davvero
di riuscirvi, parve davvero di vedere la bestialità scomparire dagli occhi di
Pegasus, il cui animo stava probabilmente lottando per ritornare ciò che era un
tempo. Il Cavaliere della Speranza. Ma bastarono poche parole per rompere
l’incantesimo.
“Non affannarti troppo, Pegasus!
Ucciderò io la Dea Atena!” –Esclamò una voce, obbligando Isabel a voltarsi
verso l’ingresso, dove Ioria del Leone entrò pochi attimi dopo.
Indossava soltanto la corazza di cuoio e di bronzo tipica degli allenamenti e
avanzava a passo deciso verso il centro della stanza, fissando con fermezza
Atena negli occhi.
“Ioria… tu?!” –Mormorò Isabel,
stupita da quell’apparizione. E ricordò l’ultimo incontro avuto con lui, il suo
volto stanco e preoccupato, e ritenne che forse già allora aveva iniziato a
serpeggiare in lui l’odio e la rabbia. Ma la sua forza interiore e il suo cosmo
puro erano riusciti a trattenerlo. –“Dunque anche tu sei stato corroso?!”
“Non parlare, Atena! E
muoriiii!!!” –Sibilò Ioria, aprendo il palmo della mano destra e caricando
affilati artigli di cosmo. Rapido, come un leone sulla preda, Ioria scattò
contro Atena, strappando tutto ciò che era tra loro. Il letto, il pavimento, le
tende svolazzanti, tutto venne lacerato dai fendenti luminosi di Ioria,
obbligando Isabel a ricreare la sua barriera protettiva, su cui si schiantarono
con fragore.
Provò più volte il Cavaliere di
Leo a superare quell’aura celestiale, venendo sempre respinto, finché Isabel
non fu costretta a puntare Nike contro di lui e a scaraventarlo contro il muro.
Ioria ricadde a terra, con una spallina della corazza distrutta, ma anche ciò
non bastò a placare il suo animo irato. Il suo animo che chiedeva vendetta,
alla donna per cui suo fratello aveva dato la vita. Alla donna che troppo umana
si era dimostrata in quegli anni, lasciando che altri morissero, dopo Micene,
per coprire la sua incapacità nel difendere la giustizia. Con il fuoco negli
occhi, Ioria si rimise in piedi, trovando Pegasus proprio di fronte a lui, con
le braccia lungo i fianchi e i pugni chiusi, come se non aspettasse altro che
confrontarsi con lui.
“Togliti, Pegasus! Non è te che
voglio, ma affondare nel corpo della donna che mi ha portato via mio fratello!”
–Ringhiò Ioria, espandendo il proprio cosmo. Pegasus fece altrettanto,
lasciando che fulmini e scintille crepitassero attorno a loro, incendiando
l’aria e saturandola di odio.
“Fermatevi! Basta!!!” –Gridò
Atena, avanzando verso i due Cavalieri. Ma nessuno di loro sembrò prestarle
ascolto, quasi non la vedessero più. In un lampo di luce si scagliarono uno
contro l’altro, Pegasus con il pugno destro avanti e Ioria con gli artigli che
avvampavano vendetta. Il Cavaliere di Leo venne raggiunto sul mento da un
destro di Pegasus e scaraventato indietro, ruzzolando per molti metri fuori
dalla stanza, ma anche il favorito di Atena fu ferito e costretto ad
accasciarsi e a porre un ginocchio a terra.
Maledicendo l’avversario,
Pegasus si tastò il fianco destro, dove la zampata del Leone l’aveva raggiunto,
strappandogli via la maglietta e pezzi di carne e facendo colare fuori
parecchio sangue, che imbrattò la sua mano e il pavimento del tempio. Isabel, a
quella vista, corse verso di lui, per sincerarsi delle sue condizioni, quasi
dimenticandosi che poco prima aveva tentato di ucciderla.
“Stammi lontano!” –Gridò
Pegasus, spingendola via con un secco colpo di braccio e sbattendola contro il
muro. –“Conduci alla morte e alla pazzia tutti quelli che ti stanno attorno!
