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Autore: Eris Gendei    15/03/2020    1 recensioni
Questa storia partecipa al contest "Who put crack in my Amortentia?" indetto da GiuniaPalma / LadyPalma sul forum di EFP.
E' un piccolo tentativo di one-shot sul crack-pairing Ginny/Viktor (senza sfociare nell'ooc), una coppia davvero poco esplorata, sviluppata sulla scia del prompt "lettere".
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Ginny Weasley, Viktor Krum
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Nota dell'autrice
Questa storia partecipa al contest "Who put crack in my Amortentia?", indetto da GiuniaPalma/LadyPalma sul forum di EFP.
E' la mia prima esperienza con i crack-pairing e ammetto di essermi trovata molto in difficoltà: volevo cimentarmi con qualcosa di nuovo e ho sperimentato l'abisso affascinante delle coppie insolite...che dire, un piccolo trauma, ma un'esperienza molto interessante.
Lo svolgimento dell'azione è nato praticamente da sé a partire dal prompt, ammetto che senza di quello avrei avuto una bella gatta da pelare ad inventarmi uno scenario verosimile in cui accade qualcosa di potenzialmente credibile; perché il dictat del contest era proprio questo, creare un ponte realistico o quantomeno fondato in cui i personaggi si incontrino, uno sinceramente innamorato dell'altro.
Non vi anticipo che tipo di filone ho scelto (amore ricambiato o non ricambiato) per non rovinare la sorpresa, dato che mi sarebbe piaciuto (ma non potevo) lasciare ignoti pure i protagonisti...vi lascio alla lettura e spero che vi piaccia.


Crack-pairing: Ginny/Viktor
Prompt: Lettere
 

Era una giornata grigia.
Il cielo color acciaio appariva come una lastra uniforme e gravosa, sembrava pesare sul mondo con il suo  carico irrequieto di nubi; si ammassavano una sull’altra sopra i tetti di Hogsmeade, trascinate da un vento potente che le spezzava e le ricomponeva in cumuli sempre più minacciosi.
In quell’aria elettrica un odore umido permeava ogni cosa.
Non ricordava il profumo consistente di un temporale, piuttosto quello stantio di un luogo rimasto chiuso troppo a lungo: era come se un’intera esistenza di esposizione a quel clima severo, del tutto usuale nella brughiera scozzese, avesse impregnato il mondo di umidità fin nel sottosuolo.
Le case erano costantemente rivestite di una patita viscida di rugiada, madide anche nei giorni più asciutti; dalle strade si sollevavano leggeri sbuffi di foschia che ricordavano stracci sfilacciati. Nei giorni più rigidi il vento si infilava con impeto nei vicoli rubando conversazioni e parole, spettinava l’erba incolta delle campagne e faceva gemere gli alberi più esili.
Gli abitanti di Hogsmeade avevano imparato a non temere giornate come quelle, anche se dalla sinistra catapecchia in cima alla collina sembravano provenire gemiti e ululati ben peggiori del solito. Era sufficiente rimanere in casa o al pub, accoccolarsi davanti ad un boccale di Burrobirra bollente e attendere che la furia degli elementi si spostasse lontano da lì. Nessuno si sarebbe avventurato all’esterno con un tempo simile.
Un’unica figura si muoveva nel paesaggio desolato, avanzando a passo deciso lungo il sentiero che usciva dal villaggio. Non camminava ne lenta ne veloce; si limitava ad avanzare, il capo chino per ripararsi dalle raffiche.
Non aveva connotati che la rendessero riconoscibile, a meno della piccola statura.
Un ampio mantello scuro le volteggiava intorno, gonfiandosi e tendendosi come una vela ai capricci del vento; una folata più violenta delle altre lo fece aderire completamente al corpo che avvolgeva, rivelando i contorni di una sottile figura femminile.
Nessuno avrebbe mai potuto stabilire chi fosse la persona solitaria che scivolava lungo i muri delle graziose abitazioni che costeggiavano la via, ormai niente più di una lingua di terra che andava assottigliandosi. I capelli, di un’inconfondibile rosso fiamma che l’avrebbe tradita al primo sguardo, erano prudentemente raccolti dentro il cappuccio, il viso coperto.
Gli abitanti di Hogsmeade avevano ormai accettato le casuali apparizioni di quella entità sconosciuta, che si faceva viva nei momenti più impensati e girovagava per le strade prima di farsi strada verso la cima del colle su cui sorgeva la Stamberga Strillante.
Il panico che aveva scatenato in principio (“E’ certamente un Dissennatore!” “Ma quale Dissennatore, non vedi che quando passa nessuno cade preda del gelo o della disperazione?” “Deve essere un Mangiamorte mandato a sorvegliarci!”) si era dissolto quando la diceria circa alcune ribellioni, portate avanti dagli studenti della Scuola contro il nuovo regime, era rapidamente passata di bocca in bocca.
“E’ uno studente della scuola che cerca di mettersi in contatto con l’Ordine della Fenice!” mormoravano alcuni eccitati, senza nascondere troppo l’entusiasmo dietro boccali stracolmi di schiuma.
“Non dite fesserie, sta semplicemente cercando un nascondiglio per i figli dei Babbani. Quanto credete che manchi prima che si scateni la caccia all’uomo?”
