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Autore: Violet Sparks    25/04/2020    28 recensioni
Ben Solo incontra per la prima volta Poe Dameron all'età di sei anni, in occasione dei funerali della madre di quest'ultimo, Shara Bey.
Poe sembra essere l'esatto opposto di Ben -bambino timido, solitario, spaventato dai suoi stessi poteri- eppure i tra i due si instaura un'amicizia profonda.
Un'amicizia che li accompagnerà per tutta l'infanzia, riempiendola di luce, prima che le ombre del Lato Oscuro si abbattano irrimediabilmente sulla vita di tutti loro.
[Darkpilot!]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Ben Solo/Kylo Ren, Kylo Ren, Poe Dameron
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 3
 

 
If I was dying on my knees
You would be the one to rescue me
And if you were drowned at sea
I'd give you my lungs so you could breathe
I've got you brother.

(Brother, Kodaline)
 
 
 



Ben non aveva preso in considerazione la possibilità che Poe facesse sul serio, quando gli aveva proposto di aiutarlo.
D’altronde, non era come lui: aveva amici al di fuori di quella biblioteca, bambini ugualmente mangiati dal sole che lo aspettavano per giocare tra le lamiere e gli rivolgevano violente grida di incitamento ogni volta che, con quella sua risolutezza da guerriero, primeggiava durante una delle loro battaglie immaginarie, sbaragliando perfino i ragazzi più grandi.
Sfogata la curiosità morbosa verso l’apprendista Jedi, erede degli Skywalker, non vi era motivo per cui uno così dovesse voler passare il suo tempo chiuso in un’ambiente fatto di polvere e silenzio, a copiare testi incomprensibili in bella grafia.
La cosa era talmente ovvia che, al calar della sera, giunto ormai il momento di congedarsi, Ben aveva risposto al caloroso e confusionario saluto dell’altro, limitandosi a snocciolare un ciao poco convinto e nella quiete opprimente degli alloggi diplomatici in cui era tornato, aveva cercato di soffermarsi sul pensiero di Poe Dameron il meno possibile.
Se c’era una cosa che Ben aveva imparato, in dieci anni di vita, era che raramente le persone credevano davvero in ciò che usciva dalla loro bocca.
Gli impegni presi, le promesse fatte, non erano altro che illusioni, bugie ben architettate che gli uomini solevano scambiarsi come caramelle, nella speranza di tenersi reciprocamente a bada: le migliori intenzioni duravano meno di un battito di ciglia se qualcosa di più importante, qualcosa di più urgente, alla fine veniva a galla.
Con ogni probabilità, Poe si sarebbe dimenticato di lui quella notte stessa e il giorno dopo sarebbe tornato dai suoi compagni di sempre, prendendosi gioco dei suoi poteri, raccontando loro come lo strambo erede degli Skywalker fosse in grado di spostare gli oggetti, anche senza toccarli.
Ben ne era assolutamente convinto, per questo fu un’immensa sorpresa per lui, quando non soltanto scorse Poe fuori la biblioteca la mattina seguente – un sorriso gigantesco stampato sul volto, i capelli nerissimi appiccicati alla fronte da un velo di sudore- ma addirittura lo ritrovò lì innanzi tutte quelle successive, pronto a mantenere la parola data.
“Buongiorno, apprendista Jedi!” lo salutava quello di solito, dal basso degli scalini dove sedeva ad aspettarlo.
“Sei ancora qui.” constatava allora Ben, guardando però rigorosamente i propri piedi, nel tentativo di nascondere quella punta di sollievo che, a tradimento, lo coglieva sempre al centro del petto.
“Certo! Dove dovrei essere scusa? Abbiamo del lavoro da fare!” era la risposta squillante dell’altro “Dai, andiamo! Oggi facciamo almeno trenta pagine! Anzi no, finiamo tutto il libro!” e c’era così tanto entusiasmo nella sua voce, tanta fervida fiducia, che persino Ben si ritrovava a credere alle sue elucubrazioni e all’improvviso, il compito di ricopiare dei noiosissimi libri assumeva tutto un altro significato.
