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Autore: Juliet_Stories    26/05/2020    1 recensioni
Quando l'obiettivo è la salvezza del mondo e il fallimento la sua distruzione, cosa si è disposti a rischiare? Quante vite, quanto dolore? Anche se solo all'inizio del suo viaggio, Katie deve già imparare una dura lezione di vita. Costretta a farsi carico di un ruolo, quello della Prescelta, che non ha mai voluto, dovrà lottare con le unghie e con i denti contro nemici agguerriti e anche contro sè stessa. Sorretta da compagni di viaggio alquanto insoliti, si troverà a viaggiare nel tempo, fino al Medioevo, facendosi strada in mezzo a battaglie sanguinose e trappole oscure e crudeli. Un viaggio difficile, con un'alba tinta di rosso e fosche nubi all'orizzonte.
“Stava piangendo. I fantasmi delle sue vittime lo tormentavano e non riusciva a perdonarsi il fatto di aver spento tutte quelle vite, di aver spazzato via tutte le loro speranze... Me ne andai perché non avrei saputo cosa dirgli, come consolarlo. Non avevo risposte alle sue domande. I fantasmi che lo torturavano erano gli stessi che popolavano i miei incubi, il suo tormento uguale a quello che non mi faceva dormire la notte…”
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1
Neve Rossa
 
Non era ancora buio quando la neve aveva cominciato a cadere, prima leggera e impalpabile, poi sempre più fitta. Dopo appena un’ora, quella che era cominciata come una semplice nevicata invernale si era trasformata nella più violenta tempesta di neve degli ultimi 20 anni.
Là, in quel panorama gelido e bianco, un uomo rantolava, sanguinante; la sua auto era uscita di strada e lui era rimasto bloccato tra il sedile e il volante, incapace di muoversi o di uscire. Sapeva di essere ferito in modo grave, lo aveva capito dal sangue che sentiva scorrere lungo il volto, dal dolore alla testa e dal fatto che il suo cuore sembrava rallentare sempre più...
Fu scosso da un brivido, che gli strappò un gemito di dolore; non poteva fare molto per uscire da quella situazione, ma doveva provarci. Voltò faticosamente la testa verso i sedili posteriori: dietro di lui, immobile sul seggiolino, c’era una bambina di un anno, il visino talmente sereno che sembrava stesse solo dormendo, se non fosse stato per le labbra viola e la pelle pallida.
L’uomo sentì le lacrime rigargli il volto, ma le scacciò con decisione e, usando tutte le sue forze, cercò di uscire dall’auto, noncurante delle ferite, ma senza successo. Dopo pochi secondi di sforzi ricadde pesantemente sul sedile, stordito dal freddo e dalla perdita di sangue: non c’era via d’uscita. Lasciò vagare lo sguardo sul parabrezza incrinato davanti a sè, osservando la neve che lo copriva diventare sempre più spessa, mentre il suo respiro si faceva sempre più debole, e così chiuse gli occhi. Quando finalmente li riaprì, si accorse che in realtà era passato molto più tempo rispetto ai pochi secondi che gli sembravano trascorsi. Anche l’ultimo spiraglio di luce che prima lo raggiungeva dal finestrino era sparito, coperto dalla neve sempre più fitta; ormai non riusciva nemmeno più a scorgere quel cielo grigio e cupo, unico testimone della loro fine.
Serrò debolmente i pugni quando si rese conto che quella era davvero la fine, che non ci sarebbe stato più nulla per loro una volta che il freddo li avesse fatti morire congelati; non avrebbe mai più visto un’altra alba, non avrebbe mai insegnato a sua figlia ad andare in bicicletta, non l’avrebbe mai vista, radiosa, il giorno della sua laurea, né l’avrebbe accompagnata all’altare il giorno del suo matrimonio... No, sua figlia non sarebbe mai cresciuta, non avrebbe mai potuto vivere la sua vita; sarebbe rimasta per sempre in quel corpicino freddo, chiusa in una macchina che sarebbe diventata la sua tomba.
L’uomo si voltò di nuovo verso di lei, lasciando le lacrime libere di scorrere sulle guance, mentre un dolore mai provato prima straziava il suo petto. Con difficoltà, usando gli ultimi residui di forza che aveva, spinse un braccio verso la bambina e prese una mano tra le sue. Non l’avrebbe lasciata morire da sola; anche in quel momento lui sarebbe stato al suo fianco, come aveva sempre fatto e come non sarebbe più riuscito a fare in futuro. Con la vista offuscata dalle lacrime strinse quelle ditine fredde, sforzandosi di rimanere cosciente, di non cedere all’oblio che lo incalzava, ma non ci riuscì a lungo; alla fine anche lui cedette, abbandonandosi contro il sedile.
