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Autore: Blue_Rainbow592    28/03/2020    0 recensioni
Tanti millenni or sono, Unilia madre di tutti gli dei, creò dalla Luce da cui era stata generata, la Terra, la plasmò in modo che le montagne s'innalzassero verso le nuvole con le loro teste canute, che i fiumi scorressero impetuosi come il sangue nelle vene, che l'erba fosse rigogliosa e di un verde così ricco da sembrare smeraldo, che le foreste fossero piene di ogni albero di ogni forma e grandezza, che le colline si innalzassero come dolci rigonfiamenti della terra stessa, che i deserti fossero delle magnifiche distese di sabbia arancio scuro, ricche di oasi sotto cui far riposare i cammelli ormai stanchi e che i mari fossero privi di tempeste. Finita la propria opera, Unilia piantò quattro alberi sacri, uno per ogni punto cardinale e li mise a guardia della propria creatura
Genere: Avventura, Dark, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 1

Akasha


Ogni cosa era avvolta da una tenue luce bluastra. Il fragore dell'acqua riempiva ogni angolo della grotta. Le stalattiti scendevano dal soffitto fino a toccare il pavimento, incrociandosi tra di loro fino a formare delle vere e proprie ragnatele di roccia. Da un foro sulla volta riusciva ad entrare un raggio di sole solitario che illuminava i petali dei fiori. Dei piccoli insetti dalle zampe rese arancioni dal polline, danzavano attorno alla vegetazione rigogliosa. Al centro della grotta in cui sorgeva la città, s'innalzavano le radici dell'Acero di Unilia, l'albero più vecchio di tutta Un. Neppure la foresta aveva tutti i suoi anni. Lui era stato il primo albero a mettere radici sulla terra della dea e sarebbe stato l'ultimo a morire. Morto lui, ogni cosa sarebbe andata in fiamme e Unilia sarebbe morta assieme a tutte le sue creature. Per questo motivo, il casato Lajer era stato incaricato dalla dea stessa di proteggere le radici dell'Albero a qualsiasi costo.

Poco distanti dalle radici dell'Acero dei vermi giganti dalla pelle blu scuro, affamati e rallentati dal lungo sonno, lanciavano i loro lamenti verso il fazzoletto di cielo che s'intravvedeva dal punto in cui si trovavano. 

Tra quelle mura di roccia e legno una ragazza aprì lentamente le palpebre pallide, osservando la propria dimora. Era nata e cresciuta in quel luogo. Non era mai uscita, in realtà erano secoli che nessuno usciva e che nessuno entrava. L'esterno, con ogni probabilità, li dava per scomparsi, estinti come un animale dalle carni pregiate che viene cacciato fino a che i morti divengono più dei nati o come una pianta che viene attaccata da un'altra fino ad esserne fagocitata. Gli unici abitanti dell'esterno che erano sicuri dell'esistenza del popolo eletto dalla dea erano le contesse, le quali avevano qualche contatto sporadico con colei che governava il sottosuolo, mentre gli altri elfi erano così lontani da loro da non saper neppure descrivere un appartenente alla stirpe di Lajer il Magnifico. Coloro che stavano al di fuori della grotta di Grimstirit erano solo i soggetti dello scherno di alcuni anziani che si divertivano a dare a loro qualche nomignolo, ma niente di più. L'esterno non parlava dei Lajer e i Lajer non parlavano dell'esterno, eppure quel fazzoletto di cielo ricordava a tutti loro che un tempo anche loro avevano abitato sotto alle stelle, che avevano corso sotto alla pioggia alla ricerca di un riparo e che avevano gioito di una giornata di sole dopo una lunghissima tempesta. 

