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Autore: DarkWinter    25/05/2020    6 recensioni
In un ospedale vicino a Central City, i gemelli Lapis e Lazuli nascono da una madre amorevole e devota.
Fratello e sorella vivono un'adolescenza turbolenta e scoprono il crimine e l'amore, prima di essere rapiti dal malvagio dr. Gero e ristrutturati in macchine mangiatrici di uomini.
Ma cosa accadrebbe se C17 e C18 non dimenticassero totalmente la loro vita da umani e coloro che avevano conosciuto?
Fra genitori e amici, lotte quotidiane e rimpianti, amori vecchi e nuovi e piccoli passi per reinserirsi nel mondo.
Un'avventura con un tocco di romanticismo, speranza e amore sopra ogni cosa.
PROTAGONISTI: 17 e 18
PERSONAGGI SECONDARI: Crilin, Bulma, vari OC, 16, Z Warriors, Shenron, Marron, Ottone
ANTAGONISTI: dr. Gero, Cell, androidi del Red Ribbon, Babidi
{IN HIATUS}
Genere: Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: 17, 18, Crilin, Nuovo personaggio | Coppie: 18/Crilin
Note: Lemon, Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Il cielo tuonava da un pezzo.
Era da mezzogiorno che minacciava di piovere con quei nuvoloni gonfi e scuri, poco amichevoli. Qualche gocciolina di pioggia stava iniziando a cadere solo ora, dallo strato di nembi che ormai non lasciava intravedere nulla. Si asciugò il viso con la mano aperta, per non permettere alla pioggia di distrarlo facendogli chiudere gli occhi.
Con quella spessa cortina non poteva vederla, sarebbe potuta sbucare da sopra le nuvole in qualsiasi momento, come un fulmine; avrebbe solo fatto molto più male.
Senza la possibilità di vedere e di percepire ki, Crilin si sentiva privo di sensi.
E sapeva che doveva stare al gioco e usare l’udito: era a quello che lei lo stava allenando.
Un altro tuono rimbombò da qualche parte. Lui si era preso solo una frazione di secondo, quando aveva voltato la testa, ma fece in tempo a pentirsene. La avvertì arrivare da sopra, pote’ proteggersi il volto.
Quando il suo avambraccio si scontrò con quell’altro su cui anche una spada si era spezzata, l’impatto causò  a sua volta un altro tuono e una raffica.
Crilin si sforzò  di non gridare quando quel contatto gli provocò una specie di taglio netto dal gomito fino al mignolo. Il braccio era sicuramente rotto, ma lui andò avanti e lo usò per colpire.
Lei rideva scansando i colpi, non turbata dal sangue di lui che si mescolava alla pioggia, su nel cielo, sotto i nembi illuminati da fulmini.
Crilin riusci’ ad assestarle una gomitata in pieno viso e si senti’ fiero, ma quando vide la macchia rossa all’angolo delle sue labbra, le stesse che aveva baciato prima di lanciarsi in aria, rimpianse amaramente la sua mossa. Si preoccupo’ sul serio, sentendosi in un momento non piu’ un guerriero ma un violento.
Ma lei aprì la bocca per ridere e socchiudendo gli occhi gli mostrò solo la punta della sua lingua.
Si leccò la piccola ferita e tossicchiò:
“Fighetta.”
Possibile che ogni santa volta che riusciva a colpirla, Crilin doveva rovinare tutto?
Volò veloce fin quando non lo agguanto’ per la maglia, sollevandolo  in alto come per esporlo ai fulmini che ogni tanto trapassavano le nuvole.
“Woah, Diciotto! Ero solo dispiaciuto…”
“Oh diamine…io sono il tuo avversario in questo momento. Basta che una sia bella e tu ti distrai.”
“Non una, tu.”
Crilin non era decisamente un tipo che si faceva ammaliare da ogni donna che vedeva, in parte perche’ quando si trattava di donne la sua autostima era inesistente. In secondo luogo, gli avevano spezzato il cuore più volte di quanto gli importasse tener conto; ma quella donna li’, la ragazza a mezz’aria vicino a lui non solo lo distraeva, lo stregava. Completamente.
Per Diciotto impazziva, non aveva paura che lei lo vedesse.
Ancora non ci credeva: era in giro per il mondo con lei, perche’ quasi un mese prima lei gliel’aveva chiesto.

E’ per me che sei venuta qui?”
“Per due motivi. Uno sei tu, sì.”
“E l’altro?”
Fuori dalla Kame House, le onde gentili facevano scricchiolare i minuscoli sassolini e pezzi di conchiglie che decoravano la battigia; Diciotto le aveva fissate per un momento, come ipnotizzata. La domanda di Crilin l’aveva riportata al presente.
“…So che anche tu mi desideri, che mi trovi bella, penso che tu mi abbia voluta fin da quando mi hai vista per la prima volta. E io ci ho pensato molto da quando mi sono svegliata su quel pavimento, in cielo: io voglio stare con te. Ma prima di tutto, ho bisogno che tu mi aiuti a riportare in vita una persona cara, che ho perso.”


