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Autore: Circe    15/04/2020    3 recensioni
Il veleno del serpente ha effetti diversi a seconda delle persone che colpisce. Una sola cosa è certa: provoca incessantemente forte dolore e sofferenza ovunque si espanda. Quello di Lord Voldemort è un veleno potente e colpisce tutti i suoi più fedeli seguaci. Solo in una persona, quel dolore, non si scinde dall’amore.
Seguito de “Il maestro di arti oscure”.
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Rabastan Lestrange, Rodolphus Lestrange, Voldemort | Coppie: Bellatrix/Voldemort
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eclissi di sole: l'ascesa delle tenebre'
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Lord Voldemort : “La coppa”


 
Ero solo, seduto al tavolo al centro della stanza e scarabocchiavo, sul grimorio, lo schizzo di ognuno degli Horcrux che avevo creato. 
Avrei potuto occuparmi di alcune faccende importanti, ma non mi interessava in quel momento: preferivo godermi il silenzio, stare da solo a preparare e studiare con cura i miei incantesimi più impegnativi.
Il primo Horcrux che disegnai, fu il primo che creai, ovvero il grimorio di quando ero un ragazzo. Mentre abbozzavo le prime linee, ripensavo anche a quanti segreti avevo riversato su quel quaderno, quante scoperte e quanti incantesimi nascosti, quanti studi e formule: ne ero molto orgoglioso all’epoca.
Mi venne da sorridere a pensare al me di allora, quanto fossi geniale e allo stesso tempo ingenuo, ignoravo tutto di me, eppure ero capace di fare cose straordinarie per un bambino di quell’età.
Ritoccai i particolari, feci i chiaroscuri del diario con la punta della matita, chinando la testa di lato per vedere se fosse venuto perfetto.
Lo era.
Era un Horcrux che avevo creato molto presto, quando ero ancora appena adolescente. Non avevo sofferto minimamente allora, non avevo riscontrato alcun problema, era stato poco più di un gioco per me, pericoloso, crudele, ma pur sempre un gioco. Non ci fu alcuna conseguenza fisica, nessuna conseguenza morale, se non quella di esaltarmi moltissimo. 
Mi entusiasmai davvero tanto in quella prima occasione, sentii immediatamente il bisogno di crearne subito un altro. 
Infatti lo feci: di lì a poco tempo creai il mio secondo Horcrux.
Osservai il foglio, lo sollevai leggermente e ci soffiai sopra con attenzione, volò via la polvere di grafite usata per ricreare le ombre.
Cambiai quindi pagina e passai a disegnare l’anello, che era appunto il mio secondo Horcrux, anche quello lo creai ai tempi della scuola, non ero ancora maggiorenne. 
Avevo portato quell’anello per molto tempo, sia a scuola sia in seguito, ma poi avevo preferito toglierlo per sempre. 
Man mano che ne disegnavo i tratti, li osservavo e sistemavo i particolari, ripensavo alla sua storia, alla sua provenienza, a come avevo scoperto dell’esistenza del suo possessore. Non volevo pensarci, erano ricordi che odiavo, l’anello non lo portavo più proprio per non doverci continuamente pensare, cercai di concentrarmi sulla pagina, tentai di rendere al meglio i particolari della brillantezza della pietra: stava venendo bene. 
Quando fui quasi al termine dell’opera però, man mano, tornarono prepotentemente i ricordi di quando lo trovai: quell’oggetto simboleggiava la scoperta della mia famiglia d’origine, dei miei parenti più stretti.
Il degrado, la vergogna, la disgrazia di quei momenti.
Quella casa, quelle persone, lo stato delle cose… tutto mi innervosiva molto.
Ecco che finii per calcare troppo con la matita e rovinai il disegno, il foglio si lacerò rendendo inutile ogni tentativo di recupero.
Sentii la mano che mi tremava dalla rabbia. Non per il disegno finito distrutto, ma per altro.
Strappai tutto, gettai il foglio nel fuoco e aprii le finestre per sentire il vento sulla pelle. Rimasi lì per diversi minuti a respirare, lo sguardo fisso verso il vento. Lasciando passare il tempo a contatto col mio elemento, l’ansia di distruzione si placava lentamente. 