Poi, all’improvviso, un rumore secco spezzò gli ululati del vento. L’uomo sussultò, spaventato, quando un forte colpo accanto alla testa lo fece rivenire. Stordito, lottando per rimanere cosciente, si voltò verso il finestrino e vide un’ombra agitarsi nella tormenta. Dopo pochi secondi un altro colpo scosse la macchina e solo allora si rese conto che c’era qualcuno, subito fuori dall’auto, che stava cercando di sfondare il finestrino, tentando di salvarli... Un barlume di speranza si accese dentro di lui; forse non era troppo tardi per sua figlia, forse poteva ancora essere portata in salvo. In quanto a sè stesso non si faceva illusioni, era fin troppo consapevole della gravità delle sue ferite e del fatto che quell’uomo, chiunque fosse, non sarebbe mai stato in grado di aiutare entrambi. Ma se morire avesse significato salvare la vita di sua figlia, per lui andava bene anche così.
Rimase immobile ad aspettare, ma ci vollero almeno altri due colpi prima che il finestrino si rompesse fragorosamente; le schegge di vetro gli caddero in grembo e dopo qualche secondo un volto, completamente avvolto da una pesante sciarpa e con uno spesso cappello, si sporse per cercare di districarlo dal sedile. Usando le poche forze che aveva per cercare di sovrastare gli ululati del vento e ignorando le folate gelide che lo lambivano dal finestrino rotto, lo bloccò, spingendolo via.
“La bambina! Dietro... Sui sedili... Pensa a lei!”
Lo sconosciuto salvatore lo fissò per qualche secondo, incerto, ma alla fine annuì. L’uomo lo sentì spostarsi sul retro dell’auto e sentì il suono del vetro che andava in frantumi. Dopo meno di un minuto si affacciò di nuovo e questa volta, nascosta tra le pieghe del suo cappotto, c’era sua figlia, finalmente al sicuro. Lo sconosciuto gli prese un braccio, tirandolo verso l’esterno, cercando di farlo uscire, ma non poteva tenere la bambina e al contempo aiutarlo. Lui scosse la testa, liberandosi dalla sua stretta, un lieve sorriso sulle labbra.
“Vattene! Portala al sicuro. Prenditi... cura... di lei...”
Lo sconosciuto rimase immobile per quelle che gli parvero ore. Il suo sguardo si soffermò sul corpo martoriato di quell’uomo, che lo stava supplicando con quelli che, senza dubbio, erano i suoi ultimi respiri. Poi, lentamente, strinse ancora più a sè la bambina e annuì.
“Me ne prenderò cura, te lo prometto. Tornerò il prima possibile, cerca di resistere.”
Lui sorrise ancora, irrigidito dal freddo, e lottò per rimanere ancora cosciente, per vedere sua figlia che si allontanava verso una nuova vita, una vita di cui non avrebbe fatto parte. Quando alla fine la schiena dell’uomo scomparve in lontananza, tra le folate di neve, si accasciò sul sedile, cullato dagli ululati del vento. Avvertiva a malapena il freddo intenso e ormai non sentiva più neppure il dolore. Sorrise ancora una volta, debolmente, poi i suoi occhi si chiusero, per sempre.
 
*
“Katie! Katie!”
“Mmm...”
“Andiamo Katie, ti sembra l’ora di dormire? È quasi mezzogiorno!”
La ragazza mugugnò ancora, rintanandosi sotto le coperte. In tutta risposta sentì la madre, Marie, sospirare sulla soglia della porta.
“Oh, sei davvero impossibile. Be’, se hai così tanto sonno allora non ti interesserà sapere che c’è una buonissima torta di mele appena sfornata che ti aspetta di sotto.”
A quelle parole Katie si alzò di scattò a sedere sul letto, i capelli scarmigliati e un gran sorriso sul viso.
“Bastava dirlo subito, mamma.”
Con una risata la madre cominciò a scendere le scale.
“Sbrigati, se vuoi che tuo padre te ne lasci una fetta!”
La ragazza rise con lei, scuotendo la testa per cercare di scacciare gli ultimi residui di sonno, poi si voltò per scendere dal letto. Una foto incorniciata sul comodino attirò la sua attenzione; per un lungo attimo rimase immobile, poi un sorriso triste sostituì quello divertito di pochi secondi prima. Era da un bel po’ che non faceva più caso a quella fotografia, che ritraeva un giovane uomo seduto su una spiaggia, sorridente. Suo padre, il suo padre biologico, morto in un incidente d’auto quando lei era ancora piccolissima, morto per salvare lei.
