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Autore: _Lightning_    14/04/2020    3 recensioni
Thanos è stato sconfitto e la metà scomparsa dell'universo è tornata, andando a rioccupare i vuoti di cinque anni d'assenza. Anche Peter Parker è tornato, nonostante a volte si senta ancora su Titano e non sia certo che il costume di Spider-Man o le vesti di adolescente del Queens gli appartengano ancora. Ad aiutarlo sul suo nuovo cammino di supereroe c'è almeno Tony Stark - vivo per miracolo, anche se segnato da cicatrici insanabili.
Mentre il mondo tenta di rimettersi in marcia, coloro che lo hanno salvato vengono messi di fronte alle conseguenze delle proprie azioni: i superumani sono un aiuto o una minaccia? Non è forse vero che hanno contribuito a sconvolgere il mondo ben due volte?
Una nuova tempesta si addensa all'orizzonte, e Peter sembra destinato a trovarsi nell'occhio del ciclone...
Dal Capitolo IX: "Zona Negativa"«Parker, non te lo ripeterò: lascia perdere.»
«Altrimenti che fa? Mi toglie di nuovo il costume?» Peter allargò le braccia con aria di sfida.
«Non hai più quindici anni,» ribatté freddamente Tony. «Se non sei in grado di seguire le mie direttive, sei fuori.» Indurì le labbra in una piega severa. «E questo non è un bel momento per essere "fuori".»
Genere: Azione, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'As if it never happened'
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Spider-Man: Back In Black


§

 
Capitolo VII
 

La guerra in strada
 
 
 
“'Cause I've done it before,
And I can do it some more,
I've got my eye on the score,
I'm gonna cut through the floor,
It's too late,
It's too soon,
Or is it
Tick tick tick tick tick tick tick...” 
[Tick Tick Boom – The Hives]

 
 
 
8 Maggio, Rego Park, Queens
 
Yuri aveva un discreto talento nello scegliere i punti d’incontro più squallidi e malmessi di New York, di quelli che non avrebbero sfigurato sulla pellicola di un noir vecchio stampo o di un poliziesco urbano.

Così Peter non si stupì troppo, quando si trovò a dover scalare la parete esterna annerita di un’ex-fabbrica di scarpe in una delle zone più malfamate di Rego Park. Superò carponi un poster elettorale con la gigantografia di Campbell, schivando il suo sorriso bianco e artefatto e trattenendo l’urgenza di scollarlo dal muro, poi ruppe il chiavistello di una finestra con uno scatto delle dita per calarsi all’interno.

La visione notturna gli venne in aiuto nel mostrargli più chiaramente la sala interna immersa nell’ombra, e Karen gli evidenziò degli appigli favorevoli sulle travi che segmentavano il sottotetto. Individuò subito Yuri, appoggiata contro la balaustra del ballatoio superiore, affacciato su macchinari arrugginiti e in disuso. Una torcia elettrica poggiata per terra era l’unica fonte di luce che metteva in risalto la sua silhouette minuta.

Attraversò adagio l’ampio spazio, scegliendo le travi più solide e rinunciando alle ragnatele nel constatare quanto fosse pericolante la struttura interna; si calò con un balzo agile direttamente davanti a Yuri, atterrando a piedi uniti per poi alzarsi a braccia tese, come un ginnasta a fine esercizio. Lei non si scompose, limitandosi a scrollare appena la testa, e Peter si trattenne dal pronunciare il “ta-daan” squillante che si era programmato, soffocandolo tra labbra e maschera.

Il Capitano Watanabe era una persona già di per sé piuttosto seriosa, che incuteva timore a un solo sguardo, ma adesso i suoi occhi scuri e mobili erano avvolti da un’ombra fredda che rasentava l’ostile. Non era solo estremamente concentrata o presa dal caso: era furente, sobbolliva di rabbia repressa a fatica e condensata nella presa rigida con cui si stringeva le braccia incrociate.

«Ehi, salve, capo… stai per dirmi che ci sono altri guai in vista, vero? Lo so che me lo stai per dire,» cercò comunque di sdrammatizzare, piantandosi le mani sui fianchi e scrutando i dintorni con gli occhi della maschera che si allargavano e restringevano con un sibilo meccanico.

Di nuovo, Yuri scosse piano il capo, facendo ondeggiare il caschetto liscio e corvino, in un negare che era in realtà una conferma piena di scoramento.

«Ci sono dei guai, sì… ma non sono in vista, anzi,» sciolse le braccia dal busto alzando i palmi al cielo, per poi farli ricadere contro le cosce con uno schiocco, «sono nascosti fin troppo bene.»

«Uh-huh… capisco. Cioè, no, quindi spiegati,» si corresse, guardandosi intorno nel sentirsi allo scoperto e optando infine per l’accovacciarsi sui talloni in una posa decisamente ragnesca che si rimediò un’occhiataccia.

Yuri si astenne dal commentare e sollevò una mano con le ultime tre dita stese e bene in vista.

«Hanno passato il caso all’FBI, quindi io sono fuori dai giochi,» ripiegò il medio, «abbiamo sequestrato una partita di esplosivi della Fisk Construction al di fuori di un suo cantiere,» ripiegò l’anulare, «e la pista sospetta del magazzino è un buco nell’acqua,» concluse, facendo sparire anche il mignolo in quel suo bizzarro modo di contare. [1]

«Oh,» esalò lui, con quel soffio di frustrazione che trapelò dalle maglie strette della maschera, troppo debole per esprimere appieno lo sconcerto causato da quelle tre rivelazioni. «… porca vacca,» si espresse poi, sgranando al contempo gli occhi.

«Esattamente,» sospirò lei, pressando poi le labbra sottili fin quasi a sbiancarle. «Hai preferenze sull’argomento da cui iniziare?»

«Direi…» si bloccò, troncando la prima frase che gli era venuta in mente.

Voleva smaniosamente sapere ogni più microscopico dettaglio sul collage di foto e ritagli che avevano scoperto e, sebbene sapesse che fosse una domanda del tutto naturale, una parte di lui si convinse che sarebbe sembrato sospetto mostrare troppo interesse, e si obbligò a dirottarlo sulla seconda questione, comunque non meno importante:

«… uh, Fisk e i fuochi artificiali mi sembrano un’accoppiata pericolosamente perfetta, con un attentato in vista. E perfetta anche per mettergli un paio di braccialetti in acciaio ai polsi, no?»

Yuri negò, terribilmente seria.