Quella giornata piovosa avrebbe segnato l’ultima tappa di quel viaggio che a Crilin sembrava ancora un sogno: la sfera a tre stelle era nascosta da qualche parte in quelle vecchie miniere.
La ricerca li aveva portati in giro per il mondo, equipaggiati solo con una piccola valigia e il radar cercasfere di Bulma. Fortunatamente Muten ne aveva ancora uno alla Kame House, lui e Diciotto si erano risparmiati un volo fino alla Capsule Corp. e una perdita ulteriore di tempo nel resuscitare il suo primo fidanzato.
Ma, Crilin? Sei proprio cotto eh, quella gnocca ti chiede di resuscitare il tipo che ha fatto il colpaccio piu’ grosso di tutti e tu dici di si’?”
E Muten aveva per la prima volta conosciuto l’udito sopraffino della cyborg: “Ti chiamano il Genio, ma a me sembri ritardato. Lui ha una famiglia, voglio farlo per loro.”

Lei non doveva giustificarsi di nulla col Genio ma ci teneva che tutti capissero che intenzioni aveva, visto che per gli amici e alleati di Crilin lei era ancora una macchina, una minaccia, qualcosa di colpevole fino a prova contraria.
Forse per la prima volta in vita sua, Diciotto era non era interessata ad usare un uomo. Persino Bruno che ora apprezzava tanto all’epoca era stato un mezzo, un passaporto da mostrare a sua madre per affrancarsi dall’infanzia. Aveva finito per passare ben otto mesi con lui, ma il motore del suo attaccamento a lui non era stato l’innamoramento. 
Crilin invece era stato la ragione per cui lei aveva scelto di separarsi da suo fratello e da Kate. Lui le aveva insegnato a sognare, a sperare. Che si poteva scegliere di vivere sereni.
Erano partiti nella stessa giornata in cui lei era arrivata alla Kame House. Le Sfere del Drago, quei sassi che Diciotto aveva visto quella volta, erano nascoste in ogni dove. Potevano essere in cima a montagne, sul fondo dell’oceano, nel nido di rospi giganti. Sapendo volare e avendo un radar a disposizione avrebbero potuto trovarle tutte in qualche ora ma entrambi, con quella complicita’ appena nata, si erano silenziosamente messi d’accordo sullo sfruttare quell’occasione per passare del tempo insieme. Senza i vari Genio e Yamcha che se non avevano qualcosa da ridire sulla sua natura biomeccanica, allora guardavano il sedere a Diciotto.
Anche Crilin era stanco di sentirli confabulare su come fossero ansiosi di tastarlo e vedere se fosse tanto vero quanto appariva. 
Prima di andar via, Crilin aveva frugato nel comodino di Yamcha e si era portato via un bel po’ dei suoi preservativi. Tanto lui ultimamente li teneva li’ come portafortuna.
“Mi dispiace per gli altri, in casa. La Kame House non e’ il posto migliore per conoscerci, dovremmo aspettare un altro momento.”
Lei l’aveva guardato con malizia: “Non preoccuparti. Sono paziente.”
Avevano preso quel viaggio con filosofia, godendosi ad ogni sfera i paesaggi e le genti diverse che la Terra offriva, dormendo ora in motel e B&B ora in mezzo alla natura. Posti in cui nessuno poteva sbirciare e interrompere.
Si addormentavano distesi vicini dopo lunghe, instancabili sessioni di baci, desiderosi di arrivare a quel di più che continuavano a promettersi l’un l’altra, tuttavia sempre frenati da qualcosa che non era pudore o disagio.
Diciotto aveva ormai memorizzato tutti i posti che avevano visto, ma uno le era rimasto particolarmente impresso. Era stata la volta della sfera a sette stelle, il radar li aveva portati fino a un poco frequentato paesaggio marittimo nel Nord. Falesie bianche dall’aspetto friabile restavano tranquille ammollo in acque profonde e turchesi; una brezza fresca aveva rovinato tutti i loro selfie, sbattendo il caschetto di Diciotto in faccia a Crilin.
Avrebbero potuto volare fino al punto in cui la sfera era nascosta, sotto l’acqua, attaccata ad un pezzo di quelle scogliere che si erigeva solitario in mezzo al mare, ma affittarono una barca a remi. Crilin insisté affinche’ Diciotto lo lasciasse remare e la guardo’ con occhi innamorati mentre lei si distendeva contro la prua, baciata dal sole e solleticata dal vento.
“Com’e’ che conosci Son Goku?”
“Eh, eravamo ragazzini. Lui era un pupillo del Genio, io volevo esserlo e siamo diventati migliori amici” rise col cuore a vedere, da dietro gli occhiali da sole, un sopracciglio di Diciotto sollevarsi “si’, il Genio e’ un grande maestro di arti marziali. Non lo diresti mai, vero?”
“Se era il tuo migliore amico, come mai non e’ tornato in vita?”
“E’ complicato…”
Avevano fatto a gara per nuotare fino ai piedi della torre/falesia e ripescare la loro quarta sfera. Nella luce tenue delle profondità le rocce sembravano paesaggi mitici, Crilin si era distratto a guardarli. Diciotto aveva visto la sfera per prima e l’aveva calciato via.
Quando la notte era scesa, si erano infilati in una specie di grotta li’ sul pezzo di falesia in mezzo al mare. Avevano parlato e condiviso una cena semplice, panini al prosciutto. Diciotto aveva accettato il suo, troppo svogliata per darla ad intendere ancora una volta a quel bassetto che le chiedeva sempre come mai non volesse mangiare, visto che poteva. Avevano acceso un piccolo falo’ e avevano iniziato a raccontarsi storie di paura che li avevano solo fatti ridere:
“…e cosi’ la strega del Decimo Ponte maledisse la coppia che aveva soggiornato in quell’hotel. Quando la sera andarono a dormire, un demone del buio, dalle orbite vuote e pelle nera, li afferro’ da sotto le coperte. E bam, se fossi stata io al loro posto l’avrei incenerito e fine della storia.”
Diciotto sapeva raccontare: camminando con fare furtivo intorno al fuoco, saltava ogni tanto con le mani ai lati del viso, mimando strani mostri.
“Ti ricordi questa storia da quando eri umana?”
“No, l’ho inventata ora.”
Quel mimare le storie si era trasformato in una danza scoordinata, dettata dalle risate di Crilin e dai gridolini allegri di Diciotto.
Lei voleva sfogarsi, rendendosi conto di quanto doveva essere goffa rideva ancora di piu’. Alla danza erano seguiti quei baci, uno schema che ormai avevano imparato a conoscere: per la prima volta i baci avevano accompagnato lo sfilarsi mutuale di abiti e scarpe, e prima di rendersene conto Crilin si era ritrovato a torreggiare su quella ragazza alta e fiera ora distesa sulla nuda terra della grotta, a sua disposizione. 
Si era riempito gli occhi di ogni dettaglio della sua pelle sudata, del fuoco che giocava con la tonalita’ pallida dei suoi capelli proiettando riflessi simili all’alba. Guardo’ la pelle quasi traslucida di quella creatura che poteva ucciderlo solo stringendolo, tanto chiara e tenera che lui poteva vedere i tracciati delle vene salire senza interruzione dalle cosce al ventre, fino al seno e al collo e alle braccia. Quasi si commosse di fronte a una bellezza che a lui pareva cosi’ grande, incontenibile eppure concentrata in quelle vene azzurre e in quei delicatissimi capezzoli rosa.
“Sei meravigliosa…”
Diciotto non si ricordava di cosa aveva sentito l’ultima volta che un uomo era stato dentro di lei; tuttavia seppe che quella nuova, straordinaria sensibilità tattile era qualcosa di impossibile e che il modo in cui il suo corpo, prima ancora della sua ragione, voleva l’uomo che ora aveva sepolto il viso e le mani fra il suo seno e in mezzo alle sue gambe non era una cosa da tutti i giorni. 
Si sorprese a gemere senza vergogna, a inarcare la sua schiena per lui e a chiedergli di andare più a fondo ad ogni spinta; voleva sommergere la carne di quell’uomo con la propria.