Con la punta delle dita sfiorò il suo volto, impresso per sempre in quell’attimo fugace. Quella foto era l’unica cosa che le rimaneva di lui, l’unica traccia dei suoi genitori, ed era qualcosa che custodiva gelosamente. Era stata ritrovata nell’auto semidistrutta, quando la tempesta si era finalmente placata, l’unico effetto personale che fossero riusciti a trovare tra le lamiere. Purtroppo né dalla foto né dalla targa della macchina la polizia era riuscita ad identificarlo. E il suo caso, così avvolto nel mistero e nella tragedia, aveva avuto grande risonanza tra i media, che avevano soprannominato la piccola “Bocciolo di Neve”. Dopo qualche settimana però il clamore si era spento e tutte le tracce fino ad allora raccolte si erano rivelate solo dei buchi nell’acqua. Quella bambina sarebbe rimasta per sempre senza nome, senza famiglia, senza passato. O forse no, perché anche se altri casi avevano scalzato il suo e del suo soprannome, Bocciolo di Neve, non erano rimaste altro che parole ingiallite su un giornale, c’era qualcuno che si ricordava di lei, qualcuno che era disposto ad accoglierla. Proprio l’uomo che, con il suo coraggio, le aveva salvato la vita. Da allora la sua vita era cambiata completamente: improvvisamente aveva una famiglia amorevole, una vita piena di calore, un nome, Katie. Eppure, dopo ben 18 anni, il suo passato era ancora sepolto sotto uno spesso strato di polvere. Chi fosse in realtà suo padre e se sua madre fosse viva o morta, e perché non si fosse fatta avanti, rimanevano domande senza risposta.
Sospirò, stropicciandosi gli occhi e scacciando una lacrima solitaria. Era stanca di continuare a farsi quelle domande, quando non aveva alcuna possibilità di avere delle risposte. D'altronde come avrebbe potuto aiutarla andare a rivangare un passato che neppure ricordava?
“Katie, oggi hai di nuovo intenzione di uscire?”
Riscuotendosi dai suoi pensieri annuì, servendosi una gigantesca fetta di torta.
“Sì, potrei sfruttare il pomeriggio per studiare qualcosa o anche solo per prendere un po’ di sole. Perchè, ti serve aiuto per oggi?”
Il padre, Ted, scosse la testa.
“No, ma non mi piace quando sparisci senza dirci dove vai, lo sai.”
La ragazza cercò di sorridere, ma con la bocca piena di torta le uscì solo una stranissima smorfia. Deglutì in fretta, cercando di ignorare le risate di Ted, che rimbombavano per tutta la cucina.
“Se c’è un posto al mondo in cui non succede mai nulla è proprio questo. Non c’è nulla di pericoloso, papà, non dovete preoccuparvi così.”
Lui fece spallucce.
“Siamo i tuoi genitori, è nostro compito preoccuparci. Comunque cerca di tornare presto, stasera le temperature si abbasseranno parecchio.”
Lei sorrise e annuì.
Un’ora dopo, sotto un sole splendente, si allontanò da casa, inoltrandosi tra l’ombra e la frescura degli alberi. Le era sempre piaciuto fare lunghe passeggiate nei boschi, le dava la sensazione di esplorare un luogo sconosciuto e selvaggio. Sorrise, godendosi il profumo di muschio e di legno, felice di lasciarsi tutto alle spalle per passare un pomeriggio spensierato.
Avanzò camminando lentamente, senza fretta, stando sempre ben attenta a non inciampare in una radice o in un masso seminascosto dalle foglie e si fermò solo quando davanti a lei gli alberi si fecero più radi, rivelando una piccola radura. Al centro di quello spiazzo c’era un laghetto, le cui acque brillavano alla luce del sole; Katie si avvicinò, sorridendo alla vista delle ninfee che vi galleggiavano e si sedette nei pressi della riva, con la schiena appoggiata ad una grande quercia. Gettò uno sguardo veloce ai libri che aveva portato con sè, ma subito dopo li allontanò con una smorfia; in una bella giornata come quella non aveva davvero nessuna voglia di mettersi a studiare. Decise che si sarebbe concessa un sonnellino, così si mise più comoda e chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dai suoni della foresta. Il suono delle lievi onde che increspavano la superficie del lago, il frusciare delle foglie al vento...
