Storie originali > Introspettivo
Segui la storia  |       
Autore: Estel_naMar    05/04/2020    15 recensioni
Esiste qualcosa di più affascinante degli individui? E qualcosa di più originale e coraggioso della loro quotidianità? Mi chiamo Abigail e vi presenterò delle persone, degli istanti delle loro vite cristallizzati in un peculiare infinito.
Le ho incontrate per strada, nell'attesa della metro, sulla terrazza di un albergo, lungo un viale alberato e in mezzo alla natura. Le ho incontrate per caso e loro, in preda a una gentilezza inconscia, mi hanno ceduto una parte delle narrazioni che li riguardavano e li abitavano: a me non resta che fare altrettanto e condividerle con ognuno di voi.
Mi chiamo Abigail e questi sono solo dei racconti sull'eccezionale ordinarietà di una vita qualunque come potrebbe essere la tua, la mia o la nostra.
Mi chiamo Abigail e queste sono le narrazioni che mi hanno sconvolto e rivoluzionato l'esistenza.
✠ Il capitolo "Max e Annie" è vincitore del contest "Attraverso i tuoi occhi (II edizione)" indetto da Milla4 sul forum di EFP
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

LOOK AT ME!

Stavolta le note saranno prima del racconto, ritengo, infatti, siano necessarie alcune specificazioni.

EDIT: Innanzitutto, ho cambiato il raiting della raccolta in ARANCIONE perché si parla di disturbo del comportamento alimentare, in particolare in relazione all'obesità e, solo marginalmente, alla bulimia e all'anoressia.

Non ci sono dettagli particolarmente approfonditi rispetto ai modi attraverso cui si può affrontare e vivere tale condizione, ma credo fosse giusto fare questa specifica, visto che può comunque minare in qualche modo la serenità di coloro che sono più sensibili alle tematiche trattate - essendo che tutto ciò che è descritto credo sia assolutamente realistico.

Per rispetto di tutti, dunque, era giusto così.

 

Ho trattato un tema che, per una serie di motivi disparati, mi sta a cuore, spero di averlo espresso con la profondità e la complessità che merita.

Questo racconto è differente: è uno dei due effettivamente più introspettivi, ed è privo di dialoghi.

Ho voluto scriverlo perché recentemente mi sono imbattuta nel tema dell’“Identità corporea” ed ho voluto, dopo tutte quelle nuove conoscenze apprese, immaginarlo in un modo più reale e tangibile – rispetto a come viene spiegato in manuali, saggi o paper. 

Nel caso in cui qualcuno volesse approfondire il tema, ci sono una serie di saggi, nella corrente dell’Interazionismo Simbolico, che ritengo essere non solo molto interessanti, ma anche necessari per capire quanto sia profondo il legame tra la costruzione dell’identità personale e “l’altro da noi” e quanto un individuo e la sua socialità siano all’interno di un’interazione e un’influenza continua.
  Spero apprezziate questo scritto nella sua diversità.

 

Oltre ciò, volevo davvero ringraziare tutti coloro che sono passati da qua, che hanno lasciato una recensione, messo la raccolta tra le seguite, ricordate o preferite o chi semplicemente ha letto. Mi scaldate il cuore.

Spero di riuscire, prima o poi, a rispondere ad ognuno di voi, ad ora sto avendo difficoltà a farlo, motivo per cui sto scrivendo qua: grazie, grazie davvero.

 

Un altro ringraziamento speciale agli Offlaga Disco Pax e Max Collini, che con le sue parole mi ha stimolata nella stesura e revisione di quanto trovate sotto.

 

 

 

 

 

YASHAL

 

 

 

A te,

 perché non ti sei mai apprezzata abbastanza.

A te,

perché finalmente tu possa capire di andare bene, 

anche così,

anche sempre.

 

 

Estel: il nome che, secondo quanto narrato dal maestro Tolkien, gli elfi di Gran Burrone diedero ad Aragorn, ultimo legittimo erede di Isildur. Lo chiamarono Estel, che nell’antico elfico significava Speranza, l’unica rimastagli al fine di sconfiggere il signore del male di Mordor. 

Oggi vi presento Yashal, figlia del sole e amante della vita. Oggi, come ieri, come sempre, la speranza vive in lei: colonna portante di se stessa, luce in un'esistenza intera. Oggi vi presento Yashal e questo sarà un manifesto e una denuncia del suo vissuto, oltreché il più grande augurio che posso porgerle.