Tutti quelli che vogliono starti accanto e che si struggono per te! Che muoiono
per te!!!” –Strillò, rimettendosi in piedi e incamminandosi fuori dalla stanza,
sempre tenendosi il fianco insanguinato.
Ioria lo aspettava al centro
della Sala del Sacerdote, appoggiato al trono con entrambe le braccia.
Respirava a fatica, sudando abbondantemente, non tanto per la fatica fisica ma
per l’angoscia che lo stava divorando. Perché, come Pegasus e gli altri infetti
dalla rosa di rabbia, una parte del suo io, la più integra e razionale,
continuava ad assistere, impotente spettatrice, al massacro a cui l’istinto e
la bestialità stavano dando luogo. Senza poter fare niente per intervenire. Senza
essere abbastanza forte per spegnere quell’inferno di passioni.
“Cedi il passo, Pegasus!
Vendicherò mio fratello! E non sarai tu ad impedirmelo!” –Ringhiò il Cavaliere
di Leo, voltandosi verso Pegasus, apparso sulla porta laterale. Lo squadrò
mentre si avvicinava e gli cadde l’occhio sul sangue che colava dalla ferita
sul fianco. E bastò quello per farlo avvampare, per eccitarlo oltremisura,
inebriando i suoi istinti battaglieri. Non aggiunse altro e si lanciò contro
Pegasus, con gli artigli sfoderati, sbattendo il ragazzo a terra e montando
sopra di lui, che cercava di difendersi, di dibattersi per cacciar via l’agile
fiera.
“Difenderò Atena!” –Esclamò il
ragazzo, nella confusione che lo accecava. –“Perché sarò io ad ucciderla! Se
non potrà averla io, se non potrò avere colei che amo, allora morirà con me!”
–E spinse via Ioria con una ginocchiata al petto, osservandolo balzare indietro
agilmente.
Ansimando, si rimise in piedi,
pulendosi il sudore dal volto con il braccio destro e macchiandosi del proprio
stesso sangue. Così poco bastò per inebriarlo ancora e dare nuovo impeto ai
suoi istinti primordiali, in una giostra continua, in un ciclo a catena che
nessuno dei due riusciva a rompere.
“Prendi, Pegasus! Artigli del
Leone colpite nel segno!!!” –Gridò Ioria, scattando avanti e scagliando
violenti fendenti di energia dorata, che falciarono il pavimento e le colonne
attorno, obbligando Pegasus ad incrociare le braccia avanti a sé, venendo
raggiunto da qualche unghiata, prima di concentrare il cosmo sul pugno destro e
contrattaccare.
“Fulmine di Pegasuuus!!!”
–Esclamò, colpendo Ioria in pieno petto, a una spanna dal cuore, e scagliandolo
indietro, fino a farlo schiantare contro una colonna e ricadere a terra, sul
freddo pavimento di marmo. Da cui il Leone non si rialzò più. –“Ioriaaa!!!”
–Gridò Pegasus, crollando sulle ginocchia. –“Cosa ho fatto?!” –Si disse,
piangendo e dando pugni continui sul pavimento, in preda al demone dell’ira.
Fu in quel momento che il caldo
cosmo di Atena lo raggiunse, avvolgendolo in un abbraccio carico di amore.
L’intero salone fu invaso da quel tepore, che cacciò per un momento la rabbia
dal suo cuore. Lady Isabel apparve sulla porta poco dopo, attorniata da un’aura
di celestiale purezza, la stessa con cui mondare dall’ombra il suo animo
inquieto. Senza paura, Isabel si chinò su Pegasus, sfiorandogli il volto con
una carezza e socchiudendo i suoi occhi, invitandolo a lasciarsi andare, a
lasciarsi cullare dall’abbraccio della Dea. Dall’abbraccio di una madre.
Perché in fondo Atena era così
che si sentiva. La madre di tutti i Cavalieri. Vergine da sempre, per scelta
personale, fin dai tempi del mito, Atena aveva sempre messo se stessa al primo
posto, rifiutando di concedersi a qualsivoglia uomo o Dio, e donando tutto
l’amore di cui sarebbe stata capace agli unici che veramente provavano un
sentimento sincero per lei al punto da rischiare la vita. I suoi Cavalieri.
