Libri > Il Signore degli Anelli e altri
Segui la storia  |       
Autore: AleeraRedwoods    24/05/2020    3 recensioni
Dal testo:
“Tu sei nata per una ragione e il tuo cammino non può cambiare.
Ma un destino scritto è anche una maledizione.
Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo,
riunirai i Popoli Liberi e scenderai in battaglia.
Una prova ti attende e dovrai affrontarla per vincere il Male.
Perché la Stella dei Valar si è svegliata.
La Stella dei Valar porterà la pace.
A caro prezzo.”
(Revisionata e corretta)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Aragorn, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
-Alla Battaglia, Parte I-
 
 
    Il sole picchiava senza pietà sulle armature argentee degli Uomini dell’Ovest, disposti in file serrate. Elessar posò istintivamente una mano sull’elsa di Andúril, concentrato a osservare l’orizzonte.
    -Sono tutti in posizione?- L’aquila al suo fianco spostò il peso da una zampa artigliata all’altra, annuendo.
    Faramir affiancò il Re degli Uomini, respirando affannosamente nell’elmo: -Non mi piace questa situazione. Un esercito di quasi centomila individui non può scomparire nel giro di una notte.-
    Aggrottò le sopracciglia in un’espressione preoccupata e gocce di sudore gli solcarono la fronte. Elessar strinse la mascella, teso e altrettanto infastidito dal caldo.
    Non appena le Aquile avevano riportato la notizia che il nemico era giunto a Gondor, gli eserciti si erano meticolosamente preparati, allestendo in fretta e furia le infermerie.
    Dalla sua posizione, alle porte della città vuota, Elessar non riusciva a scorgere nient’altro che le distese del Pelennor, che stava per diventare di nuovo un campo di battaglia, dopo trent’anni.
    Poi, quella mattina, Landroval era rientrato dalla ronda più sconvolto che mai, annunciando che, inspiegabilmente, il nemico era scomparso nel nulla, all’ombra delle fronde del Nord Ithilien.
    E, per un attimo, c’era stato solo il panico.
    Solo la Stella dei Valar riuscì in qualche modo a placare gli animi spaventati degli alleati, prendendo in mano le redini della situazione. Aveva incoraggiato tutti quanti a mantenere fede al piano e aveva riprogrammato le ronde delle Aquile, rendendole più brevi ma più numerose, in modo che non si stancassero troppo prima dello scontro.
    E, ora, attendevano.
    Perché qualcosa sarebbe dovuto accadere a momenti, Elessar lo percepiva nelle dita tremanti delle sue mani di Dúnadan.
    Se non fosse stato per Sillen, lo sconforto lo avrebbe piegato, ne era certo. Invece era pronto, forse più di quanto non fosse mai stato in vita sua.
    Con un gesto secco, si portò una mano al petto, all’altezza del cuore. Piantò gli occhi grigi in quelli bruni dell’aquila al suo fianco, allungando la mano: sul suo palmo ruvido, brillava una spilla. -Siamo pronti allo scontro. Ti chiedo solo un favore. Da' questo a Sillen da parte mia.- L’aquila squadrò il Re degli Uomini, poi prese con delicatezza l’oggetto, chiudendolo nel becco duro.
    Spiccò il volo, tra i nitriti contrariati dei cavalli e gli sguardi tesi dei soldati di Gondor.


