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Autore: steffirah    01/05/2020    1 recensioni
A causa del lavoro del padre Sakura verrà ospitata a casa di una sua cugina, in una cittadina dal nome mai sentito prima, nell'estremo nord del Paese. Qui farà nuovi incontri, alcuni dei quali andranno oltre la sua stessa comprensione, mettendo a dura prova le sue più grandi paure. Le affronterà con coraggio o le lascerà vincere?
Una storia d'amore e di sangue, di destino e legami, avvolta nel gelo di un cielo plumbeo, cinta dalle braccia di una foresta, cullata dalla voce di un lupo.
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eriol Hiiragizawa, Sakura, Sakura Kinomoto, Syaoran Li, Tomoyo Daidouji | Coppie: Shaoran/Sakura
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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L’inizio della fine


 

Nei giorni successivi non feci altro che affliggermi ulteriormente nel mio cuore infranto. Smisi di mangiare come si deve, smisi di dormire, smisi di parlare. Quantomeno, provavo a mostrare una parvenza di serenità nei limiti del possibile.
Era soltanto una questione di tempo, come aveva detto anche Syaoran-kun presto sarei tornata a Tomoeda, dove mi aspettava la normalità. Cosa mai poteva essere doverlo incontrare inevitabilmente, giorno dopo giorno, e fingere che tutto fosse tranquillo come al solito tra di noi, che la sua presenza non mi trafiggesse l’anima e i suoi perpetui sguardi preoccupati non mi strappassero gli organi?
C’era una parte di me che, a dirla tutta, aveva vergogna solo a guardarlo. Ci si metteva l’imbarazzo perché, nonostante la ferita aperta dentro di me, non potevo ignorare il fatto che mi fossi realmente dichiarata. Per la prima volta nella mia vita mi ero innamorata e lo avevo detto ad alta voce. Ero riuscita, chissà come, a convogliare i miei sentimenti in parole e a trasmetterglieli in maniera chiara, cristallina, trasparente. Avevo compiuto il mio passo in avanti, avevo fatto tutto ciò che era in mio potere per non perderlo. Ormai, di più non mi era concesso e lui sembrava aver deciso di restare indietro.
Com’era ovvio che fosse, sua cugina dovette accorgersi del cambiamento; dato che Tomoyo-chan, Eriol-kun e Feimei-chan s’erano diplomati era con lei che facevo il percorso fino a scuola e durante tutto il tragitto la lasciavo parlare. Mostrava a sua volta un’apparente spensieratezza e calma, di certo non difficile da costruire su quel suo viso perfetto. Ciononostante vedevo una ruga d’ansia solcare la sua fronte e ogni volta che mi accorgevo dei suoi occhi apprensivi fissi su di me la tranquillizzavo che fosse tutto apposto, sorridendo in maniera un po’ tirata, sperando di risultare convincente e che la conversazione cadesse il prima possibile, onde evitare che scavasse ancora più a fondo.
A casa mi sforzavo comunque di mandare giù qualcosa, più che altro per evitare domande. Immaginavo che le occhiaie, per quanto tentassi di mascherarle col trucco, non sfuggissero agli abitanti di quella dimora. Ma per quelle, potevo sempre sfruttare la scusa degli incubi – che, in tutta onestà, erano tornati. Forse c’entrava anche il mio stato d’animo, perché stavolta la voce mi diceva che se avessi dato il mio sangue in cambio sarei diventata una vampira e avrei potuto coronare il mio sogno d’amore. Sapevo che non dovevo ascoltarla. Sapevo che non dovevo farmi abbindolare. Eppure, notte dopo notte, cominciai seriamente a prenderlo in considerazione.
Ragion per cui cercai di nascondere tutto nei limiti del possibile alle abilità di Eriol-kun, concentrandomi su pensieri superficiali in sua presenza. Del tipo, mi lasciavo andare a lunghe riflessioni sui sapori che saggiavo o sulle condizioni meteorologiche, oppure inventavo di sana pianta sogni felici con la mamma per confonderlo. Non sapevo se lui potesse leggermi l’inconscio, andando oltre quella ragione costruita, ma non mi importava.