Molti erano orfani, molti erano soli, tutti avevano certamente sofferto. E lei,
abbracciandoli tutti con il cosmo, avrebbe trasmesso loro l’amore necessario
per continuare a vivere.
“I… Isabel…” –Mormorò Pegasus,
lo sguardo spento e languido, e mille pensieri in testa. –“Perdonami!”
–Aggiunse, crollando tra le braccia della Dea.
Proprio in quel momento si
spalancò il grande portone d’ingresso e Mur dell’Ariete arrivò correndo,
ansimando preoccupato per l’accaduto. Aveva sentito cosmi pieni di rabbia
infiammarsi alla Tredicesima Casa, e aveva inghiottito a fatica riconoscendo
che si trattava di quelli di Pegasus e di Ioria. Ma una nuova crisi di Asher lo
aveva obbligato a rimanere ancora alla Prima Casa, a prendersi cura di un
ragazzo che ormai di umano non aveva più niente. Soltanto adesso aveva potuto
raggiungere Atena, che subito gli andò incontro, spiegandogli la situazione.
“Se Andromeda e Kiki non tornano
in fretta, chissà quanti altri casi come questi si presenteranno?!” –Mormorò
Mur, prima di chinarsi su Ioria, che non si era più mosso da quando Pegasus lo
aveva colpito. Lo girò sulla schiena, osservando i lividi, e toccò il suo
cuore, sussultando quando lo trovò fermo.
“Fermo?!” –Balbettò Isabel,
inorridita da quel pensiero. –“Mur, ti prego, fai qualcosa!”
“Il cuore del Leone è spento,
Atena!” –Mormorò Mur, strappando via la cotta protettiva di Ioria e rivelando
il suo petto scolpito. Proprio accanto al cuore c’era un grande ematoma, una
chiazza scura che odorava di morte, il marchio con cui Pegasus lo aveva
condannato. –“Un arresto cardiaco!” –Commentò il Cavaliere di Ariete, iniziando
a pompare il cuore di Ioria con entrambe le mani, mentre Isabel si buttava a
terra accanto a lui, infondendo al Cavaliere di Leo tutto il suo cosmo.
–“Coraggio, Ioria! Svegliati! Coraggio, amico mio! Non… puoi lasciarci! No, non
te lo permetto!”
“L’ho ucciso io!” –Esclamò improvvisamente
la voce di Pegasus, facendo voltare Isabel e Mur verso il palchetto rialzato,
dove il ragazzo si era rimesso in piedi e adesso avanzava barcollando verso di
loro. Gli occhi gonfi di dolore, le lacrime lungo il volto e numerose ferite
sul corpo, di cui la più grande al cuore.
“Non darti pena, Pegasus! Siamo
tutti vittime quest’oggi!” –Commentò Mur con amarezza, continuando a pompare il
cuore di Ioria.
Passarono quattro lunghissimi
minuti, durante i quali nessuno osò parlare, durante i quali Pegasus e Isabel
si limitarono ad osservare la mano esperta di Mur e a cedere a Ioria parte del
loro cosmo, affinché si riprendesse. Proprio quando Ariete stava per smettere,
chiudendo gli occhi per il dispiacere, Ioria tossì, sputando bava e sangue. E
Pegasus si buttò su di lui, abbracciandolo con affetto e felicità. Stordito, il
Cavaliere di Leo si sollevò, tenendosi la testa e cercando di riordinare i
confusi frammenti della sua esistenza.
“Non sforzarti troppo, Ioria!”
–Esclamò Mur, aiutandolo a rialzarsi. –“Non siamo ancora fuori pericolo!” –La
voce di Mur suonò come un campanello d’allarme tra tutti i presenti, ricordando
che le rose di rabbia non erano ancora state estirpate e che, per quanto il
cosmo di Atena e il loro enorme senso di giustizia e fedeltà le avessero vinte
per il momento, esse aleggiavano ancora come una minaccia presente. –“Non so
quanto autocontrollo potrete ancora avere voi due! Né quanto potrò averne io!”
–Aggiunse, abbassando gli occhi.