 
**

Sillen, dall’alto delle mura della Cittadella, riusciva ad abbracciare con lo sguardo tutto il campo di battaglia, ancora vuoto e silenzioso. Con un gesto meccanico, sistemò per l’ennesima volta l’alta coda di cavallo che le tratteneva i capelli neri, testando la tenuta del fermaglio elfico che Miniel le aveva regalato.
    L’armatura in mithril, sottile ed elegante come l’aveva sempre immaginata, le donava un aspetto fiero e potente, fasciandole le forme come una seconda pelle, più dura delle scaglie di drago.
    Ibûn aveva ragione: era un dono degno di un Re.
    Su ogni placca lucente erano state lavorate delle leggere filigrane, tanto sottili quanto manieriste; i gambali erano slanciati, per permetterle piena libertà di movimento e, a destra, lo spallaccio[1] si delineava ampio e regale. Sul corpo, le placche verticali le stringevano il busto come le stecche del più resistente dei corsetti, eppure parevano quasi flessibili sotto i suoi movimenti; erano di una pesantezza rassicurante e andavano unendosi infine in un intreccio di ferro e lacci di cuoio, lungo la linea della spina dorsale.
    Sillen passò una mano sull’avambraccio destro, dove le placche dell’armatura si facevano più spesse per proteggerle il braccio armato e sospirò. Nonostante detestasse ammetterlo, si sentiva perfettamente a suo agio in quelle vesti, in quell’intera situazione.
    Dopotutto, era nata per vivere quel momento.
    Sistemò malamente le placche che le ricoprivano il petto, in modo che non ostacolassero i suoi movimenti ma, probabilmente, aveva stretto male i lacci sulla schiena e queste si spostarono nuovamente. Cercò di capire dove avesse sbagliato, scocciata: Ibûn aveva impiegato pochi minuti a infilargliela correttamente, mentre lei a malapena era riuscita a capire quale fosse il fronte e quale il retro. Morse il labbro inferiore, concentrata, tastando i laccetti di cuoio.
    Proprio in quel momento, Glorfindel la raggiunse, smontando dal dorso piumato di una delle aquile: -Gli Elfi sono schierati e pronti.- La informò, serio. Si arrestò proprio dietro di lei, le braccia incrociate e il sopracciglio sottile alzato.
    Non l’avrebbe mai rivelato a nessuno ma, per un attimo, sentì il cuore mancare un battito alla vista della Stella dei Valar fasciata in quell’armatura lucente. Il nano che l’aveva forgiata meritava onore e gloria, indubbiamente.
    Lei incontrò il suo sguardo e tentò di sorridere ma ne uscì solo una sorta di smorfia tesa, che intenerì l’elfo.
    Si fece più vicino: -Sono lacci difficili da stringere da sola.- Commentò, con voce profonda. Le sue dita sicure sciolsero i lacci con gesti secchi, per poi apprestarsi a stringerli nel modo corretto. Sillen non protestò quando Glorfindel strinse con forza i nodi all’altezza della vita e cercò di rimanere il più immobile possibile mentre sentiva finalmente il mithril adeguarsi in modo impeccabile alle sue forme.
    Quando si voltò verso l’elfo, si stupì della sua espressione seria.
    -Sei perfetta.- Concluse lui. Lo disse come se quell’affermazione fosse tutt’altro che un complimento e lei percepì la sua preoccupazione piombarle addosso come un macigno.
    Appoggiò una mano sul suo braccio, coperto dall’armatura dorata: -Andrà tutto bene, Glorfindel. Siamo qui per combattere, non possiamo farci assalire dalla paura. Non oggi.- Disse, incitandolo con lo sguardo a mantenere saldo il suo spirito. Glorfindel abbandonò il solito atteggiamento scostante, osservando a lungo quegli occhi terribilmente grandi e viola.
    Era poco più che una bambina e si preoccupava di tranquillizzarlo?
    Inaspettatamente, non senza un respiro scocciato, il Vanyar si avvicinò di un passo e la circondò delicatamente con un braccio. Maledisse mentalmente quelle armature che gli impedivano di stringerla come avrebbe voluto, ora che la sua apprensione era tale da mozzargli il respiro.
    -Tu cerca solo di non farti uccidere, Sillen. Per favore.- Lei sgranò gli occhi, ritrovandosi con la fronte poggiata al metallo freddo.
    In quel momento, un’altra aquila atterrò pesantemente al loro fianco, facendo cozzare le zampe artigliare al suolo di pietra, e i due si voltarono subito verso di lei.
    Il Maia si sporse, aprendo piano il becco e Sillen tese le mani a coppa, intuendo le sue azioni. La spilla di Elessar le ricadde sui palmi: era una pietra verde smeraldo, grossa come una noce, incastonata nella sagoma d’argento di un rapace dalle ali distese.
    -Elessar ti ha chiesto di darmela?- Sussurrò, Sillen. L’aquila annuì seccamente, poi si rialzò in volo, tornando da dov’era venuta.
    -è molto bella.- La contemplò lei, mostrandola a Glorfindel.
    L’elfo sgranò gli occhi: -La Gemma di Eärendil[2]! Elessar deve avertela ceduta in custodia, nel caso dovesse accadergli qualcosa durante la battaglia. Questa pietra è legata al legittimo sovrano di Gondor ed è uno dei massimi simboli del suo potere.- Sillen deglutì, rendendosi conto del vero valore di quella spilla: -Allora sarà per me un onore custodirla, anche se non sono certo all’altezza di indossarla.-
    Scostò i capelli neri e la appuntò velocemente alla casacca, sopra al cuore, in modo che fosse protetta dall’armatura. Si premurò di nascondere sotto la veste anche la collana in mithril dalla pietra viola, fonte del suo potere.
    Ora era davvero pronta per la battaglia.
    Con una dozzina di Aquile e Glorfindel al suo fianco, la Stella dei Valar si sporse nuovamente dal parapetto delle mura, il fodero scuro della spada elfica che le picchiettava sul fianco.
    Oramai, il nemico sarebbe dovuto essere lì, alle porte della città.
    Invece, v’era solo quiete, calma, silenzio, in tutta la valle.
    Sennonché… Un momento.
    Sillen s’immobilizzò violentemente, sentendo la bocca dello stomaco contorcersi. Conosceva quella sensazione, l’aveva già provata al Nido delle Aquile, quel giorno: l’impressione che qualcosa li stesse seguendo.
    Con un balzo, fu in piedi sul parapetto, sporta verso Sud.
    Cos’era quel rumore? Un tuono?
    Concentrò il suo sguardo laddove il suo istinto le suggeriva: qui vi era l’esercito di Thorin III, pronto alla guerra. I Nani brandivano asce, scuri e martelli, ignari di tutto.
    La Stella dei Valar la sentì di nuovo, nella punta dei piedi, ben piantati sulla roccia fredda: una vibrazione, netta, che le scuoteva la spina dorsale. Poi un’altra.
    Sembravano davvero echi di tuoni lontani, il rumore era quasi impercettibile. La vibrazione che le trasmetteva la pietra aumentò via via d’intensità, a una vertiginosa velocità.
    E, d’un tratto, Sillen capì.
    Ricordò il Nido delle Aquile e tutto fu chiaro nella sua mente.
    Quello che era solo timore si tramutò in realtà.
    L’orrore le deformò i tratti quando urlò, in direzione dei nani:
-SOTTO DI VOI!- E uno schianto sordo, terribile, come di gigantesche ossa che si spezzano, si levò dai campi del Pelennor.
    Sillen vide le fila dei Nani perdere l’equilibrio, destabilizzate dall’improvviso movimento della terra, che finì divelta in grosse zolle frastagliate. Glorfindel trattene il fiato: -Non è possibile. Quelli sono… sono… I Mangia Terra[3]!-
    Con gli occhi offuscati dalla rabbia, Sillen assistette impotente alla scena: due immense e mostruose bocche circolari stavano fuoriuscendo dalle viscere della terra. Erano bocche deformi, irte di zanne in grado di frantumare la pietra, talmente ampie da inghiottire tutto ciò che si trovava sopra di loro.
    Il caos dilagò tra le schiere degli alleati e in un attimo le urla si levarono terribili dalle fila disordinate.
    Elessar assistette a quell’incubo, indifeso, gli occhi spalancati. Vide con orrore decine di Nani rotolare senza scampo dentro le profonde voragini, dritti nelle fauci dei Mangiatori di Terra.
    La terra tremava ininterrottamente, terrorizzando i soldati e le loro cavalcature. Re Éomer, da dietro i colli del Pelennor, udì chiaramente il frastuono da Sud e scorse le Aquile volare impazzite intorno alla città. Allertato, spronò Lampoargenteo sulla cresta del colle e si trovò dinanzi a quell’orrendo spettacolo.
    Il suo cuore cessò quasi di battere nell’assistere all’improvviso attacco delle mostruose creature, che adesso decimavano il valoroso esercito dei Nani.
    Dalle voragini create dai Mangia Terra poi, come nel peggiore degli incubi, presero a fuoriuscire i non morti, tanti da non riuscire a vederne la fine.
    Quel momento, tragicamente, segnò il principio della battaglia.
    Éomer sapeva di non aver tempo da perdere. Incitò la propria éored[4] a seguirlo, furioso: -Rohirrim! Alla battaglia!- E le altre si disposero ai suoi fianchi.
    Sillen corse lungo il parapetto, adocchiando sotto di sé: le profonde voragini nel terreno non si fermavano, bensì seguivano il perimetro della città di Minas Tirith come saette di tenebra, vomitando all’esterno l’esercito di non morti.
    Il piano era saltato, ormai non le importava più.
    Saltò in groppa all’aquila al suo fianco, sguainando la spada.
    -Gurth gothrim lye! (Morte cali sul nostro nemico)- E con uno stridio possente si gettarono in picchiata.
    Glorfindel si sporse verso la Stella dei Valar, tentando di afferrarla: -Aspetta, Sillen!- Ma questa era già lontana.
 