«Sono suoi materiali per le sue demolizioni. Li abbiamo trovati fuori dai cantieri in una nave cargo sull’Hudson, ma non è abbastanza per collegarlo a un attentato… tanto più che la nave non è intestata a lui, ma a dei prestanome che stiamo investigando e che ricondurranno sicuramente a quelli che abbiamo ricollegato a Kingpin. Vuole far slittare tutta l’attenzione sul suo alter ego, ma farlo ora, coi sospetti che ha già addosso, vuol dire esporsi…»

«E a che pro? Autoincriminarsi? Non ce lo vedo, Willie, a costituirsi.»

«No, infatti sta giocando con noi, e non mi è chiaro in che modo. Sembra voglia depistarci, e allo stesso tempo metterci sulla pista giusta. Non vedo il suo schema,» quasi ringhiò, digrignando i denti in un moto insofferente.

Peter tacque, mentre le rotelle delle sue meningi viaggiavano a una velocità tale da surriscaldargli il cervello. Vedere da parte di Fisk delle mosse così allo scoperto gli faceva chiedere quanto, esattamente, avesse in pugno la città. Quanti gli coprissero le spalle, oltre ad Osborn, e quanto fossero profonde le sue radici criminali che infestavano New York sino alle fondamenta e alle fogne da cui traevano nutrimento, avvelenando al contempo la metropoli.

Non trattenne una smorfia di disgusto, celata a Yuri ma palese nella sua posa affatto rilassata, con gli occhi puntati sul metallo arrugginito della balaustra e sulle ombre aguzze dei macchinari dormienti.

«E la polizia cos’ha intenzione di fare? Non mi sembra il momento di rimanere con le mani in mano,» chiese quindi, suonando fin troppo autoritario persino alle sue orecchie, ma Yuri si limitò a un piccolo scatto del capo.

«Non possiamo prenderlo di petto, purtroppo,» sottolineò, col tono di chi si vede rimandare un evento a lungo atteso. «Quegli esplosivi, da soli, non vogliono dire nulla. Ma finché non ci vedremo chiaro terremo Wilson Fisk sotto torchio e Norman Osborn sotto scorta. Gli abbiamo sconsigliato di tenere il discorso pubblico, ma ha detto di non “voler cedere alle intimidazioni”, e temo sappia perfettamente che la minaccia arriva da Fisk. È una dimostrazione di forza, a questo punto,
» sospirò, contrariata.

Peter le fece eco, altrettanto sconfortato di fronte a quella decisione che, tra le altre cose, avrebbe messo anche in potenziale pericolo delle vite umane, non solo Osborn. Come se ciò potesse importargli.

«Capito, nessuno dei due ha intenzione di cedere. E che mi dici della nuova pista? Davvero non può aiutarci a capire chi sta organizzando questo “fuori programma” elettorale?»

«Può aiutarci, ma non come vorremmo,» precisò Yuri, con lo stesso, identico cipiglio che non aveva abbandonato il suo volto dall’inizio della conversazione, quasi fosse in una sala interrogatori intenta a venire a capo di un sospettato troppo caparbio. «Nel senso che i nostri profiler dubitano che sia un’operazione su larga scala. Quel collage sembrerebbe opera di una personalità ossessivo-compulsiva con complesso narcisistico e tendente forse alla schizofrenia…»

«Beh, non dubitavo che chiunque l’abbia composto fosse fuori di melone,» commentò nervoso Peter, prima di riuscire a trattenersi, e Yuri lo inchiodò sul posto con un singolo sguardo.

«Intendevo dire che è personale. D’altronde, perché lasciare una pista così palese, se non per sfidarci e ottenere la nostra attenzione? È un modus operandi tipico di un serial killer.»

«Oh,» si ricompose Peter, dandosi mentalmente dell’idiota.

Avvertì un piccolo, minuscolo briciolo di speranza che si faceva strada in lui e che si affrettò subito a smorzare. Era un bene non avere alle calcagna Osborn o Kingpin in persona, ma chiunque conoscesse o sospettasse di lui, in quel momento, anche un singolo lunatico, era una minaccia sufficiente a minare la sua posizione. Soprattutto adesso che stava per rischiare seriamente di dover scendere a patti col governo – almeno secondo Tony.

Eppure, non poteva abbandonare del tutto l’idea di vincere, di riuscire a non rivelarsi in un modo o nell’altro. Tony era dalla sua parte, questo lo sapeva; semplicemente, possedeva l’irritante capacità di analizzare la situazione da ogni prospettiva, e non rifiutava di prendere in considerazione strade che non combaciavano con quelle scelte da lui. Ciò non giustificava i suoi raggiri e i suoi silenzi, ma Peter era conscio di poter contare ciecamente su di lui in caso di bisogno… e d’altronde, anche lui gli stava tacendo molte, troppe cose.

Voleva pensare che ciò rendesse pari il punteggio di quella partita che si erano trovati a giocare con fazioni intercambiabili, ma non riusciva a non sentirsi in difetto. Così come si sarebbe sentito in difetto a confessare tutta quella faccenda sia a lui che a May, scaricando su di loro delle responsabilità che erano sue e sue soltanto.

Se fosse stato lì, Ben gli avrebbe detto che fare del bene era un obbligo morale, soprattutto quando se ne aveva la capacità. Che non era una questione di scegliere, perché le responsabilità non ammettono scelte. E ora che non era più nemmeno certo di chi fosse lui stesso, doveva almeno esserlo su ciò che era in grado di fare, e farsi carico di quei fardelli rimasti in sospeso per cinque anni. Lo doveva agli altri, ma soprattutto a se stesso.

«Quindi, dite che è opera di un lupo solitario?» si affrettò a chiedere, rendendosi conto di essere rimasto in silenzio troppo a lungo, destando l’attenzione di Yuri.

«Così sembrerebbe, almeno a una prima analisi… qualcuno che non vede di buon occhio la nomina di Osborn a sindaco, o con qualche sospeso con lui. Il che…»

«… vuol dire più o meno mezza Grande Mela. Fantastico, quindi facciamo un porta a porta per chiedere chi ce l’ha con Norman?» esclamò con falso brio, strappandole un sorrisetto gramo.

«Già, è quello che intendevo con “buco nell’acqua”. Dobbiamo sperare che la scientifica cavi fuori qualcosa dalle prove, fosse anche mezza impronta digitale, e attendere un profiling completo per restringere il cerchio. Sperare che abbia dei precedenti, magari, e che sia rintracciabile nel sistema.»

Peter annuì assente, con la domanda successiva che gli si aggrovigliò in bocca, poiché suonava sospetta alle sue orecchie colpevoli.