Dovevo finire il lavoro sui miei incantesimi e i miei Horcrux, sapevo che era più importante che perdere tempo a pensare a chi fossero i miei parenti, come fossero ridotti e chi fosse mio padre. Dovevo solo finire un disegno, nient’altro.
Mi convinsi.
Tornai al mio lavoro.
Era semplicemente un anello, niente di più. Gli attimi in cui entrai in quella casa, però, mi tornarono alla mente, la delusione che provai, lo sporco, lo squallore… era peggio che l’orfanotrofio. Poi l’informazione che ricevetti su mio padre, tutto di quel momento mi invase la testa e lo stomaco, mi venne la nausea a pensare a chi fosse l’uomo di cui portavo il nome. 
Mi alzai di nuovo senza nemmeno essere riuscito a toccare il disegno, presi un bicchiere d’acqua e ci lasciai cadere un paio di gocce di laudano.
Iniziai a berlo con calma, mi presi tempo.
Quando iniziò a fare effetto tornai al mio lavoro, non volevo perdere tempo a causa di quella storia, a causa di quel padre, e di quella madre che era caduta tanto in basso. Ogni volta mi auguravo fosse dimenticata, invece non mi lasciava mai. Non potevo allontanare il pensiero che mi aveva abbandonato, che era così debole da lasciarsi morire.
Sorseggiavo con calma e i pensieri passavano, me ne liberavo di nuovo.
Mi strofinai gli occhi, era più difficile disegnare ora, ma ero sempre stato bravo e preciso, bastava lasciar lavorare la mia mano secondo ciò che pensava la mia testa, per cui presi la matita e iniziai da capo il lavoro.
Non pensavo a nulla, niente se non l’immagine davanti a me che prendeva forma. Sentivo un perfetto tepore dentro di me, una condizione assolutamente piacevole.
Curai meno i particolari, ma la riproduzione dell’anello era ugualmente ottimale.
Quando ebbi finito appuntai, per questo Horcrux come avevo fatto per l’altro, i tempi e lo svolgimento dell’incantesimo, le variazioni rispetto all’evento precedente e il rito svolto. Nemmeno in quel caso riscontrai problemi dal punto di vista fisico, semplicemente un lieve fastidio alla testa, e una certa debolezza.
Mi ero deciso a fare il punto della situazione per avere un quadro chiaro dell’incantesimo e delle mie reazioni nel tempo.
Ero molto giovane e forse il mio corpo reagiva meglio allora, ma non potevo essere certo che dipendesse solo da questo, al momento restava un interrogativo irrisolto anche per me. 
Passai quindi al terzo Horcrux: il diadema.
Era complicato da ricordare nei particolari e ancor più da disegnare, iniziai con tratti leggeri, creando lo scheletro del gioiello. 
Anche questo me lo ero procurato veramente presto, quando ero ancora a scuola. Ugualmente decisi di non compiere l’incantesimo nell’immediato, aspettai anni, tenni con me il diadema e lo conservai di proposito per creare un nuovo Horcrux.
Qualche particolare non lo ricordavo proprio più, lo inventai ad arte, seguendo il disegno generale. Anche qui le sfumature ci stavano bene, la mia mano si muoveva con molta delicatezza e velocità. Nonostante usassi la mano sinistra non ho quasi mai avuto problemi a scrivere e disegnare in modo preciso e ordinato.
La osservai per un attimo: le dita sottili, la mano stessa e il polso affusolati, la pelle candida. Non si vedevano assolutamente più i segni delle bacchettate a sangue degli insegnanti all’orfanotrofio, a causa del fatto che mi vedevano imparare a scrivere con la mano, a detta loro, sbagliata.
Avrei dovuto vendicarmi su tutti, anche su di loro, i lavoranti dell’orfanotrofio, i torturatori dell’orfanotrofio… invece ancora non lo avevo fatto.
Cercai di passare oltre anche a quel pensiero, dovevo concentrarmi sugli Horcrux.
Staccai la matita dal foglio, osservai bene e definii i pochi particolari rimasti. Sorseggiai l’acqua ancora nel bicchiere, sapeva di dolciastro, ma c’ero abituato e mi piaceva.
Aggiunsi sotto al diadema ancora una volta tutti i particolari dell’incantesimo, i tempi e le modalità. Stavolta dovetti appuntare anche i forti effetti collaterali che subii in quell’occasione: dal dolore forte alla testa, ai crampi allo stomaco alla debolezza subito successiva. 