 
**

    Legolas saltò giù dalle mura di Osgiliath, l’arco in pugno.
    Era troppo lontano, dannatamente lontano dall’esercito dei Nani. Scrollò con forza la testa per rimanere lucido, mentre raggiungeva i due Principi di Imladris: -Elladan, Elrohir! I Mangia Terra attaccano a Sud, dobbiamo sbrigarci!-
    I due si guardarono, seri, poi Elladan posò una mano guantata sulla spalla del Principe di Bosco Atro: -Non è saggio abbandonare la postazione, amico mio. Il piano della stella è chiaro, dobbiamo aspettare che il nemico si avvicini, per impegnarlo in uno scontro qui a Est. Se ci riuniamo, vanificheremo tutti i nostri sforzi.- Legolas sapeva che l’elfo dai capelli corvini aveva ragione e in un’altra situazione avrebbe seguito il suo saggio consiglio senza indugio.
    Ma in quel momento, ad affrontare quella battaglia erano Aragorn, Faramir… Gimli.
    Quando puntò gli occhi chiari in quelli di Elladan, aveva già deciso. Li superò senza tanti convenevoli, l’espressione grave.
    -Io vado.- Concluse. Saltò in groppa a una delle aquile rimaste con loro e questa si voltò appena, per incontrare il suo sguardo:
-Elfo, i tuoi compagni hanno ragione. Ne sei consapevole?- Gli comunicò, schioccando il becco. Lui strinse i pugni: -Andrò di corsa, se non intendi aiutarmi.-
    L’aquila lanciò un grido acuto, alzandosi in volo con due possenti colpi d’ala: -Volevo solo togliermi di dosso la responsabilità di quello che ti accadrà da ora in avanti. Ma è mio desiderio andare: quei maledetti hanno ucciso il mio compagno, io non chiedo altro che morte!- E Legolas le strinse le piume rossicce, lo sguardo fisso sull’esercito di Thorin III Elminpietra.
    Laggiù, era un massacro.
 