Respirò a pieni polmoni l'aria che fischiava tra le stalattiti, creando un canto che si accordava alla perfezione con l'onnipresente ruggito delle cascate. Il vento s'insinuava tra i suoi capelli, facendo danzare le centinaia di trecce candide e spandendo il tintinnio dei gioielli e delle pietre intrecciati ad essi. Si concentrò sulla sensazione che sentiva sulla pelle ogni volta che il soffio vitale di Un l'accarezzava come un amante. I muscoli della schiena si tesero, mentre le ali si aprivano facendo cadere nel vuoto alcune piume grigiastre. Fece un passo in avanti e sentì il vuoto avvolgerle lo stomaco, la gravità iniziò a spingerla verso il basso. D'un tratto, le ali si tesero per frenare la caduta e lei iniziò a piroettare tra le correnti. Amava volare, sentire i muscoli lavorare in perfetta sincronia per far sì che i suoi movimenti si bilanciassero anche con l'aiuto del vento, sentire l'adrenalina scuoterle il corpo come una foglia e allo stesso tempo farla gridare di gioia. Ogni volta che apriva le ali e si lanciava nel vuoto, danzava con l'aria, danzava con Unilia stessa in un walzer molto più intimo di qualsiasi altro ballo mai danzato da qualsiasi coppia di ballerini. Riusciva a sentire il legame ancestrale che intercorreva tra la terra e coloro che discendevano da Lajer, farsi più forte.

Volò sfiorando con le dita la superficie liquida del lago attorno a cui si arrampicava la città e in cui si gettavano le cascate che scendevano dalla fessura sul soffitto. Osservò l'acqua lanciare alti spruzzi verso di lei, bagnandole i vestiti di pelle e il viso reso pallido dalla scarsa esposizione alla luce del sole. Volteggiò più e più volte, riprendendo quota, e si diresse verso i vermi dell'allevamento del padre. Come ogni mattina, diede a loro il cibo che serviva per sfamarli per tutto il giorno, poi salì verso la superficie rocciosa. Arrivata a un metro dall'unica porta verso l'esterno, chiuse gli occhi e smise di muovere le ali. Cadde verso il basso. Il vuoto la stava abbracciando, la morte la chiamava, però prima di schiantarsi al suolo tornò a sbattere le ali. Il brivido, era quello che le piaceva. Adorava sentire il proprio corpo ribellarsi all'estremo atto, adorava sentire l'oscurità della morte venir sconfitta dalla forza dell'istinto di sopravvivenza: - Buongiorno. - esclamò volando tra le vie della città. Coloro che venivano travolti dal vento che alzava il movimento delle sue ali, brontolavano, mentre i bambini correvano sotto di lei ridendo e tentando si alzarsi in volo, ma erano ancora troppo deboli per poter alzare il peso dei propri corpi. La loro stirpe era l'unica ad essere in grado di volare, gli unici con il privilegio di poter danzare con Unilia e di poter connettersi con gli alberi.
 
Si diresse verso le radici dell'Acero. Erano magnifiche, uscivano dalle acque del lago e andavano ad intrecciarsi tra di loro salendo verso l'alto e andando ad immergersi nella roccia per poi uscire alla luce del sole. Il loro colore, a causa del muschio era blu fosforescente e la resina colava a piccole gocce in una pioggia giallastra sotto cui passeggiavano gli anziani e i malati per trovare un po' di conforto dai dolori della vecchiaia o dalle pene della malattia. 

Sedutasi su una delle radici, accarezzò lentamente il legno, sentendo l'Albero connettersi con lei. Nelle sue orecchie iniziò a risuonare un canto. Era magnifico, potente, capace di scorrere nelle vene di chi lo ascoltava, cantava della vita e della fine di Un. Si ritrovò a canticchiare a bassa voce una melodia a lei ignota.

Fischia il vento nella landa dei sogni,
Canta l'elfo che tutto creò.                       
Non aver paura, Un non cadrà.                  
Scorre il fiume dove l'eroe pianse.            
La guerra urla come dei tuoni.             
Non aver paura! Nessuno  a prenderti verrà. 
L'eco della grotta rimbomba,         
Urla il soldato che cadere dovrà    


Un movimento al margine del suo campo visivo la costrinse a troncare il legame che aveva appena instaurato con l'Albero e a voltarsi di scatto. Non c'era nulla dietro di lei, eppure era sicura di aver visto un'ombra. Si guardò attorno più e più volte, sentendo uno scricchiolio. D'un tratto, lo vide. Era un cucciolo di verme gigante che mangiava il muschio cresciuto sotto alle radici: - Mi hai spaventata, piccolino. - rise avvicinandosi alla creatura. Non faceva parte del gregge del padre della giovane donna, quello era troppo chiaro, allora chi aveva smarrito un cucciolo? Pochi erano gli allevatori di Grimstirit e quei pochi non avevano festeggiato la nascita di un nuovo nato. Si chinò verso la creatura e le sfiorò la schiena viscida: - Non lo fare più. - lo rimproverò cogliendo un fiore da dargli. Mentre lo osservava nutrirsi, tornò a cantare a bassa voce.