Riflettei per un attimo perché ancora non riuscivo a capire il motivo di quel cambiamento e non sarei riuscito ad evitare che si ripetesse.
Infatti i problemi erano tornati, proprio poche settimane prima, col quarto Horcrux: il medaglione.
Era uno dei simboli più importanti che avessi trovato durante la mia ricerca. Mi legava al mio più celebre antenato, Salazar Serpeverde, lui sì un mio degno antenato, quindi era mio di diritto e mi sentivo legittimato ad avere quel gioiello.
Non l’avevo indossato, ma lo sentivo mio.
Lo ricordavo a memoria senza sforzo, disegnai la catenina a cui era attaccato, poi mi applicai attentamente per riprodurre la pietra e il serpente raffigurato, non era di semplice rappresentazione, mi dovetti impegnare molto.
Fuori iniziava a fare buio, dovevo sbrigarmi per finire con ancora un po’ di luce che mi permettesse di essere perfetto e preciso nel disegno. Calcai molto in alcuni punti, molto meno in altri, in modo da rendere la profondità.
Descrissi il rito compiuto poche settimane prima.
Nella didascalia sotto aggiunsi ulteriori effetti: il mal di testa era diventato lancinante, come una vera e propria rottura, uno strappo, stessa cosa per lo stomaco, i visceri tutti. La spossatezza era durata per molte delle ore successive all’incantesimo. Le emozioni le sentivo indefinite, ma violente.
A quel punto li avevo tutti davanti ai miei occhi, sui vari fogli.
Aggiunsi sotto ad ogni Horcrux la posizione: il grimorio era ancora in mano mia, ma volevo tornasse a Hogwarts, dove lo avevo curato e creato, doveva tornare nella camera dei segreti, solo il diario avrebbe potuto ricreare le condizioni per la sua apertura. 
Anche il diadema doveva restare a scuola, e ce lo avevo già riportato personalmente nascondendolo dove solo io potevo sapere, indicai quindi la stanza delle necessità.
Forse era un pericolo lasciarli entrambi nello stesso luogo, la scuola, ma era fondamentale per non privarli della loro simbologia.
Il medaglione si trovava nella caverna, protetto e ben nascosto nel luogo simbolo delle mie escursioni segrete, delle mie prime potenti magie.
L’anello lo avevo riportato definitivamente al suo posto, in quella casa distrutta, in quel luogo ignobile, nascosto e protetto da un incantesimo.
Riposi la matita sul tavolo, il lavoro era quasi ultimato, mi sgranchii le spalle e il collo, guardai fuori dalla finestra.
Rimaneva solo un oggetto simbolo: la coppa.
Accesi le candele attorno a me. La coppa non era ancora un Horcrux, ma lo sarebbe diventato, era infatti mia intenzione andare avanti, studiare, tentare, sperimentare questo tipo di incantesimi, combattere la morte.
Vivere per sempre.
Cambiai foglio e disegnai la coppa molto in grande, sarebbe stato il mio prossimo incantesimo, il prossimo Horcrux. Iniziai dal piedistallo, impiegai moltissimo tempo per rendere al meglio gli intarsi e la lavorazione dei manici, poi terminai con il coperchio.
Disegnarla in ogni suo particolare mi aiutava a riflettere per bene sullo svolgimento dell’incantesimo, sulla simbologia, sull’importanza che aveva per me. Era l’ultimo oggetto rimastomi, dovevo concentrare in lui attenzioni e potenza. Racchiudere all’interno di quel rito tutto ciò che avevo racchiuso negli altri e anche di più, molto di più.
Avrei voluto creare sette Horcrux, il numero magico perfetto, ma al momento non avevo la possibilità di trovare altri due oggetti così carichi di potere e magico, per cui, almeno per il momento, dovevo concentrarmi sulla coppa e nient’altro.
Giravo il foglio in diverse posizioni per creare i chiaroscuri, le forme arrotondate, i passaggi più netti, cercavo di rendere la sua bellezza sotto diverse prospettive.
Ero molto legato alla simbologia della coppa, la parte di anima che le volevo riservare avrebbe albergato lì e si sarebbe nutrita del suo potere.