**

    Sillen atterrò poco lontano da Elessar, intento a gridare ordini ai suoi uomini: stava cercando di avanzare, i picchieri in prima linea e gli arcieri subito dietro.
    Quando lui vide la stella smontare dal Maia e dirigersi a tutta velocità verso quell’inferno, si precipitò su di lei. Le sbarrò la strada, in sella al proprio stallone: -Che cosa ci fai qui, Sillen? Vattene via!- Lei s’arrestò violentemente, la spada stretta nel pugno: -Spostati, Elessar! Li ucciderò tutti, dovesse un fulmine colpirmi adesso!- Urlò, furiosa.
    Il Re degli Uomini lanciò uno sguardo alle voragini poco distanti: i Mangiatori di Terra affioravano e scomparivano senza tregua, mentre i non morti impegnavano i nani in violenti scontri diretti.
    -Devi cercare Pallando! Non è stando qui che li aiuterai.- Tornò a fissare i propri, severi occhi grigi in quelli di lei, che parve placarsi.
    Giusto, Pallando. Dove si nascondeva quel dannato?
    Glorfindel planò accanto a loro, trafelato: -Sillen, i Rohirrim si avvicinano.- La stella puntò lo sguardo sui colli del Pelennor, illuminati dal sole: Éomer guidava i suoi al galoppo, dritti verso lo scontro, lance in resta.
    Doveva avere fiducia in loro. Gli uomini dell’Ovest avrebbero tirato fuori i nani da quella situazione e lei doveva rimanere concentrata per non vanificare i loro sforzi.
    Sì, il piano avrebbe funzionato.
    Glorfindel tese una mano e la aiutò ad issarsi sull’aquila: -La voragine è più ampia laggiù.- Indicò l’elfo, verso Nord. -Sta per uscire qualcosa di grosso. Pallando potrebbe trovarsi lì.-
    Presero quota, osservando la battaglia dall’alto. Faramir e i suoi erano già arrivati al centro dello scontro e Sillen vide Thorin raggiungerlo, serrando i ranghi.
    Il suo cuore tornò a battere più o meno regolarmente e respirò a fondo. Si strinse istintivamente all’elfo davanti a sé, tremando per la tensione: -Hai visto quanti morti già coprono il suolo? Questa non è una battaglia, è una carneficina.-
    Guardò con apprensione la éored del Re del Mark impattare con violenza contro un nuovo gruppo di non morti che, fuoriuscendo come formiche dai loro buchi, si erano prontamente frapposti tra i soldati e i Mangia Terra.
    Il Vanyar le strinse una mano: -Tutte le battaglie sono orribili. Rimani concentrata, presto dovremo intervenire.-
    Landroval, intanto, stava guidando un gruppo dei suoi verso i nani, falciando con gli artigli affilati più orchi possibili. Subito, i cadaveri si rialzavano, come se niente fosse accaduto, e tornavano all’attacco.
    Elessar trapassò la testa di uno degli orchi, poi gli tranciò il busto, dividendolo quasi in due. Questo cadde, iniziando a strisciare a terra per raggiungere un nuovo obiettivo da uccidere.
    Il Re degli Uomini lo disarmò, ringhiando in direzione di Thorin e Faramir: -è esattamente come al Nido delle Aquile, non riusciamo a ucciderli!- Thorin piantò la scure nelle ginocchia dell’Uruk che si trovò davanti, mandandolo lungo disteso a terra a mulinare pateticamente le braccia putride e scheletriche.
    -Disgustosi bastardi, marciranno a terra con le gambe rotte!-
    La tecnica stava funzionando, per lo meno: i soldati puntavano alle giunture e alle estremità, mozzando mani, piedi e arti. I non morti, così facendo, rimanevano a terra, inoffensivi come disgustose bambole di pezza.
 

 
**

    Legolas fu presto sopra l’epicentro dello scontro, rabbrividendo ogni qual volta le enormi fauci dei Vermi di Terra facevano capolino dalle voragini frastagliate del terreno.
    Con la sua acuta vista di elfo, impiegò poco a individuare Elessar e gli altri e, almeno per il momento, sospirò di sollievo.
    Tuttavia, di Gimli non vi era traccia. -Abbassiamoci, non riesco a vedere bene!- Urlò all’aquila, indicando sotto di loro.
    -Non posso, ancora qualche piede e sarò sotto il tiro dei balestrieri.- Lo avvertì lei, planando in circolo. Legolas mise l’arco sulle spalle e sfoderò la spada: -Dunque, ci separiamo. Hannon le, mellon (Ti ringrazio, amica). Possa tu sopravvivere alla battaglia.-
    L’aquila gli lanciò uno sguardo penetrante, capendo le sue intenzioni, poi l’elfo si lasciò cadere, dritto sulla voragine da cui continuavano a fuoriuscire le legioni nemiche.
    Atterrò senza difficoltà sulle teste marce degli orchi, affondando con precisione la lama affilata laddove i malconci tendini ancora tenevano insieme le loro membra.
    Si guardò intorno, mentre le sue mani pallide si macchiavano velocemente di melma nera: -Gimli!- Urlò. -Gimli, puoi sentirmi?-
    Diversi nani si lanciavano sui nemici, poco distanti da lui, e molti altri lottavano come furie tutto attorno ma di Gimli nemmeno l’ombra. Legolas si rifiutava di credere che proprio lui, quel testardo nano, fosse finito inghiottito dai Mangiatori di Terra.
    Roteò su sé stesso per decapitare un altro uruk, sfogando la propria tensione in ogni colpo.
    Vivo o… o morto, l’avrebbe trovato.
    Elledan ed Elrohir guidarono l’attacco da Osgiliath, ora che i nemici erano giunti nei loro pressi. Gli Elfi erano efficienti e non appena presero parte alla battaglia, il nemico sembrò rientrare sotto il controllo degli alleati. Guidavano loro il ritmo degli attacchi, arrivando sempre più vicini alle voragini da cui i nemici fuoriuscivano.
    Mantenendo le fila salde, sarebbero riusciti a non essere sopraffatti dal numero, man a mano che i non morti si presentavano.
    Elessar, seppur sfiancato dal caldo e dalla fatica, sentì la propria forza aumentare, rincuorato dai risultati: avrebbero dimostrato che, sulla Terra di Mezzo, non c’era più spazio per il male.
 