«E, uh, insomma… è saltato fuori qualcos’altro, da queste analisi? Non so, un movente più specifico… qualcosa?» sviò poi, pregando con tutto il cuore che non vi fosse qualche altro reperto che potesse far risalire a lui, Peter Benjamin Parker.

E che non si fossero accorti di un tassello mancante nello schema. La fotografia gli lampeggiò in testa a colori brucianti, impressa sulla pellicola della sua mente. Collegata a colpi decisi di pennarello rosso al logo della Oscorp, una connessione inconfutabile che poteva avere un'unico esito, lo stesso che gli mordeva il collo ogni volta che ci pensava.

Yuri lo scrutò per un lungo momento, con uno sguardo inquisitore che gli rattrappì la schiena come se vi fosse scivolata una goccia d’acqua gelata.

«Sono per lo più deliri di un folle accecato dal rancore, Spider-Man,» rispose con improvviso riserbo. «Ma ci sono anche alcuni documenti… controversi. Accuse riguardo alla Oscorp, alla liceità dei suoi esperimenti e a varie diatribe con altre aziende per la proprietà intellettuale di alcune ricerche… Norman ha avuto a ridire sia con la AIM che con le Stark Industries: probabilmente il tuo amico corazzato saprà dirti qualcosa di più al riguardo, se pensi che possa esserci utile,» concluse, con un cenno del mento verso di lui.

Peter si irrigidì come un ciocco di legno nell’alzare le spalle con fare noncurante, come a dire che lo avrebbe fatto. Mentalmente, lo aggiunse alla lista di cose che Tony aveva ritenuto opportuno non condividere… che c’entrasse quella faccenda della Tower? Quasi si piazzò una mano in faccia per la frustrazione: iniziava a perdere il filo, o meglio, i fili di tutto quell’intreccio.

«Tutto è utile, a questo punto,» disse, dimenticandosi di rendere più profonda la propria voce e suonando terribilmente diciassettenne; si schiarì la voce in imbarazzo.

«Ti posso passare le foto della scientifica, se…»

«Già fatto, è tutto qui dentro,» la interruppe lui, additando gli occhi della maschera e suscitando un suo sospiro rassegnato che però, forse, celava una punta di approvazione. «E pensavo che condividere informazioni riservate fosse illegale, Capitano Watanabe! Meno male che mi porto avanti col lavoro e ti evito di infrangere la legge.»

«Oh, lo è… ma ho una concezione molto flessibile della legge,» ribatté pronta lei, concedendosi stavolta un sorrisetto. «Dopotutto, adesso che sono fuori dal caso dovrò trovare vie traverse per rimanere aggiornata… dopo dieci anni che sto addosso a Fisk, voglio la soddisfazione di mettergli io stessa le manette ai polsi,» continuò, con un’impennata fiera nel tono e le mani sui fianchi.

«Qui c’è anche premeditazione di reato… o in qualunque modo la chiamiate voi sbirri. Insomma: rischi grosso se ti scoprono, o sbaglio?»

«Rischio la sospensione, sì… nel peggiore dei casi, addio pistola e distintivo. Ma non è la cosa peggiore che ho fatto, e quando voglio sono uno spettro. Fidati, ho i miei metodi,» concluse, strizzandogli l’occhiolino in uno sfoggio d’umorismo per lei del tutto atipico. [2]

«Oh, quindi stai entrando anche tu in clandestinità! Lo sapevo che avrei lanciato una moda, prima o poi,» sbuffò lui, fingendosi tronfio e avvertendo un lieve senso di disagio nell’esternare quelle parole, seppure in un contesto ancora innocuo, soprattutto con l’ombra della Sable che si stagliava cupa all’orizzonte.

«Già… chi l’avrebbe mai detto, che sarei finita a fare squadra con l’Arrampicamuri?»

«Lo considero un onore, io; tu dovresti fare lo stesso!» sorrise lui smagliante, piantandosi un pollice contro il petto, sul piccolo ragno nero che lo decorava.

«È un risvolto interessante, lo ammetto,» non si allargò lei, con un’espressione che sembrò però distendersi di qualche tacca. «E adesso smamma e al lavoro, Spider-Cop: tu pensi ai traffici di Osborn e io a parargli le chiappe dal nostro pazzoide. È ora di entrare davvero in scena… o meglio, dietro le quinte.»

Peter annuì entusiasta, balzando in piedi e sparando subito una ragnatela per slanciarsi fuori di lì, nel buio notturno della sua città.

«Contaci, capo!»
 
 
 
 
 

10 Giugno, Midtown School of Technology, Queens


Cos’era la frenesia? Frenesia era dover affrontare la maturità con la minaccia dei due uomini più potenti di New York a pendergli tra capo e collo.

Adesso che se ne stava rigidamente in piedi sul palchetto rialzato nella palestra scolastica, non riuscì a connettere con chiarezza i puntini che l’avevano portato fin lì con un tocco in testa, una toga addosso e le mani sudate in attesa del proprio altrettanto sudato diploma. La sua mente era altrove e focalizzata su tutt’altro soggetto, come l’obbiettivo difettoso di una macchinetta fotografica – ancora più difettosa perché il focus di tutto era lui.

Lui, che nella vita chiedeva solo di far da sfondo. Anzi, nemmeno: solo di essere un passante tra i tanti in una foto ricordo vacanziera, di quelli che entrano a tradimento nell’inquadratura e rimangono immortalati per sempre lì in un album di famiglia, totalmente ignorati o, al massimo, additati come “quello che è entrato in campo e ha un po’ rovinato la foto”. Non avrebbe chiesto di meglio, in vita sua, se non essere quella macchiolina che si nota e non si nota, ma sulla quale non si spende comunque un pensiero di troppo.

E adesso si ritrovava al centro del palco sia per se stesso che per gli altri – anche fisicamente, con tutta quella fila di studenti che lo precedeva e che si faceva sempre più corta avvicinandolo ai riflettori. A quelli che avrebbe dovuto evitare, perché non era proprio il momento di puntarseli addosso.

Deglutì a fatica, mentre il vociare dell’altoparlante lo assordava e solo due persone lo separavano da quel traguardo rincorso per più anni del necessario, obbligandolo a una rimonta che, forse, non avrebbe nemmeno dovuto intraprendere. Ma non aveva potuto fermarsi, pena il dissolvimento da quella vita appena riconquistata ma non ancora riabbracciata.