Sogna la dea che tutto vede.
Nulla vincerlo potrà.
Non aver paura! Nessuno verrà.
Cavalca il guerriero disertore.
La sua armatura splende nel ciel.
Fuggi! Prima che venga per te.


La sua voce si spense lentamente. Nella sua mente iniziarono a delinearsi delle immagini. Vedeva un soldato cavalcare un destriero dal manto splendente. La sua armatura brillava alla luce della luna, mentre la sua spada era alzata verso la notte stellata. Era bello e fiero come solo i soldati delle leggende erano. La sua mente fu avvolta dall'eco del corno di battaglia del soldato. Mentre quel suono la stordiva, un dolore lancinante la costrinse a tornare nel mondo reale. Puntò lo sguardo sulla gamba. Un rivolo di sangue colava da una lacerazione. Il verme era poco distante da lei con in bocca un brandello di carne che continuava a masticare tranquillamente, quasi come se nulla fosse. Era cambiato, la sua pelle era diventata violacea, mentre i suoi occhi erano iniettati di sangue. Rimase immobile, scioccata da quello che stava guardando. L'animale le soffiò contro, saltandole addosso. Non era più lento come erano di suoi simili. D'istinto, prese un sasso e lo lanciò contro l'animale. Quello colpito al ventre, precipitò verso il basso andando a crollare a picco tra le onde del lago. 

La ferita, intanto, bruciava come se un fuoco le stesse consumando le carni dall'interno. Strinse i denti e si alzò lentamente, aprendo le ali. Si diresse verso la propria casa. Non appena fu a terra, crollò gridando di dolore: - Figlia mia! - esclamò una voce femminile. Cercò di comprendere chi fosse, ma la sua mente era ormai offuscata dal dolore: - Madre? - mormorò, stordita. La donna corse in suo soccorso, premendo sulla ferita: - Lothor, vieni! - urlò la donna, richiamando l'attenzione del marito impegnato con un gregge che pascolava poco distante: - Akasha è ferita! - esclamò la donna: - Cos'è successo? - chiese il padre prendendola in braccio. Oltre ad essere uno dei pochi allevatori, Lothor era pure uno dei guaritori migliori della città. Molti erano sicuri che le sue abilità fossero migliori di quelle degli Entaia: - Mi ha morso... un cucciolo. - ansimò, tremando dal dolore. L'ultima cosa che ricordò fu il volto della madre, poi il buio l'avvolse.

Aprì lentamente gli occhi. Il mondo brillava di una luce così forte da ferirle gli occhi abituati al buio. Era sotto ai raggi dei due astri che brillavano nel cielo di Un. "Dove mi trovo?" pensò coprendosi gli occhi con una mano. Avanzò incerta, mentre la sabbia del deserto le entrava nei sandali. Era completamente sola, eppure aveva la sensazione di essere seguita da qualcosa. Si voltò e vide se stessa voltarsi cento volte, verso altre cento creature identiche a lei, in un fruscio di ali così potente da assordarla: - Dove mi trovo? - domandò e quelle domandarono a loro volta. Fece un passo avanti e quelle la imitarono. D'un tratto, tutte quelle rappresentazioni di lei sparirono, andando in fumo, sostituite da un'unica Akasha seduta a terra che piangeva. Si avvicinò piano per non attirare l'attenzione di nessuno e così vide la scena. Erano in tre, una era una ragazza molto giovane dai lunghi capelli color rame legati in una treccia laterale, con addosso delle vesti pregiate. Se ne stava in piedi con una mano sulla bocca e l'altra tesa verso il basso, dove Akasha era china con un soldato dai lunghi capelli neri tra le braccia. Gli stava premendo la mano su una ferita che sanguinava copiosamente macchiando la sabbia. Si ritrovò a partecipare a quella scena in prima persona e al dolore che provava quella rappresentazione di sé. Il suo cuore sembrava sul punto di spezzarsi più e più volte. Non riusciva a respirare, il dolore era troppo forte, gli occhi le bruciavano e una lacrima solitaria le rigava il volto: - No. - urlò assieme agli altri. Tutto fu inghiottito da una luce violacea: - Unilia ti ha scelto, giovane elfa. - tuonò una voce. Cercò la fonte di quel suono, senza trovare nulla se non buio: - Per cosa? - domandò. L'oscurità sembrò muoversi, costringendola a girarsi su se stessa: - Per salvare Un. - fu l'ultima cosa che sentì prima di essere di nuovo avvolta dalla luce. 