Peccato però che di consueto non riuscissero ad arrivare più lontano della seconda pagina.
Perché Poe non era semplicemente poco portato: era del tutto incapace.
Non aveva pazienza né senso estetico né raffinatezza nei modi, qualità piuttosto basilari per approcciarsi all’arte della calligrafia.
I suoi tratti erano nervosi e grossolani, così energici da bucare la carta o rendere inutilizzabili i fogli sottostanti a causa dei profondi solchi lasciati dalla pressione e a fine giornata, aveva una tale quantità di inchiostro sulle mani che avrebbe potuto ridipingerci una parete, se non fosse che metà di quello finiva poi per impiastricciargli la faccia o i vestiti, dato che non riusciva a stare fermo neanche sotto minaccia.
Verso il quinto giorno, esasperato, Ben aveva provato a insegnargli qualcosa, unendo le loro sedie e racchiudendo il pugno di Poe nel proprio, insieme alla penna.
Si erano limitati ad abbozzare qualche lettera a caso, la parola Yavin, la parola Forza e poi i loro nomi, Ben e Poe, uno dopo l’altro, come un’entità unica.
“Più lento…” suggeriva Ben, mentre trascinava con sé la mano del ragazzo “Più morbido… ecco, così…” ma il calore che a un certo punto sembrava irradiarsi dal corpo di Poe, il suo respiro che ogni tanto gli solleticava la pelle, forse avevano reso le sue istruzioni un po' meno convincenti del necessario.
Meno male che l’altro non aveva dato segno di accorgersi di niente, troppo impegnato in quella che, senza alcun dubbio, poteva essere classificata come una delle sue attività preferite: parlare.
Poe parlava un sacco, a macchinetta, vomitando un numero spropositato di parole a volume altissimo, nonostante Ben continuasse a ripetergli che si trovavano in una biblioteca e, secondo le regole del vivere civile, tecnicamente avrebbero dovuto rimanere in silenzio.
Tutta fatica sprecata.
Poe dialogava imperterrito, raccontandogli di sé, della sua vita, della campagna dove viveva con il nonno e con il padre, della sua incredibile passione per il volo.
E non importava che, alla fine, lui interagisse poco e niente, limitandosi più che altro a sbuffare o ad annuire, perché tanto quello continuava incurante del resto, come se non esistesse un reale filtro tra la sua bocca e il cervello e sentisse il bisogno spasmodico di esprimere ogni singola connessione sinaptica venisse partorita dai suoi neuroni.
Per una persona come Ben, abituata alla solitudine dei suoi stessi pensieri, era alquanto bizzarro trovarsi in una situazione del genere.
Una parte di lui, quella più razionale, avrebbe voluto soltanto allontanare l’altro ragazzo, cacciarlo via una volta per sempre, dirgli di tornarsene dai suoi amici con le ginocchia spaccate simili alle sue e non voltarsi mai indietro, tuttavia la parte più istintiva di sé glielo impediva categoricamente, anelando la sua compagnia un po' invadente come ossigeno per i polmoni.
La verità era che Ben non capiva la ragione per cui Poe si intestardisse tanto a voler passare del tempo con lui.
Ogni giorno cercava nel suo cuore l’ombra di un inganno, il sentore dell’abbandono, ma alla fine quell’energia pura, grezza, che sembrava circondare il ragazzino simile ad un’aura splendente, quella sua passione quasi febbrile per il mondo e per le cose che, ad un certo punto, finiva per insinuarsi persino nelle sue parole, avevano il potere di trascinare Ben e di lasciarlo completamente incantato.
Questo era Poe Dameron.
Una supernova.
Un filo scoperto.
La prima, violenta scintilla che anticipava la luce del fuoco.
Era l’essere più lontano da Ben in tutto l’universo.
Eppure lo attraeva a sé, come nient’altro nella sua vita.
 