E quindi, era scattato al colpo di pistola del via sentito in ritardo e aveva macinato quel distacco a rotta di collo, un voto brillante dopo l’altro, col conto di troppe notti insonni perse su progetti ad accumularsi su altre notti insonni passate ad oscillare per le strade del Queens, con domande d’ammissione compilate in fretta e furia e inviate ai quattro angoli degli Stati Uniti senza soffermarsi troppo sulle distanze. Con l’università che d’un tratto diventava l’ultimo dei suoi problemi, soppresso dal ticchettio di fondo di una bomba ad orologeria terribilmente vicina a scoppiare – tra pochi giorni, tra pochi giorni – e a innescare una serie di esplosioni a catena dalle quali non era certo di poter uscire illeso.

Voltò lo sguardo un po’ sgranato verso il pubblico, sentendosi soffocare dalla cappa di calore della toga. Individuò subito May: in quarta fila esterna, con gli occhi adoranti puntati solo e unicamente su di lui e le mani strette trepidanti al petto. Forse più emozionata di lui, in effetti, o almeno emozionata per i motivi giusti. Incurvò un sorrisetto, un po’ spontaneo nel vederla così, un po’ forzato nel doverlo strappare al caleidoscopio di pensieri che gli girava in testa.

Tony non c’era. Aveva giurato più o meno solennemente di esserci, perché “non poteva perdersi per nessuna ragione al mondo il diploma del suo ragno preferito”, aveva detto mesi fa, in una di quelle rarissime esternazioni d’affetto che ogni tanto si lasciava scappare. A sua discolpa, poi, aveva aggiunto che parlare con Morgan lo confondeva; di non farci troppo caso; che era l’età ad averlo fatto rammollire – e non quei cinque anni, mai quei cinque anni. A ripensarci,
 Peter si sentiva a sua volta confuso, con troppi di quei fili intessuti al cuore che si tendevano in tutte le direzioni.

Gliel’aveva detto da un letto d’ospedale. Praticamente la seconda o terza frase articolata che aveva pronunciato a stento in sua presenza. Con le flebo che gli uscivano dal braccio, una mascherina per l’ossigeno che rendeva la sua voce un filo ovattato e un bendaggio a celare troppo poco i danni irreversibili del Guanto – rosso su nero su grigio. Aveva riso asfittico nel dirglielo, battezzandosi “mummia” di nome e di fatto – aveva riso e stentato una mezza imitazione per Morgan, per strapparle brutti pensieri che non dovevano nemmeno avere occasione per attecchire in lei.

Peter, invece, aveva quasi pianto, perché oltre la risata aveva scorto il dolore fisico e lo sgomento mentale di chi è sopravvissuto e si chiede come. Fino a pochi istanti prima erano stati entrambi riversi nella polvere, sull’uscio schiuso della morte, e adesso si ritrovavano vivi e dilaniati in questo mondo.

Si era trattenuto, sorridendo su uno strato di tristezza, solo perché là dentro c’erano anche Pepper e Morgan, oltre a Iron Man accartocciato su un letto d’ospedale, minuscolo, con addosso una veste a pois che si ostinava a insultare a gran voce – “è terribilmente demodé e oltremodo oscena: datemi qualcosa che almeno mi copra le chiappe!” – per fare baccano e assordare la morte e non sentirla.

Gli si appannò lo sguardo anche ora. Ringraziò che quel velo liquido potesse essere scambiato per commozione, e non per rammarico e delusione nel vedere che quella promessa così lontana non si stava realizzando, per motivi probabilmente del tutto giustificati o che esulavano dalla volontà di Tony.

Lo sperava, e non lo sperava. Nessuna delle due opzioni era davvero meglio dell’altra, ma non ebbe il tempo di rifletterci troppo, che si ritrovò con una pergamena in mano, un applauso nelle orecchie e un sorriso un po’ ebete in faccia.

Era diplomato. Era diplomato ed era ancora su Titano, mezzo cenere, mezzo carne viva. Il suo cuore batteva a singhiozzo per l’emozione, per la paura, per lo smarrimento di non riuscire a concentrarsi su quell’istante che coronava i suoi sforzi e il suo impegno – e metteva fine alla vita normale e guidata dell’anonimo Peter Parker per scaraventarlo in un mondo di decisioni tutte sue.

Riuscì a stento a godersi il momento, mentre stringeva tutte le mani di rito e scendeva poi dal palco per venire soffocato dall’abbraccio di May, con un senso di capogiro crescente nel ritrovarsi nell’atrio, di fronte ai flash del fotografo scolastico. Si sforzò di tenere lo sguardo sull’obbiettivo, l’ennesimo puntato su di lui, con la pergamena stretta in una mano e l’altra gettata attorno alle spalle di un esilarato Ned, che ricambiava il mezzo abbraccio con l’entusiasmo consono a quel giorno.

Un po’ glielo trasmise, corroborandogli le vene e suscitando un pizzico d’orgoglio e felicità anche nel suo petto, perché dopotutto ce l’aveva fatta. Spider-Man o non Spider-Man, fine del mondo o meno.

Alzò per un secondo gli occhi verso May – fiera, raggiante e con un sorriso contagioso che le aveva visto indossare come un gioiello solo nel guardare lui o Ben – e cercò di sorridere a sua volta, nonostante fosse di nuovo al centro di tutto, o forse proprio per quello: per gli sprazzi di normalità che gli erano concessi e ancora dipingevano la sua vita di tanto in tanto, quando essere il fulcro dell’attenzione non era pericoloso e non dipingeva mirini attorno a sé.

Ci riuscì quando, accanto a May, si delineò a sorpresa e con insolita discrezione la figura di Tony Stark: le mani piantate nelle tasche del gessato, l’andatura claudicante e un mezzo sogghigno soddisfatto stampato sul suo volto di solito sempre intento a dissimulare. Gli ammiccò da dietro gli occhiali, senza una parola, per poi sollevare le lenti e scoprire le iridi brillanti; e per quell’istante fu Tony, Tony e basta, con tutto il resto del suo mondo accartocciato e gettato da parte per farsi spazio.

Peter fece lo stesso, sollevando trionfante il pugno aggrappato al suo successo verso lui e May – come Peter Parker. E basta.

Cheese.


 
 

 
18 Giugno, Municipio di New York, Manhattan
 

Peter non aveva mai prestato particolare attenzione al Municipio di New York. D’altronde, le occasioni per bazzicare Manhattan si erano presentate solo da quando aveva iniziato a frequentare la Stark Tower, e se si orientava a menadito nel cuore della Grande Mela era più grazie a Tony che gliene aveva fatto conoscere ogni angolo recondito, che ai suoi sensi di ragno.