Quando vedevo che i suoi occhi indagatori indugiavano su di me accadeva anche che mi mettessi a fare i conti. Inizialmente erano sui giorni che mi restavano lì, visto che un pomeriggio di inizio maggio papà mi informò che stava per tornare definitivamente: sarebbe venuto in Hokkaido per ringraziare Sonomi-san dell’ospitalità che mi aveva offerto e poi saremmo ritornati insieme a casa; poi fortunatamente mi fu data la possibilità di concentrarmi su qualcosa di positivo: i giorni che mancavano all’Hanami, dato che proprio nello stesso periodo avevano cominciato a sbocciare i ciliegi.
La primavera stava arrivando, eppure dopo mesi di vento, pioggia, grandine e neve sembrava che l’inverno si fosse radicato nel mio cuore, avviluppandolo. Probabilmente neanche quando sarei ritornata nel mio caldo sud mi avrebbe del tutto lasciata. Ormai esisteva in me, così come in me esisteva Syaoran-kun.
Fare l’Hanami fu comunque una decisione presa unanimemente dalle ragazze, che doveva coinvolgere soltanto noi quattro e Akiho-chan. Forse perché si erano rese conto che un’ombra scura era calata su di me, forse perché si erano accorte che io e Syaoran-kun a malapena ci guardavamo. Succedeva solo al nostro arrivo a scuola e nel momento in cui dovevamo andarcene, ma durava una frazione di secondi ed io ero sempre la prima a distogliere lo sguardo, incapace di sostenere il peso del suo. Soltanto una volta, nel girarmi verso la borsa, con la coda dell’occhio lo vidi nella stessa posizione del primo giorno in cui gli rivolsi la parola: con la guancia appoggiata su una mano, guardava con aria spenta il panorama fuori dalla finestra, come se neppure lo vedesse davvero. Era tornato lo Syaoran-kun di sette mesi fa.
Sapevo di aver giocato un ruolo importante nel suo rinnovamento, me lo avevano ripetuto tutti, più volte, sebbene non avessi mai voluto credervi davvero. Avevo sempre avuto fiducia in lui, sempre visto al di là della corazza il giovane adolescente pieno di timore e gentilezza, che si celava dietro uno scudo impenetrabile per proteggere gli altri da se stesso. Dal mostro che si considerava essere. E ora si stava ritirando nuovamente in sé.
Non udii più la sua voce, per giorni e giorni e giorni. E faceva male, perché mi mancava. Così come mi mancava la sua tenerezza, mi mancava il suo flebile calore. Mi mancava la sua compostezza, mi mancava il suo abbassare le difese in mia presenza. Mi mancava il suo modo di chiamarmi, mi mancavano le sue promesse, mi mancavano le sue dolci parole che mi riempivano di speranza e conforto. Mi mancavano i suoi sorrisi. Era lì, a pochi centimetri da me, ma lo percepivo talmente lontano che era come se fossi tornata nel Kanto. Forse, sarebbe stato meglio per me tornarci davvero.






In un fine settimana di metà mese, io e le mie compagne di classe ci ritrovammo così a sedere tra l’erba, all’ombra di vasti ciliegi. Mi feci avvolgere dall’aria serena e frizzantina di quella giornata soleggiata, sebbene sarebbe stata di breve durata – le previsioni dicevano che nel pomeriggio si sarebbe annuvolato. Speravo soltanto che non apportasse complicazioni al volo di mio padre durante l’atterraggio, visto che proprio quella sera sarebbe tornato.
Lasciai che lo spirito allegro degli altri coinvolgesse anche me e mangiai più di quanto avessi fatto nelle ultime settimane, quasi ingozzandomi. Questo finché il cibo per poco non mi si bloccò in gola strozzandomi, quando Chiharu-chan chiese con delicatezza: «Sakura-chan, visto che a breve te ne andrai, ci puoi dire cos’è successo?»
Deglutii a fatica, sentendomi messa sotto pressione, e cominciai a sudare freddo.
«Cos’è successo?» ripetei debolmente, schiarendomi la voce per assumere un tono decente e controllato.
«Non fare la finta tonta» mi rimbrottò bonariamente e solo allora mi accorsi che tutte e quattro, Akiho-chan compresa seppure ci conoscessimo a malapena da un mese, mi guardavano impensierite. Ero spregevole a far preoccupare tanto futilmente delle persone che consideravo così care.