Esso non ha esplicite pretese, è unicamente la vana rappresentazione di quello che ha appreso, incanalato e fatto suo; è la rappresentazione di ciò che ha sempre sentito di essere, di quello che è e di quello che cerca di diventare. 

 

 

 

            Ebbene, vi è mai capitato di sentirvi bloccati? Di desiderare di uscire dai propri schemi? Di cercare risposte alternative alle medesime persistenti, insistenti e disarmanti domande? Vi è mai capitato di provare con tutta la forza e la volontà di cui disponete ad affacciarvi ad una finestra, al decimo piano di un palazzo, e lì provare a guardare in giù, e in lungo e largo, al solo ed unico scopo di godere del panorama nonostante le vertigini che da sempre vi affliggono, e, malgrado ciò, restare bloccati ben lontani dal vetro? Troppo distanti per ammirare, troppo vicini per non avvertire il pericolo e per non sentirvi al sicuro? Sono sicura di sì: d’altronde, in quanto individui, ognuno si sarà, almeno una volta nella vita, precluso una possibilità a causa del timore di ciò che sarebbe stato probabile incontrare al di là di quel vetro.

Ma è più che questo, vero?

 

Già. 

 

Pensate a questo, e poi elevatelo alla potenza, elevatelo al numero più alto che conoscente. E ripetetelo una volta ed una volta ancora. Ripetetelo. Ripetetelo. Ripetetelo. Ripetetelo.

Ripetetelo finché quel timore non sarà scomparso; ripetetelo finché quel desiderio non sarà scomparso, o quella forza, o quella volontà… o semplicemente il ricordo di tutto questo. Ripetetelo finché non avrete unicamente assimilato il gesto di ritrarvi e dimenticato ogni altra eventualità e sarete troppo chiusi, troppo distanti da tutto il mondo che si apre intorno a voi per poter compiere una qualsiasi azione che abbia come direzione la vostra serenità. 

Questo è, espresso malamente, ciò che Yashal ha lasciato le accadesse. 

E a chi poteva attribuirne la colpa? A se stessa? Alla società? Alle persone che ha incontrato? Alle esperienze che ha vissuto? Ai principi masochisti che governano questo mondo? È difficile. È sempre troppo difficile.

 

 

 

            Le scuole medie erano quel luogo meraviglioso in cui la propria esistenza, in modo o nell’altro, avrebbe necessariamente e indiscutibilmente preso una svolta. 

In qualche modo, Yashal, a ripensarci adesso, aveva il sentore di aver dimenticato ogni tipo di emozione o sensazione provata in quel periodo, come se non fossero mai appartenute a lei, ma non la memoria del fatto che qualcosa, in ogni caso, ci sia stato. E quelle emozioni sono lì, stampate nella sua mente, proprio come un film, proprio come se le guardasse dall’esterno, proprio come se fossero state vissute da qualcun altro; ma non era qualcun altro: era lei. 

Quello che oggi le balena in testa è esattamente il ricordo di quel fremito, quel misto di eccitazione ed agitazione legato al fatto che finalmente lei ed i suoi amici iniziavano a diventare grandi. 

 

Il colore del suo primo anno alle scuole medie era sicuramente un giallo. Un giallo per la vividezza, per la voglia di esprimersi e di voler intraprendere un nuovo percorso, nell’inconscia consapevolezza che irrimediabilmente ne sarebbe stata mutata.

Le prime cotte per quelli che erano ancora bambini come ancora era lei; gli smalti, l’ombretto, il rossetto… era solo la più classica delle ragazzine. Eppure, le medie erano anche gli anni della ribellione, delle scoperte, delle sigarette, del punk. Tutto era così impetuosamente e voracemente punk, senza che nessuno sapesse cosa punk volesse significare. 

Ci sono state tante nuove esperienze in quegli anni, così delicati e particolari, chissà quante cose le sarebbero potute andare diversamente.

 

Ma torniamo a noi: questo sarà il suo manifesto. 

Un manifesto per lei stessa e per tutti coloro che si sono sentiti allo stesso modo, non perché lo volessero, non perché ci si sentissero, ma solo perché qualcuno aveva calato su ognuno di essi dei significati che non gli appartenevano, ma che gli sono appartenuti.

Questa è la mia denuncia, il mio invito e la mia più grande speranza, Estel… per tutti quelli che non erano abbastanza forti o che avevano dovuto impiegare le loro forze in altro; per quelli che, così facendo, si sono lasciati sfuggire dei dettagli che non ritenevano sufficientemente rilevanti e che, malgrado ciò, col passare degli anni, sono diventati il tutto.