Quando il suo mentore si era reso conto che lui, abituato com’era agli edifici in mattoni rossi più contenuti e alle strade più ariose del Queens, era sempre preso da un senso di spaesamento nel trovarsi ai piedi di quei grattacieli monolitici, si era improvvisato guida turistica trascinandoselo dietro da Harlem al Financial District e dall’Upper East all’Upper West Side –  facendogli collateralmente scoprire mille localini etnici in cui rimediare un boccone tra una ronda “fuori sede” e l’altra.

La zona del Municipio, per esempio, la ricordava molto bene per via del chioschetto di enchiladas piazzato nel City Hall Park antistante l’edificio, il quale però aveva lasciato ben poca traccia nella sua memoria, al contrario del sapore infuocato del piatto messicano che aveva privato entrambi del senso del gusto per qualche minuto. Adesso, invece, la costruzione di un bianco accecante sotto il sole di mezzogiorno monopolizzava la sua attenzione per i motivi più sbagliati.

Si rese conto di odiarlo in modo anche abbastanza veemente. Innanzitutto, perché pensare che Osborn avrebbe potuto sedersi nell’ufficio di sindaco gli rivoltava lo stomaco e gli faceva pizzicare il fantasma del morso sul retro del collo; in secondo luogo, perché la sua collocazione spaziale era un incubo, considerando che c’era un potenziale attentato in vista. Non c’erano edifici vicini sui quali appostarsi permettendogli di intervenire tempestivamente, gli alberi del parco gli offrivano un vantaggio troppo esiguo e una distanza troppo ampia e, ciliegina sulla torta, era in campo totalmente aperto a fare la gioia di qualunque cecchino avesse avuto l’idea di piazzarsi sui grattacieli costeggianti Broadway e Park Row.

Peter si morse l’interno della guancia, appollaiato sul suo scomodo trespolo che preannunciava crampi, ovvero l’asta di una bandiera verticale piantata a una decina di metri dalla scalinata d’ingresso. Là sopra era posizionato il podio, ombreggiato dal portico colonnato. La stoffa a stelle e strisce sventolava pigra appena sotto di lui, ostruendogli di tanto in tanto la visuale, ma era il punto d’osservazione migliore che avesse trovato, a meno di mischiarsi alla piccola folla accalcata oltre le barriere di contenimento.

Spostò appena il peso sul suo appoggio, coi piedi aderenti al pomello d’ottone e gli avambracci abbandonati mollemente sulle ginocchia, e il suo costume sfrigolò sommessamente, facendo tremolare l’aria a ricordargli che la modalità mimetica funzionava solo se rimaneva perfettamente immobile. Sospirò tra sé, avviando il secondo giro di ricognizione e lasciando spaziare lo sguardo sui dintorni con un fremito d’impazienza a fargli formicolare i nervi.

Le due camionette della polizia avevano appena finito di schierare i propri agenti e la volante si era spostata di qualche metro per avere più copertura. La fiumana che affluiva alla piazza dai cancelli laterali sembrava interminabile e lo costrinse a usare tutta la sua concentrazione per scannerizzare ogni singolo volto in cerca di potenziali attentatori.

Si chiese perché mai la gente avesse tanta voglia di sentir blaterare per un
ora quel narcisista di Osborn. O Campbell, piuttosto: quello l’avrebbe capito ancora meno. Vi erano due stendardi appesi ai terrazzi del Municipio, uno per ciascun candidato, con le rispettive gigantografie in pose plastiche che sarebbero state più adatte a un Capitan America d’epoca, che a un semplice sindaco.

Scosse la testa tra sé, mentre un venticello leggero portava con sé la scia dell’Hudson e un costante strombazzare di clacson arrivava sin lì dal Ponte di Brooklyn. Perlustrò il parco senza voltarsi sfruttando le telecamere di Karen, senza rilevare alcuna minaccia o attività sospetta, né alcun tipo losco fortuitamente individuabile.

Il chioschetto di enchiladas era ancora lì: chiuso, e le serrande arrugginite e coperte di graffiti stinti lasciavano intuire che lo fosse da molto. Anche il parco aveva un che di alieno, con la vegetazione cresciuta senza controllo a malapena rimessa in riga in vista del discorso e un paio di alberi caduti da chissà quanto ancora recintati da bande rosse e bianche. Distolse lo sguardo da quelle sbavature che si aggiungevano alle mille altre della città, ricordando a tutti loro che erano tornati l’esistenza tangibile di quei cinque anni.

Si morse di nuovo la guancia, rischiando stavolta di spillare sangue, e si costrinse a rilassare la mandibola e a smetterla di digrignare i denti. Non era il primo appostamento che faceva. Ma, al contrario di tutti gli altri, qui sapeva perfettamente cosa aspettarsi. Ed era fin troppo consapevole che, se il peggio fosse davvero accaduto, non era certo lui il supereroe più adatto a limitare i danni, nonostante si fosse preparato a tutti i possibili scenari catastrofici. Erano i momenti in cui l'Iron-Spider quasi gli mancava... ma non abbastanza da convincersi a indossarlo.

«Peter, c’è il Capitano Watanabe in linea.»

Peter trattenne un sussulto persino nel sentire la voce pacata di Karen, e deglutì amaro.

«Passamela e tieni aperta la comunicazione.»

«Spider-Man, sei in posizione?»

Escluse la voce di Yuri direttamente nel suo orecchio, ricercandola all’esterno, e la individuò nel giro di pochi istanti: era poggiata a una balaustra laterale appena dietro le barriere di sicurezza, con l’onnipresente giacchetto di pelle addosso e una spalla a reggere il telefono mentre trafficava con le fondine.

«Ovvio, anche se non mi vedi non vuol dire che non ci sia. Vuoi giocare a “trova Spider-Man”? È tipo “trova Wally”, ma più difficile,» sorrise lui, forzato, mentre lei sbuffava in silenzio facendo però scattare lo sguardo qua e là alla sua ricerca. «Problemi logistici, capo?» chiese poi, nel vederla strattonare una fibbia poco collaborativa e facendole capire definitivamente che poteva vederla – e la vide anche alzare gli occhi al cielo a quella realizzazione.

«Questo posto è un problema logistico

«Già, chi l’ha progettato doveva avere molta poca simpatia per il sindaco dell’epoca.»

«È un invito a nozze per i cecchini. Tieni gli occhi aperti: abbiamo un paio dei nostri tiratori sui tetti, ma sei la nostra visuale aerea

«Ricevuto,» rispose pronto, senza sentirsi affatto tale.