«Niente» mi strinsi nelle spalle, minimizzando il tutto.
«Non è “niente”» ribatté Rika-chan tristemente. «Stai così da ben tre settimane, è naturale che siamo in pensiero per te.»
Era già trascorso tutto quel tempo? Davvero?
«Non ce n’è bisogno» insistei, aprendomi in un sorriso.
«Sakura-chan, non serve fingere. Noi tutte ti vediamo più spenta, come se avessi perso i tuoi colori» mi mise al corrente Naoko-chan.
Mi morsi l’interno del labbro, chinando la testa, mortificata.
«C’entra Li-kun?»
Sobbalzai a quella questione di Chiharu-chan. Rivissi per un terribile attimo quel momento, risentendo le sue parole.
“Continuerai il liceo, ti innamorerai, un giorno ti sposerai, avrai una famiglia e dei bambini e in futuro anche dei nipoti, vivendo appieno la tua vita.”
Ma questa, Syaoran-kun, la si poteva chiamare vita?
Ripensai alla sua reazione, all’angoscia nei suoi occhi, quasi gli avessi gettato una secchiata d’acqua gelida in faccia dandogli la peggiore notizia che avesse mai udito. Ecco, ciò che pensava di me era quello. Ero un orrore per lui. Ero una dannazione, un terribile demone che lo infestava. Aveva sempre ragione onii-chan quando mi definiva un mostriciattolo.
«È successo qualcosa con lui?» insistettero.
Presi un respiro, pregando di non mostrare nulla, ma neppure più tentando di fingermi indifferente o serena. Come se pochi giorni bastassero a risanare una ferita talmente dolente nella sua invisibilità, inferta nel livello più profondo del cuore.
«Gli ho detto quello che provo per lui.» Sentii tutte trattenere il fiato, al che aggiunsi in tono basso e roco: «Ma lui non ricambia allo stesso modo.»
Faceva così male ammetterlo…
Chiusi le palpebre per qualche istante, finché non udii Rika-chan sbottare incredula: «Ma non è possibile!»
«Che cosa ti ha detto?» domandò più pacata Naoko-chan.
«Niente.»
«Niente?!» ripeterono in coro, sconvolte.
«È rimasto in silenzio. Temo di averlo scioccato.» La presi sul ridere, pur di non piangere.
«Non pensavo fosse un simile codardo» sibilò Chiharu-chan, sprezzante.
Improvvisamente, provai un irrefrenabile desiderio di proteggerlo. Proprio come facevo sempre. Come avevo sempre fatto. E come sempre avrei fatto, schierandomi costantemente dalla sua parte.
«In realtà, ha cominciato lui facendomi un discorso in cui… mi ha fatto capire che non aveva previsto un futuro insieme.» Presi un respiro tremante, stringendo le dita sulla stoffa della mia gonna. «E quindi ho deciso di dirglielo perché in parte speravo di fargli cambiare idea. Ma evidentemente ha preso la sua decisione e lo conosco abbastanza da sapere che è piuttosto testardo. Non cambierà idea» conclusi tristemente, ingrigendomi. Avevano ragione. I colori accesi li avevo lasciati indietro, nel posto che lui occupava.
Spostai gli occhi su ciò che indossavo: bianco sporco e più che rosa la maglia sotto il vestito mi sembrava grigio tortora. Era tutto così cupo, spento. Così assurdo…
«Continua a non avere nessun senso.»
Sorrisi a malapena, sentendole dare voce al mio stesso pensiero. Le vidi trastullarsi il cervello per cercare di carpirne qualcosa, inutilmente.
«Non vi preoccupate, mi passerà» mentii, tornando alla realtà e tenendomi occupata per mettere a posto il bentou.
Sapevo che loro erano ancora in cerca di una soluzione, una soluzione che non c’era. Mantenni lo sguardo basso, dispiaciuta. Sarebbero state male per me, anche se non ce n’era minimamente bisogno, senza che potessi chiarificare nulla. Senza che potessero ricevere una buona motivazione per tale afflizione. E questo valeva soprattutto per Akiho-chan, che ben poco sapeva di noi.