 Da quella volta, si erano dedicati l’uno all’altra con amore e passione. 
Diciotto aveva passato quasi un mese così, con l’uomo che si era scelta, e fu sorpresa di provare sulla sua pelle quando potesse essere bello vivere. Si congratulò per aver scelto di essere felice e seguire la sua strada, sicuramente Gero si stava rivoltando nella tomba pensando a quel terrestre che ogni giorno faceva gridare la sua bella creazione.
Da un giorno all’altro la vita le parve intensa, ricca, pura: a Diciotto sembrò di vivere in quel mese piu’ di quanto avesse fatto fino a quel momento. Si sentiva anche come se conoscesse Crilin da molto piu’ tempo, tanto era a suo agio. Le sembrava naturale spogliarsi per lui.
Non erano mai stanchi di amarsi. Crilin si indaffarava su di lei quasi con timore reverenziale, avere qualcuno di cosi’ prezioso fra le braccia lo faceva sentire privilegiato, moriva sempre dalla voglia di farla sua e allo stesso tempo si stupiva sempre in presenza di lei, qualcosa di superiore e ultraterreno.
E quando cominciava a vedere qualche centimetro di pelle in piu’ ce la metteva tutta per riuscire a trattenersi, perché’ solo guardarla spingeva certe sue funzioni a manifestarsi con tempismo disastroso. 
A Crilin piaceva spalmarsi su di lei e lasciarsi sfiorare la testa dal suo respiro, sentire il suo seno schiacciato contro il proprio torso mentre lei respirava. Non si capacitava di come gli altri potessero pensare che Diciotto non fosse una donna viva e vegeta, forse dovevano cercare “cyborg” sul dizionario. 
Dal canto suo, Diciotto gioiva della prodezza fisica dell’umano piu’ forte della Terra, la lasciava sempre soddisfatta. Le piaceva giocare, a volte si comportava da diva e se lo cavalcava senza dire ne’ A ne’ B, mentre altre poteva anche implorarlo in ginocchio.
Amava anche le cose romantiche, come quando erano in acqua e lui la portava in braccio camminando sul fondale, o quando le dava piccoli bacini affettuosi sul naso.
Si rese conto durante quel viaggio di non avere mai conosciuto il sorriso dell’amore; aveva sempre creduto di essere avanti anni luce a suo fratello, quando in realtà era sempre stata indietro. Tuttavia non volle illudersi: non voleva dire a Crilin quelle parole che forti come un incantesimo, ti amo, perché’ la loro storia era ancora troppo acerba, lui avrebbe fatto ancora in tempo a trattarla come un buco o come un trofeo.
Ma più i giorni passavano, meno Diciotto restava in guardia. E non sapeva se rallegrarsi di ciò, o meno.
Quel ruzzare e quel cercare li aveva portati fino a quelle vecchie miniere nell’Est a inseguire la sfera a tre stelle, l’ultima. Il radar suonava insistentemente in tasca a Crilin. Senza che lui capisse il motivo, Diciotto alzò un braccio ed emise una larga sfera di energia proprio mentre un fulmine stava per colpirli. Nel momento in cui il lampo toccò l’energia di Diciotto, la sfera esplose con un boato e lei esplose in una risata:
“Dai, andiamo via di qui prima che questo tempo ti frigga.”
Lui la seguì verso terra, ancora sbalordito: quella ragazza era persino più forte degli elementi. Era impressionante. Il braccio ferito gli faceva ancora male, si lasciò sfuggire un gemito.
“Cosa c’è, Cril? Oh…”
Prima che potessero abbattere il mucchio di roccia calcarea, bianca come ossa, Diciotto gli prese delicatamente l’arto che lei aveva ferito e facendo finta di niente si appoggiò la mano di Crilin sulla scollatura:
“Si’, lo so, il senzu…”
Prese il sacchettino dalla sua tasca e tenne il fagiolo verde fra le dita. Con un gesto fulmineo, se lo mise sulla lingua. Era lì che Crilin avrebbe dovuto ripescarlo. 
“Che peccato…ora se voglio guarirmi mi tocca baciarti ancora…”
 