 
 


L’ora del tramonto, su Yavi4, era in assoluto quella che Ben preferiva.
Il sole che di giorno picchiava coi suoi raggi bollenti, durante il vespro addolciva i propri toni dipingendo il cielo con mille sfumature di arancione, mentre le case basse e squadrate che caratterizzavano la capitale, venivano inondate da una luce ambrata quasi sonnolenta, che avvolgeva la città come un manto rassicurante.
Le strette viottole del centro, finalmente libere dalle grida dei mercanti e dall’odore acre dei corpi sudati degli avventori, accalcati intorno alle bancarelle, lasciavano spazio al profumo degli arbusti circostanti, dei rampicanti pieni di fiori eroicamente aggrappati alle mura scrostate degli edifici e tra le poche persone ancora intente a sistemare ciò che rimaneva delle proprie merci, si arrischiavano a planare minuscoli uccellini neri, i quali agitavano le ali freneticamente, folli di gioia per la ritrovata libertà.
Ben camminava spedito in quell’atmosfera, beandosi della temperatura mite, osservando con divertimento la propria ombra allungarsi sulla pietra dura della strada, fino a distorcere la sua figura.
Era stata una giornata proficua, tutto sommato.
Lui e Poe erano riusciti finalmente ad arrivare a metà del libro di zio Luke.
E okay, in teoria, dopo due settimane di lavoro, avrebbero dovuto essere molto, molto più avanti sulla tabella di marcia – portando a termine il compito per intero, ad esempio- ma visto e considerato il loro abituale ritmo di produzione, anche quello poteva dirsi un ottimo traguardo.
Il resto della mattinata poi, era trascorso come sempre, insieme alle interminabili chiacchiere di Poe, il quale però, quel giorno, aveva deciso di confessargli un importante progetto, un’idea che, a quanto pareva, gli ronzava nella testa da un sacco di tempo e solo adesso aveva trovato il coraggio di concretizzare: il ragazzo desiderava restaurare la vecchia Ala X appartenuta a sua madre, Shara Bey, rimasta a impolverare nel capanno dei Dameron dopo la morte improvvisa della donna.
A Ben quella conversazione era piaciuta da matti per due semplici ragioni: in primo luogo, sebbene non lo avesse mai detto a nessuno, anche Ben, come Poe, adorava tutto ciò che avesse a che fare con il volo.
I ricordi dei momenti passati in braccio a suo padre o allo zio Chewbe, nella cabina di comando del Falcon, erano, senza alcun dubbio, tra i più felici e spensierati che il bambino serbava nel cuore.
Quando il suo allenamento Jedi si fosse concluso e lo zio Luke lo avrebbe ritenuto finalmente pronto e in grado di controllare le proprie abilità, il sogno di Ben era quello di costruire una navicella tutta sua e partire libero, in cerca di avventure nello spazio aperto, proprio come suo padre e lo zio Lando solevano raccontargli, le volte in cui l’amico di famiglia veniva a trovarli nella loro casa su Hosnian Prime.
In secondo luogo, il fatto che Poe avesse sottolineato in più battute che si trattava di un segreto – qualcosa che stava rivelando a lui, soltanto a lui, nell’intero universo- aveva lasciato correre, sotto la pelle di Ben, un profondo senso di euforia.
Era la prima volta che qualcuno riponeva tanta fiducia nella sua persona ed era bello, esaltante, ancor di più se pensava a quanta difficoltà avesse scorto nella voce di Poe, mentre si perdeva nel tenero ricordo della madre.
La verità era che la perdita di Shara costituiva una ferita aperta per lui, una spina nella carne che forse non avrebbe mai smesso davvero di sanguinare, per cui era stato quasi troppo facile per Ben andare al di là delle apparenze, leggere oltre il velo di entusiasmo e agitazione con cui, anche in quell’occasione, il ragazzino aveva preso ad illustrare i dettagli del suo progetto e smascherare il dolore pungente, intenso, che in realtà lo stava attanagliando.
Quel giorno, Poe non gli aveva semplicemente raccontato un segreto, gli aveva mostrato una parte di sé, nascosta e preziosa.
Ben lo percepiva e, nonostante si chiedesse ancora come e quando fosse diventato degno di un dono del genere, non poteva fare meno di sentirsi estasiato.
Ad un tratto, svoltò l’angolo, abbandonando il mercato cittadino per immettersi in uno dei tanti vicoletti laterali che scendevano verso la periferia, in direzione dell’ambasciata.