Le versioni si erano presto intrecciate, gonfiate, nessuno avrebbe più saputo dire quali fossero vere e quali no. L’unica certezza era che gli sguardi che un tempo seguivano con sospetto l’andirivieni della figura si erano fatti quasi affettuosi.
Gli abitanti del villaggio non ricevettero mai neppure una prova che quell’essere fantasma fosse una persona e fosse realmente uno studente; eppure, finché si limitava ad aggirarsi per le strade senza far del male a nessuno, erano disposti a crederci e ad appoggiarlo.
Alcuni dicevano di sentire che era una presenza amica, che era lì per una buona ragione.
Nella realtà avevano soltanto bisogno di qualcosa in cui credere in quei tempi bui; non volevano ammettere di non sapere proprio nulla.

Era diretta verso la cima della collina, come sempre.
Lassù nessuno l’avrebbe disturbata, specialmente con una tempesta simile ad incombere.
Dopo le ultime case, appendici solitarie del villaggio, la strada diventava poco più che un viottolo e la salita si faceva impervia; piccole rocce affioravano qua e là dal fondo fangoso, il terreno in mezzo all’erba diventava una melma.
La sagoma avanzava scivolando e slittando sul limo, il mantello che si impigliava nei piccoli arbusti che costeggiavano il sentiero.
Ginevra Weasley amava salire alla Stamberga Strillante con la pioggia.
Inspirava a pieni polmoni l’odore di marcio che trasudava dalle assi di legno della casa, sdraiata a terra accanto alla staccionata che doveva tenere lontani i curiosi: le piaceva affondare, annegare quasi, in quella mota, sentire gli steli che le graffiavano il viso mentre si lasciava sparire, inghiottita da quel mare verde e tagliente.
Nessuno l’avrebbe trovata se lei non voleva mostrarsi.
Immaginava di restare lì, acquattata nel prato come una bestia selvatica, osservando lui che la cercava senza sapere che stava cercando proprio lei.
Pensava che sarebbe stato bello guardarlo non vista, spiarne le mosse fra l’erba, vederlo sparire dietro uno caprifoglio per non riapparire più.
Il suo sguardo sfiorò il cielo metallico; pensava che sarebbe stato bello se avesse piovuto. Sarebbe tornata a scuola bagnata e sporca, muschio e terra sotto le unghie, drammatica come l’eroina di un romanzo.
Si chiese cosa avrebbe pensato lui quando si fosse mostrata, il mantello impastato di fango e le guance accese dal freddo.
Forse avrebbe creduto che l’aveva mandato lei, che era lì per riferirgli un messaggio importante: c’è stato un problema, non è potuta venire, è successo qualcosa.
Gli occhi di lui avrebbero brillato per la sorpresa, quella sua aria imbronciata e minacciosa si sarebbe dissolta per un istante mentre le sopracciglia irsute si sollevavano con stupore, per poi tornare ancora più aggrottate di prima.   
Forse non l’avrebbe nemmeno riconosciuta, in fondo avevano scambiato solo poche parole di persona prima di allora. Avrebbe immaginato che fosse lì per caso.
Forse avrebbe pensato che era bella.
Bella nonostante la tempesta dentro e fuori di lei; bella proprio grazie a quel disastro.
Era salita lungo il fianco della collina così tante volte da non avere bisogno di guardare avanti per sapere dove si trovasse: quando i suoi piedi incontrarono un sasso ed il terreno spianò dolcemente si riscosse dai suoi pensieri; era giunta alla meta.
La vecchia casa era ancora lì, sempre più triste e malconcia; nonostante la mole imponente sembrava una cosa vecchia e rotta, qualcosa che si butta in un angolo quando non serve più e nessuno si dà pena di recuperare.
Le assi che chiudevano le finestre iniziavano a sbriciolarsi, erose dalle intemperie e da qualche insetto coraggioso; una persiana penzolava dai cardini e sbatteva ripetutamente contro la parete, seguendo i capricci del vento.
Certi giorni anche lei si sentiva un oggetto rotto, abbandonata da coloro che amava e in cui riponeva tutta la sua fiducia, lasciata sola a rovinarsi come quella catapecchia: forse anche lei prima o poi si sarebbe sbriciolata, chi l’avesse cercata avrebbe trovato solo un mucchietto di capelli rossi impigliati nell’erba.
Magari sarebbe diventata polvere e si sarebbe alzata in volo, il vento l’avrebbe portata da loro, di certo avrebbe saputo dove trovarli.
Si chiese se dopo essersi rovinata dentro avrebbe iniziato davvero a rovinarsi anche fuori.
I suoi amici, i pochi rimasti con lei, continuavano a ripeterle quanto fosse forte, coraggiosa, bella quando si infervorava di fronte alle ingiustizie perpetrate dentro la scuola. La verità è che lo specchio le restituiva soltanto l’immagine di una ragazza consumata e sola.
Si avvicinò alla recinzione scuotendo la testa, lasciando che i pensieri si scompigliassero.
Accarezzò il legno scabro con il palmo della mano, il sottile strato di muschio che le macchiava le dita.
Con la punta dell’indice tracciò una riga precisa dal naso all’orecchio, un segno di battaglia che sembrava un livido sulla sua pelle chiara.