 Poco dopo, le sette sfere erano riunite ai piedi della coppia.
Esattamente com’era successo su in cielo, Diciotto vide e udì ancora una volta il drago Shenron.
Non riusciva a staccare gli occhi di dosso dal suo colore verde e dagli occhi rossi, da demone.
“Coraggio, Diciotto. Esprimi il desiderio.”
Crilin le accarezzava inconsciamente la schiena mentre teneva anche lui il mento in su.
La cyborg aveva pensato molte volte a quello che avrebbe detto al drago. Come si riportava in vita un morto? Doveva specificare al drago di fargli dimenticare di essere stato deceduto e di distorcere le circostanze della resurrezione, affinché’ nessuno ci facesse caso?
“Riporta in vita Bruno Weiss. Più serenamente che puoi.”
Si sentiva ansiosa: aveva già visto il drago rifiutare un desiderio, se fosse successo anche a lei?
La carezza di Crilin si fece più calcata, mentre gli occhi del drago si illuminavano:
“Il tuo desiderio è stato esaudito.”
La morsa allo stomaco che attanagliava sempre Diciotto nei momenti di crisi non aveva fatto in tempo a farle male: era finita prima che lei potesse farsi venire un attacco d’ansia, in un batter d’occhio il drago era sparito e, ancora una volta, le sfere erano state proiettate ai quattro angoli del mondo.
Ancora incredula, Diciotto stette a rimirare il cielo scuro di pioggia, col viso fra le mani: “E’ fatta…”
Crilin le circondò la vita e, felice tanto quanto lei si strinse contro la schiena della donna che amava, ascoltando il battito del suo cuore:
“E’ fatta, piccola.”


  Bruno sentì un fortissimo mal di testa cavargli gli occhi e stracciargli le tempie. Era come se un’incudine fosse in bilico sulla sua fronte, il sangue pulsava veloce nelle sue orecchie. 
Aprì gli occhi di scatto, non riuscendo a mettersi seduto. Si accorse di essere in una grande stanza piena di brandine, in cui molta gente andava e veniva. Osservandoli brevemente vide che erano tutti un po’ sporchi, malconci. Sembravano barboni.
Lui si tastò il torso e le braccia, si accorse di indossare un paio di jeans e una camicia invece della sua uniforme. Appariva comunque elegante, come in abito da sera, paragonato a quegli uomini e donne lì intorno. Sentì più peli sul viso di quanto si ricordasse, non avendo a disposizione uno specchio si affidò solo al suo tatto: perfetto, anche lui era un barbone.
“E’ tempo di uscire, forza! Ritornate stasera alle otto!”
Con gli occhi ancora velati dal sonno e dall’emicrania, Bruno osservò l’uomo alto e robusto che stava perlustrando lo stanzone, facendo sbrigare gli altri a uscire.
“Mi scusi, che posto è?” 
L’uomo restò a guardarlo stupito:
“…Rifugio per senzatetto di Porta Alta, Central City. Finalmente ti sei svegliato, aspetta un attimo: Gladys!!”
Guardò con gentilezza Bruno mentre un rumore di passi rapidi, dalla falcata piccola, si faceva sempre più vicino.
Porta Alta, certo che sapeva dov’era. Non era forse il quel quartiere che si era fermato a prendere il coniglietto di Amelia?
Si chiese cosa ci facesse in un rifugio per senzatetto.
Gladys, una bella signora rubiconda, lo salutò con un sorriso caloroso: 
“Oh! Sono contenta che tu ti sia svegliato, sei rimasto a dormire qui per due settimane. Non ti abbiamo riportato all’ospedale perché’ abbiamo constatato che stavi bene.”
Guardò la carnagione color caffelatte di quel giovane uomo, di nuovo salutare, e si sentì confortata:
“Ti ricordi come ti chiami?”
Gli avevano raccontato in dettaglio che due settimane prima altri barboni l’avevano trovato addormentato per strada con ancora indosso un camice da ospedale, un coniglio di peluche e un’uniforme squarciata in una borsa, fra le sue mani: sembrava lui fosse scappato dall’ospedale in cui gli avevano ricucito quella grande ferita che lui sentiva ancora sul proprio addome, senza avere necessità di vederla.
Si era svegliato ogni tanto, gli diceva Gladys, ma solo per ripiombare nel sonno dopo pochi minuti. Non aveva saputo fornire al rifugio un nome o dei ricordi recenti.
Bruno non ci capì molto di quel discorso, la sua mancanza di riferimenti lo disturbò; ma se davvero era stato male, non aveva senso pretendere molto da se stesso.
“Bruno Weiss, capitano. Devo tornare a casa, la mia bimba mi sta aspettando.”
Nel presentarsi aveva avuto l’impulso di mostrare il suo badge, ma con sorpresa non l’aveva trovato alla cintola.