Essa è portatrice di moltissimi significati simbolici, come quello quello dell’abbondanza, della fertilità e soprattutto della nascita e rinascita. Simboleggia anche l’essere femminile, la donna. 
E l’amore.
Quest’ultimo non mi interessava minimamente, ma tutto il resto sì. Simbolo di rinascita è adattissima per ospitare la mia anima al suo interno.
Sorrisi quando ebbi finito il disegno, lo alzai alla luce della candela, era perfetto: il più particolareggiato, il più curato.
Appuntai con dovizia di particolari il rito che volevo svolgere, elencai piccoli particolari nuovi, modifiche rispetto ai primi riti, migliorie, perfezionamenti.
Non sapevo se tutto ciò mi avrebbe portato a risentirne di più, ad usare più energia, ma sicuramente il risultato sarebbe stato un rito migliore, un Horcrux più potente e forte. Anche più protetto.
Man mano avevo affinato di più la tecnica, particolareggiato le invocazioni, preparato i più piccoli risvolti con cura, stavolta erano praticamente perfetti.
Avrei solo dovuto decidere quando agire, ma per quello volevo prendermi tempo, non avevo fretta, avevo appena creato il quarto Horcrux e non volevo iniziare subito col quinto.
Mancava di indicare dove conservarlo una volta creato, ma anche a quello avrei dovuto pensare bene una volta ultimato l’incantesimo.
Decisi di sistemare ancora alcune ombre per definire meglio la coppa, poi mi sentii soddisfatto. Rilessi le scritte e mi rimase impressa quella frase sulla simbologia femminile, la donna… 
Sospirai mentre chiudevo il grimorio. 
Dovevo parlare con Bellatrix.
Per settimane l’avevo deliberatamente ignorata e umiliata, questo perché non mi era piaciuto si fosse fermata nella stanza della riunione con Rodolphus, anziché venire a relazionare a me le sue impressioni sui Mangiamorte. Non l’avevo ancora perdonata, ma ormai dovevo decidermi a parlare con lei proprio a proposito di quell’ultima riunione e non potevo rimandare oltre. Volevo sentire la sua opinione che si dimostrava sempre molto arguta e veritiera.
Feci un incantesimo al grimorio, affinché si oscurassero tutte le scritte e i disegni, così che solo io avrei potuto consultarlo al bisogno, quindi la chiamai attraverso il Marchio Nero.
Arrivò da me poco dopo, mentre stavo riponendo il quaderno nella libreria, in un posto comunque sicuro e nascosto. 
“Mio Signore, mi volete?”
Mi strappò una smorfia maliziosa di ironia, aveva sempre un modo di dire le cose a metà tra il servile e il passionale, ma probabilmente non se ne rendeva pienamente conto, lei pensava di essere solo servile.
Mi avvicinai a lei, in certi momenti riusciva anche a farmi passare la rabbia che provavo sempre, nei confronti di tutti, perennemente.  
Solo lei, certe volte, riusciva ad attenuarla.
Aveva imparato a non fare tragedie ogni volta che mi allontanavo, o la trattavo malamente, era cresciuta e non si dimostrava più sempre una ragazzina sciocca, ma se la guardavo dritta negli occhi, e usavo un po’ di attenzione, potevo vedere chiaramente la sua tristezza e l’incapacità di comprendere i miei malumori.
“Sì ti voglio, Bella.”
Le risposi solamente così e non mi mossi, rimasi immobile in silenzio ad osservarla.
Portava un bel vestito, sempre nero, come solito, che lasciava scoperto il collo e un po’ le spalle, faceva appena intravedere il seno, ma quello che mi interessava di più era un sottile lembo  di pizzo nero avvolto come un serpente al collo. Non aveva fatto il nodo, lo aveva solo avvolto al collo facendo scendere i lati lunghi sulla schiena.
No, non capiva i miei malumori e non capiva nemmeno i miei repentini cambi d’umore, ma mi piaceva sorprenderla, vedere come sapeva sempre seguirmi in tutto, senza paura, senza timori.
Le afferrai quella piccola sciarpa e la tirai forte verso di me, ma senza esagerare.