La capitale di Yavin4 era un dedalo di ramificazioni, piuttosto intricata se non la si conosceva a pieno, tuttavia, dopo quasi un mese di soggiorno, anche Ben aveva imparato ad orientarsi. Girò ancora, infatti, imboccando una stradina stretta e un po' lurida che, sapeva, lo avrebbe condotto a destinazione molto prima del tragitto abituale, quindi affrettò il passo per tornare sulla via maestra, dove il rumore metallico delle saracinesche annunciava la chiusura delle ultime attività.
Era quasi giunto alla fine, quando qualcosa di pesante e duro lo urtò con violenza all’altezza della spalla.
Si fermò, guardandosi intorno perplesso, finché non individuò, accanto ai propri piedi, ciò che gli era appena piombato addosso: una pietra.
Fece per raccoglierla, ma una seconda botta, seguita a ruota da una voce melliflua, glielo impedì.
“Il nipote di Luke Skywalker non dovrebbe saper difendersi da colpi del genere?”
Ben si voltò, dolorante.
Un gruppetto di ragazzi, dall’altra parte del vicolo, lo stava fissando con aria di sfida.
Ci mise poco a riconoscerli: si trattava di alcuni di quei giovani che frequentavano lo spiazzo fuori la biblioteca insieme agli amici di Poe, per l’esattezza la combriccola dei più grandi, la quale si limitava solitamente a starsene in disparte, fumando o bevendo, almeno fin quando uno di loro non decideva di divertirsi a dare fastidio ai bambini più piccoli.
Dovevano avere quindici o sedici anni al massimo. Si somigliavano un po' tutti, a dire la verità, con un fisico asciutto, la pelle brunita e i capelli corti, molto simili al carbone. Uno solo, in particolare, spiccava fra di loro, alto e robusto, gli occhi di un celeste acceso alquanto insolito per un abitante di Yavin, che però faceva risaltare le sue iridi come pietre preziose incastrate sul volto bronzeo.
Fu lui ad afferrare dalle mani di un compagno un’altra pietra e lanciarla nella sua direzione, con una velocità tale che Ben riuscì a scansarla per un soffio.
Le cose si stavano mettendo decisamente male.
“Che volete da me? Lasciatemi in pace!” gridò allora Ben, arretrando di un passo.
“Oh, ma guarda! Il mostro sa anche parlare!” lo schernì il ragazzo dagli occhi intensi, lo stesso che, a quanto pareva, doveva averlo apostrofato anche in precedenza “Non vogliamo farti niente, tranquillo! Vogliamo solo che ci mostri qualche trucchetto di magia!” continuò ridendo, mentre lui e i suoi amici si avvicinavano in blocco, con lo stesso sguardo famelico di un branco di bestie alla vista del pasto.
Ben sospirò pesantemente, cercando di elaborare una strategia.
Il vicolo era deserto, dubitava che qualcuno sarebbe mai accorso in suo aiuto.
Non voleva scappare e d’altronde, dubitava che i suoi avversari glielo avrebbero concesso tanto facilmente.
Dentro di lui, rabbia e adrenalina si mescolavano insieme al sangue, in una miscela esplosiva che gli ustionava le vene, eppure qualcos’altro, nel medesimo tempo, gli impediva di reagire, un pensiero come un brivido freddo che si insinuava tra le sue membra e gli annebbiava il cervello, al punto da stroncare ogni più audace istinto di sopravvivenza.
Il problema non era che Ben non avrebbe saputo difendersi da quegli idioti.
Oh, no.
Il problema era l’esatto opposto.
Perché l’ultima volta in cui si era trovato in una situazione del genere, l’ultima volta in cui si era sentito esattamente così - in pericolo, braccato, inerme- una forza sconosciuta aveva preso il sopravvento e il risultato era stato un incubo senza fine, conclusosi soltanto quando lo zio Luke lo aveva trascinato con sé in una Accademia Jedi, messa su a posta per lui.
All’improvviso, un delirio di immagini, suoni, ricordi, si riversarono nella sua mente come una valanga impietosa, senza che egli potesse fare niente per fermarli.
Le grida.
Il sangue.
Il vetro.
Lo sguardo terrorizzato di sua madre.
Quello contrito di suo padre.
Il volto di Kane.
Il volto di Kane…
Deglutì a vuoto, sentendo distintamente un conato in fondo alla gola, il cuore che batteva così forte nel petto da sembrare in procinto di sfondargli la cassa toracica.
Avrebbe voluto accasciarsi e cingersi nelle sue stesse braccia.
Avrebbe voluto urlare, fermare tutto, il tempo, il mondo.
Avrebbe voluto semplicemente chiudere gli occhi e riprendere fiato.
Ma la verità era che non riusciva a muoversi.
Non riusciva a parlare.
Non riusciva nemmeno a respirare.
Con la testa che vortica furiosamente, dovette reggersi al muro per non rimettere.