 

            

 

            Yashal ricorda ancora perfettamente quella volta, quando ancora era in prima media, in cui entrò in camera dei suoi genitori e, quasi per curiosità, salì su quell’artificio definito bilancia. Segnava circa cinquantacinque chili. Ebbene, a quanto pare, una ragazzina di undici anni non poteva pesare così tanto a una così ridotta età, le spiegò suo padre quella volta. Non contava il nuovo sport che aveva appena iniziato a fare e che stava modificando la sua muscolatura, o il fatto che di lì a un anno sarebbe alzata di ben dieci centimetri e che, sempre nello stesso arco di tempo, avrebbe avuto la prima mestruazione – e, quindi, un radicale cambiamento nel suo metabolismo.

 

Ma forse sono solo scuse, forse sono sempre e solo scuse, queste. Magari è vero, che non era normale. Ma normale per chi, poi? Per cosa? Ah, sì… i canoni. 

Quei canoni a cui, in quanto individui, ognuno deve sottostare; quei canoni che, creati non si sa bene in quale modo o da chi – la maggioranza, la massa, la società –, inevitabilmente governano ciascun essere umano; quei canoni che ognuno deve silenziosamente subire e soddisfare.

Gli stessi canoni che eliminano tutto ciò che fuoriesce dai propri limiti e lo isolano; lo ostracizzano in malo modo, lo stigmatizzano… e non chiedono mai scusa. 

E noi, poveri pazzi, semplicemente li lasciamo fare; non ci opponiamo, non li rifiutiamo. Questo è il peggior errore che un essere umano possa ritrovarsi a compiere e ne siamo pure consapevoli – ne siamo ben consapevoli –, ma nonostante ciò continuiamo a commetterlo ancora, e ancora, e ancora.

 

In ogni caso no: non fu quell’uscita ad incatenarla infelicemente a tutti i suoi “perché?”; bensì, furono tutte quelle successive proveniente da varie persone che si era ritrovata ad avere intorno.

Come scusa? C’è bisogno di maggior contesto?

Assolutamente, ritengo sia necessario.

 

 

 

            Yashal era in seconda media, circa a metà anno. Era un po’ che le cose non le andavano esattamente nel migliore dei modi e si era pure illusa che ci fosse la vaga possibilità di risolverle. 

Non fu così: i suoi genitori presero la scelta più saggia che potessero prendere due esseri umani. Il loro rapporto era terminato, il loro matrimonio finito, restavano solo loro. 

No, non fu neanche questo a bloccarla. Li odiò, forse, incapace di capirli, per molto tempo. Poi finalmente comprese: era la cosa migliore che potessero fare, nonché l’unica con senso logico e cognizione, dopo esser giunti alla consapevolezza che non esisteva rimedio alle loro divergenze.

 

Il mondo non sempre era bello e poteva far male, e ferire; fu la prima volta che se ne accorse. Però, in senso lato, andava bene così: non era un problema, non era mai stato un problema.

Magari fu l’istinto di sopravvivenza, quell’istinto a cui vengono affibbiati tutti quei comportamenti che si ha paura di spiegare: forse aveva canalizzato tutto ciò che poteva trovare dentro sé verso un unico scopo – quello di proteggerla dal dolore – al fine di smettere di odiare la vita e le persone; per mantenere sempre viva quella fiamma di speranza che, ormai fievole, sentiva ardere solo debolmente in sé. Ritenne che fosse più proficuo usare le risorse di cui disponeva lì, piuttosto che in altro; e si dimenticò di tutta la vita che c’era al fuori. Aveva lasciato andare se stessa e tutto quello che non era strettamente necessario. 

 

 

 

            Le sue amiche, in quel periodo, si preoccupavano di chi avesse baciato più ragazzi dell’altra, chi fosse l’ultima tipa che aveva limonato entrambi i cugini M nella piazzetta vicino alla mezzaluna. Yashal stava a guardare e pensava a sé e a cosa avrebbe potuto fare al fine di cogliere l’attenzione del ragazzo che le piaceva, ma non era abbastanza carina, non si teneva bene, era sempre troppo triste, troppo focalizzata sul tentativo di sopprimere il desiderio di spaccare cose o urlare contro persone. Era troppo distratta da ciò che silenziosamente la affliggeva il giorno e la notte. 