Alzai lo sguardo su quest’ultima, trovandola in pena, con le lacrime agli occhi. Come se stesse provando la mia stessa sofferenza. Perché? Perché sembrava comprendere pienamente come mi sentivo? Perché era triste anche lei? Perché la stavo facendo piangere così? Poteva mai essere tanto empatica e compassionevole da essere partecipe del mio dolore?
Mi affliggevo in cerca di una spiegazione, quando mi sentii tirare indietro. Mi voltai a guardare alle mie spalle, ma non c’era nessuno. Scandagliai l’area confusa, poi lo percepii di nuovo: un vento fresco che mi scivolava su una guancia, un lieve peso su una spalla, un tocco intermittente sull’altra, una leggera presa su un braccio. Spiriti. Rabbrividii, tentando di mantenere la compostezza, convincendomi che, come diceva sempre Touya, volessero solo giocare e cercare conforto in me, non farmi del male. Ci misi un po’ a capire che in realtà stavano cercando di attirare la mia attenzione, con l’intenzione di condurmi in un luogo.
Rinunciai al ritrarmi, decidendo di seguirli. Forse se li avessi accompagnati dove volevano recarsi mi avrebbero lasciata in pace.
Mi alzai di scatto dopo aver messo tutto a posto, e annunciai che mi sarei allontanata per qualche minuto. Con mia grande sorpresa anche Akiho-chan si mise in piedi, chiedendomi: «Posso venire anche io?»
Esitai per un attimo, ma poi annuii. Notai Chiharu-chan portarsi il telefono all’orecchio, mentre rispondeva ad una telefonata di Yamazaki-kun; le ragazze allora ci mormorarono che ci avrebbero aspettate, continuando a gustarsi i dolcetti.
Le salutammo brevemente, cominciando ad allontanarci. Restammo in silenzio per un po’, io troppo occupata a seguire l’invisibile scia fresca degli spettri per preoccuparmi dell’assenza di comunicazione. Non avevo idea di dove stessimo andando, ma quanto più ci inoltravamo in quella che mi sembrava essere una vera e propria foresta di ciliegi tanto più sembravano entusiasti. Era ciò che percepivo nell’aria.
Dopo un po’, tuttavia, fu Akiho-chan a prendere per prima la parola, mortificata: «Sakura-san, perdonami. Forse volevi stare un po’ sola per dare libero sfogo al tuo dolore, e io non ho fatto altro che mettermi in mezzo.»
Mi interruppi nei miei passi, guardandola sorpresa. La trovai con la testa abbassata, a stringersi la maglia in un pugno all’altezza del cuore. Come se le facesse male, fisicamente.
«Akiho-chan, stai bene?» chiesi preoccupata, avvicinandomi a lei per posare le mani sulle sue esili spalle, affinché potessi esserle parallela, rinunciando per un attimo alla missione che mi ero prefissata.
Non avevo mai notato quanto fosse esile e mingherlina, così pallida, dalla pelle quasi trasparente, e i suoi occhi azzurri e quei boccoli color cenere la rendevano ancora più… effimera. Era proprio come aveva detto Syaoran-kun.
«Sì» mi assicurò, mostrandomi un sorriso debole. «Io sto bene, ma tu Sakura-san sembri soffrire così tanto… e io mi sento così impotente. Sono consapevole di non poter fare nulla per alleviare le tue sofferenze, ma tu hai fatto così tanto per me. Mi sei stata vicina sin dal primo momento, aiutandomi e sostenendomi ogni qualvolta ne avessi bisogno. Sei diventata così preziosa per me, una persona che per qualche ragione sento parte di me, come se tu fossi una sorella che non ho mai conosciuto.»
Spalancai gli occhi, sconvolta da tutto ciò. Io mi ero chiusa nel mio bel mondo d’amore, senza rendermi conto di ciò che mi era attorno. Senza accorgermi di quanto, inconsciamente, stessi facendo per lei.
«Akiho-chan, sono contenta se la pensi così…» sussurrai, incerta di come sentirmi.
Ero lieta delle sue parole, ma allo stesso tempo mi provocavano un senso di malinconia che non riuscivo a spiegarmi.
«Per questo vorrei riuscire a ripagarti in qualche modo… Ma non so come…» si torturò, mordicchiandosi il labbro.