Tornò a chiedersi ancora una volta perché non l’avessero portata con loro. Se ne erano andati senza rivelare nulla, con l’intento di vincere una guerra da soli, senza pensare che anche lei, e così altri, sapeva combattere e voleva farlo.
Batté con rabbia il pugno sulle travi corrose e si lasciò cadere nell’erba, affondando le unghie nel terreno fradicio.
Non le importava che il mondo intero fosse fatto di terrore e sconforto, che ogni giorno fosse peggiore del precedente. Non le importava delle notizie spaventose che giungevano agli studenti per vie illecite e delle minacce che subiva a scuola a causa del nuovo regime.
Voleva soltanto che qualcuno sapesse che bramava l’unica cosa che non le era permesso desiderare.
Voleva che qualcuno si accorgesse della rabbia tremenda che aveva dentro.
L’avrebbero punita di nuovo; quando avessero scoperto che era fuggita dalla scuola, che era uscita in modo non autorizzato per scendere al villaggio, l’avrebbero castigata pesantemente.
Il preside aveva ribadito più volte che non era disposto a tollerare i suoi capricci e le sue impertinenze, che doveva rispettare le regole come tutti.
La pioggia aveva iniziato a cadere in gocce rade e leggere, le punzecchiava il viso rivolto al cielo.
Distesa nel fango le sembrava che il fuoco che la bruciava dentro scomparisse, scorresse lentamente via da lei per far ribollire il terreno. Solo quando la lavava il cielo si sentiva davvero pulita, era la ragione per cui continuava a sfuggire alla sorveglianza di insegnanti e fantasmi ogni volta che ne aveva l’occasione.
All’inizio dell’anno gli altri studenti l’avevano osservata con ammirazione e reverenza: Ginevra Weasley, la ragazza che aveva rapito il cuore del grande Harry Potter, il loro beniamino ed eroe, in fuga per sconfiggere una volta per tutte il Signore Oscuro, doveva assolutamente essere una persona speciale.
Si era sentita amata, protetta; si era scoperta a ricambiare totalmente quell’improvviso affetto e si era eretta a capo e baluardo della ribellione: voleva dare a tutti la possibilità di credere ancora in qualcuno, di sperare che alla fine ci sarebbe stata una persona a salvarli.
Voleva che la loro fiducia in Harry Potter non svanisse, che al suo ritorno lui trovasse un esercito pronto e zelante; mettendosi al suo posto le sembrava di averlo vicino, riusciva a prolungare la sensazione che lui fosse ancora lì con loro, con lei.
Ben presto la vita dentro Hogwarts si era fatta ardua per quelli che si opponevano al sistema: le punizioni si erano fatte via via più violente, i controlli soffocanti; sempre più studenti si lasciavano irretire dal terrore e tornavano a sottomettersi al nuovo regime.
Rapidamente i fallimenti erano diventati più delle vittorie e gli animi avevano iniziato ad incupirsi: Harry Potter era sparito da mesi senza lasciare traccia e forse in fin dei conti nessuno avrebbe salvato nessuno; cosa potevano dei ragazzi, per quanto molto dotati, contro Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato, incarnazione del male stesso?
La fiducia che i ragazzi riponevano in Harry era venuta meno e così l’affetto verso di lei: senza rendersene conto fino a quel momento non era stata altro che il suo feticcio, una sorta di sua proiezione. Se lui non meritava considerazione, allora neanche lei la meritava.
Il senso di tradimento che provocò l’essere ripudiata dai suoi stessi compagni la portò sull’orlo della disperazione: abbandonata per la seconda volta, si chiuse in se stessa e cessò di combattere, lasciandosi finalmente andare alla tristezza che covava segretamente da mesi.
Di colpo, da studentessa ammirata venne additata con pena, dicevano che fosse impazzita dopo essere stata abbandonata dal suo grande amore, il ragazzo che sognava da sempre e che aveva ottenuto solo per un istante; poi avevano iniziato a guardarla con disagio, come se avesse una strana malattia che poteva trasmettere anche a loro se si fossero avvicinati troppo.
Ormai a scuola quasi nessuno le rivolgeva la parola: distoglievano lo sguardo da lei, quella strana, ogni volta che ricompariva dopo averne combinata una delle sue.

A lei non importava.
Distesa nella melma si sentiva una regina, lo sporco che c’era fuori combaciava alla perfezione con quello che aveva dentro.
Almeno questa volta nessuno avrebbe saputo cosa aveva fatto, non ci sarebbero stati occhi indiscreti a perforarle la nuca e giudicarla silenziosamente.
Che la cercassero pure, stavolta li avrebbe ingannati in grande stile.
Attese per quelle che le parvero ore, osservando le nubi color ferro che si affastellavano furiose le une sulle altre.
Lo sentì prima ancora di vederlo, il debole suono della sua comparsa rubato dal vento e portato da lei.
Poteva ancora scegliere. Poteva alzarsi e andargli incontro, oppure rimanere lì.
Inspirò profondamente prima di sollevarsi sui gomiti: non aveva eluso ancora una volta la sorveglianza per nulla, stavolta faceva sul serio.
Il terreno sembrava abbracciarla, protestò con un suono umido e scivoloso quando sfuggì alla sua presa.