 Sara non aveva più avuto notizie di Bruno, da quando i suoi colleghi l’avevano chiamata per dirle che era diretto all’ospedale, in una corsa disperata contro il tempo. Era stata convinta, finora, di sapere che lui era già morto quando era arrivato sotto i ferri; si ricordava persino di aver assistito al suo funerale. 
Ma, inspiegabilmente, quei due fatti divennero all'improvviso un pensiero annebbiato nella mente di Sara. Ora le pareva di ricordarsi che Bruno era fuggito dall’ospedale, forse nel provare a tornare a casa da lei e Amelia. Nelle condizioni in cui si era trovato non aveva dovuto farcela. Chissà dov’era, ora.
“Dada?” 
Amelia aveva cominciato a parlare presto: ora, a quasi nove mesi, era il suo papà che cercava sempre. E ogni sera, portandosela a dormire con sé nel lettone, Sara piangeva per l’impossibilità di soddisfare quel bisogno della sua piccola.
Quando sentì suonare alla porta, Sara esitò: dopo quell’incidente con il traliccio e la messa a terra aveva avuto paura a toccarla, anche se sapeva che ora era tutto a posto. 
“Sara? Sono io. Ho dimenticato le chiavi.”
Lei trasalì, sentendo la voce del suo fidanzato fuori dalla porta. E quando l’aprì e vide Bruno, il suo bel mulatto sorridente coi rasta corti ben curati e una barba di almeno due settimane, non le interessò chiedergli dov’era stato, cos’era successo, se lei avesse davvero assistito al suo funerale.
Gli gridò “amore mio!” e si lasciò sollevare e far girare, sul marciapiede di fronte a casa. In quella sera di agosto i passanti applaudirono a quel bacio appassionato, un fotogramma estratto da un film romantico solo per loro, una piccola scena di paradiso lì fra il travertino e i lampioni di quell’elegante viale del centro città.
E nell’entusiasmo generale nessuno notò una presenza su uno di quei lampioni; Diciassette era atterrato lì poco prima, stringendo il badge di Bruno. Non aveva pensato che avrebbe potuto darlo direttamente al capitano, a quanto pare Crilin e Diciotto avevano espresso il desiderio al drago, erano stati più veloci di lui. Guardò benevolmente Bruno e Sara baciarsi ancora e ancora. 
 Più tardi, mentre Sara riposava sul petto di Bruno fra le lenzuola fresche, fu di nuovo attirata da un altro rumore sul balcone. Si infilò in fretta una vestaglia e uscì nella brezza serale. Non seppe a chi sentirsi grata per aver di nuovo Bruno fra le braccia, non aveva nemmeno mai capito come quell’incendio terribile avesse colpito solo il territorio del Commando, ma raccogliendo dal balcone il prezioso badge del fidanzato e piangendo dal sollievo, seppe che da quel momento in poi sarebbe andato tutto bene. 