“Tuo zio lo sa che tremi di paura?” lo derise ancora il suo avversario, la voce cattiva che suonava lontana anni luce, nonostante i suoi occhi zaffiro ormai lo scrutassero a poca distanza “Lo sapevo, sei solo un mocciosetto viziato…” sentenziò, dopodiché scrocchiò le dita di entrambe le mani, pronto ad attaccarlo.
Aveva appena proteso il braccio quando, “Nathaniel! Vedo che non ti stanchi mai di fare l’idiota!” proruppe qualcuno, dal nulla “Cinque contro uno! Il solito codardo!”
Ben sollevò il capo, a fatica.
Dall’altra parte del vicolo, la figura di Poe si stagliava nella luce avvizzita del tramonto.
Ci mise qualche secondo a riconoscerlo, sia perché, a quanto ricordava, la casa dei Dameron era dalla parte opposta della città, dunque il ragazzino non avrebbe avuto motivo di trovarsi lì a quell’ora del giorno, sia perché il suo aspetto pareva diverso, quasi trasfigurato, complice la tenue oscurità del crepuscolo che gettava ombre lunghissime su di lui.
I suoi lineamenti, di solito così morbidi e gentili, erano inaspriti dalla rabbia. Il suo sguardo color nocciola era duro, pieno di disprezzo, mentre il suo intero corpo irradiava una tensione palpabile, come una molla troppo tesa, prossima allo strappo.
Si avvicinò al gruppo lentamente, brandendo un’espressione insieme arcigna e fiera e a Ben sembrò che, ad ogni singolo passo, la sua sola presenza fosse in grado di infondergli un po' di coraggio, un po' della calma smarrita.
“Dameron! Che ci fai qui? Sei molto lontano da casa!” domandò il ragazzo più grande, Nathaniel, con tono sprezzante, senza però riuscire a dissimulare a pieno la sorpresa che quella improvvisa apparizione doveva avergli causato.
Dal canto suo, Poe fece finta di non averlo proprio sentito.
Lo sorpassò senza degnarlo di uno sguardo, si accostò a Ben e gli rivolse un sorriso quanto più sincero possibile, malgrado la collera che lo incupiva.
“Stai bene?” gli chiese.
“Sì, tranquillo.” si affrettò a rispondere Ben, arrossendo e raddrizzandosi subito sulle proprie gambe.
Il suo calore, i suoi occhi buoni, scacciarono via ogni paura come una ventata di aria pulita.
Ben prese di nuovo a respirare normalmente e anche il suo cuore, attraverso lo sterno, parve rallentare la sua corsa.
“Ma che scenetta commovente! Eri preoccupato per il tuo fidanzatino?” esclamò intanto Nathaniel, sghignazzando.
Ben sussultò appena per quell’allusione, Poe invece sollevò gli occhi al cielo in maniera quasi teatrale, dunque si voltò finalmente a fronteggiare il gruppetto di ragazzi, lanciando soprattutto a Nathaniel lo stesso sguardo schifato di chi aveva appena visto un enorme scarafaggio in mezzo alla spazzatura.
“Premesso che non è così,” disse con calma “se anche fosse, io almeno un fidanzato lo avrei, Nat! Tu fai così ribrezzo che non ti bacia neanche tua madre!”
Ci fu un’ondata di ilarità generale.
Tutti, compreso gli amici di Nathaniel, scoppiarono a ridere per la battuta di Poe.
Il diretto interessato, ovviamente, non trovò la cosa altrettanto divertente.
Il suo volto spigoloso, infatti, si fece paonazzo dalla vergogna e con un’occhiata a dir poco assassina, mise subito a tacere le risatine dei suoi stessi compagni.
“Vieni, Ben, questo qui è soltanto un idiota! Andiamocene a casa!” affermò intanto Poe, incurante della scena, dopodiché, sfoggiando un sorrisetto beffardo, circondò le spalle di Ben e prese a trascinarlo con sé, lontano dal gruppetto di teppisti.
Tuttavia ebbero fatto sì e no qualche passo, quando la voce di Nathaniel li raggiunse ancora, come un pugnale alla schiena.
“Io almeno una madre ce l’ho, Dameron.” disse quello, sadicamente “Ah aspetta! Ora ho capito! È per questo che sei diventato amico dello strambo! Speri che quella puttana della senatrice Organa abbia compassione di te e ti adotti come un animaletto domestico! Fai bene! Buon per te! Così magari riesci a lasciare quella topaia di campagna che tu e i tuoi parenti continuate a chiamare casa!”
Questa volta, non ci fu paura che riuscisse a fermarlo.
Ben si voltò all’istante, la furia che bruciava sotto la pelle, la voglia di sentire la faccia di Nathaniel spaccarsi sotto le sue nocche che quasi gli faceva tremare le mani.
Non gli importava più cosa ne sarebbe stato.
Non gli importava più quale sarebbe stata la reazione di sua madre, di suo padre o di suo zio.
Voleva soltanto rompere.
Voleva soltanto fare male.
Stava pensando esattamente questo, l’attimo prima che Poe, appena dietro di lui, lo investisse come una belva imbizzarrita e si avventasse contro il ragazzo più grande con una veemenza tale da far capitolare entrambi a terra.
