Capitolo 26
Cioccolato
“Quando morsi la mela del peccato, quando mi feci
baciare le ciglia allora, allora mi meravigliai che il mondo fosse gonfio di
paura e così il clavicembalo del mondo mi morì tra le mani e fu fuscello.”
Alda Merini, A un amore giovane
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Le
labbra socchiuse di Hermann si posarono lentamente sulla tempia di Sarah. Lo
sentì deglutire, mentre tentava di riprendere fiato. Gli ansiti sommessi
effusero un rilassante calore sulla sua pelle e il braccio che le cingeva
l’addome, sfiorandole delicatamente i seni, trasmise conforto al suo animo.
Chiuse gli occhi e si lasciò cullare da quel senso di protezione, mentre
l’armonica mescolanza dei ritmi del respiro e del cuore di Hermann le facevano
da nenia. Senza accorgersene, adagiò il capo sulla sua spalla e, accoccolatasi
volontariamente contro di lui, un sonno leggero la portò lontano.
Il
momento più bello per Hermann era stato quando Sarah, aggrappandosi alla sua
schiena, aveva soffocato un urlo di piacere premendogli con forza le labbra
sulla spalla tanto da fargli credere che volesse morderlo. Non gli sarebbe
dispiaciuto.
Aveva
quasi avvertito disperazione nello sfogo di una passione che a nessuno mai era
stato concesso di fomentarle per potergliela poi appagare e questo lo
infervorava ancor di più. Aveva ceduto un attimo dopo di lei e, adesso che
respiri e battiti erano tornati regolari, avrebbe voluto ricominciare tutto
daccapo partendo col riscaldarle le mani – tentativo, tra l’altro, fallito.
Aveva goduto nel riempire di tenerezza il suo bisogno di protezione, nello
sfiorarla nella sua fragilità e far emergere il desiderio dal suo ingenuo
candore e quella sensazione di benessere non gli era ancora passata.
Nessun’altra
donna gli aveva mai fatto provare quelle emozioni, neanche la sua fidanzata
storica con la quale aveva condiviso ben otto anni di vita, prima di lasciarsi
di comune accordo; erano come vibrazioni sulla pelle e nella mente, capaci di abbattere
le sue più inconsce difese, sradicandolo dalla realtà di sé e del mondo
circostante. Ma Sarah non era come tutte le altre donne e non perché fosse
ebrea e questo lo aveva già intuito dalla dignità che preservava nonostante avesse
perso tutto, beni materiali e affettivi, nonostante la prigionia, le botte – le
sue –, la fame.
Volse
lo sguardo verso il comodino e allungò un braccio per afferrare il pacchetto di
sigarette, facendo scivolare il capo di Sarah dalla sua spalla e destandola dal
sonno. La morbida chioma scura gli scorse sulla pelle come una carezza,
destabilizzandolo ancora una volta.
Al
lieve movimento di Hermann, Sarah si svegliò quasi di soprassalto. Attraverso
gli occhi socchiusi, lo intravide accendersi una sigaretta e ipotizzò che
quello fosse il segnale per farle capire che doveva andar via. Sentì uno strano
senso di malinconia dilagarle dentro, mentre, scostando lentamente la coperta,
si apprestava a lasciare il calore del letto e dell’abbraccio di un uomo che,
per un breve e infinito lasso di tempo, aveva dimenticato essere il comandante
del campo. Si sedette sul bordo del letto e, prima di raccattare i suoi
indumenti sparsi tra le lenzuola e sul pavimento, indugiò per qualche istante,
frenata dall’insensata aspettativa che lui le chiedesse di restare ancora lì.
Poi legò i capelli e, mentre lo udiva aspirare ed espirare il fumo
rumorosamente, volse leggermente la testa di lato, mostrandogli un profilo
imbronciato di sonno e delusione. Iniziò pian piano a raccogliere i vestiti e i
brandelli di sé, guardandolo di sottecchi e scorgendo un’espressione
soddisfatta e, di nuovo, comparire strafottenza nei suoi occhi e il ghigno
cinico sulle labbra. Si vestì, coprendo la riapparsa vergogna di essere nuda e,
una volta infilate le scarpe, raccolse anche gli indumenti di Hermann per poi
sistemarli con cura sullo schienale della sedia.
“Sarah”,
la chiamò, tirandosi su con le spalle per appoggiarsi meglio allo schienale del
letto, “oggi sei stata molto brava.”
La
sua voce sembrava aver perso ogni accenno di sensuale dolcezza per
riappropriarsi di un accento ruvido, fastidioso alle orecchie di Sarah che ne
colse la solita inflessione sprezzante e autoritaria.
Allungò
un braccio verso il comodino, aprendo un cassetto e frugandoci dentro e,
intanto, Sarah si sorprese con imbarazzo a fissare lo sguardo sui suoi muscoli
contratti per il movimento.
“Tieni”,
le disse, porgendole una tavoletta di cioccolato sul cui incarto era stampata
l’aquila nazista.
Su
di essa, Sarah trattenne per un attimo lo sguardo, prima di rivolgerlo a quel
mezzo sorriso – che, ancora una volta ed erroneamente, tradusse come derisorio
– e sprofondare nel baratro dell’umiliazione, di nuovo e più rovinosamente.
Hermann, o meglio,
l’SS-Obersturmführer Von Wildenberg, aveva così ripristinato
le distanze e ristabilito la gerarchia tra il comandante del campo e la povera
ragazza ebrea, ricordandole che tra loro non esisteva altro che un semplice
contratto. Il compito di Sarah era quello di accontentarlo, sottomessa e
compartecipe alle sue necessità e, in cambio, lui le garantiva la permanenza a
Fossoli, doppia razione di cibo al giorno e – qualora l’avesse ritenuta più
“brava” e meritevole – qualcosa di buono dalle provviste dei tedeschi. Come
aveva potuto dimenticarlo? Come aveva potuto godere e riposare tra le sue
braccia? Si pentì di essersi lasciata andare, tra voluttuosità e tenerezza, e
provò vergogna per avergli mostrato quel lato sconosciuto, nascosto anche a se
stessa. Avrebbe dovuto fingere, proprio come aveva fatto il tenente Von
Wildenberg, seducendola con l’inganno di parole e carezze gentili e facendole
credere che potesse esistere una realtà diversa, meno dura attorno a sé e
dentro di lui.
“Grazie”,
biascicò, prendendo la tavoletta di cioccolato ed Hermann non riuscì a scorgere
l’ombra di amarezza comparsa negli occhi di Sarah, né lei seppe cogliere nel
suo sguardo la luce di un sentimento nascente.
“Sarah”,
la chiamò di nuovo, fermando il suo incedere lento verso la porta e quel «resta
ancora qui con me» che avrebbe voluto dirle rimase sospeso tra il cuore e
la gola dalla quale uscì: “Domani farò più tardi, puoi aspettarmi qui.” E diede
alle parole pronunciate lo stesso valore di quelle non dette.
Aspirò
un altro tiro di sigaretta, mentre Sarah annuiva abbassando la testa e, espirando,
la lasciò andare via in una nuvola di fumo. Un senso di vuoto iniziava già a
scavargli dentro.
“Gli uomini non cambiano,
fanno i soldi per comprarti
e poi ti vendono.
La notte, gli uomini non tornano
e ti danno tutto quello che non vuoi.”
Mia Martini, Gli uomini non cambiano