 

Lui le voleva pure bene, era un suo amico, ma lei non gli interessava in quel modo; maledetta friendzone, che esisteva da ben prima che esistesse un nome mainstream per definirla. 

Ecco, l’oggetto dei suoi sentimenti aveva un amico e di lui non si potrebbe proprio affermare che avesse il medesimo tatto nei suoi confronti: una volta Yashal stava percorrendo il corridoio della scuola durante l’intervallo e mentre parlava con una sua amica, si riferì a lei come quella tipa grassa che non sarebbe mai piaciuta a Lorenzo. Ok, poniamo il caso in cui non la stesse davvero interpellando, eppure… Yashal lo vide bene il suo sguardo posato sulla sua persona e la sentì quella frase: la sua mente non poté che dedurre che a lei fosse rivolta.

 

Quante volte la ripeté nella sua testa cercando di evitare che la assalisse e soffocasse, ma era troppo debole e, per quanta rabbia le facesse, non riusciva mai a impedirglielo: quella era la verità, l’unica verità che avesse mai conosciuto o dato per reale.

 

E poi c’erano loro: quelle compagne, che poi così compagne non erano; quelle con cui condivideva una passione e che erano troppo esuberanti per lei che, nelle sue già rodate insicurezze, era divenuta un bersaglio appetibile e perfettamente calzante. L’unico desiderio che aveva sempre avuto nei loro confronti era quello di entrare a far parte del gruppo, raggiungere quella fantomatica popolarità che pareva essere così fondamentale a quell’età e che era diventata imprescindibile per lei: conoscere le persone giuste, i ragazzi, i giri… pff, da che stronzate micidiali si era lasciata coinvolgere. Eppure, non era la persona adatta: non rientrava nei canoni, neanche quella volta.

Ma è più che questo, vero?

 

 

 

Magari vi starete chiedendo dove voglio arrivare, cosa sto facendo adesso, in questo preciso momento, ma ritengo che sia necessario lasciare alla sua storia il tempo e lo spazio che merita. 

Magari vi starete domandando perché, sebbene associasse a quanto esposto sopra tutto questo dolore, non abbia mai fatto niente per cambiarlo, perché non si sia mai opposta a quelle parole, perché non si sia messa a dieta e non le abbia dissacrate coi fatti. Ebbene, non è così semplice. Passare degli anni, così delicati, a sentirsi così fuori luogo fa scattare qualcosa di ben più grande della voglia di riscatto, e cioè semplicemente il desiderio di scomparire.

 

E allora è per questo che sono qui: voglio permetterle di fare fronte a queste vulnerabilità, così che possa finalmente prendere il coraggio che le è mancato per una vita intera. Magari potrà sembrarvi la persona più debole del mondo, in tal caso sappiate che non credo ci sarebbe nulla di negativo nell’esserlo, ma il punto è che non è il suo caso, non del tutto, almeno.

Yashal, infatti, per quanto poco possa essere emerso da ciò che ho narrato fin qui, ha sempre lottato e rifiutato tutte quelle verità che le venivano attribuite. Ogni qualvolta che qualcuno la spezzava, aveva sempre cercato di controbattere e negare e farsi valere, spesso ci era riuscita. Peccato che poi restasse sola e da sola non c’era più quella spinta, nel suo profondo, che la spronasse a difendere il suo orgoglio ferito, oltreché la sua persona.

 

Quando restava da sola quelle parole, che così assiduamente le sue orecchie avevano dovuto ascoltare, riemergevano e, sfreccianti e sprezzanti, facevano eco ad ogni suo pensiero. Di soppiatto si addentravano sempre più in profondità, agganciandosi arrogantemente tutte quelle piccole fessure che le sue insicurezze andavano formando; come dei parassiti, si nutrivano della sua sofferenza. Loro ci entravano dentro, le aprivano e ampliavano il labirinto della sua anima… e là lei le ha disperse. 

 

Per questo appare necessario che si renda consapevole di come sia giunta fino a questo punto: non le resta che ripercorrere quelle parole, tracciarne il percorso al fine di comprendere in quale meandro di sé si siano nascoste, e dopodiché… sradicarle. Deve prendere ciò che la uccide e farlo suo, farlo nostro; smettere di combatterlo e rifiutarlo, ma solo provare ad acquisire l’abilità di accettarlo e far sì che possa restare lì, in qualità di una parte fondamentale del suo essere, senza che necessariamente questo le provochi dolore o angoscia o strazio, come invece accaduto finora.