“Prova a ripeterlo! Prova a ripeterlo, bastardo!” urlò a squarciagola, sferrando un pugno che si infranse dritto sulla mascella di Nathaniel, facendogli girare la faccia.
Quello si protese di lato, sputando un misto di sangue e saliva, poi rivolse a Poe uno sguardo di fuoco.
“Sei morto, Dameron!”
Cominciò una lotta stenuante, senza esclusione di colpi, in cui i due giovani si accanivano l’uno contro l’altro in un groviglio confuso di corpi, riempiendo il vicolo di insulti, minacce, imprecazioni.
Nathaniel era più alto e sicuramente più grosso.
I suoi muscoli si gonfiarono sotto la T-shirt bianca, mentre con le gambe nerborute cercava in tutti i modi di disarcionare Poe ancora sopra di lui, eppure ogni tentativo si dimostrava vano davanti all’irruenza del più piccolo, il quale si dimenava così convulsamente da non lasciare all’avversario un attimo di tregua.
Era evidente che, dove peccava di stazza, Poe compensasse in velocità e in foga.
Sfruttando la posizione di vantaggio infatti, infuriava sull’altro a calci e a pugni, la bocca distorta in un ringhio ferino, gli occhi stravolti da qualcosa di selvatico che a tratti riluceva.
Ben lo guardava attonito, a corto di fiato e l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che in vita sua non aveva mai visto nessuno combattere in quella maniera: in uno scontro aperto, probabilmente avrebbe fatto impallidire perfino i suoi insulsi compagni di Accademia, perché, sebbene sprovvisto della Forza dei Jedi, l’energia che Poe emanava era quasi accecante, impossibile da gestire, come una scissione atomica bellissima e pericolosa che esplodeva nello spazio esiguo di quel cumolo di ossa.
All’improvviso, Nathaniel riuscì ad afferrarlo per i capelli e, “Maledetto moccioso!” inveì a un soffio dal suo naso, distraendolo abbastanza da sferrargli un colpo alla pancia che lo fece sibilare dal dolore.
D’istinto, Ben si lanciò allora in avanti, per correre in soccorso del ragazzo, tuttavia, non appena mosse un dito, gli amici di Nathaniel gli sbarrarono la strada.
“Dove credi di andare tu?” lo minacciò uno di loro, dandogli uno spintone.
Un altro cercò di afferrarlo per il gomito, ma Ben si divincolò.
“Lasciatemi!”
“Sta’ fermo, mostriciattolo!”
“Lasciatemi, ho detto!”
“Vediamo che sai fare!”
Nel giro di un istante, tutti e quattro gli furono addosso, stavolta però Ben non si lasciò frenare dall’angoscia, rispose all’attacco con altrettanta potenza e in breve, sovrastò i suoi avversari, nonostante la disparità numerica.
I frutti dell’allenamento con zio Luke erano chiari, se non addirittura palesi, rispetto alla forza bruta dei suoi avversari, i quali si limitavano a menare le mani in modo del tutto scoordinato, come le biglie di un flipper senza né logica né direzione. Ben ne mise fuori gioco un paio, soltanto facendoli scontrare uno contro l’altro mentre cercavano di acchiapparlo, dunque schivò facilmente anche il pugno di un terzo, abbassandosi sulle ginocchia e colpendolo a sua volta con un calcio negli stinchi, che gli fece perdere l’equilibrio.
Si trovava faccia a faccia con l’ultimo bersaglio, quando sentì gridare da poca distanza.
“Ben!”
Un brivido freddo gli attraversò la nuca.
Nathaniel era riuscito a liberarsi e adesso teneva Poe sotto di sé che, malgrado continuasse a scalciare, si trovava in evidente difficoltà.
Eppure non era questo ciò che lo spaventava.
Il più grande, infatti, aveva appena afferrato una pietra da terra e adesso la brandiva come un’arma tra le mani.
“POE!” urlò subito il bambino, nel disperato tentativo di avvisare l’altro, peccato però che sfruttando la momentanea distrazione, i suoi quattro avversari si fossero avventati su di lui contemporaneamente, bloccandolo in ginocchio contro l’asfalto sudicio della strada.
Davanti agli occhi spalancati di Ben, tutto prese a girare in maniera frenetica.
La pietra era grande, acuminata, spessa.
Quasi scintillante in mezzo alle lunghe dita di Nathaniel, protese verso l’alto, pronte a colpire.   
Se il ragazzo avesse picchiato Poe con quella, di sicuro gli avrebbe spaccato il cranio.
Forse lo avrebbe addirittura ucciso.
Il solo pensiero lo mandò nel panico, gli fece a brandelli il cuore.
No.
No, non poteva permetterlo.
Non poteva lasciare che accadesse.
Doveva salvarlo.
Fu un attimo.
Una rabbia sorda, gelida, si insinuò d’un tratto tra le membra di Ben.
E un bisbiglio sottile, flebile come un soffio di vento, nella sua testa scandì soltanto una parola.