A questo sorrisi calorosamente, rassicurandola.
«È già tantissimo quello che stai facendo, credimi. E non sai quanto mi siano di conforto le tue parole.»
«Però sembri così infelice. È come se i tuoi occhi continuassero a versare lacrime inarrestabili…»
Questo diceva di me, eppure era lei a piangere. Mi sentii un groppo in gola e posai le mani ai lati del suo viso, alzandoglielo verso di me, asciugandole le guance coi pollici.
«Perché stai piangendo?»
«Perché mi sento inutile, sciocca, una bambina bloccata nei propri sogni, coi suoi amici immaginari con cui riesce a giocare e divertirsi, senza riuscire a far sorridere le persone reali che conosce, come invece vorrebbe. È così frustrante.» Rise lievemente, in mezzo al pianto.
«Di cosa stai parlando?»
Mi sentivo confusa, ma soprattutto triste. Ormai la tristezza faceva da padrona nel mio cuore.
«Sakura-san, sei la prima persona a cui lo rivelo» esordì, facendosi un po’ indietro per tirare su col naso. Col sorriso che mi rivolse mi sembrò ancora più fragile, ferendomi nell’animo.
«Vedi, sin da quando ero bambina non ho mai avuto amici. La mia famiglia non mi ha voluta, sono cresciuta in un orfanotrofio e lì per il mio carattere chiuso e introverso venivo unicamente presa in giro. Per questo mi sentivo inadeguata, come un pesciolino fuor d’acqua, e non riuscivo a stringere amicizia con nessuno. Dall’età di quattro anni venni affidata a diverse famiglie in molteplici Paesi, finché non fui infine adottata qui in Giappone. Trascorsi molti anni insieme alle uniche due persone che sembravano volermi realmente bene, le uniche due persone che chiamavo “mamma” e “papà”, finché non accadde una tragedia: furono coinvolti in un incidente automobilistico e dopo non molto tempo mi lasciarono.»
Trattenni il fiato, cercando di capacitarmene, sentendomi morire.
«Da allora sono stata affidata al maggiordomo che lavorava presso essi, ma ho finito col commettere un errore madornale: mi sono innamorata di lui. Forse perché è l’unica persona a mostrare cura nei miei confronti, anche se lo so che resta al mio fianco soltanto perché è il suo dovere… Perché deve molto alla mia famiglia, perché la rispetta, perché vuole mantenerne vivo il ricordo… So che è un mero lavoro per lui, eppure io sono così contenta di tutte le attenzioni che mi rivolge. Dei suoi sorrisi, delle sue dolci parole, del suo rispondere continuamente ai miei bisogni, anche quando io gli dico che non è necessario, anche quando gli faccio capire che può smettere di servirmi e restare al mio fianco semplicemente per la persona che è, non per il ruolo che ha… Ma possiamo dire che Kaito-san sia piuttosto testardo.» Fece una mezza risata e anche io abbozzai un sorriso, ascoltandola attentamente.
Strinsi le sue mani tra le mie, sentendomi coinvolta, seppure la sua vita fosse stata terribile rispetto alla mia. Eccola, l’ennesima persona che aveva sofferto senza che lo meritasse.
«Mi dispiace tanto…» mormorai soltanto, consapevole che di più non fosse in mio potere di fare o dire.
«Non importa.» Sorrise più apertamente, ricambiando la stretta. «Sai, è stato lui a consigliarmi di venire qui. Quando ho conosciuto Chiharu-san in estate lui ne è parso molto entusiasta, visto che lei è la mia prima amica. Ammetto che quando è dovuta tornare a casa mi sono sentita molto triste, ma Kaito-san mi è stato affianco sempre, costantemente, e mi ha ripetuto spesso di trascorrere del tempo qui con lei. A saperlo che avrei conosciuto te, Naoko-san e Rika-san mi sarei lasciata convincere prima. Siete tutte così gentili e buone con me. Non mi escludete, mi invitate a far gruppo con voi, mi rendete partecipe di tutto ciò che vivete -»
«È naturale che sia così» la interruppi, parlandole dolcemente. «Sei una nostra amica, Akiho-chan.»
Mi guardò stupita, ma subito nuove lacrime scivolarono copiose dai suoi occhi, prima che si gettasse tra le mie braccia.