Il giovane le dava le spalle; si guardava intorno con aria interrogativa, lo sguardo naturalmente corrucciato a causa delle sopracciglia spioventi.
Ginny si alzò in piedi lentamente, le mani che stringevano fili d’erba per farsi coraggio.
Rimase immobile, l’espressione impassibile e gli occhi accesi di sfida.
Il fruscio che produsse fu come un richiamo; quando lui si voltò e la individuò sul suo viso passò una moltitudine di emozioni: sorpresa, sollievo, dubbio, comprensione, sospetto.
Le si avvicinò con la sua andatura ciondolante, quel modo asincrono di muoversi che aveva tanto immaginato in quei mesi, che in realtà la disgustava.
“Io conosce te! Tu è amica di Herr-mioni! Sorella di quello rosso. Noi fisti al matrimonio di Fleur.” esclamò il giovane quando fu abbastanza vicino da farsi udire.
A quella distanza le sue spalle incurvate erano ancora più evidenti, il naso grifagno terribilmente pronunciato.
Lei si sforzò di non arretrare.
“E Bill.” sussurrò, la voce arrochita dal lungo silenzio. Lo ripeté più forte: ”Bill. Il matrimonio era di Fleur e Bill. Mio fratello.”
Un lampo di comprensione passò negli occhi di lui:“Sì, io sa…il ragazzo assalito da lupo. A me dispiaciuto molto per lui.”
“Non c’è bisogno che tu ti dispiaccia, ora sta benissimo.” ribatté perentoria la ragazza, obbligandosi ad avanzare di un passo.
Non poté fare a meno di sorridere, perfida: Viktor Krum, il famoso campione di Quidditch, appariva a disagio al cospetto di quella strana ragazzina, aggressiva e tutta sporca di fango.
“Alora…quando viene Herr-mioni? Lei è qui? Io deve incontrare lei.” azzardò lui in un tono forzatamente colloquiale, un debole tentativo di fronteggiarla.
“Hermione non viene.” rispose lei secca, allontanando una ciocca di capelli che le sventagliava davanti al viso.
Adorava tenerlo in pugno. Quante volte, nell’arco di quei mesi, si era immaginata l’espressione contrita di lui di fronte alle sue lettere sibilline, ai suoi silenzio prolungati e stizziti.
Nella sua mente aveva tracciato così spesso i contorni di quel viso afflitto da essere certa che anche di persona sarebbe stato proprio così: gli occhi strizzati, la bocca storta in una smorfia sofferente, gli zigomi che premevano sotto la pelle come se volessero schizzare fuori.
“Nessuno sa dove sia Hermione, da mesi ormai. Quando è partita con mio fratello ed Harry Potter” sentì la voce tremare pericolosamente “chiunque ha perso le sue tracce. Non l’abbiamo più vista né sentita. E’ scomparsa.”
Sentì una rabbia incandescente montarle dentro alla vista di lui che alle sue parole si sciolse in un sorriso vittorioso. Sapeva che sarebbe successo, ma non poteva evitare che questo la urtasse.
“Te sbaglia! Io ho notizie di Herr-mioni, lei scrive me da molti mesi, io sa molte cose! Lei sta bene, loro al sicuro! Io certo che lei viene, lei scritto me.” pronunciò il giovane con soddisfazione, gli occhi scintillanti.
“Non che non verrà. Te l’ho detto, nessuno sa dove sia.”
“Io sa. Guarda, io ha portato sua ultima lettera. Lei dice me…”
“Ho bisogno di incontrarti. Ti prego, raggiungimi alla Stamberga Strillante la sera del terzo mercoledì di febbraio. Ho bisogno che le tue mani stringano davvero le mie.” concluse per lui Ginevra, osservando con perverso piacere la sorpresa dell’altro.
“Tu come sa…?” iniziò lui, per poi ammutolirsi di fronte all’espressione della ragazza, un sorriso duro e amaro che gli provocò una stretta allo stomaco.
“Forza campione, mostraci che i troppi bolidi che hai preso non ti hanno tolto l’ultimo briciolo di intelligenza. Hermione si è data alla macchia da mesi, non ha mandato nemmeno due righe a noi, la sua famiglia, i suoi amici più cari…come puoi pensare che abbia scritto a te?”
Calò un silenzio pesante, lungo, rotto soltanto dall’ululato feroce del vento.
I pensieri del giovane si dipingevano sul suo viso sgraziato, la coscienza di ciò che quelle parole significavano si fece lentamente strada in lui.
“E’…è stata tu quindi?”
“Sì, sono stata io. Hermione non hai mai scritto alcuna di quelle lettere, sono tutte opera mia.”
Suo malgrado, la ragazza non riusciva a trattenersi dal sorridere nervosamente.
“Perché tu ha fatto questo?”
Il volto di lui esprimeva sincero dolore, quel misto di vertigine e soffocamento che tante volte lei aveva visto nel proprio riflesso.
“Perché…” iniziò Ginny con foga, per poi interrompersi, sopraffatta dall’inquietudine.
C’erano centinaia di ragioni per cui l’aveva fatto.
Perché si sentiva sola. Perché era arrabbiata, annoiata. Perché la vita era ingiusta.
Perché c’era qualcuno che aveva tutto quando lei non aveva più nulla.