Ingollò una boccata d’aria, col peso di quell’ennesima responsabilità in mezzo alle scapole. E con le riflessioni di quei giorni che tornavano a girare in circolo, pur coi sensi sempre all’erta che monitoravano i dintorni in automatico. Non lo avrebbe mai ammesso, ma la parentesi di assoluta normalità che aveva portato con sé la fine della scuola gli aveva arieggiato i pensieri chiusi troppo a lungo nello sgabuzzino della mente. Più che pensieri, il diritto di non averne – la spensieratezza, seppure effimera, che seguiva un successo.

Un piccione gli sfiora il capo, il vento vira da ovest a sud, il gorgoglio di un tombino risale tre strade più in là.

La cena di festeggiamento al thailandese con May e il resto della sua famiglia acquisita era stato uno sprazzo arancione per una volta privo di tinte cupe, ed era andata a incastrarsi dentro di lui assieme ai tasselli per metà in ombra e per metà illuminati che formavano il suo piccolo mosaico personale dei momenti indimenticabili. E subito dopo se n’era aggiunto un altro, non appena aveva messo piede fuori dalla porta del ristorante, nella sera newyorkese punteggiata di lampioni: un tassello tinto d’inchiostro nel realizzare che la città, là fuori, era solo addormentata. Dormiva il sonno di un vulcano assopito e pronto a eruttare, mentre l’attesa strisciava tra i palazzi in viticci infestanti, ricordandogli che quei momenti di spensieratezza non erano altro che, appunto, momenti.

Profumo di ciambelle, le ruote di un monopattino sul lastricato, la volante si sposta di qualche metro con un lampeggiare rosso-blu, i flutti dell’Hudson sciabordano contro un battello.

E anche in seguito se li era goduti quanto più possibile, quei momenti, tra una ronda frenetica e l’altra, tallonato dall’attesa per il giorno fatidico e divorato dall’impellenza di parlare con tutti e con nessuno. Di bruciare quella foto e tutti i collegamenti che tracciava – con la Oscorp, quella maledetta Oscorp che sembrava non aver mai ritratto gli artigli da lui – e riappropriarsi della propria identità, di entrambe. Di chiedere aiuto per quella missione solitaria che aveva troppe matasse da districare e troppi vicoli ciechi in cui rimanere intrappolato.

Avrebbe dovuto parlarne con Tony. Lo sapeva. Avrebbe dovuto, e non voleva. No, non poteva: Tony non era più Iron Man. Lo aveva realizzato quel giorno nel suo ufficio alla Tower, dopo quella discussione in cui aveva dimostrato di saperne indossare ancora la maschera, ma non l’armatura. Era ancora Iron Man nel cuore, e lo sarebbe sempre stato anche per lui… ma non lo era nel fisico e nella mente. Coinvolgerlo in quell’operazione non significava avere Iron Man al proprio fianco che combatteva con lui, ma Tony nelle retrovie che combatteva contro ansia e tachicardia e un corpo rotto. Sapeva anche questo, ma non lo rendeva più facile da accettare.

La bandiera frusta il vento con uno schiocco, uno scalpiccio di passi attraversa il colonnato, Yuri toglie e rimette la sicura dell’arma, l’aria gli preme addosso, compatta.

Si odiava per quei pensieri che gli sembravano inutilmente crudeli, ma intuiva che Tony avesse preso coscienza di quel fatto nel momento stesso in cui aveva riaperto gli occhi in un letto d’ospedale con metà corpo quasi carbonizzata. Era troppo intelligente per non averlo realizzato e abbastanza folle e orgoglioso da ignorarlo. Si somigliavano troppo, a volte, e a volte talmente poco che gli veniva da chiedersi come facessero a sopportarsi, o a non…

Una schicchera elettrica gli fa scintillare le sinapsi.

Puntò di scatto gli occhi verso il palco: Osborn aveva preso posto dietro al leggio, ben riconoscibile mentre era intento a salutare la folla esplosa in un’ovazione. Lo fece in modo affettato, viscido, con un palmo appena alzato in una posa quasi statuaria. Lo ricordava così anche quel giorno lontano alla Oscorp, quando aveva accolto la loro scolaresca in gita parlando della propria azienda, nello sguardo l’esaltazione di chi è cieco ad ogni difetto quando si guardava allo specchio. Era rimasto immutato, coi capelli rossicci ben pettinati e appena screziati da qualche filo grigio, il sorriso troppo ampio e gli occhi così chiari da apparire vitrei.

«In campana, Spider-Cop,» gli arrivò con un gracchiare di statico.

Mormorò un assenso. Era in campana, certo, su un campanile con tonnellate di bronzo – di cemento – sopra di lui pronte a riverberare al rintocco in arrivo. Percepì il senso di ragno contorcersi, espandersi e ritirarsi in pulsazioni ritmiche. Gli sfrigolava sottopelle, a mezza via tra vene e nervi, gli apriva i pori immettendogli in circolo l’essenza di ciò che lo circondava, filtrandola ad ogni respiro nel tentativo di catturare il pericolo tra le sue maglie.

Sentì chiaramente un nichelino che cadeva sul marciapiede della Broadway, un “taxi!” gridato sul lungofiume… e al contempo non li sentì: rimasero vibrazioni impercettibili sul suo sismografo ben tarato. Si era allenato notti intere per ricalibrarlo, nei vicoli e sui tetti più bui di Hell’s Kitchen, e non si era mai sentito così uno col mondo e al contempo consapevole di se stesso. Come diceva Matt? Doveva vedere il mondo e le sensazioni che gli inviava come il suo parco giochi personale: e lui non doveva fare altro che sfruttarlo a suo piacimento.

Si sentì pronto, per la prima volta in tutti quei mesi. Innestò un pensiero dentro di sé, se lo incastonò sotto lo sterno a dargli energia. Forza, Spider-Man.
 
 
 
 
«Cari concittadini!» esordì Osborn, stirando un altro sorriso da rivista patinata. «Carissimi concittadini, sono lusingato nel vedervi così numerosi e vi ringrazio per essere qui oggi, dimostrando così di avere a cuore la nostra splendida città e il suo futuro. Come sapete, il mio sguardo è sempre stato rivolto al futuro in quanto scienziato, e adesso mi trovo a farlo anche come politico. E come politico e scienziato, dico che il futuro va costruito su fondamenta solide, fondamenta che ho intenzione di progettare io stesso assieme a voi e grazie a voi, così da rendere il domani a portata di mano.»