Dopo quelli che le sembrarono pochi secondi, però, un urlo la svegliò di soprassalto. La ragazza scattò in piedi, spaventata, la testa che le girava vorticosamente. Si appoggiò all'albero accanto a lei, il respiro affannoso, poi alzò lo sguardo, cercando di individuare la fonte di quelle grida. Ma le bastò una veloce occhiata attorno a sè perchè il sangue le si gelasse nelle vene; ovunque si girasse, infatti, della radura in cui era stata fino ad un attimo prima non c’era alcuna traccia, solo un fitto intreccio sconosciuto di alberi. La ragazza rimase immobile, raggelata, mentre il suo cervello cercava di capire cosa fosse successo, come avesse fatto ad addormentarsi in un posto per poi risvegliarsi in quel luogo sconosciuto. Si prese la testa tra le mani, confusa. Dove diamine era?
Deglutì a fatica, il cuore che le martellava nel petto, mentre si costringeva a rimanere lucida. Doveva ragionare, capire come riuscire a tornare a casa. Si guardò attorno con più attenzione, sforzandosi di riconoscere qualcosa, e in effetti... Aggrottò la fronte quando si rese conto che quel posto le era come familiare. Le sembrava di esserci già stata, anche se non se ne ricordava.
“Katie!”
Il cuore della ragazza saltò un battito quando una voce fin troppo conosciuta si alzò tra gli alberi, poco distante da lei. Smettendo praticamente di respirare rimase immobile, troppo scioccata per muoversi.
“Katie! Katie aspetta, non correre così!”
Quella voce… La conosceva, e anche molto bene, ma allo stesso tempo era diversa, più giovane e potente di come la ricordava.
“Katie! Rallenta! Katie!”
A quelle parole, nonostante fosse una giornata molto calda, un brivido freddo le scese lungo la schiena. Era lei, non potevano esserci dubbi.
Attirata da quella voce Katie fece un passo avanti, i muscoli tesi e irrigiditi, e quel semplice gesto bastò a sbloccarla. Camminava in fretta, inquieta, guardandosi continuamente attorno. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Marie non aveva più quell’energia nella voce da anni, ormai... Rabbrividì di nuovo, questa volta più intensamente. Era vicina.
“Katie!”
La ragazza sussultò e all’improvviso, alzando leggermente lo sguardo, vide venire verso di lei una bambina. Quella vista le bloccò il respiro in gola e la impietrì. Osservò stordita una piccola sé stessa correre spensierata tra gli alberi. Come poteva essere? Come era possibile che proprio davanti a lei ci fosse… il suo passato? Eppure, per quanto incredibile fosse, non c’era altra spiegazione; aveva visto molte foto di quando era piccola, non avrebbe potuto sbagliarsi.
Katie rimase immobile, affascinata e allo stesso tempo spaventata dalla piccola figura davanti a lei. Stava forse impazzendo? Erano allucinazioni quelle che aveva di fronte in quel momento? E, quasi a voler rafforzare questa sua convinzione e contro ogni legge della fisica, la bambina le passò attraverso, senza nemmeno accorgersi di lei.
Fu decisamente strano e provò la stessa sensazione che provava quando, senza rendersene conto, inaspettatamente saltava un gradino; subito dopo però il panico minacciò di sopraffarla, mentre le ipotesi peggiori si affacciavano alla sua mente. Era diventata un fantasma? Inorridita si passò una mano sul viso, avvertendo il tocco sulla pelle.
Non era un fantasma, no di certo. E allora come era stato possibile? Che fosse una sorta di spirito?
“Katie? Katie, dove sei finita? Rispondi!”
La ragazza alzò gli occhi, turbata. La voce si faceva sempre più vicina, ormai era solo a qualche metro da lei; tra pochi secondi la sua figura sarebbe emersa dagli alberi, dissipando ogni suo dubbio.
Ebbe un tuffo al cuore quando, come aveva previsto, Marie uscì dal folto del bosco, venendo verso di lei. Fu doloroso vedere sua madre come era tanti anni prima, così giovane, così in salute. Il suo viso non aveva ancora assunto quel colorito pallido e le sue guance erano arrossate per lo sforzo. Katie non l’aveva mai vista così felice, così spensierata. Chissà se già sapeva del male che cresceva inesorabile dentro di lei, che la divorava, che giorno dopo giorno la trascinava verso un baratro da cui non sarebbe potuta fuggire…
Chiuse gli occhi, mentre l’ormai familiare sensazione di dolore riaffiorava. Ogni specialista, ogni medico con la sua bella laurea incorniciata aveva dato la stessa maledetta risposta, l’unica che loro non avrebbero voluto sentirsi dire. Non c’era più speranza. Marie non poteva guarire.