 

 

 

            Ci fu una volta in cui era a pranzo dai suoi nonni, uno dei molti. Chiese cosa fosse in programma come secondo piatto, allo scopo di decidere se prendere una seconda porzione della pasta della nonna, per la quale decise poi di optare indipendentemente dalla risposta che le sarebbe stata data. 

Tuttavia, successivamente, davanti ai suoi occhi si parò tale fatidico secondo, e sembrava così buono. Voleva almeno un poco assaggiarlo.

 

Suo nonno, nonno del quale Yashal conserva dei bellissimi ricordi e per cui nutre una stima che va ben oltre questo singolo episodio, le fece presente che forse avrebbe dovuto evitare, forse non era il caso di aggiungere ulteriori chili a quelli di cui già disponeva. 

Delle gocce d’acqua salata le percorsero la guancia, le nascose come possibile e abbandonò velocemente la tavola. Poco dopo se ne andò, troppo rotta da quelle parole che non volevano essere meschine, ma che furono solo causa di afflizione. Prese il suo motorino e vagò per qualche ora; nel mentre pianse, desiderando di riuscire a piangere via tutto ciò che considerava di troppo, come aveva fatto tante e tante altre volte ancora.

 

Anche sua mamma, un tempo, voleva assolutamente dimagrire, non accorgendosi di quando fosse già divenuta magra in seguito alla precedentemente citata situazione, la separazione, e aveva deciso che anche Yashal avrebbe dovuto fare lo stesso. Lo affermava per lei, perché stava esagerando; perché il cibo era buono, ma non così buono.

Perché forse per far fronte alle sue debolezze, alla paura del mondo che la assaliva ogni istante e alla paura della vita – che semplicemente la sovrastava – avrebbe potuto scegliere qualcos’altro.

 

 

 

            Poi un giorno, durante le superiori, trovò disperso nella memoria del suo amato portatile delle foto risalenti a pochi anni prima: era lei nel campo che più amava, portava dei pantaloncini corti, dei calzettoni in spugna con una stupida fantasia a righe e una canottiera rovinata. E lì si vide per la prima volta: era lei che si confondeva perfettamente con le sue compagne; lei che ricordava il periodo in cui quelle foto erano state scattate e che mai, mai, mai si era vista come tutti gli altri. Ma lo era; era uguale. Le sue cosce non erano più grandi, la sua pancia non aveva dei “rotolini in più”. 

E allora “perché?”, si tormentava continuamente.

 

Perché per anni le è stata fatta notare una diversità che non aveva? Perché quel problema, che non le era mai appartenuto, era stato proiettato su di lei? E perché non se ne era mai resa conto? Perché ha lasciato che divenisse suo?

 

Ci fu anche un secondo pranzo dai suoi nonni. La madre di suo padre stava servendo della pasta; Yashal le domandò di poterne avere di più di quanto le fosse stato concesso. Il marito di sua zia, che di peli sulla lingua non ne aveva avuti mai e che da sempre era malsanamente specializzato nel fare battute riguardo i palesi punti deboli di tutte le persone intorno a lui – un gran simpaticone, da questo punto di vista –, se ne uscì, come tante altre volte, con un “non sei già abbastanza in forma?”. 

E lì in parte fu strabiliante: il suo stomaco si chiuse d’improvviso al punto che quasi ne fu sollevata, come se si fosse appena liberata del peso della fame. Si alzò dalla tavola, apertamente ferita, asserendo di non essere più affamata e che quindi non avrebbe pranzato; poi, si chiuse nell’ufficio del nonno.

 

Quell’ufficio era straordinario: pieno di cultura e del lavoro che lo aveva accompagnato per più di cinquant’anni. Quella fu la prima volta in cui Yashal acquisì davvero consapevolezza. Chiaramente, in quasi tutte queste situazioni, forse a causa della sua giovane età, le discussioni erano più ampie e accese, decorate da alcuni suoi espliciti pianti e urla contro tutti coloro che non capivano e che non riuscivano a vedere le angosce che invano tentava di nascondere dietro ogni cosa che entrasse nel suo stomaco.

 

Eppure, quella volta, quel suo stomaco si chiuse e la presa di posizione delle sue zie, in difesa dello zio, che “effettivamente aveva ragione”, le permise di capire che a lei, di tutte quelle congetture e apparenze da mantenere per fare una buona figura agli occhi di “non aveva mai compreso chi”, non era mai importato granché, nonostante avesse permesso che le importasse. 