**


Sillen individuò una strana macchia di colore, in mezzo al marasma nero dei non morti che stavano fuoriuscendo dalla grossa voragine a Nord. Una nota stonata, quasi beffarda.
    Era un’insolita e inaspettata mantellina color prugna.
    Apparteneva a un individuo alto e slanciato, che se ne stava stravaccato in sella a un mannaro non morto, le braccia mollemente incrociate sul grembo. Dietro di lui, uno scarno gruppo di uruk scheletrici trasportava degli strani oggetti cubici, di legno e metallo.
    Sillen indicò a Glorfindel la strana figura e lui aguzzò la vista.
    -Credi sia Pallando?- Lei strinse la presa sulla lama elfica: -C’è solo un modo per scoprirlo.- Si avvicinarono velocemente, scendendo in picchiata. Tuttavia, poco prima di riuscire a raggiungerla, la figura dalla mantellina color prugna parve accorgersi di loro e, subito, uno degli uruk lanciò in aria la scatola di ferro e metallo che portava sulla schiena.
    L’aquila, riconoscendo all’improvviso quel diabolico marchingegno, si bloccò di colpo, tentando di tornare indietro.
    L’uruk fu più veloce: l’oggetto esplose in aria, poco distante da loro, e i tre compagni finirono dritti in mezzo al fumo velenoso.
    Sillen si sentì sbalzare via dal dorso del Maia e rotolò malamente a terra, per parecchi piedi. Si tirò su, cercando tentoni la spada elfica: -Glorfindel!- Gli occhi le bruciavano terribilmente e si sforzò di tenerli aperti, seppur avesse già notato che non riusciva a vedere quasi nulla. Si mosse tra le ombre sfumate e distorte, carponi: -Glorfindel!- Ripeté, sbattendo le palpebre nella speranza di tornare a vedere. Sentiva gli stridii di dolore dell’aquila, poco lontano da dove si trovava, ma non riusciva a raggiungerla.
    Era stato quel fumo viola e bollente a ferirli: l’aquila aveva fatto da scudo con il suo corpo, per proteggerla.
    Sillen cercò di riprendere il controllo, respirando a fondo.
    In lontananza, sentiva il clangore metallico delle armi e le grida dei soldati ma attorno a lei c’era un innaturale silenzio.
    E quel dettaglio non era per nulla rassicurante.
    Sapeva di trovarsi esattamente in mezzo alle schiere di non morti, quei silenziosi cadaveri in decomposizione che popolavano i suoi incubi. Intanto, la terra tremava violentemente sotto di lei, segno che i Mangia Terra erano ancora all’opera.
    Portò le mani dorate al viso e strinse i denti, cercando dentro di sé la calma che le serviva per agire. In breve, una leggera brezza s’innalzò dal suo corpo e lei rimase con il fiato sospeso: ci stava riuscendo, il suo potere fluiva in lei, nelle sue mani premute sul volto ferito, come una corrente pura e luminosa. Aprì di nuovo gli occhi, che brillarono della luce bianca della Stella dei Valar e, improvvisamente, tornò a vedere.
    Fu questione di un attimo.
    Vide la terra sotto le proprie ginocchia, la spada a pochi passi da lei, poi un potente pugno le piombò sullo zigomo sinistro.
    Lei si ritrovò a terra, la testa frastornata.
    Una voce rauca e gorgogliante le giunse alle orecchie, sovrastando il ronzio causato dalla violenza del colpo: -Eccoti, Stella dei Valar. Sei arrivata.-
    Sillen si tirò su velocemente, saltando all’indietro e afferrando la spada. Puntò lo sguardo sul suo aggressore, individuando subito la strana mantellina violacea scorta poco prima.
    Era un… elfo. O meglio, doveva esserlo stato, un tempo.
    Era alto e snello, con lunghissimi capelli corvini, dritti e sottili; indossava una stretta tunica scura, lunga fin quasi alle ginocchia. Alla cintura teneva appese boccette e fiale di ogni colore e dimensione e una cinghia scura attraversava il suo petto magro, armata di pugnali e stiletti. Le lunghe gambe erano fasciate da stretti calzoni rattoppati ed era scalzo.
    Laddove i suoi arti erano visibili, era assurdamente coperto da spesse bende bianche. Gli avambracci, i polsi, le mani, le caviglie, il collo, ogni centimetro della sua pelle era coperto da quelle bende candide come la neve. Solo la bocca e una parte del viso, per lasciare liberi gli occhi, spuntavano da sotto il cappuccio violaceo. Quando, da sotto il cappuccio, Sillen riuscì a vederlo in faccia, rabbrividì involontariamente.
    -Non mi devi fissare.- Le intimò lui, con quella voce rotta e disincarnata. Ma la stella non riusciva a distogliere lo sguardo: la pelle attorno ai suoi occhi era scura e orribilmente piagata, solcata da macchie irregolari e profonde cicatrici.
    Sembrava ustionato. E poi, erano i suoi occhi ad atterrirla: il destro vantava un’iride color ambra che, seppur la sclera si fosse ormai ingiallita del tutto, ancora conservava il bagliore di un’antica bellezza; l’occhio sinistro, invece, era enorme, quasi il doppio dell’altro e totalmente, completamente nero come la pece.
    Sillen deglutì, tirandosi in piedi. Era circondata dai non morti, che ora avevano creato un ampio cerchio attorno a lei e a quell’inquietante individuo, che la fissava senza ritegno: in trappola. Si sforzò di tenere la voce alta e sicura ma non riuscì a mascherare del tutto il suo tremore: -Chi sei? Dov’è Pallando?-
    L’elfo oscuro rimase immobile, senza espressione: -Pallando non è qui. Il tuo avversario sono io.- Le gracchiò, indicandosi il petto bendato.
    Come poteva essere possibile?
    Pallando, colui che era causa di tutto, non era presente?
    -Che assurdo scherzo è mai questo!?- Urlò la stella, sentendo la rabbia montarle nuovamente nel petto e puntando la lama elfica verso di lui.
    L’altro non rispose ma, da dietro la sua schiena, trasse una lunga frusta incrostata di sangue e Sillen capì che non aveva altra scelta. Si mise in posizione e, con uno slancio, attaccò con un affondo rapido.
    Sapeva di essere veloce, oramai batteva senza difficoltà Legolas stesso, ma dovette ricredersi quando vide l’elfo oscuro saettare di lato e assestarle con violenza un pugno allo stomaco.
    Il mithril la protesse dal peggio ma l’urto le mozzò il respiro e fu spinta indietro. Si tenne in equilibrio, rimanendo in piedi e, non senza un mugolio dolorante, partì nuovamente all’attacco.
    Ogni suo affondo veniva prontamente evitato dall’elfo, che non sembrava nemmeno affaticato dal ritmo vertiginoso dello scontro; intanto, sferzate secche e taglienti si abbattevano su di lei, aprendole tagli profondi e brucianti laddove il mithril non la proteggeva. L’ultima che l’elfo le assestò disegnò una curva rossa e sanguinolenta sul tessuto scuro delle sue brache, all’altezza della coscia e Sillen sibilò dal dolore.
    D’un tratto lui si allontanò con un balzo e si fermò a guardarla, prendendo velocemente dalla propria cinta una delle svariate boccette: -Ne ho abbastanza di te. Debole, lenta e stupida.-
    Poi i suoi occhi si dilatarono in modo sinistro e la sua bocca disegnò una curva inquietante, simile ad un perverso sorriso:
    -Sei così fortunata. Assaggerai le mie amate creazioni.- Ruppe la boccetta di vetro sulla frusta e il liquido giallastro che ne uscì prese a sfrigolare su di essa.
    La stella, trafelata, premette una mano sulla ferita, digrignando i denti: -Dannato, dimmi chi sei!- L’elfo sferzò l’aria con la frusta impregnata di liquido, mandando gocce a corrodere il terreno: -Io sono Saedor, il Maestro dei Veleni.- Le sibilò, rauco e avanzò minaccioso.
    Sillen aveva il fiato corto e di Glorfindel non vi era traccia.
    Aveva paura, paura da non reggere.
    E si sentiva tremendamente sola.
    In un secondo, i suoi occhi violetti si fecero di nuovo luminosi come le stelle.
 