Lei prese aria, si sentiva stringere la gola, socchiuse le labbra, la vidi lasciarsi attrarre per venire più vicina, lo fece in maniera languida, ma quando sentì che stringevo ancora di più, le vidi un lampo di paura nello sguardo.
La lasciai nel dubbio per qualche istante, allentando e forzando alternativamente la presa, le sorrisi perché mi piaceva vederle la paura e la sofferenza dipinti su quel volto orgoglioso di Purosangue.
Solo quando capii che si era rassegnata e restava in balia delle mie azioni, allora la rassicurai.
“Hai paura di me?”
Non rispose direttamente, ma mi lanciò uno sguardo vivo e terrorizzato. Capii che mi temeva.
“Non ti faccio del male, sei la mia strega più potente.”
Lei sorrise, la vidi tranquillizzarsi velocemente, prese il lembo di pizzo con le dita e iniziò a sfilarselo dal collo, lentamente. Quando la stoffa stava snodandosi sinuosamente, lo trattenni ancora, ma solo in parte, provocando uno strofinamento che le arrossò tutto il collo caldo, in parte nascosto dai lunghi capelli neri, lisci, che si appoggiavano anche loro sinuosi sulla pelle.
Allora le tolsi quel giochino di stoffa e le iniziai a baciare il collo, sentivo sotto le mie labbra e sotto i miei denti il suo respiro vorace di aria, che prima, in parte, le avevo tolto, sentivo l’ eccitazione dirompente con la quale si avvinghiava a me, il profumo delle sua pelle, dei suoi capelli, il sapore della carne sotto i miei morsi voraci.
In quel momento bussarono alla porta. Sicuramente una scocciatura.
Ancora adagiato sul suo collo, alzai gli occhi al cielo, mi staccai di malavoglia.
“Avanti.”
Mi voltai verso la porta per accogliere chiunque venisse a interrompere quel momento.
Entrò Alecto Carrow che rimase però sulla soglia, contrariata, e solo dopo alcuni istanti si azzardò ad avanzare. Le due donne si guardarono con il solito odio.
Mi divertiva sempre vedere come si contendessero le mie preferenze. Per quanto io avessi più volte mostrato la mia preferenza per Bellatrix, le due continuavano a voler primeggiare ai miei occhi, come se ce ne fosse continuamente bisogno. 
Osservai Alecto che ci guardava, poi guardava Bella e diventava scura di rabbia scorgendo il suo collo evidentemente rosso e la sciarpa di pizzo nelle sue mani.
Ma io avevo fretta, non volevo perdere tempo in quel modo.
“Dimmi Alecto, perché sei qui? Mi auguro qualcosa di importante.”
Lei non parlava, il suo sguardo vagava smarrito da me a Bella e viceversa.
“Ancora con lei? Mio Signore, ma perché? Perché sempre con lei?”
Ecco che riprendevano queste rimostranze assurde.
“Ma come ti permetti di parlare così al MIO Signore?”
Anche Bella si era messa a rispondere, io la fermai subito con un cenno della mano.
“Adesso basta, sono stanco di sentire tutte queste chiacchiere. Sono stanco di sentire battibecchi e litigate tra i miei Mangiamorte! Voi dovreste essere una famiglia, la mia famiglia, non altro. Dimmi cosa sei venuta a fare, Alecto, e vedi che non sia una sciocchezza!”
Restammo tutti zitti per qualche istante.
“Sono venuta a dirvi, mio Signore, che Rodolphus Lestrange è di ritorno al Quartier Generale, era mancato molto tempo, ma ha fatto sapere che farà ritorno in giornata. Se volete parlargli, se volete dargli ordini, sarà di nuovo qui.”
Annuii, mi sembrò quantomeno strano che non fosse stata Bella a darmi la notizia, ma non ci feci troppo caso.
“Bene, più tardi gli parlerò. Bada bene però, Alecto, lo cercherò io, non voglio essere continuamente disturbato se non sono io a chiamare.”
Lei annuì di malavoglia, non voleva lasciare la stanza. Continuava, nel silenzio, questa competizione tra lei e Bella. Allora le feci cenno di andarsene, e solo allora salutò garbatamente e chiuse la porta.
L’atmosfera era completamente cambiata, anche Bella si era distratta, pensai dunque di affrontare l’argomento per cui l’avevo fatta venire lì, accantonando qualsiasi riferimento all’eccitazione di poco prima.