 

E ancora: “perché? Come è possibile che la presa degli altri su ognuno di noi fosse così potente?

Nella più banale e classica delle realtà, con totale naturalezza, aveva fatto sì che tutti quei problemi che non le appartenevano venissero riflessi su di lei e, a lungo andare, a forza di sentirseli ripetere, ci aveva creduto davvero anche lei. Li aveva dati per veri, e fu in quel momento che divennero la sua realtà.

Dimagrisci”, vorranno dirle alcuni; “Non te lo dice mica il dottore di mangiare fino ad ingrassare.”, la rincalzeranno altri.

Ma è più che questo, vero?

 

 

 

Certo, d’altronde è facile, no? Ma nessuno si sognerebbe mai di andare da una persona che soffre di anoressia e dirle semplicemente “ingrassa”, o magari sì, lo farebbe, però forse sarebbe un po’ un modo riduttivo e superficiale di aiutarla nel processo della presa di coscienza delle proprie angosce e dei propri mali. Forse le sue ragioni vanno un po’ oltre il fatto in sé, il modo in cui i suoi problemi si palesano, vi pare?

 

Del resto, è più comodo chiudere un occhio e addossare tutte le colpe di tale stato soltanto alla “mancanza di forza di volontà di una persona” e al fatto che “dai, è obiettivo: a certe persone semplicemente piace mangiare e non hanno controllo”. È sempre più comodo girarsi dall’altro lato e minimizzare l’angoscia di qualcuno, minimizzarla e poi mortificare una persona, senza ritenersi in parte responsabili nel crearla.

 

Il fatto è che ogni volta che qualcuno riduce o sdrammatizza qualcosa che per qualcun altro ha un peso insostenibile, automaticamente quella persona si sente di nuovo sbagliata, inadatta, come se quella sofferenza non fosse giustificata, ma lo è, non preoccupatevi di questo: lo è. 

Ogni angoscia ed ogni afflizione – e tutto ciò che comportano – sono sempre giustificate. Non è sbagliato provarle, non è sbagliato non farcela, non è sbagliato sentirsi piccoli e sovrastati, è lecito, è comprensibile, è umano.

 

 

 

            Poi ci fu l’apice. 

Dopo l’ennesima persona incrociata a caso in un locale o un qualche sconosciuto beccato in bicicletta che con nonchalance le urlava una qualsiasi frase riguardante il suo aspetto – dopo aver perso e ripreso, innumerevoli volte, dieci e oltre chili e aver costretto il suo corpo a dei cambiamenti disumani – Yashal ha pensato che, forse, se avesse vomitato se stessa sarebbe potuta stare meglio.

Le diete non funzionavano, dato che mai raggiungeva quello che davvero era il suo obiettivo e dato che, ogni volta, in qualsiasi caso, tornava esattamente dove aveva cominciato. 

 

Allora lei, nella più totale della disperazione, piangendo, si mise due dita in gola cercando di sputare fuori quello che odiava, tutto quello che le aveva causato così tanto dolore e che non la rendeva mai abbastanza, o giusta, o appetibile.

 

Si mise due dita in gola e, mentre stava prona sul water, non uscì niente, se non l’unico rumore di un rigurgito. Ritentò, più e più volte, ma, forse a causa del suo terrore nei confronti del vomito, il risultato fu il medesimo. Era andata in bagno per piangere lo schifo che si sentiva di essere, che si sentiva addosso come parte principale di se stessa, e se ne uscì piangendo ancor più lacrime, consapevole di essere incapace anche soltanto di buttare fuori ciò che disprezzava.

 

Sulla scia di quel sentimento, si ritrovò letteralmente ad invidiare coloro che avessero il problema opposto al suo, se non altro avevano trovato una soluzione che li faceva sentire, sebbene momentaneamente, un po’ meglio con loro stessi. Provava – e prova tutt’ora – un dolore tale da portarla a pensare agli altri con cotanta superficialità ed egoismo. Vi sembrerà la persona più debole del mondo adesso, ipocrita, meschina, insignificante. Una brutta persona, con brutti desideri: tutt’ora si domanda come possa anche solo averli fatti penetrare nella sua testa.