Qualcuno che aveva qualcosa che lei non poteva avere.
Si rese conto che non voleva rispondere; non era pronta ad ammettere una cosa simile, era certa che non sarebbe stata in grado di trattenersi dallo scoppiare a piangere se avesse osato pronunciare quelle parole ad alta voce.
Aveva bisogno di convincersi che in quei mesi era nato qualcosa dentro di lei, un sentimento piccolo e caldo che cercava di farsi spazio nel suo cuore rattrappito.
Soprattutto, aveva bisogno di Viktor.
Una risposta sincera lo avrebbe allontanato per sempre: come poteva pensare di chiedere a qualcuno di stare con lei solo per non lasciarla sola? Starci non perché la amava, ma perché gli faceva pena.
Annaspò in cerca delle parole giuste, mentre la verità lottava prepotente per uscire:
“Durante i preparativi del matrimonio di mio fratello ho trovato una tua lettera nella stanza di Hermione.
Sapevo che dopo la fine del Torneo Tremaghi avevate cominciato a scrivervi; tu l’avevi pregata di lasciarti il suo indirizzo e le avevi spedito una prima lettera proprio quell’estate, pochi giorni dopo la fine dell’anno scolastico.
Quando l’aveva ricevuta dapprima si era sentita confusa: sono anni che Hermione prova ben più di qualcosa per mio fratello Ron, ma lui è talmente sciocco da non essersene mai accorto.
Mi raccontava tutto, Hermione…sono stata la prima a cui ha rivelato di essere stata invitata al Ballo nientemeno che dal celeberrimo campione di Quidditch Viktor Krum.
E’ corsa da me subito dopo il vostro incontro il biblioteca, sentiva il bisogno di confidarsi con qualcuno. Ero sua amica, forse la prima vera amica che abbia mai avuto.
Era così emozionata, tutta rossa e spettinata come dopo un volo su una scopa. Solo le emozioni vere spettinano.
Ho capito che non era accecata dalla tua fama, non era elettrizzata dal fatto che una persona così famosa avesse scelto proprio lei; semplicemente non le pareva possibile che un ragazzo più grande l’avesse invitata, che qualcuno avesse finalmente guardato oltre l’immagine della studentessa modello, diligente e studiosa, rispettosa delle regole, per accorgersi che in fondo era pur sempre una ragazza. Era un batticuore sincero il suo.
Da quel momento, sono diventata la sua confidente preferita.
Mi sembrava di essere parte anch’io della vostra amicizia, a volte Hermione mi leggeva alcuni passi delle tue lettere, commentava il tuo inglese che andava migliorando, mi raccontava cosa provava e chiedeva il mio parere.
Era felice, ma sempre più dubbiosa.
Doveva rassegnarsi al fatto che Ron non l’avrebbe mai guardata nel modo in cui lei voleva?
Forse avrebbe dovuto dare a te una possibilità, con il rischio di compromettere per sempre la vostra amicizia?
Tu non sai cosa c’era davvero dietro tutte le sue lettere.
Per me era incredibile; non immaginavo che io e lei potessimo vivere in una condizione tanto simile, entrambe attanagliate dalle stesse incertezze.
E’ tremendo desiderare follemente qualcuno che ti sta sempre accanto, ma non come vorresti tu. Qualcuno che ti vede soltanto come una sorella, un’amica fidata, una compagna di avventure…
Eppure, io invidiavo Hermione.
Lei, almeno, aveva qualcuno a cui piaceva realmente, una seconda scelta.
Quando mi ha mostrato la tua ultima lettera avrei voluto strappargliela dalle mani; volevo un briciolo di quell’amicizia che lei aveva e io no.
Poi è sparita, partita insieme ad Harry e mio fratello per chissà quale missione; nessuno sa più dove siano, né per dove siano passati. Sono come fantasmi, si muovono attorno a noi senza farsi vedere o sentire.
Ed io sono rimasta sola; completamente sola.
I primi giorni dopo il matrimonio fu terribile, non riuscivo a capacitarmi di non avere più loro al mio fianco, di avere perduto, forse per sempre, le uniche persone che realmente avevo amato.
Avevo bisogno di sentirmi vicina a qualcuno, di tornare a credere che prima o poi la solitudine sarebbe finita.
La tua lettera era ancora nella stanza dove Hermione aveva dormito, sotto il cuscino; nella fretta della fuga doveva essersene dimenticata, o forse non era potuta tornare a prenderla.
Sapevo che se non l’avesse portata con sé era lì che l’avrebbe lasciata, e in effetti è dove la trovai.
La lessi più volte, ad ogni rilettura mi pareva più bella, così intrisa d’affetto.
Sognai di essere Hermione. All’improvviso non desideravo più soltanto la tua amicizia, ma tutta la sua vita.
Volevo essere lei per non essere più me stessa, almeno per un po’.
Così ti ho scritto.
Tu mi hai risposto ed io ho capito che ce l’avevo fatta, ti avevo ingannato; così ho scritto di nuovo.”
La ragazza sembrava in trance, parlava in tono sempre più concitato, lo sguardo fisso davanti a sé; guardava il volto del compagno eppure non lo vedeva, persa nello sforzo di richiamare emozioni tanto a lungo taciute, nel dolore di ammetterle ad alta voce.