Dischiuse le palpebre. Era nel proprio letto. Si rilassò, sentendo un peso all'altezza del petto. Alzò il capo e si ritrovò abbracciata alla sorella minore. Le accarezzò la schiena. "Quanto avrò dormito? " si chiese ripensando alla visione. Sentiva ancora la sofferenza che aveva provato di fronte all'agonia dipinta nel volto del soldato. Chi era? Perché si sentiva come se avesse perso una parte di sé? Richiuse gli occhi pensando e ripensando ancora. Cos'era successo al verme? Non attaccavano mai, anzi, erano i primi a fuggire di fronte ad un estraneo. Non poteva essere un atto voluto e poi perché la sua pelle era diventata viola dopo aver mangiato quel fiore? Nessun animale delle grotte era di quel colore, di solito la loro pelle tendeva sempre verso il blu, oppure verso il bianco, ma mai viola. " Per salvare Un." quelle tre parole le tornarono alla mente come un fulmine a ciel sereno. Doveva salvare Un, ma da cosa? Non sapeva nulla della superficie e nel sottosuolo tutto era identico da secoli. Tornò a concentrarsi sulla sorella: - Akasha, ti sei svegliata! - esclamò quella con la voce ancora impastata dal sonno: - Finalmente sì. - le sorrise, sentendo la porta della stanza aprirsi: - Thabita, scendi! - le ordinò il padre prendendola in braccio. La bimba cercò di divincolarsi, ma poi si arrese, lasciandosi portare fuori dalla stanza.
Rimasto solo con Akasha, l'uomo si sedette ai piedi del letto: - Vorrei sapere come hai fatto a ferirti, parlavi di un cucciolo o di una cosa simile. - esordì quello, senza fare troppi giri di parole. La ragazza si sedette, sentendo le ali scricchiolare: - Ero seduta sulle radici dell'Acero, stavo cantando quando ho visto un cucciolo . Gli ho dato uno di quei... fiori che amano tanto, quelli verdi, grandi quanto un pugno. Non è successo nulla finché non mi sono distratta. Ho distolto lo sguardo per un secondo e il cucciolo era mutato: gli erano apparse delle strane striature viola e i suoi occhi... erano accesi da una collera infinita. Mi ha morso la gamba come se volesse sbranarmi pezzo per pezzo... e io... l'ho ucciso è stato inevitabile: o io o lui. Però sono sicura che c'era qualcosa che non andava in quella creatura. - raccontò. L'uomo si passò una mano tra i pochi capelli che gli ricoprivano il cranio pallido: non c'erano precedenti ad un comportamento simile, però a volte con gli animali potevano capitare delle cose imprevedibili: - Sarà stato un caso isolato. La cosa buona è che tu stia bene. - provò a rassicurarla, anche se neppure lui era convinto di ciò che stava dicendo. 
Gli posò una mano sulla spalla e sorrise, rassicurante: - Ho bisogno di riposarmi ancora qualche ora, ne parleremo più avanti. - gli disse. Sola e nel silenzio della propria stanza, tornò a rimuginare. I Vermi amavano i fiori, in particolare quelli che crescevano sotto le radici dell'Acero, molti avevano tentato di fare delle congetture su quel fatto, ad esempio, che i fiori fossero un tramite grazie al quale gli animali si potevano congiungere ad Unilia stessa, mentre altri avevano semplicemente supposto che questi fossero gli unici che dessero abbastanza energia ai vermi, tuttavia, mai e poi mai si era sentito parlare di fiori che rendessero quelle creature dall'indole pacifica aggressive. Doveva tornare in quel luogo e scoprire il perché. 