Fallo.
Ben allora schioccò le dita.
Il secondo dopo, il polso di Nathaniel si ruppe con un sinistro ‘crack’.
“AH!” strillò quello in preda al dolore e alla sorpresa, lasciando cadere la sua arma che piombò comunque sulla faccia di Poe, sebbene con molta meno violenza.
“Poe…” mormorò appena Ben.  
“Cosa sta succedendo qui? Che state facendo?” proruppe improvvisamente una serie indistinta di voci.
Ci fu subito un via vai generale.
I ragazzi che tenevano fermo Ben, mollarono la presa e fuggirono dalla parte opposta del vicolo, senza guardarsi indietro, così rimase soltanto lui, insieme a Poe e Nathaniel che ancora si rotolavano a terra, uno tenendosi la testa, l’altro il polso.
“Quei teppisti! Sempre a fare danni!” affermarono due uomini, probabilmente due abitanti del posto, scuotendo il capo con fare severo, mentre si accostavano ai due feriti per studiare le loro condizioni.
Ben si issò in piedi a fatica, decisamente scosso.
Le orecchie gli fischiavano come dopo una brutta esplosione e una strana elettricità gli attraversava le ossa, in potenti ondate che lo stordivano, rendendo il mondo intorno a lui così intenso da fargli venire la nausea.   
Avrebbe voluto correre da Poe, ma una mano sulla spalla lo costrinse a voltarsi.
Quando sollevò la testa, il bambino incontrò gli occhi celesti di suo zio che lo scrutavano colmi di preoccupazione.
“Ben!”
“Zio, che ci fai qui?” chiese, meravigliato.
“Che ci faccio io? Che ci fai tu, piuttosto!” rispose Luke, in modo concitato “Dovevi essere a casa un’ora fa, stelle del cielo! A tua madre stava venendo un infarto!” lo sgridò ancora, poi prese a studiare lui e gli altri ragazzini nel vicolo, con espressione indecifrabile “Ben, che cosa è successo qui? Che cosa hai fatto?”
A quelle parole, il ragazzino si rabbuiò all’istante.
Che cosa hai fatto…
Che cosa hai fatto.
Come al solito – come con Kane- tutta la sua famiglia era pronta ad addossare la colpa a lui, senza sapere un bel niente, senza conoscere i fatti, senza nemmeno disturbarsi a chiedere la sua versione degli eventi!
Luke era arrivato da sì e no trenta secondi, aveva visto i due a terra, in preda al dolore e subito aveva deciso che era lui il carnefice!
Lui, lui e nessun’altro, doveva averli feriti con il suo potere!
Lui doveva aver combinato qualcosa di male!
Lui era il cattivo di quella maledetta storia!
I suoi occhi si riempirono di lacrime che però non scesero, solo ribollirono in bilico tra le palpebre, lottando contro la rabbia, la delusione, la frustrazione.
“Non sono stato io, hanno cominciato loro!” asserì, con voce rotta.
“E tu che cosa hai fatto?”
“Io non ho fatto niente, zio!”
“Ben, per favore, non dirmi bugie!”
“Non sono bugie! Io non…”
“Ben non ha fatto niente! Sono stato io! Sono stato io!”
Per la seconda volta quel giorno, Poe Dameron si fiondò davanti a Ben, piazzandosi, seppur traballante, tra il suo corpo e quello dello zio, come a volergli fare scudo.
“Sono stato io, signor Skywalker, lo giuro!” continuò, agitato “Mi avevano accerchiato, Ben è corso ad aiutarmi! Ho spezzato io il polso a quell’idiota!”
“Non è vero! È stato quel mostro, con i suoi poteri magici!” piagnucolò Nathaniel da poco lontano, tenuto in piedi da uno degli uomini che erano accorsi a fermare la rissa.
“Oh, tu stai zitto, Nat! Altrimenti vengo lì e ti spezzo anche il secondo!” gridò Poe, furioso. “Non dia ascolto a lui, signor maestro Skywalker, sono stato io, davvero!”
Ben era esterrefatto.
Nessuno aveva mai fatto tanto per lui.
Nessuno lo aveva mai protetto così, a spada tratta, esponendosi in quel modo sincero e incondizionato.  
Perfino suo zio aveva abbandonato l’espressione accusatoria con cui gli si era rivolto in precedenza e adesso osservava Poe, con un misto di perplessità e preoccupazione.
“Va bene, ragazzo, ti credo, ti credo, d’accordo…” disse sempre più allarmato, accostandosi cautamente al ragazzino “Ma tu hai bisogno di un medico! Adesso!”
Ben sussultò e si affrettò a ruotare intorno all’altro, per capire di cosa Luke stesse parlando.
Trasalì.
La pietra alla fine aveva procurato sulla fronte di Poe un taglio netto, dall’attaccatura dei capelli fino al sopracciglio, che zampillava sangue peggio di una fontana.
Metà del suo viso era una maschera scarlatta.
“Poe…” mormorò Ben, tra le labbra.
Il ragazzino gli rivolse un sorrisetto storto, quasi arrogante.
“Non mi sono fatto niente.”
Riuscì ad afferrarlo per un pelo, prima che svenisse a terra.
 