 

Per l’esser giunta fin qui, a comportarsi così ed avere questo tipo di pensieri ed invidie, non poteva e non riusciva ad addossare la colpa a terzi: era lei che mangiava, non lo faceva qualcun altro per lei. Il cibo, inizialmente, era stato una delle sue ancore di salvezza ogniqualvolta che ne avesse avuto bisogno; poi, è divenuto ciò che la trascinava verso il fondo, sempre e sempre più. E quei terzi, malgrado tutto, hanno innegabilmente contribuito a questo.

 

Perché adesso non fa qualcosa per cambiare la situazione?”, magari vi chiederete. Ecco il motivo per cui sto facendo queste dichiarazioni: voglio concederle l’opportunità di cambiare prospettiva, di vedere il mondo da un punto di vista differente dal suo; permetterle di acquisire nuova forza. Yashal ha tentato, fallendo, così tante volte, che ha ormai perso la fiducia nei confronti delle soluzioni che conosce. Dopo innumerevoli sforzi, dunque, appare evidente che vi sia una palese falla nel sistema. E allora, appare necessario partorire una strategia, incentrata sulla persona e sul modo in cui gli altri poggiano lo sguardo su di essa in funzione della sua corporeità.

 

È necessario trovare qualcosa che vada oltre il mero dimagrimento: avere dei chili in più, o in meno, non è un problema a priori, per quanto venga narrato essere così. 

Il lavoro che da fare su se stessa è immenso, come immensa si sente lei, ma questo non implica che non sia lecito rendere “l’altro” consapevole di quello che sta facendo, di quello che la società tutta sta facendo, ogni giorno, su coloro che, come Yashal, hanno già delle difficoltà. 

 

Non saprei asserire se sia un comportamento semplicemente legato alla cattiveria e meschinità che un individuo può raggiungere seguendo la massa o se qualcuno ritenga effettivamente utile sputare sentenze e umiliare qualcuno al fine di attivare un qualcosa in quella persona che la porti al dimagrimento. 

Indipendentemente, ecco, no: non è utile. È solo distruttivo e demoralizzante e svilente. L’unico esito a cui tutte quelle parole e frasi e atteggiamenti portano, è quello di nascondersi nell’unica cosa confortante di cui sono a conoscenza: il cibo.

 

 

 

            Una volta Yashal ed i suoi amici si trovavano nel loro locale preferito. Aveva presa la macchina, guidato per mezz’ora all’unico scopo di andare a vedere il concerto di un gruppo che ormai amava. Durante il concerto c’era questo ragazzo molto carino: portava un maglione con una fantasia blu, rossa e verde, jeans un pelo attillati, vans old-school, riccioli liberi, barbara dignitosamente folta. L’aveva colpita. Lo rivide qualche ora dopo, durante il dj-set, facendolo notare ad un’amica.

Provaci”, le consigliò nella più totale della disinvoltura. Le rispose che era lì con una tipa e che non le pareva il caso; l’amica aggiunse un “Beh, tanto lo sappiamo tutti che è perché non hai le palle di farlo.”.

Ma è più che questo, vero?

 

Ecco, vi assicuro che per la nostra giovane amica sentire quelle parole uscire dalla bocca di una persona così conscia dei suoi disagi e delle sue difficoltà fu arduo da digerire, sopportare ed affrontare. Non si trattava, infatti, di aver paura di un rifiuto: in fin dei conti, chi se ne frega del rifiuto. Si trattava, piuttosto, del timore che questo rifiuto andasse a sommarsi a tutta una serie di rifiuti che la sua mente, irrazionale e disturbata, avrebbe collegato irrimediabilmente a quel problema fisico che la accompagnava da una vita. Non era il rifiuto in sé, era che quel rifiuto stava dicendo “scusami, ma non sei abbastanza carina, non sei abbastanza magra, non sei abbastanza”; o meglio: sei così troppo da non essere abbastanza.

 

Che poi, ormai, non si trattava neanche più di questo. Il fatto è che se lo era sentito dire così tante volte di avere qualcosa che non va… Talmente tante volte era stata trattata come se fosse menomata – come se poi ci fosse qualcosa di negativo in questo –, come se fosse inferiore. Talmente volte l’avevano fatta sentire come se avesse qualcosa che di norma si tende a rigettare, che ormai i suoi pensieri non dovevano neanche farlo più quel passaggio.

Anzi: bastava un “no, mi fai cagare” di quelle persone così poco empatiche e così capaci di dimezzare l’autostima di qualcuno, o quel “no…” con quel tentativo di celare l’imbarazzo di quelle persone che invece non volevano dire ciò che pensavano apertamente, ma che lo pensavano lo stesso.