Peter aggrottò le sopracciglia sotto la maschera, storcendo appena la bocca a quelle parole pompose. Il futuro, a lui, sembrava un qualcosa da tenere a bada piuttosto che un orizzonte da raggiungere. In realtà, non riteneva nemmeno così importante farlo. Osborn ne parlava alla stregua di un qualcosa di tangibile che avrebbe voluto afferrare lui stesso con le proprie mani, usando come trampolino di lancio tutti coloro disposti a sostenerlo… e incurante di chi avrebbe schiacciato.

Era un concetto spigoloso che proiettava ombre aguzze, non importava da che lato lo guardasse, e trovava molto più a misura d’uomo quello propugnato da Tony, nonostante venisse chiamato proprio “Il Futurista”. Un giorno, prima dei cinque anni, gli aveva confessato di detestare quel titolo. Il futuro sta bene dove sta, gli aveva detto in laboratorio, quasi seccato, Quel che conta è il retaggio. Che è sempre il futuro, in effetti, ma quello che non potrai mai vedere: lo carichi  per anni e poi lo lanci davanti a te, oltre l’orizzonte. Puff, sparito, un fuoricampo. Una gran bella fregatura... ma ne vale la pena.

«… e come potrei non avere a cuore il futuro di New York? Mia moglie, in particolare, ha amato profondamente questa città. Ha combattuto con tutte le sue forze per vederla splendere, gestendo molteplici progetti di ricerca e tutela ambientale. Lei si è ormai spenta, ma non il suo sogno: ed è per questo che, nel mio programma, figura il finanziamento e il ripristino di molti di quei progetti ecologici rimasti finora orfani…»

Peter sbuffò tra sé a quella definizione: aveva un bel coraggio a definirli “orfani”, quando persino i sassi sapevano che quei finanziamenti erano stati prontamente dirottati nelle ricerche vere e proprie della Oscorp, che avevano ben poco a che vedere con gli intenti ambientalisti della moglie. Ragni radioattivi, per esempio. Un prodigio della scienza, davvero. O l’ingaggio della Sable. Già, ce li vedeva bene dei soldati-Robocop come spazzini volontari a Central Park.

«… anche se di questa parte del programma si occuperà in prima persona mio figlio Harry, che vi è sicuramente più legato… ma non vorrei cadere nel cliché comune a tutti i padri e finire fuori tema!» rise Osborn, in modo latrante che suscitò però una pronta risposta dai suoi sostenitori.

Peter decise che ne aveva abbastanza per turarsi selettivamente le orecchie evitandosi di sentirlo anche tessere le lodi del figlio prodigio. Escluse del tutto quella cantilena di banalità e lusinghe vomitevoli. Si ricordò per chi fosse lì: per la gente, ignara, che sarebbe rimasta coinvolta nel fuoco incrociato di una guerra che non sapeva nemmeno di combattere. Distolse lo sguardo da Norman, lasciandolo viaggiare a zig-zag sui dintorni senza incontrare alcun ostacolo che lo impallinasse. Tese ogni muscolo del proprio corpo, sempre più ad ogni linea di discorso trito pronunciata da Osborn.

Adesso, da un momento all’altro. Adesso.

Da un momento all’altro. Gli bruciò il senso di ragno, come se lo stesse sforzando troppo, o come se stesse facendo troppo attrito rischiando d’incendiarsi.

Adesso? 

Le sensazioni divennero quasi dolorose, ma mantenne il controllo. Da un momento all’altro…

«… grazie per la vostra attenzione, cari concittadini, e… vi aspetto alle urne!»

L’applauso gli scrosciò contro i timpani, con ogni singolo battito di mani ben distinguibile quando rimbalzava sulla membrana tesa allo spasmo. Si preparò allo scatto, col fiato che gli si addensava in bocca e le dita che gli tremavano sugli spara-ragnatele. Osborn face un ultimo cenno di saluto alla folla – si girò di profilo, offrì un bersaglio perfetto da tirassegno.

Applausi, applausi, applausi, un fischio acuto, un’ovazione di cento voci, una marea che cresce e defluisce senza onde anomale.

Voltò le spalle al suo pubblico – adesso, adesso, adesso – si addentrò nell’ombra del colonnato e sparì oltre la barriera della propria scorta. Lo intravedeva tra il marmo, lontano da bombe e cecchini, protetto dagli agenti di Yuri. Fuori pericolo.

Il battito di silenzio che seguì sembrò espandersi per tutta New York, per poi concentrarsi in un sibilo acuto e attorcigliato nelle sue orecchie. Nulla.

Campbell prese posto sul podio prima occupato da Osborn e si lanciò nel suo poco avvincente discorso. Parte della folla si disperse, disinteressata, solo qualche capannello rimase ad ascoltare il candidato sfavorito – qualcuno troppo educato per andar via, qualche spettatore pagato, pochi sinceri interessati e qualche fedelissimo. Sentì lo statico della comunicazione radio con Yuri, ma lei non parlò, e in quell’assenza di commenti sentì tutto il suo sconcertato sollievo.

«No, non l’hai sognato,» interloquì, rilassandosi una cauta tacca alla volta, sempre tenendo su giri il senso di ragno che continuava a girare a vuoto.

«Stavo per chiedertelo. Tra i tuoi poteri non figura la telepatia, spero.»

«No… ancora no, ma potrei chiedere qualche lezione, se può servire a rendermi più simpatico. Perché ti sto già simpatico, giusto?»

«Sbagliato. Al massimo ti tollero, Spider-Cop.»

Peter si lasciò andare a una risatina, un’esalazione leggera che gli tolse uno strato di metallo solido di dosso. Era bello, respirare, pensò con una contrazione ai polmoni.

«Wow, è, tipo, la cosa più carina che tu mi abbia mai detto.»

La udì sbuffare, e captò il sollievo anche in lei, sebbene altrettanto fievole e stemperato dalle successive parole:

«Non montarti la testa. E, soprattutto, non abbassiamo ancora la guardia: potrebbe essere un diversivo. Osborn dovrà comunque fare le foto di rito dopo il discorso di Campbell, non cantiamo ancora vittoria.»

Peter emise un sonoro sbuffo, impegnandosi per renderlo il più infantile possibile.

«Magari il tuo superpotere è il pessimismo, ci hai mai pensato?»

Yuri non rispose, ma la udì comunque sospirare anche a quella distanza, cosa che gli strappò un sorrisetto di breve durata. Il fatto che il loro lupo solitario non avesse colto l’occasione per colpire Osborn era sicuramente un bene, ma… ciò significava che avevano anche perso la loro finestra d’opportunità per svelare gli intrighi sotterranei di Kingpin. La cui marionetta, piazzata su quel palchetto assolato, pareva sbeffeggiarli mentre blaterava a vuoto promesse elettorali irrealizzabili e pagate coi soldi del crimine.