 Erano le sei e mezza di mattina quando Carly chiuse a chiave l’appartamento. Canticchiò e armeggiò con le chiavi, pronta per un’altra giornata frenetica ma soddisfacente. Se due mesi prima le avessero detto che un’altra, nuova amica l’avrebbe inconsciamente aiutata a lasciare andare, si sarebbe anche arrabbiata. Ma ora mentre rimaneva a fissare la staccionata dei vicini con aria assente e il sole di inizio autunno che le batteva piacevolmente sulla schiena, pensò che finalmente ce l’aveva fatta.
Forse, forse stava lasciando andare. Finalmente si sentiva tranquilla. 
“Lillian?”
La studentessa si girò seguendo una voce e scorse un uomo giovane e alto arrivare dalla piazzetta; osservò con curiosità la barba folta e la coda alta e corta proprio in cima alla testa, un’isola di capelli in un mare di pelle cotta dal sole.
“Ciao! Sei Lillian, per caso?”
“No, la coinquilina. Lillian dovrebbe tornare a momenti.”
Lillian era uscita di casa presto per farsi la sua corsa. Ogni tanto andava su alla piana di Pessy, una grande prateria annidata fra le vette sopra a Viey a quasi tremila metri di altitudine. La prima volta che Lillian e Leni ci avevano portato Carly, lei aveva provato una sorta di fobia: il pianoro era qualcosa di enorme, uno spazio talmente vasto da sembrare soffocante e distorto da un obiettivo. 
La sua voce e ogni altro suono si erano perse fra le erbe e il cielo. 
Quello della piana era un sentiero duro che ogni volta rubava a Carly sei ore fra andata e ritorno. Lillian andava e tornava in due o poco piu’, portando ogni volta fiori freschi da mettere in cucina. Dopo averla vista fare quello Carly si era convinta che Lillian non fosse un essere umano normale. Mica per nulla era il top del top.
La veterinaria osservò l’uomo e lo invitò a prendere posto sulla panchina fuori dallo chalet; lui vide che nonostante i suoi gesti gentili, lei non vedeva l’ora che la lasciasse andare. Probabilmente era in ritardo al lavoro, si stava incamminando verso la sua auto; si intenerì a vedere quell’adorabile pel di carota tutta scottata così a disagio di fronte a un perfetto estraneo venuto apposta a casa sua.
“Rilassati! Devo lavorare con lei, ecco perché’ sono qui.”
 
 Lillian guardo’ Viey farsi sempre piu’ vicino: scendeva baldanzosa lungo il sentiero, contenta di essere riuscita a sorprendere molti stambecchi, all’alba, brucare indisturbati nella piana. Era soddisfatta, sembrava che la popolazione di stambecchi fosse stabile quell’anno, anche se da quello che diceva John erano meno del solito. Più i bracconieri si moltiplicavano, meno stambecchi si vedevano. La caccia era una pratica comune nel resto del Nord, ma era vietata tassativamente nel RNP; eppure tutti lì dovevano venire. 
Pur essendo una grande amante della selvaggina, Lillian non riusciva a capire come si potesse apprezzare una testa mozzata e imbalsamata nel proprio salotto. Ed era quasi sicura che quella mattina avrebbe dovuto trascinare della gentaglia giù a valle, dopo aver dato qualche schiaffone se necessario. L’ultima volta che si era trovata di fronte a un grande branco di caprioli aveva anche dovuto mettere la canna del suo fucile fra se stessa e un “cacciatore”.
Ma quella era stata una mattinata perfettamente serena, aveva incrociato solo degli escursionisti al rifugio in mezzo alla piana Pessy, raccolti intorno a un paiolo fumante. Vedere gli stambecchi l’aveva resa contenta, si era persino dimenticata di portare a casa quelle belle margherite giganti che erano tanto belle nelle praterie, ma puzzavano di piede in casa.
Dalla piazza di Viey Lillian non vide nessuna macchina parcheggiata, la Carly era già andata via. Convinta di non essere vista saltellò e cantò; non si aspettava certo di trovare qualcuno seduto comodamente sulla sua panchina ad aspettarla, ma improvvisamente si ricordò.
Leni le aveva detto che qualche giorno prima avevano assunto gente nuova, con tutta probabilità le sarebbe toccato un compare. John le ripeteva sempre che essere la migliore comportava anche quel tipo di responsabilità, istruire altri.
“Lillian, sei tu?”
“Ehilà...Ragnar?"
“...Brent, ma grazie per Ragnar!”
Lillian osservò divertita il suo look, un incrocio fra un hipster e un vichingo. Sembrava avere qualche anno più di lei, ma quella barba lunga lo faceva sembrare più vecchio. Si divertì ancora di più quando lui sgranò due occhi già grandi, color cielo:
“Minchia, sei MAGNIFICA. Una possente valchiria.”
Lillian aveva difficoltà a immaginarsi le valchirie fradice di sudore, accaldate e appiccicose nei loro shorts e reggiseno in microfibra azzurra. Alzò un sopracciglio, pensando che gliel’aveva mandato John e che quindi ormai le toccava tenerselo.
“Chiudi la bocca, che entrano le mosche. Sai che io sono la tua superiore, vero?”