 
 
 
 
 
 

NOTE AUTORE
Un parto plurigemellare + diritto commerciale + 4 minuti di plank: questo è stato per me la stesura del terzo capitolo di Preludio! ^^’’
L’ho buttato giù e riscritto almeno dieci volte, letto e riletto talmente tanto che penso che potrei recitarlo a memoria! Pubblicarlo è quasi una liberazione, credetemi! Io non ne potevo più di lui, lui non ne poteva più di me!
 
Come avete visto, il capitolo riprende da dove si era interrotto il secondo e descrive l’istaurarsi del legame tra Ben e Poe, insieme all’evento finale – la rissa con Nathaniel e il suo gruppo- che porterà i due ad avvicinarsi in maniera definitiva.
Una delle maggiori difficoltà del capitolo è stato, oltre allo scontro, il dover rappresentare il contrasto interiore che Ben avverte nei confronti di Poe: da una parte, lo guarda ancora con sospetto, soprattutto perché non lo comprende, è qualcosa che non ha mai visto né conosciuto nella sua vita, ma dall’altra la sua energia e il suo cuore buono lo attraggono imprescindibilmente, molto più di quanto vorrebbe ammettere finanche a se stesso.
La conferma definitiva arriva nello scontro con Nathaniel, dove Poe si butta a proteggere Ben senza pensarci due volte e Ben è talmente spaventato all’idea che il ragazzino si faccia male che ricorre alla Forza – in modo perfino oscuro, in barba alle sue paura- pur di salvarlo.
 
A proposito di questo, vi tranquillizzo subito: la storia di Kane, a cui Ben si riferisce e gli causa una specie di attacco di panico, verrà raccontata nei prossimi capitoli. Come avrete intuito, si tratta di un evento piuttosto segnante nella sua vita, ciò che lo ha portato a partire insieme a suo zio… okay non voglio dirvi altro.
Aggiungo anche che il sogno di Ben di diventare un pilota come il padre, invece di uno Jedi, è uno spunto che ho trovato in giro molto spesso e a cui sinceramente, credo: nessuno me lo toglierà mai dalla testa che Ben non sia mai stato adatto a seguire le orme dello zio e avrebbe preferito starsene tranquillo, a zonzo per lo spazio, come Han! :P
 
Okay amici, direi che è tutto per adesso! Spero di non metterci la stessa infinità di tempo anche per il nuovo capitolo e di tornare presto da voi! :D
Piano piano sto rispondendo a tutte le vostre recensioni, scusatemi per il ritardo, ma questo capitolo – come avrete capito – mi ha prosciugata come un dissennatore!
 
A presto!
 
Violet Sparks

 
 
 
 
   
 
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