Quando mi voltai verso Bella per prendere la parola la vidi però pensierosa. La sciarpa era ancora nelle sue mani, ma i suoi pensieri erano altrove.
Attesi qualche istante e fu quindi lei la prima a parlare.
“Mio Signore, vi devo dire una cosa…”
Era leggermente titubante e aveva lo sguardo serio.
“Ti ascolto.”
“So che non sarete contento, perché mi raccomandate sempre di non creare problemi e di trattare gli altri Mangiamorte come se fossimo parenti, fratelli, lo avete detto anche poco fa.”
Mi innervosii subito, capii che mi doveva parlare di Rodolphus e ancora una volta ciò mi indispose.
“Cosa devi dirmi?”
“Mio Signore, se Rodolphus ultimamente non è stato con noi è perché ha avuto problemi fisici, abbiamo avuto uno scontro e mi spiace, maestro, non volevo contrariarvi, ma sono stata io.”
Sembrava sincera e davvero desolata per aver disubbidito ai miei ordini. Non so perché, ma la storia mi incuriosì.
“Cosa vuoi dire, Bella?”
“Voglio dire, mio Signore, che abbiamo litigato e gli ho fatto io del male.”
Questa frase scatenò in me, mio malgrado, uno strano turbine di sentimenti ed emozioni violente, incomprensibili e in contrasto l’una con l’altra. 
Ad ogni Horcrux creato, molte sensazioni diventavano più confuse e indistinguibili, aumentavano di violenza d’intensità, mi risultava sempre più difficile capirle e controllarle.
Sicuramente questo era un caso in cui non mi era facile razionalizzare.
“Non mi interessano i vostri affari, Bella, ma voglio che la smetti di litigare con gli altri Mangiamorte, sono stanco di ripetertelo.”
Lei ovviamente reagì, da testarda irriverente qual’ è.
“Mio Signore, lui è mio marito, cercate di capire, non è solo un Mangiamorte per me, è inevitabile che succeda, con altri non ho più litigato da quando me lo avete chiesto.”
Questa frase scatenò in me una rabbia inaudita, se già prima mi aveva innervosito, ora stava superando ogni limite. Il fatto che si ostinasse a disubbidirmi non lo potevo concepire, ma soprattutto come poteva parlare a me, il suo Signore, in questi termini di Rodolphus? Quasi fosse una persona di così grande importanza…
Non dissi nulla, dentro di me un vero istinto selvaggio mi suggerì di prenderla e ucciderla, di possederla a sangue, fino alla morte.
Solo così avremmo risolto le cose.
Ci fu un lungo silenzio tra noi. Pieno di tensione. Non so cosa pensasse lei, non le lessi la mente, valutavo solo il modo migliore di farle male, punirla per il suo atteggiamento, per i suoi atti, per tutto.
La rabbia si affievolì solo poco dopo, quando lei aggiunse, in un soffio di voce, che il marito era geloso.
Geloso. 
La mia mente si soffermò su quelle parole. La cosa, che doveva essermi del tutto indifferente, inaspettatamente mi piacque.
Sorrisi. La rabbia si stava trasformando in altro di più piacevole.
“Geloso di chi, mia Bella?”
Anche lei sorrise, la vidi rilassarsi.
“Di voi, mio Signore.”
Lo disse in maniera estremamente maliziosa. Anche lei percepiva il cambiamento, la scossa che si era venuta a creare tra di noi.
Mi avvicinai fino a toccarla, sentivo il suo corpo caldo vicino al mio, più passavano i secondi più si faceva smanioso.
Restai fermo ancora per qualche istante, guardandola dall’alto in basso, pensando già al modo di farla mia.
La presi inaspettatamente, senza dire nulla. La presi e la portai sul letto, divorandole il collo, il seno, la bocca.
Le strappai via i bottoni, il vestito. Le presi di mano la sciarpa usata poco prima e le legai alla ringhiera un polso, poi l’altro. Non l’avevo mai portata nel letto, ma quello era un buon momento per farlo. 
Rimase ferma e attenta, le avvicinai le dita alle labbra, la sfiorai in quel modo per un attimo. Non poteva usare le mani e tutto quello che poteva lo doveva fare con la bocca. 