Le pozioni vegetali del popolo
di Mu, unite alla maggior compostezza e razionalità del Cavaliere di Ariete,
gli avevano permesso di rimanere immune al contagio, ma Mur sentiva che
l’effetto delle rose di rabbia avrebbe presto raggiunto anche lui. E il
pensiero che potesse trasformarsi in una bestia, come aveva visto ridursi
Asher, lo turbò profondamente.
“Come hai detto tu stesso a
Pegasus, Mur, non darti pena per qualcosa che nessuno di noi è in grado di
controllare!” –Commentò Atena. –“Non dobbiamo farci prendere dal panico, ma
mantenere la calma! Credevo che la barriera di Atena avrebbe fermato il
diffondersi della rosa di rabbia, ma evidentemente i suoi effluvi superano
persino le muraglie di cosmo! Non ci vorrà molto prima che l’intero Grande
Tempio e le Dodici Case ne siano invasi!”
“Terrificante!” –Mormorò
Pegasus. –“E dove sono Sirio e gli altri? Che ne è di loro? Sono stati…
contagiati?!”
“Non lo sappiamo! Sirio è ai
Cinque Picchi, Cristal ad Asgard, e Phoenix… beh, Phoenix è irreperibile come
sempre! Ma ho inviato Andromeda in missione con Kiki! E se avranno successo
potremo risolvere definitivamente il problema!”
“In missione?!” –Domandò
Pegasus, prima che Mur gli raccontasse di Biliku e delle Isole Andamane, senza
omettere il fatto che i due erano partiti da dodici ore e non aveva più avuto
loro notizie. –“Non vorrei che avessero incontrato ostacoli imprevisti!
Affrontare Biliku non è certo una passeggiata!”
“Affrontare una tizia che si
crede un ragno?!” –Brontolò Pegasus. –“Ehi Mur, Andromeda ha affrontato Ade e
altre Divinità! Credi che non sappia schiacciare un ragno troppo cresciuto?!”
“Sottovaluti il potere
dell’arcano, Pegasus! Biliku è molto più di un ragno! E temo che questa scomoda
verità abbia intrappolato Kiki e Andromeda in una tela così fitta da non
permettere loro di fuggirne!” –Commentò Mur, incrociando lo sguardo preoccupato
di Atena.
Pochi istanti dopo le porte
dello spaziotempo vibrarono confusamente, e a Mur parve udire una voce
chiamarlo da lontano. Anche Atena lo sentì, e aiutò Kiki ad apparire
direttamente alla Tredicesima Casa, superando i campi difensivi del Grande
Tempio. Sporco, con graffi e ferite dappertutto, Kiki comparve davanti
ai tre Cavalieri e alla Dea, accasciandosi sulle ginocchia all’istante, troppo
debole anche solo per parlare.
“Gra… grazie!” –Commentò il
ragazzo, allungando un’ampolla verso Mur. –“Non avevo forza abbastanza per…” –E
crollò avanti, ma Ioria lo afferrò prima che toccasse terra, prendendolo in
braccio e lasciando che si riposasse.
“Sei stato un vero Cavaliere,
Kiki!” –Esclamò Ioria, sorridendo al bambino. –“Un degno combattente di Atena!”
“Sono fiera di te!” –Aggiunse
Atena, prima di chiedergli dove fosse Andromeda.
“Lui… è rimasto sull’isola!”
–Commentò Kiki, pregando Ioria di depositarlo a terra. –“Siamo stati attaccati!
Prima da Biliku, quel mostro orrendo! Fratello è stato spaventoso! Adesso so
cosa prova una mosca a finire su una tela di ragno! E poi da due Cavalieri
neri! Non so chi fossero… non li ho mai visti, né ho mai sentito i loro nomi:
Iaculo e Iemisch! Emanavano un cosmo oscuro, figli della notte più nera!
Andromeda ha ingaggiato battaglia con loro, permettendomi così di tornare ad
Atene e portarvi il sangue di Biliku!” –Concluse Kiki.