 

A questo punto i suoi pensieri non devono neanche più perdere tempo a bloccarla prima che sia troppo tardi; perché è già bloccata. E ci prova, davvero: ci prova, ci prova più forte che mai a smuoversi, ma semplicemente non ci riesce. 

 

Non ci riesce per ogni volta che qualche suo amico ha giudicato un culo definendolo troppo grosso e lei sapeva essere comunque più piccolo del suo;  per ogni volta che qualcuno commenta dicendo chi può vestire in un modo e chi no; per ogni volta che qualche amica si definiva grassa e lei lo era palesemente di più; per ogni volta in cui vedeva persone dimagrire e lei, che se ne stava lì nella consapevolezza di non esserne stata mai davvero capace; per ogni volta che scatta un qualsiasi commento seguito subito da un “no, ma per te è diverso”, ed è diverso solo perché chi aveva mosso quel commento aveva un qualche tipo di confidenza con lei, ma non si faceva problemi ad asserirlo con qualcun altro e qualcun altro non si faceva problemi a farlo con lei. Quindi no, non è diverso. 

 

Forse non è l’unica: si è tutti così costantemente e disperatamente bloccati, incapaci di agire, incapaci di muoversi. Incapaci. E fremiamo, sempre, all’idea di fare qualcosa che vada oltre i soliti noiosi e rodati schemi. 

Yashal, ogni volta che ci prova trema, ad esempio; ogni volta quasi viene assalita da degli attacchi di panico, quando nel silenzio prova a rompere tutto e alla fine… il niente. Resta lì e continua a limitarsi. E il respiro le si fa scostante, gli occhi umidi, nel suo corpo sente salire vampate di calore, le mani fremere, il cuore ad accelerare e… niente, niente di niente

Continua a non fare altrimenti, continua a chiedersi perché non vada bene per questa società e non giunge mai a una risposta: le arrivano solo conferme. Continua a pensare a quanto si sia sentita migliore ogni qualvolta nella vita fosse stata più magra.

 

Ed allora, vive distraendosi, fingendo una serenità che le è in realtà sconosciuta, finché, di tanto in tanto, piange lacrime che vorrebbe tenersi per altro, ma non c’è nient’altro che riesca a strappargliele fuori perché niente la distrugge quanto la distrugge questo. Si sta spezzando ogni giorno sempre più e ogni giorno tiene ben a mente le ragioni per cui non vuole permettere che ciò accada. 

 

Perché in fondo, Yashal, come dice il suo nome, sa che la vita è bella; e lei vuole amarla, lei vuole viverla. E in questa vita lei vuole amarsi ed apprezzarsi e non vuole più permettere a qualcosa di socialmente costruito di dirle di non essere abbastanza, di farla sentire come se non lo sia.

Ma è più che questo, vero?

 

 

 

            Non è ancora pronta, adesso, per quel passo che vada oltre il mero dimagrimento; per quel passo che vada oltre il cambiarsi fisicamente e miri, piuttosto, a un cambiamento nel proprio modo di pensare, agire e inquadrarsi. 

In qualche modo, però, è là che sta andando.

Un giorno, spero, leggerà queste parole e le sentirà così lontane. Farà cadere tutte quelle catene che a lungo si è portata appresso perché lanciate arrogantemente sulle sue spalle e finalmente starà bene.

 

E sarà la cosa più difficile che mai avrà fatto in tutta la sua vita, perché non ne conosce la via o il modo. Sarà difficile perché non riesce a chiedere davvero aiuto, perché ogni volta che ne parla, che ci pensa, sente il peso dell’umiliazione addosso, sente il suo personale giudizio addosso, il suo senso di insoddisfazione. 

E ogni volta ha il timore che prima o poi non avrà più il coraggio di tirare un calcio e spingere via tutte quelle voci che sente, voltarsi dall’altra parte e continuare con la sua vita.

 

Neanche riesce, ad oggi, a mettere a fuoco il risultato verso il quale vuole tendere, ma ne ha un’idea che, per quanto vaga, è l’unica cosa davvero vivida in lei. E per l’idea di quella tensione, di quella potenzialità, di quello che può trovare nel mondo se decidesse di aprirsi a esso, lei si muoverà.

E allora, e solo allora, sarà più di tutto questo.

 

Lei, finalmente, starà bene.

 

   
 
Leggi le 15 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Estel_naMar