Viktor, nonostante fosse più alto di lei di almeno due spanne, sembrava intimidito e soverchiato dalla potenza di quella figuretta, tanto minuta quanto violenta, con uno  sguardo opaco e penetrante allo stesso tempo.
Tentò di inserirsi in quell’inquietante monologo: “Io pensava che te era Herr-mionni…ma io parlava con te?” chiese conferma titubante, trovando il coraggio di interrompere la ragazza.
Lei lo mise a fuoco per la prima volta dopo lunghi minuti: “Sì. Parlavi con me.
C’ero io in quelle lettere.
Dapprima mi sono finta Hermione, avevo bisogno che tu non ti insospettissi ed era divertente immaginare di vivere un’altra vita, così differente da quella reale.
So così tante cose di lei che si è rivelato semplice. Soprattutto, ne so molte di più di te. Ero avvantaggiata.
Ti ho rivelato segreti che forse lei avrebbe preferito tacere; è stata una piccola rivincita, mi sono sentita vagamente ripagata dell’essere stata lasciata qui.
Poi tutto questo ha iniziato a starmi stretto, non mi bastava più.
Volevo che tu conoscessi me, quella che sono davvero, i miei desideri e le mie paure.”
Gli occhi della ragazza si fecero lucidi, sembrava febbricitante.
“Ho lasciato che Hermione svanisse sempre di più dalle mie parole, per lasciare posto a Ginevra.
Dovevo stare attenta, è chiaro; non potevo certo parlarti dei miei fratelli o della mia casa, avresti intuito subito che qualcosa non andava. Mi sono limitata a parlarti dei miei sentimenti. Su quelli potevo permettermi di essere sincera.”
Il giovane osservava la strana ragazza che aveva di fronte con espressione indecifrabile: sembrava confuso, addolorato,  sorpreso, tutto allo stesso tempo.
Aveva immediatamente notato come capelli di lei fossero di un rosso incredibile, simili a lingue di fuoco; gli occhi avevano un colore liquido, che pareva a tratti torbido e a tratti cristallino. Occhi di chi vuole rivelare senza rivelarsi.
Mentre ascoltava rapito quel racconto surreale, aveva percepito una strana sensazione nel petto: un senso di calore, di familiarità; un moto di affetto verso quella ragazza bambina, così forte eppure così disperata.
Più lei parlava, più nelle sue parole gli sembrava di ritrovare la persona le cui lettere aveva atteso con tanta impazienza. Quel modo diretto di esprimersi, il tono perentorio delle frasi, tutto era parte della lei di carta che aveva imparato a conoscere in quel tempo; gli sembrava di ritrovare un amico che credeva di aver perso, o di mettere finalmente a fuoco qualcosa che fino a quel momento gli era solo sembrato di scorgere.
Forse non era importante quale fosse davvero il suo nome o se l’avesse ingannato: non aveva giurato a se stesso di rivelare i propri sentimenti alla persona che gli aveva donato i suoi?
Il peso ed il calore di mesi di confidenze, piccole schermaglie, affettuose riappacificazioni si fecero sempre più importanti, fino ad infondergli il coraggio necessario ad interromperla, avanzando e posandole un dito sulle labbra per farla tacere.
La ragazza spalancò di colpo gli occhi già grandi, che sembrarono inghiottire il viso lentigginoso. Lo osservava con timore e sospetto.
“Io non è proprio contento che tu inganato me. A me sempre piaciuta Herr-mioni, io molto sperato a lei finalmente piacere me.”
Le braccia del giovane pendevano lungo i fianchi, quasi a rimarcare il suo voler essere inoffensivo.
“Ma io in questi mesi crede che è inamorato. Io mi è inamorato di quello che te scrifefa, di tua vita, di tue abitudini. Anche se io pensava tu essere Herr-mionni, io non ha conosciuto dafero lei. Io ha conosciuto te. In fine, io è inamorato di te.”

Un tuono lontano ruppe il silenzio gravido di attesa.
Quella del giovane era l’ultima risposta che la ragazza si sarebbe aspettata.
Ogni volta che aveva permesso alla mente di ritrarre quell’incontro, questa aveva finito per prospettarle un epilogo malinconico in cui Viktor l’accusava, ferito e deluso, di averlo raggirato; l’unica conclusione che le sembrasse verosimile era il venire abbandonata sulla cima della collina dal giovane, lasciata ad osservare la sua schiena spiovente che si allontanava nella foschia.
Non aveva mai contemplato la possibilità che lui mettesse in secondo piano il suo tranello per lasciare spazio ai sentimenti, e forse era proprio per quello che aveva lasciato così spesso vagare il pensiero: voleva che lui la incolpasse ed evocasse ad alta voce tutto il male che aveva fatto; voleva finalmente poter rivendicare una colpa che era realmente sua.
In quel momento, di fronte al sorriso disarmante del ragazzo, non fu più certa di cosa ambisse davvero.
Per un lungo attimo Ginny immaginò una vita al fianco di Viktor: serate passate su una tribuna a guardarlo allenarsi, seguirlo in tutto il mondo durante la stagione del Quidditch, le abitudini che si vanno creando, la sicurezza di avere qualcuno al proprio fianco, la certezza che lui sarebbe rimasto per sempre con lei, se solo glielo avesse chiesto.