 Il caso aveva voluto che proprio qualche giorno prima John scambiasse quattro parole con dei turisti. Erano una famiglia locale del Nord, amanti del RNP e assidui escursionisti da anni. Il capo guardiaparco aveva chiacchierato molto specialmente con il figlio maggiore, un entusiasta di storia e rievocazione storica. Era un’enciclopedia nel suo campo, sembrava vivace ed era abituato a stare fuori. Non era la prima volta che John assumeva nuovi dipendenti così: qualche buona chiacchiera sul lavoro era il modo migliore per valutare qualcuno, specialmente se voleva assumere ranger.
Brent era un sarto presso l’associazione di rievocazione, cuciva costumi storici e aiutava con l’organizzazione degli eventi; non era un lavoro molto assiduo, per cui era stato allettato dalla proposta di John. Avrebbe fatto qualcosa che gli piaceva, istruire la gente sulla storia del Nord.
Brent aveva raccontato dell’incontro con John mentre, con Lillian, scartabellava alcuni documenti in una biblioteca. Sapendo che Brent sarebbe stato stagionale e non proprio un collega stretto, visto che non faceva mantenimento dell’ordine, Lillian si era sentita sollevata.
“Ma John dice che è possibile rinnovare il mio contratto. Non so ancora decidermi, mi piace troppo fare rievocazione…”
Alla ragazza era venuta l’idea di fargli uno scherzo, come ogni tanto si faceva coi nuovi arrivi:
“Dici che sono magnifica, no?”
“Oh, sì. La tua bellezza è anche forza, trasudi potenza, sei-"
“Bene. Se entro il tramonto mi hai strappato tutte le erbacce da questo prato, usciremo insieme stasera stessa.”
Togliendosi la camicia e scoprendo una schiena muscolosa e abbronzata su cui spiccava un grosso tatuaggio, Brent si era messo all’opera: “Si’ signora!”
Lillian si era seduta su una staccionata a guardare Brent che mondava il grosso prato col sedere per aria mentre la botanica Bronwyn, appoggiata al legno di fianco alla ranger lo guardava severamente, scuotendo la testa:
“Ma non vedi che non sa che nelle praterie non ci sono “erbacce”? E poi tiralo via di lì, sta calpestando i fiori di montagna, sono delicati…”
Lillian pensava che coi suoi grandi occhi marroni, i capelli castani e il suo fisico minuto e femminile Bronwyn fosse la più bella ragazza del RNP. Ma credeva che fosse di una noia mortale: parlava sempre delle stesse cose, della gente che toccava i fiori, la sua cadenza e il suo tono di voce erano soporiferi.
Le ragazze erano restate lì a sorvegliare Brent fino alle sette di sera.
 “Ma dai, poveraccio…”
Bronwyn non sopportava Lillian, come si divertisse ad umiliare gli altri con la scusa di essere la migliore. Non era una giustificazione! 
Nel RNP c’era una specie di tradizione, uscire coi ranger.
Quelli di zoologia uscivano coi ranger, quelli del turismo e delle risorse umane uscivano coi ranger, i ranger uscivano coi ranger e Joel era il più aitante del gruppo. Alto e moro, capelli ricci lunghi, anche se lei aveva saputo che era un po’ un cretino era il sogno di Bronwyn. Ovviamente lui aveva scelto Lillian…lei era piu’ colta, piu’ bella, Lillian invece sembrava un uomo; ma erano tutti lì ad andare dietro a lei. 
Bronwyn aveva segretamente goduto quando poi l’aveva mollata. E ora anche quel vichingo imponente con due begli occhi azzurri sembrava già sbavare dietro a quella là. Non che fosse il suo tipo, ma che rabbia.
“Cia’, glielo vado a dire che era uno scherzo. Se vuoi, escici pure tu con lui.”
Facendo ondeggiare i capelli, Lillian si era diretta verso il povero Brent che ancora più arrostito e tutto sudato, si era seduto a riposare su una pietra.

 Brent non ci credeva ancora di essere un guardiaparco, pensava che facessero tutti un lavoro tipo quello di Lillian:
“No, anche se non hai le palle per gestire bracconieri e quelle robe lì ti chiami comunque “ranger”. Mica facciamo tutti le stesse cose, conservazione è importantissima.”
Doveva ritenersi fortunato, farsi assumere nel RNP era difficile, specialmente nella loro posizione.
Brent non lavorava sempre con Lillian, ma era stato incoraggiato da John a passare tempo con lei. Fosse dipeso da lui, non l’avrebbe mollata un attimo: al di là del fatto che la trovava molto attraente, sembrava anche una tipa piena di verve, non era mai a corto di parole e questo lo divertiva.
Per Lillian invece, Brent era come un cagnolino fastidioso: più lo cacciava via, più lui ritornava.
Ogni volta che lui si proponeva di aiutarla, lei lo fissava coi suoi occhi neri e duri e si indicava: "Due parole: top ranger."
Era la numero uno, di lui non se ne faceva niente, nemmeno delle sue avances.
Non aveva proprio voglia di trovarsi qualcuno; Joel aveva avuto il fegato di chiamarla la notte prima, ma lei aveva resistito e non era andata da lui, a fare sesso.
Non era la sua schiava: se pensava che lei sarebbe stata a sua disposizione ogni volta che aveva voglia, per poi non guardarla nemmeno in faccia quando si incrociavano, poteva anche placare i bollenti spiriti con la propria mano.
John avrebbe potuto schiaffare Brent a Joel, dato che anche lui si occupava di conservazione e turismo e che gli elementi nocivi andavano sempre a braccetto.
Invece ora eccola lì nella sua jeep, non pronta a farsi con Brent tutta la strada fino a Saint-Paul, dove lui abitava. Era una cittadina con un castello figo, appollaiata sull'altro versante della valle, proprio di fronte ai loro occhi. Lillian poteva già scorgerla.
"Ehi Lillian. Qual è il piatto preferito di un magazziniere?"
"Una bella scodella di "taci"?"
"No. Il TIMBALLO."
Brent rise della sua stessa squallida battuta. Gliene faceva sempre, diceva che facevano ridere perché non facevano ridere.
Al castello ci pensavano i custodi, lei era una guardiaparco; perché doveva andarci con Brent, miseriaccia?
"Comunque... Nel caso tu fossi proprio una conquista impossibile…"
Brent poteva anche sacrificare cento pecore a Odino, lei era una conquista impossibile; prima quell’hipster l'avesse capito, più malumore si sarebbe risparmiato. 
"....la tua coinquilina Der Veer è disponibile? È il tipo di ragazza a cui uno vorrebbe far avere figli, ha tanto l'aria da dolce mogliettina."
Lillian si girò a guardarlo mentre lui scrutava il cielo con aria sognante, attraverso il finestrino.
Pensò a quanto fosse facile lasciarsi abbindolare così da Carly, che se sembrava carina e coccolosa sotto sotto era una roccia: andava dritta come un treno verso qualsiasi obiettivo si fissasse, aveva due palle tante. E una gran bella mira quando sparava.
"Ma ti senti? Te lo dà lei dolce mogliettina, farle fare i tuoi figli…"
"Scherzavo! Mi attirano di più le guerriere come te."
Poteva capitarle qualcuno di peggiore di Brent?
“Ehi Lillian. Sai che malattia hanno quegli alberi?"
Alla guida, lei osservò sbuffando le conifere aromatiche che costeggiavano la strada: "...no."
"Ma come? Il DIABETE."
Lo vide gongolare da solo come un ebete e questa volta si morse la lingua per non ridere.
Cercava sempre di non ridere alle sue uscite, affinché lui capisse chi comandava.
Poteva capitarle di peggio, certo: Brent poteva darle fastidio in una miriade di modi diversi, ma almeno non era una minaccia. Quanto a potenza fisica, capacità ed esperienza non poteva allacciarle le scarpe.