Mi aprii la camicia, i pantaloni, la guardavo dritta negli occhi, dall’alto, lei ricambiava lo sguardo dal basso, impotente, bloccata in quasi tutte le sue azioni. Solo le sue labbra erano socchiuse e smaniose di ciò che potevo concederle io e io soltanto, quando volevo.
Le lasciai le calze, coi pizzi neri a metà coscia, i laccetti che sostenevano il tutto glieli ruppi subito. Il reggiseno glielo tirai giù, volevo succhiarle il seno, i capezzoli, non potevo stare senza.
I capelli le si poggiavano sulle spalle nude,  ogni tanto la guardavo tutta, quanto era giovane e bella, decisi di non penetrarla ancora, di continuare in quel modo, di godere ancora di quei momenti di lotta e tortura.
Io, che di solito ero sempre veloce, scelsi di perdere ancora un po’ di tempo così, a godermi l’attesa.
Mi avvicinai a lei, chinandomi sul suo corpo per sentire meglio la mia pelle sulla sua, i vestiti strappati sui miei, la sua eccitazione sulla mia, e fu allora che sentii anche il suo morso sul mio collo.
Come poteva osare una cosa simile non so, ma la osava e lo faceva bene, con desiderio, con voracità. Mi morse il collo con le labbra e coi denti, si prese il mio veleno e, volontariamente, se lo portò dentro di lei, per tenerselo lì, nel suo bel corpo.
Mi sollevai e la guardai di nuovo dall’alto, da sopra di lei, era in mia totale balia, potevo farle di tutto, ma la cosa eccitante, era che era proprio lei a chiederlo.
Anche lei riprese a guardarmi, le labbra sempre socchiuse, il suo sguardo che mi pregava di slegarla. Si vedevano le lacrime di eccitazione e desiderio rendere luccicanti quegli occhi scuri sempre tanto minacciosi, ma che ora sapevano solo implorare.
La slegai, si era così tanto dimenata per potermi toccare, che i polsi le erano divenuti tutti lividi.
Le sue mani desiderose finirono sui miei fianchi prima, e sul sesso poi: mi desiderava da morire.
La lasciai fare e le bendai gli occhi. 
Mi sorrise come se mi vedesse perfettamente, mi sentiva e mi assaporava. Tornò ad usare le mani e la bocca. Prima cercò il mio viso e le mia labbra, ma il viso, no, non lo sopportai, mi scansai con una smorfia.
Lei capì subito e scese sul collo, lì dove aveva osato mordermi, dove sapeva piacermi ancor prima che lo sapessi io. 
La mia stizza di poco prima era scemata velocemente e lei riprese a eccitarmi, iniziando con le mani e arrivando subito dopo con le labbra, scese lentamente sul petto, sempre più lentamente sul basso ventre, fino al sesso.
La lasciai fare estasiato per molto, molto tempo.
Prima di venire però la fermai, perché volevo penetrarla forte, violentemente e senza sosta e in bocca non sarebbe stata la stessa cosa. 
La lasciai bendata e le sussurrai fra i capelli che glielo avrei fatto sentire forte, come mai lo aveva sentito.
Fece un sospiro profondo, ancora prima di averlo dentro, solo per l’eccitazione delle mie parole.
Quando lo feci la sentii bagnata, calda, vogliosa. La sbattei forte, ma tanto forte, da toglierle il fiato, da farmi urlare veramente.
Non appena finii, mi accasciai sul letto per riprendere fiato. Chiusi gli occhi per alcuni istanti, ma poi mi voltai per un attimo verso di lei, pensando non si fosse ancora tolta quel lembo di stoffa dagli occhi. Invece lo stava togliendo in quell’istante e mi guardò anche lei.
Vide che la stavo guardando.
Non me lo aspettavo, mi voltai lentamente, non volevo parlare e non volevo sentire nulla.
Percepivo lo stesso il suo sguardo adorante su di me.
Chiusi gli occhi e sorrisi.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa per me, mi avrebbe seguito qualsiasi casa decidessi di fare.
Forse, pensai, potevo lasciare che custodisse proprio lei la coppa. Fu un’idea improvvisa e forse azzardata, ma, in quel momento, non mi veniva in mente un posto migliore per tenere il frammento della mia anima al sicuro. 
   
 
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