Se ne avesse avuto il coraggio. 
Per un secondo desiderò essere una persona che voleva davvero quella vita, che sarebbe stata capace di accontentarsi di lui.
Poi arrivò il disgusto, per se stessa e quella chimera miserevole.
Per mesi si era illusa, fermamente convinta che sarebbe stata in grado di accettare un simile destino pur di non rimanere sola, ma in quel momento si rese conto di quanto fosse stata sciocca: come aveva potuto pensare di sapersi accontentare di un’esistenza tiepida dopo essersi bruciata d’amore?
I segni che Harry aveva lasciato su di lei, in quelle poche settimane di idillio che erano state concesse loro, non potevano essere cancellati semplicemente voltando la testa dall’altra parte e chiudendo gli occhi. Era come se i sentimenti nati in quei giorni le avessero allargato il cuore: solo una passione altrettanto dirompente sarebbe riuscita a colmarlo, un semplice affetto o attrazione sarebbero stati soltanto capaci di stagnare sul fondo.
L’ammissione fu così dolorosa da deformarle il viso in una smorfia; ciò che sapeva da sempre, ma che si era rifiutata di accettare, era che per tutta la vita avrebbe desiderato soltanto Harry.
Come dire che sarebbe rimasta per sempre sola.
Spinta dall’orrore si lanciò fra le braccia del ragazzo, premendo con forza la bocca su quella di lui.
Era un bacio aggressivo e disperato, sperava che tutta la rabbia e la paura gli restassero attaccate addosso.
Se ne sarebbe accorto, non poteva non rendersi conto che era la sofferenza a spingerla, che nessun desiderio sincero covava dietro quella famelicità d’amore.
Fu con sconcerto che percepì le braccia possenti di lui avvolgerla con fare protettivo, accoglierla in una stretta delicata da cui, ne era certa, non l’avrebbe mai scacciata se lei non l’avesse costretto a farlo.
Le labbra di Viktor erano morbide e cedevoli sotto le sue, rispondevano con dolce entusiasmo alla sua furia, carezzandola.
Per un istante Ginny si chiese se non fosse proprio lì che era destinata a rimanere, se il destino non le stesse dando una reale possibilità di essere felice, di smettere di soffrire.
Dopotutto nessuno, a parte loro, avrebbe mai saputo del suo inganno; se Harry fosse mai tornato non sarebbe stato così egoista da voler distruggere la sua ritrovata stabilità; Hermione avrebbe senz’altro saputo perdonare. Di suo fratello Ron nemmeno si preoccupava, non aveva alcun diritto di discutere le sue decisioni.
Era così semplice: bastava lasciarsi baciare da Viktor, aspettare che la prendesse per mano e la portasse via. L’avrebbe salvata da così tante cose…
In fondo non era peggio di baciare Neville o Dean, bastava chiudere gli occhi; poteva concedersi di immaginare che fosse chiunque a stringerla in quel modo sicuro, con la padronanza di chi sente di conoscere tutto dell’altro. Poteva riuscirci.
Dov’era il problema quando non vedeva più quel naso adunco, quelle sopracciglia spioventi e cespugliose, le spalle pesanti che sembravano cadere in avanti?
Le mani che le scorrevano sui fianchi e sulla schiena non erano poi così differenti da altre mani che l’avevano accarezzata in passato, la stoffa pesante del mantello la proteggeva dal percepire la grana della pelle ed il calore.
Potevano essere mani sottili, dalle dita affusolate e il dorso solcato da insolite cicatrici in forma di parole; quelli che la sfioravano erano riccioli scuri e scomposti, le solleticavano la fronte intrecciandosi ai suoi capelli. Quel profumo di cielo di chi è appena sceso da un manico di scopa…Ginny era certa che quando avesse aperto gli occhi, avrebbe visto due iridi color smeraldo che la osservavano con amore.
All’improvviso il corpo che stringeva sembrò farsi piccolo e smilzo sotto il suo abbraccio, le pareva di ritrovare i profili ossuti che aveva imparato a conoscere così bene, gli spigoli appuntiti dei gomiti e le spalle magre, le ginocchia nodose che cozzavano con le sue, le mani esili che le ravvivavano i capelli dietro le orecchie come solo lui sapeva fare.
Un gemito soffocato le sfuggì dalle labbra; il suo nome, pronunciato con sollievo e dolore, si perse nel vento, non prima di aver sfiorato le orecchie del giovane scuro che la stringeva.
All’improvviso si trovò sola nell’erba, orfana del calore che quel corpo nerboruto le aveva donato fino ad un istante prima, due occhi neri come la pece che la fissavano ardenti.
“Cosa tu afere detto?”
La voce del giovane tradiva una consapevolezza che andava oltre sconcerto, che le provocava una fitta insopportabile nel petto.
“Cosa te sucedere? Non sta bene? Io capire se a te manca loro, tuoi amici.”
La malinconia che traspariva dal suo viso era dolorosa: lui sapeva, lo aveva capito fin dal primo istante.
Il destino di Viktor Krum era quello dell’eterno secondo.