Si scoprì la gamba: suo padre l'aveva ricucita e poi fasciata con delle bende imbevute in una specie di gelatina verdastra e dall'odore pungente. Con l'aiuto delle mani, riuscì a posare il piede a terra. Fece leva con le braccia e si mise in piedi, anche se la testa le girava vorticosamente. Aspettò qualche secondo, in modo che la testa smettesse di girare, e provò a fare il primo passo. Il dolore era forte, ma sopportabile. Zoppicò lentamente fino alla finestra e l'aprì. Era abbastanza grande da permetterle di uscire senza far troppa fatica, però era in alto. Si arrampicò cercando di non gridare dal dolore, finché non riuscì a sedersi sul davanzale. La sua stanza si affacciava sulle cascate, il luogo sacro in cui i Lajer lasciavano andare i corpi di coloro che morivano. Come un cadavere, si gettò verso le acque vorticose, ma ancor prima di vedere il fondo dello strapiombo, spalancò le ali, mentre il vento fece il resto. 

Volò per qualche minuto attorno alla casa per accertarsi di essere in grado di allontanarsi senza rischiare la vita. Sicura di poter arrivare fino alle radici, si diresse proprio verso l'Albero. Tornò a sedersi sulla radice in cui era stata attaccata ed osservò meglio i fiori che crescevano nella zona. I petali erano striati di quella strana sfumatura violacea. Allungò una mano verso uno di essi... D'un tratto il mondo che la circondava sembrò andare in frantumi. L'Albero scomparve: - Bambina mia, perché non mi ascolti? - la rimproverò una voce vecchia come Un stessa. Cercò la fonte di quel suono, sperando di trovare la bocca dalla quale erano uscite quelle parole, ma non vide altro che buio: - Chi sei? - chiese, aggrottando le sopracciglia: - Io sono Un e tu mi devi salvare. - fu la risposta secca dell'entità: - Da cosa? - domandò la giovane donna. Il vento soffiò tra le sue ali, spostando leggermente le piume che andarono a solleticarle il collo. Fu costretta a voltarsi di nuovo e vide due occhi blu illuminare il buio di quella visione: - Dalla morte. - una luce malinconica illuminò per un attimo quelle due iridi così magnifiche. Gli occhi di Un erano così belli da farla perdere in quel mare color cobalto e zaffiro, però nel profondo di quell'oceano c'era pure una piccola macchia, così piccola da non essere visibile ad occhio nudo, di un viola cupo, pulsante e pronto ad inghiottire il blu: - Bambina, ora tocca a te salvare chi ti ha generato. - furono le ultime parole che sentì prima di tornare in sé. 

La prima cosa che percepì delle grotte fu un lieve dondolio, poi di nuovo il tenue bagliore bluastro che illuminava ogni cosa. Alzò lo sguardo. Urlò dal terrore: stava penzolando con la gamba sana stretta alla radice e l'altra che pulsava dal dolore, abbandonata nel vuoto assieme al resto del corpo: - Aiuto! - gridò cercando di tirarsi su, ma senza riuscirci, anzi, scivolando sempre di più, strappando i punti di sutura e le bende: - Unilia, aiutami! - mormorò lasciandosi andare. Rotolò per qualche metro, andando a sbattere contro al muro di pietra di una piccola casetta: - Cosa ci facevi attaccata alla radice, ragazzina? - tuonò una voce femminile. Cercò di parlare, ma nei suoi polmoni non c'era abbastanza aria per muovere le corde vocali. Tentò di prendere un respiro profondo, ma il dolore la fece bloccare. Prese la donna per le spalle, senza neppure guardarla in volto e dopo qualche minuto disse: - Ho... parlato... con... Un. -

   
 
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