La strinsi, carezzandole i capelli, sperando di consolarla, pensando a quanto potesse essere stata dura la sua infanzia solitaria.
«Ci sono io. Ci siamo noi con te» la rassicurai.
Lei annuì sulla mia spalla, staccandosi di poco per guardarmi disperata.
«Per questo mi dispiace. Sei una persona così bella, Sakura-san. Non meriti questa sofferenza.»
La fissai interdetta, scuotendo vigorosamente la testa.
«Sei tu che non la meriti, Akiho-chan. Non è giusto che tu abbia dovuto vivere tutto questo, ma purtroppo il passato non può essere cambiato.» E questo valeva per entrambe. «Impegniamoci in vista del futuro.»
Assentì con forza e si allontanò di più per asciugarsi, ringraziandomi per averla ascoltata, compresa e incoraggiata. Eppure avrei voluto avere il potere di fare molto di più…
Attesi che si calmasse prima di riprendere il cammino, cercando di percepire gli spostamenti d’aria attorno a me; ma proprio mentre ero intenta a fare questo vidi Akiho-chan arrestarsi di nuovo nei suoi passi. Mi voltai verso di lei, temendo che stesse ancora male e desiderasse continuare a sfogarsi; tuttavia, quando mi girai completamente, la trovai a rimirare il vuoto, con sguardo vacuo.
«Akiho-chan…?» la richiamai preoccupata. Cosa le stava succedendo?
Lei volse di poco la testa nella mia direzione, con un lieve scatto, quasi come un automa. Quasi fosse una bambola senza vita. E improvvisamente lo sembrava, una di quelle bambole da collezionisti, con gli occhi vitrei, i riccioli ad incorniciarne il viso di porcellana, gli abiti pieni di balze e merletti, la bellezza immortale di un’altra epoca.
Rabbrividii, spaventata, e arretrai. Era l’agire di uno spirito? L’aveva posseduta? Volevano punirmi per averli messi da parte?
«A… Akiho-chan…» ritentai, tremante, sentendomi la pelle d’oca.
Lei sussurrò con voce spenta, a malapena udibile, un nome che non mi apparteneva, prima di perdere i sensi e crollare, come una marionetta cui erano appena stati recisi i fili. Feci un passo in avanti, allungando un braccio verso di lei, ma mi bloccai vedendo che non cadeva più. Non toccò mai terra, in quanto fu presa al volo da un ragazzo che sembrava poco più grande di noi. Aveva a sua volta una pelle chiara, nivea, occhi d’ametista simili a quelli di mia cugina, ma più freddi e ambigui, lisci capelli corvini e una tenuta da maggiordomo.
“Kaito-san…” pensai, realizzando poco alla volta come mai, nonostante fosse la prima volta che ci incontravamo, sembrasse così familiare. E tale realizzazione prese forma nel momento in cui mi sorrise dolcemente, parlandomi con quel tono mellifluo e carezzevole.
«Finalmente ci incontriamo, Sakura-san.»
Mi pietrificai sul posto, sentendomi risucchiare in un vortice.
«Yuna D. Kaito…» sussurrai soltanto, in tono soffocato.
Fece un piccolo cenno con la testa, in conferma. Il suo sorriso si allargò mostrandomi i suoi denti, con due canini affilati che scintillavano alla pallida ombra delle nubi. Il suo sguardo sembrava rassicurante, eppure adesso che lo vedevo mi faceva più paura che mai.
Lui mi aveva trovata e questo significava soltanto una cosa: per me era la fine.










 
Angolino autrice:
Buon primo maggio! Con un capitolo bellissimo, non c'è che dire... Ad ogni modo, pubblicherò anche domani e dopodomani per non far passare troppo tempo tra una scena e l'altra (anche perché quelle che seguiranno sono abbastanza importanti).
Le parole straniere utilizzate in questo capitolo sono "Hanami" (che consiste nel fare picnic guardando i fiori - e con fiori si intendono i ciliegi) e "bentou" ( = pranzo al sacco). 
Con questo credo di non dover dire altro, solo grazie a chi è arrivato fin qui e continuerà a seguirmi anche d'ora in avanti!
  
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