Peter reclinò all’indietro la testa, scrocchiandosi il collo indolenzito, per poi accigliarsi senza capire perché e sintonizzarsi in automatico sulle idiozie sparate dal candidato più fantoccio che avesse mai visto.

«… ed è per questo che la promozione del FEAST e di associazioni di volontariato affini è uno dei fulcri del mio programma!» stava annunciando Campbell, con un ampio gesto in direzione di un uomo in completo nero che stava giusto salendo sul palco.

Peter, già abbastanza sgomento per la menzione del FEAST, sbarrò gli occhi. Riconobbe il signor Li che, sorridendo, strinse energico la mano paffuta di Campbell. Ecco, quello era decisamente un fuori programma. Fisk che promuoveva associazioni di beneficenza? Era conscio che dovesse mantenere una facciata da filantropo, ma credeva ci fosse un limite all’ipocrisia, e poi… proprio il FEAST. Perché proprio il…

Una cascata gelida gli scivolò a tradimento lungo la schiena, azzannandolo alla nuca e facendolo sobbalzare e tremolare nel trovarsi davanti agli occhi l’anello di collegamento che aveva cercato per un mese intero.

Fisk, che aveva le mani in pasta anche lì, così vicino a lui, che sfiorava la sua vita da chissà quanto. Così vicino a May. E il signor Li che, ignaro, o forse solo preoccupato di garantire fondi alla struttura, era entrato a testa bassa nella tana del leone, fornendo a Kingpin lo spioncino perfetto su un certo adolescente impacciato e strambo che aveva la fortuna di fare un tirocinio alle Stark Industries e di poter chiedere a Spider-Man di rallegrare le serate di beneficenza.

Quanto poteva essere stato complesso fare due più due, considerando i mezzi di cui disponeva un lord del crimine? Quanto era stato ingenuo lui, per esporsi così tanto?

Il senso di ragno gli inviò una scossa violenta lungo gli arti, e chiuse gli occhi a scacciarla: no, non di nuovo. Non poteva andare in tilt anche adesso, non poteva…

Un’altra scossa, più forte. Più mirata. Incanalata in tre punti precisi, che gli brillarono dietro le retine come quelli di un radar – uno fisso, due lampeggianti – pericolo.

Spalancò gli occhi: il mondo riacquistò senso e lo perse nello stesso secondo. Agì prima ancora di poter elaborare l’impulso nervoso che gli era arrivato, con gli occhi che registravano passivamente forme e colori privi di logica: tra la piccola folla uniforme, spiccavano due chiazze bianco-nere, brucianti, sbagliate. Dei negativi di quelle che avrebbero dovuto essere normali persone, ora dipinte di un bianco abbacinante e di un nero senza fondo, ritagliate da un fotografo e male incollate sopra una foto a colori. Il principio di un grido incrinò il silenzio.

Non pensò a nulla di ciò che stava facendo: balzò verso l’alto dal suo trespolo, infrangendo il mimetismo, lanciò le ragnatele su quelle due anomalie – che pulsavano, raccoglievano energia devastante che ribolliva sotto pressione pronta a esplodere – e le trasse verso l’alto come pesci presi all’amo per poi scagliarle lontano con una mezza rotazione, a impattare sul lastricato nell’angolo più vuoto della piazza. In quella frazione di secondo sospesa a mezz’aria, sparò una scarica di ragnatele contro di loro – di quelle modificate per attutire le esplosioni, su cui aveva appositamente speso notti insonni nelle ultime settimane.

Atterrò con un tonfo leggero, piegandosi su un ginocchio e su una mano, una gamba tesa dietro di lui, mentre gente impazzita prendeva a correre ovunque attorno a lui, smarrita, confusa, in una reazione a catena istintiva di mandria calpestante presa dal panico. Si slanciò con una capriola verso il palco, verso il terzo punto ora lampeggiante, pregando di essere in tempo.

Lo vide con un inciampo nel respiro: Martin Li, anche lui trasformato in quella versione da incubo di un negativo fotografico, coi lineamenti inghiottiti dal nero e gli occhi impossibilmente bianchi e brucianti d’ira fissi su di lui. Pulsava di energia pronta a divampare. Sentì due scoppi attutiti e smorzati dietro di lui, seguiti da urla impaurite, pestare di piedi in fuga e uno sparo a culminare il tutto.

Non capì, e pur non capendo sparò le ragnatele oltre Campbell che indietreggiava terrorizzato, oltre i tre poliziotti che impugnavano le pistole, oltre quello che si stava gettando addosso a Li, verso quella bomba umana innescata che doveva assolutamente fermare.

Non colpirono mai il bersaglio: l’esplosione le spazzò via e scaraventò lontano anche lui, precipitandolo nel buio.



 
Note:
[1] Yuri ha origini giapponesi, pur essendo nata a New York; essendo per cultura piuttosto tradizionalisti ho voluto lasciarle il modo di contare “all’orientale”, ovvero partendo dal mignolo e risalendo verso il pollice.
[2] Piccolo easter egg relativo ai fumetti, in cui Yuriko Watanabe è Wraith (Spettro), un vigilante di New York.


Note Dell'Autrice:

Cari Lett– NO POSATE TORCE E FORCONI! *fugge nella notte*
Se non si fosse capito, sì, mi piacciono i cliffhanger! :D Però non odiatemi, non aggiornerò tra sette secoli come al solito, giuro <3

Chi ha giocato il videogioco di Spider-Man per PS4 aveva probabilmente già mangiato la foglia riguardo a Martin Li e la sua "condizione", e anche la scena finale sarà risultata familiare, nonostante l'abbia riarrangiata e adattata al nuovo contesto... e ciò che segue si discosta a sua volta dalla trama del gioco, seguendo binari indipendenti che manterrò top-secret <3 Non mi dilungo in ulteriori spiegazioni, in quanto tutto (incluso il marasma finale volutamente non chiaro) verrà ampiamente approfondito nel prossimo capitolo. Che spero vi sorprenderà, sin dalle prime righe :D
Ringrazio di cuore tutti, ma proprio tutti coloro che hanno commentato, letto e/o aggiunto la storia alle loro liste finora <3 Un grazie particolare alla mia Guascosa
Miryel, che supporta sin dagli albori questa storia e mi dà sempre la carica per scriverla al meglio (oltre a dimostrare straordinare doti telepatiche e amore condiviso per le cazzate tristi). Grazie, Guasco' <3

Alla prossima, spero a prestissimo,

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