 
**

    Alatar, seduto sulla sua brandina di legno, si teneva la testa tra le mani. A ogni scossone del terreno, polvere e detriti si staccavano dal soffitto della cella, piovendogli attorno.
    Doveva aspettarsi una trovata del genere: dopotutto, era dal Nido delle Aquile che Pallando ostentava la sua passione per il sottosuolo. Prevedibile.
    Con un profondo respiro, si abbandonò contro la parete fredda dietro di sé. Peccato, forse Glorfindel non sarebbe sopravvissuto per mantener fede alle sue parole: doveva trovare un altro modo per sparire, se non fosse riuscito a farsi uccidere da lui.
    Non voleva più rimanere lì, vicino alla stella.
    Non voleva nemmeno sapere se fosse sopravvissuta alla battaglia. Meglio crederla morta che avere la possibilità di avvicinarsi di nuovo a lei, pensò.
    Lelya mosse le ali, agitata e saltellò sul trespolo: -Che cosa c’è, stupida cornacchia? Non vedi che sto cercando di morire di depressione?- La rimbeccò e seguì il suo sguardo rapace.
    Appoggiato alla parete, come se fosse spuntato da essa proprio in quel momento, se ne stava appoggiato un elfo, con le braccia incrociate sul petto, gli occhi chiusi e un sorrisetto di derisione piantato sul viso sottile. Alatar rimase a fissarlo, mentre il soffitto perdeva pezzi intorno a loro.
    Dopo un po’, distolse lo sguardo, grattandosi la zazzera di capelli brizzolati: -Quanto tempo, Lhospen.-
    L’altro scostò i lunghi capelli corvini con una mano, sollevando le folte ciglia per piantare i grandi occhi blu sull’Istar. -Vederti dietro le sbarre, credimi, mi riempie di grande tristezza, mio amato Alatar.- Trascinò le parole con fare provocatorio, avvicinandosi alle sbarre: -Per quanto ancora vuoi farmi soffrire, crudele stregone? Esci, avanti. So che puoi farlo.-
    Alatar si costrinse a non guardarlo: la sola vista dell’elfo lo gettava nel passato. Un passato che aveva cercato di seppellire per troppo tempo. -Perché sei qui? Non c’è un’epica battaglia da combattere, lassù?- Chiese, con fare annoiato.
    Il Maestro delle Illusioni si accucciò dietro le sbarre, allungando una mano come per tentare di toccarlo: -Ma come, non l’hai capito? Sono qui per riportarti a casa.- Alatar si voltò all’istante, stringendo gli occhi a due fessure: -Tu menti.-
    Incontrò lo sguardo del giovane e splendido elfo che, scocciato, si rialzò, sbattendo una mano sulla tunica per togliere la polvere caduta. Gli assestò un’occhiataccia tutt’altro che smielata, alla faccia del suo atteggiamento di poco prima: -Non ho voglia di fare a cornate con te. Ti porto via, questo è quanto. Pallando ti reclama.- Ad Alatar mancò un battito e sentì lo stomaco contorcersi dal dolore e dal rimorso: -Pallando, per me, era morto e sepolto e tale vorrei rimanesse. Ora sparisci!-
    Lhospen sputò ai suoi piedi: -Dannazione! Non è una tua scelta. Quanto a Pallando, spero voglia scuoiarti vivo. Né io né Saedor ti rivogliamo indietro, se è questo che vuoi sapere.- Alatar si alzò di scatto, avvicinandosi alle sbarre: -Il passato è passato, perché tornare su queste vecchie storie?-
    -Facile a dirsi quando non hai sopportato le sofferenze e le torture del male più assoluto!- Gli urlò in faccia Lhospen, stringendo i pugni. -Ora decidiamo noi, del tuo destino. La ruota gira, i nodi vengono al pettine.- Sussurrò poi, avvicinando il viso pallido a quello dello stregone.
    Nella sua mano, era apparso il bastone di Alatar.
    Lo allungò nella cella, attraverso le sbarre e l’altro indietreggiò bruscamente. -Per una volta nella tua misera, meschina vita di traditore, assumiti le tue responsabilità.- Gli intimò l’elfo, una smorfia di disprezzo a deformargli i lineamenti angelici.
    Alatar lo fissò con l’angoscia nel cuore.
    Dopo un tempo che gli parve infinito, nel quale lasciò che la propria mente vagasse in ricordi lontani, lo stregone fece un passo avanti. Afferrò un’estremità del bastone e, con una tremenda folata di vento, i due scomparvero dalle segrete. 
    Persino Lelya era scomparsa, lasciando dietro di sé una catenina spezzata e una splendida piuma dorata delle sue ali sottili.
 