 Una volta sbrigati i loro affari al castello, Lillian rimase con Brent su un parapetto a guardare la valle che serpeggiava nell’orizzonte. Era passato più di un mese da quando loro avevano lanciato l’allerta frana per Noiresylve. Nessuna frana era ancora caduta, ma mentre per i geologi ed i guardiaparco era solo questione di momenti, gli abitanti del villaggio erano furiosi: per tutte quelle settimane avevano dovuto vivere altrove, dispersi, per niente.
Perché’ nessuna frana era ancora caduta.
Sentendosi il cuore pesare al pensiero di quella questione, Lillian ebbe bisogno di chiacchierare:
“Noiresylve…hai presente Noiresylve?”
“Mm, certo. Siete riusciti a far sloggiare la signora Poyaz?”
Lillian leccò il cono gelato che Brent le aveva comprato e scruto’ la valle dalla forma a V, non riuscendo a vedere Viey dall’altra parte: “No…”
Era responsabilità sua tirare quell’elemento Poyaz fuori da Noiresylve, eppure era ancora là. Lasciare una residente in un luogo sotto allerta frana non solo avrebbe fatto vacillare il suo titolo, ma non se lo sarebbe nemmeno perdonato. In quel momento Lillian maledì l’essere tenuta in così alta considerazione: se fosse stata una tipo Brent, John non le avrebbe mai affidato un compito tanto delicato. Si immaginò cosa stesse provando John, perché lei era la sua allieva e quindi una parte dei suoi meriti o delle sue colpe era sempre, convenzionalmente e burocraticamente, anche sua. Anzi, John avrebbe pagato più di lei in caso di incidente.
L'unica opzione che le rimaneva era sollevare quella vecchia megera di peso e portarla via prima che venisse appiattita da un pezzo di montagna. Quello, o un miracolo. 
Un fottutissimo miracolo. 





Pensieri dell'autrice:

Non vedevo l'ora di scrivere questo capitolo, in cui vediamo l'amore sbocciare fra Diciotto e Crilin! Visto che sarebbe stato inappropriato per una storia a rating giallo, ho deciso di narrare più dettagliatamente e in separata sede di cos'è successo in quella grotta sulla falesia: ho pubblicato apposta una lemon, Quella prima volta, io e te, disponibile sulla mia pagina :)
Per il resto, abbiamo finalmente la famiglia Weiss riunita e anche il debutto di Brent, che per me è molto spassoso da scrivere! Anche a me divertono "le battute che fanno ridere perché non fanno ridere"; con lui sfogo la mia voglia ancora insoddisfatta della rievocazione storica, seguo su Instagram un sacco di rievocatori ma io, purtroppo, non ho mai avuto l'occasione di farlo. Parlo di vichinghi, ho esitato nel tirare in ballo un pezzo di storia vera in questo universo, ma poi mi sono ricordata che in DB ci sono anche nativi americani, quindi mi sono detta "e perché no i vichinghi?"
Come per altri posti che descrivo quando parlo del RNP, la "piana Pessy" esiste (si chiama solo con un altro nome) ed è davvero enorme e piena di stambecchi!!
Le frane sono purtroppo un rischio sempre presente in montagna e a volte capita davvero che schiaccino interi villaggi :(
Nel prossimo capitolo, "Miracolo a Noiresylve", vedremo come se la caverà la povera Lillian alle prese con una vecchia signora cocciuta!
Come sempre ringrazio chiunque mi legga per il sostegno e il tempo, e abbraccio virtualmente tutti i miei recensori.
   
 
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