“Hai fatto uno splendido lavoro,
e anche Andromeda si è dimostrato degno di tutta la nostra fiducia! Grazie a
questo sangue, potrò creare l’antidoto per estirpare le rose di rabbia! Corro
subito a prepararlo!” –Esclamò Mur, inchinandosi di fronte ad Atena e
accomiatandosi poco dopo. Kiki decise di seguirlo, per essere medicato dal fratello
e nella speranza di riuscire a riposarsi un po’.
Pegasus e Ioria rimasero ancora
con Atena, per quanto Mur avesse insistito affinché lasciassero le Stanze del
Sacerdote, per paura che i loro istinti bestiali potessero riprendere il
sopravvento. Ma Isabel lo pregò di non preoccuparsi. Sarebbe stata capace di
calmarli con il suo cosmo divino.
“Chi saranno questi misteriosi
Cavalieri neri? Che siano un nuovo nemico da affrontare?” –Mormorò Pegasus.
“Non so dirtelo, Pegasus! Quello
che è certo è che devono essere gli stessi che ieri mattina hanno assalito
Asher nel cimitero del Grande Tempio!” –Esclamò Isabel.
“Asher?! Che storia è mai
questa?!” –Esclamò il ragazzo, prima che Isabel gli raccontasse l’accaduto.
–“Adesso mi è tutto chiaro! Hanno infettato il Grande Tempio dall’interno e
probabilmente anche loro conoscevano la leggenda di Biliku, così hanno inviato
due sicari nelle Andamane per impedire ad Andromeda di portare l’antidoto!
Maledetti! Tutto per colpa di quelle rose bastarde!!!”
“Non è così esatto, Pegasus!”
–Lo interruppe Ioria, con voce gentile ma ferma. –“Le rose di rabbia non ci
hanno trasformato, ma hanno solo agito sui nostri desideri inconsci,
estremizzandoli e privandoci di ogni raziocinio! Ma ciò che provavamo, che
tenevamo celato nei nostri cuori, è qualcosa che esiste davvero, che sentiamo
davvero!” –Aggiunse, incrociando lo sguardo di Atena, e sospirando con
tristezza.
“Ioria…” –Mormorò Atena,
comprendendo il senso di colpa del ragazzo, che le si avvicinò,
inginocchiandosi di fronte a lei.
“Dea Atena! Già una volta ho
errato volgendovi contro il pugno, e non è passato giorno, in questi due anni,
senza che me ne sia pentito, senza che mi sia maledetto per essere stato così
cieco, per non aver saputo comprendere a pieno gli insegnamenti di mio
fratello! Ho cercato di andare avanti, di rimediare ai miei errori, ma credo di
non aver capito niente se oggi mi sono nuovamente permesso di arrischiare alla
vostra vita!” –Confessò il Cavaliere di Leo, di fronte agli occhi commossi di
Atena, che si chinò su di lui, prendendogli le mani tra le proprie e
sorridendogli.
“La follia guidava la tua mano,
Ioria! Come quella di tutti noi! Non hai colpe, se non quelle di cui vorrai tu
stesso farti carico!” –Gli disse Isabel. Ma Ioria non fu convinto. La
ringraziò, allontanandola dolcemente, e si rimise in piedi.
“Chiedo il permesso di andare
sulle Andamane! Andromeda è in pericolo e voglio porgerli aiuto! Ho bisogno di
rimediare al mio errore, Atena! Ho bisogno di cancellare la vergogna della mia
colpa! La vergogna di avere, anche solo per una volta, pensato che voi foste la
causa della morte di mio fratello! E questa verità non l’ha inventata la rosa,
ma albergava già dentro il mio animo! Nascosta, ma forse non troppo a fondo!”
“Impara a perdonare te stesso,
Cavaliere di Leo!” –Sorrise Lady Isabel, prima che Ioria le desse le spalle e
si avviasse verso il portone d’ingresso. Ma non fece in tempo a fare neppure
quattro passi che un vento improvviso si levò all’interno della Sala del
Sacerdote, sollevando tende e polvere e obbligando i presenti a voltarsi verso
la terrazza, su cui una luminosa sagoma si stagliava in silenzio. Atena
sorrise, riconoscendo il volto di un vecchio amico: Ermes, il Messaggero
degli Dei.