**

    Legolas piantò una freccia nella spalla dell’uruk, che stava per abbattere il proprio grosso martello sul soldato sotto di lui.
    La battaglia andava avanti da ore e ormai era pomeriggio inoltrato. Il sole faceva risplendere il rosso del sangue degli alleati e il nero dei putridi fluidi nemici.
    L’elfo, nervoso, scoccò altre frecce, tutte precise e letali.
    Non aveva tempo da perdere, dannazione.
    Elessar lo raggiunse, correndo tra i non morti che si dimenavano a terra: -Legolas, sei qui!- L’elfo gli strinse una spalla, felice di vederlo. Però -Hai visto Gimli? È tanto che lo cerco.- Chiese, seppur poco speranzoso.
    Elessar, infatti, scosse la testa: -Mi dispiace. Ho anche perso di vista Faramir, credo sia andato verso Nord.-
    Legolas gli indicò con un cenno le voragini, che ancora sputavano orchi: -Lo hai notato? Stanno uscendo sempre meno non morti e a intervalli sempre più lunghi.- Elessar annuì, aggrottando le sopracciglia: -E per adesso, da quello che vedo, non hanno sfoderato nemmeno la metà del loro numero.-
    Si separarono velocemente, in tempo per schivare l’affondo di un orco munito di mazza chiodata. Legolas saltò indietro e lanciò uno sguardo all’amico, che piantò Andúril nel ginocchio dell’orco.
    -Ci ritroviamo qui alla prima stella della sera! La seconda parte del piano inizierà allora.- Lo informò Elessar. Lui annuì e tornò sui suoi passi.
    Passò a fil di spada decine di non morti, teso e preoccupato.
    Fece per allontanarsi da quella zona, quando colse distrattamente una voce in lontananza.
    -Cinquantuno. Cinquantadue!-
    Il cuore dell’elfo accelerò all’istante e si voltò più rapido che mai per seguire quella voce.
    -Avanti canaglie, dritti sulla mia ascia! Cinquantatré!- In mezzo ad un folto gruppo di non morti c’era qualcuno, seppure fosse troppo basso perché riuscisse a vederlo.
    Ad ogni modo, a Legolas non servì vederlo, per riconoscerlo.
    Il ferro dell’ascia del nano catturava i raggi del sole, tanto che pareva combattesse con la luce stessa tra le mani.
    Legolas quasi svenne dal sollievo e corse verso di lui: -Gimli!-
    L’altro si girò, assestando una scudisciata sul gomito dell’uruk a terra. -Eccoti, elfo! Sono già a ben cinquantatré! Questa volta credo proprio di avere buone possibilità di vincere, eheh!-
    Il biondo sorrise, raggiante: -Puoi ben dirlo.- Il nano aveva un sopracciglio spaccato ma pareva stare bene.
    Ogni preoccupazione era improvvisamente svanita dal petto dell’elfo, che si sentiva rinascere. Avrebbe spiccato il volo o distrutto un muro di pietra a mani nude, tale era la contentezza.
    Si voltò velocemente verso il nano, indicandogli la voragine che si apriva a nemmeno cento piedi da loro: -Andiamo, mellonamin! Come ai vecchi tempi.- Il nano rise, una risata forte e sguaiata che fece arrossire l’elfo, ormai del tutto dimentico del caos che dilagava attorno.
    Con quel testardo e orgoglioso nano di nuovo al suo fianco, sentiva di poter fare qualsiasi cosa.
    -Che vinca il migliore!- Lo sfidò Gimli, saltando nella voragine.
    Lottarono insieme in una coreografia complessa, quasi l’avessero provata; spalla contro spalla, persino la paura era secondaria.
    Dietro di loro, nascosto dal bordo frastagliato della voragine, un orco piccolo, alto forse meno di un metro e mezzo, li osservava. I due non lo notarono, poiché questo non prese parte allo scontro, rimanendo accucciato nell’ombra.
    -Sai una cosa, Gimli?- Parlò l’elfo, emozionato. -Sapevo che non potevi essere morto.- Quello estrasse l’ascia dalla carne molle dell’uruk, lanciandogli un’occhiata complice: -E non morirò! Dopotutto, noi due abbiamo un discorsetto in sospeso!-
    Uno dei Mangia Terra emerse con violenza poco lontano, facendo tremare il terreno e rotolare via il nano, che strisciò nel fango con un’esclamazione sorpresa. Legolas sollevò lo sguardo sull’enorme corpo del verme: con agilità, corse verso di lui, la spada stretta in pugno.
    Saltò su quella mostruosità e storse il naso, disgustato, quando sentì la consistenza ruvida della sua pelle grigiastra. Piantò con forza la spada in un punto imprecisato di quell’essere e si lasciò cadere, trascinando la lama con sé, verso il basso. Uno squarcio profondo si aprì sulla pelle coriacea del Verme di Terra, che emise un verso acuto e strozzato, prima di scomparire rapidamente nei cunicoli che lui stesso aveva creato.
    L’elfo biondo si pulì le mani sulla casacca verde e Gimli, coperto di terriccio e melma nera, gli fu vicino, un’espressione sconvolta e ammirata sul viso. Quando incontrò il sorrisetto soddisfatto di Legolas, si riscosse: -Oh, non aveva nemmeno le braccia, è inutile che gongoli!-
    E solo allora vide il piccolo orco correre via, uscendo dalla voragine ormai priva di protezione. I due amici si scambiarono uno sguardo e si lanciarono al suo inseguimento.
    L’orco, per quanto cadaverico e imputridito, pareva cosciente: come poteva essere possibile? Nessun orco correva via, cercava di difendersi o pareva avere altro pensiero che colpire ripetutamente chi si trovava di fronte.
    Una freccia di Legolas si piantò fino alla scocca nella gamba dell’orco, che cadde rovinosamente a terra. Quando la scure lucente di Gimli gli fu sopra, ai due parve di vedere l’insulso orco tendere le braccia come per difendersi: poi la testa gli fu recisa di netto.
    All’istante, un bagliore bluastro si alzò dal corpo esamine dell’orco. Solo Legolas e Gimli lo videro.
    Poi, videro un centinaio di altri orchi attorno a loro irrigidirsi e cozzare a terra, lasciando i soldati alleati sconvolti, le armi ancora in pugno. Per un attimo, attorno a loro ci fu solo il suono sordo di corpi che crollano al suolo come sacchi vuoti: i nemici avevano definitivamente smesso di muoversi.
    Questa volta, quei cadaveri erano davvero solo cadaveri.
 