La ragazza non poteva sopportare di essere stata scoperta, di venir rifiutata ancora: si tese verso di lui, le braccia che cercavano il suo corpo per aggrapparvisi, per trovare un riparo.
Doveva soltanto chiudere gli occhi ed immaginare, solo così avrebbe vissuto di nuovo quelle emozioni, le avrebbe sentite vive e reali nelle sue vene.
Il giovane arretrò di un passo, bloccandole i polsi in una presa delicata ma irremovibile.
“Aspetta. Io vuole sapere cosa tu dafero profa per me. Io vuole sapere se te innamorata. In verità.”
Ginny aprì gli occhi: infine stava succedendo ancora una volta, il ragazzo che aveva di fronte la stava rifiutando.
All’improvviso si trovò accecata da un’ondata di rabbia e frustrazione: ora che aveva trovato una cura a tutti i suoi mali lui voleva impedirle di averne ancora.
Trasse un respiro profondo e gridò, le viscere che si attorcigliavano intorno a quelle parole per impedir loro di uscire:”Sì, Viktor, sì! Sono innamorata!”
Il pianto iniziò a sgorgare senza che lei potesse fermarlo, lacrime bollenti rotolavano lungo il suo viso per poi perdersi nel colletto del mantello;  si abbandonò a peso morto dalle mani di lui, le ginocchia che sfioravano la terra impregnata di pioggia.
Era stata così sciocca: aveva creduto di ingannare lui, ma non aveva fatto altro che ingannare se stessa.
La pena infinita che provava per se stessa da mesi di riversò fuori in un pianto disperato che la scuoteva tutta, come una marionetta.
Il giovane, stupito da quella reazione drammatica, la rimise gentilmente in piedi, trattenendo le mani fra le sue per sorreggerla.
La ragazza, travolta dalle emozioni troppo a lungo imbrigliate, strappò le dita dalla sua presa ed arretrò febbrilmente: “Vai via! Vai via, non voglio più vederti, vai via!” gridava singhiozzando, mentre si allontanava da lui stringendosi le braccia intorno al busto, cercando di trattenere il male che la squassava da dentro e rischiava di mandarla in frantumi.
Viktor non si arrese, continuò ad avanzare, le braccia protese verso di lei.
“Aspetta. Noi posiamo parlare…”
Ginny si trovò quasi a correre all’indietro, annaspando parole e scivolando nell’erba limacciosa. Si sentiva incapace di pensare, il cervello invaso da un desiderio di fuga così potente da renderle impossibile respirare.
Il giovane scattò in avanti, cercando di afferrarla prima che cadesse a terra dopo l’ennesima scivolata; non gli diede il tempo di pronunciare neppure una parola: in un istante sguainò la bacchetta e scagliò un Sortilegio Scudo a dividerli, una barriera impenetrabile fra di loro.
L’energia con cui l’incantesimo esplose fece barcollare entrambi, ora più distanti di quanto non fossero mai stati prima ancora di incontrarsi.
Fu lei a parlare: “Vattene e lasciami andare. Ho sbagliato, non voglio più vederti o sentirti, mai più. Brucia tutte le lettere che ti ho spedito in questi mesi, non raccontare mai a nessuno cosa è successo.” vomitò addosso al giovane, cercando di ignorare le fitte al costato che il pianto convulso le infliggeva.
Viktor non accennava ad arrendersi, saggiava l’ostacolo con i suoi poteri in cerca di una falla o di un passaggio, desideroso di avvicinarsi.
“Viktor, ti prego…” si trovò ad implorare lei con un filo di voce, lacrime sfuggite al controllo che si inseguivano lungo il suo viso “Lasciami stare…ho sbagliato, ho fatto un errore terribile, ti chiedo perdono…ma non posso farcela, non posso…”
Il sortilegio tremò per un istante prima di infrangersi, svanendo in una cortina luminosa. La forza di lei venne meno, lasciandola inginocchiata nell’erba elastica; il giovane fece qualche passo in avanti senza avvicinarsi troppo, come se si trovasse di fronte ad una creatura selvatica.
“Che cosa tu afere?” le chiese, ferito nel cuore e nell’orgoglio, gli occhi fondi e lucidi come ossidiana.
“Non ce la faccio Viktor…io volevo qualcosa, qualcuno…ma non è vero, voglio lui, lui soltanto. E non posso averlo…”
Nel momento in cui pronunciò quelle parole sapeva di aver distrutto tutto; nessuno poteva essere così disperato da volerla pur sapendo che lei desiderava un altro.
Non c’era cura a quel male che era se stessa.
Vide la rassegnazione farsi strada sul viso di lui, insinuarsi nelle pieghe di quel viso accartocciato dal dolore.
Lo guardò voltarsi, sconfitto, e allontanarsi nella prateria grigia, le spalle ancora più curve del solito, come se trasportasse il peso di un qualcosa di opprimente.
Non poteva lasciare che vivesse nel ricordo della delusione, non se lo meritava; la rabbia e la solitudine erano soltanto sue, spettava a lei portarne il peso.
Doveva rimediare, prima che fosse troppo tardi.
Tese la bacchetta davanti a sé, gravosa nella mano pallida e tremante.
Si lasciò sfuggire solo un sussurro, mentre l’incanto azzurrino si tendeva fra di loro:
“Oblivion…”

  
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