 
 

[1] Spallaccio: elemento dell’armatura a piastre medievale. Copre la spalla e la parte superiore del braccio, lasciando però libero movimento al guerriero.
 
[2] Gemma di Eärendil (detta anche Elessar o Gemma Elfica): gioiello antico, proveniente da Valinor. Ha lo splendido potere di sanare e preservare i luoghi più puri. La sua storia è affascinante ed enigmatica. Una versione narra che il gioiello fu creato (forse da Celebrimbor) per catturare la luce del sole tra gli alberi di Gondolin e partì da Valinor nelle mani di Eärendil perdendosi per sempre, fatto che portò Celebrimbor a crearne un altro da donare a Dama Galadriel, come pegno del suo amore (non corrisposto). La teoria più nota (quella a cui mi attengo io) presume invece che il gioiello sia uno solo, portato a Galadriel da Gandalf stesso, quando egli lasciò Valinor. Questo passò poi ad Aragorn per mano della Dama, poiché ella era tenuta a consegnarlo a colui che i Valar ritenessero degno di governare sugli Uomini di Numenor. Aragorn sale al trono, appunto, con il nome di Elessar.
 
[3] Mangia Terra: chiamati were-worms da Gandalf, nel film de Lo Hobbit. Tolkien non ha mai nominato direttamente queste creature o almeno non con questo nome. Esistono alcune note però che hanno spinto Peter Jackson a presupporre la loro esistenza nell’universo tolkieniano (tanto da notare che forse il nostro amato scrittore li intendesse parenti dei Draghi!). A mio parere sono bestie incredibili, voi che dite?
 
[4] éored: in poche parole, è un singolo corpo della cavalleria dell’esercito di Rohan. Nell’esercito sono presenti più éored (formate da non meno di 120 uomini) e solitamente sono guidate da capitani che rispondono ai cosiddetti Marescialli. La cavalleria al completo veniva chiamata éoherë. Giusto perché non ci deve mancare nulla, l’organizzazione militare dei Rohirrim è complessa e dettagliata. Non mi soffermerò a descriverla tutta, per quanto mi appassioni l’argomento XD
 



N.D.A

​Ciao a tutti ragazzi!
Innanzitutto, grazie a chi è arrivato sino a qui e a chi ha speso tante belle parole per questa fanfic!
Grazie di cuore *-*

E ora, DUNQUE dunque. Ci siamo arrivati alla fine: la battaglia. Non voglio piangere adesso, quindi sarò breve XD Dopo una ventina buona di capitoli, ecco quello che tutti -mania di protagonismo momentanea- stavamo aspettando e spero davvero di aver saputo comunicare tutta la frenesia, tutto il caos che i personaggi stessi stanno vivendo. So che è un capitolo lungo e pieno di COSE ma deve essere così, quindi spero vi sia piaciuto ahaha. Fatemi sapere ragazzi! T^T. E ovviamente, non è finitaaaah.
Per oggi è tutto, ci vediamo nella prossima puntata!
Mille baci,
Aleera

 
 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il Signore degli Anelli e altri / Vai alla pagina dell'autore: AleeraRedwoods