E così dopo l’ennesima, cocente delusione, sua madre non aveva più voluto saperne di dottori e di specialisti. Diceva di essere stanca, diceva che stare a casa con la sua famiglia era l’unica cosa che potesse farla stare meglio. E Ted aveva dovuto cedere, anche se a malincuore. Da allora aveva cercato in tutti i modi di rendere quel poco tempo che le restava il migliore di tutta la sua vita e Katie non aveva potuto fare altro che aiutarlo, in silenzio, senza mai mostrare il dolore e l’impotenza che la torturavano dentro.
Fu con questi pensieri che iniziò a seguirla, incapace di allontanarsi da lei. Era così felice… Nonostante la malattia, sua madre aveva sempre fatto in modo di non essere di peso, aveva sempre cercato di mostrarsi in salute, allegra, ma quella lietezza non era altro che una maschera. Dietro quella facciata, Marie soffriva e lei, sua figlia, non poteva fare niente per alleviare il suo dolore.
“Katie, finalmente ti ho raggiunta! Non provare più a scappare così, ci siamo…”
Il silenzio che seguì quelle parole ebbe l’effetto di riuscire a scuoterla dalla sua apatia. Katie alzò lo sguardo, cercando di capire perché sua madre se ne stesse immobile e in silenzio. E poi ricordò. Adesso sapeva quale ricordo stava rivivendo: quello era il pomeriggio in cui aveva scoperto l’esistenza di quella radura, quando, per la prima volta, nella sua mente era riemerso l’incubo dell’incidente.
Seguì Marie, in attesa. Ormai sapeva già ciò che stava per accadere; certo, i ricordi che aveva di quel giorno con il tempo si erano annebbiati, ma quello che era successo dopo non avrebbe mai potuto dimenticarlo, era come impresso a fuoco nella sua memoria. Vide la bambina correre verso la stessa quercia contro cui lei stessa si era appoggiata solo poco prima, la vide distendersi esausta sotto la sua ombra e addormentarsi, sognando, ricordando qualcosa che era rimasto sepolto nel fondo della sua coscienza per tutti quegli anni…
 
Un rumore secco infranse il silenzio della radura. Katie scattò a sedere, il respiro affannoso, il battito accelerato. Davanti a lei, illuminato dalla luce della luna, c’era il lago, ma non c’erano più né Marie né la bambina. La ragazza si appoggiò all’albero dietro di lei, frastornata. Era davvero tornata a casa? Era stato tutto solo un sogno? Un sogno, eppure così reale...
Si guardò attorno, cercando la fonte del rumore che l’aveva svegliata, rabbrividendo per il freddo che, con la notte, era sceso sulla radura, quando all’improvviso uno strano brillio attirò la sua attenzione. Aguzzando la vista per cercare di distinguere qualcosa nel buio si accorse che quel brillio non era altro che il riflesso della luce lunare sugli occhi di un grande gatto, appollaiato su un ramo poco lontano. Dopo qualche secondo la ragazza distolse lo sguardo; non sapeva perchè, ma quella presenza la metteva a disagio. Rabbrividì più intensamente quando il vento cominciò a rafforzarsi e solo allora, alzando gli occhi al cielo, si rese davvero conto di che ora doveva essere. Balzò in piedi, imprecando tra sè; i suoi genitori dovevano essere preoccupatissimi e di certo a breve sarebbero usciti a cercarla.
Si incamminò in fretta verso casa, cercando di calmare la propria angoscia, ma non appena arrivò al limitare degli alberi dovette fermarsi di colpo. Dietro di lei era comparsa una luce, che si andava intensificando ogni secondo che passava. Lentamente, impaurita da ciò che avrebbe potuto vedere dietro di sè, la ragazza si voltò e ciò che si trovò davanti la lasciò impietrita.
Le acque del lago, fino a quel momento tranquille, rilucevano di un bagliore accecante; era come se davanti a lei ci fosse una conca ripiena di oro fuso, che ondeggiava lievemente, in modo quasi ipnotico. Katie rimase immobile, incapace di muoversi. Prima quel sogno e ora questo... Che cosa diavolo stava succedendo? Deglutì, cercando di sciogliere il nodo che le bloccava la gola; aveva una strana sensazione, una sensazione talmente opprimente da toglierle il respiro. Scosse la testa, cercando di controllarsi. Quello che vedeva non poteva essere reale! Si stropicciò gli occhi con forza, come a voler scacciare quelle immagini, ma quando li riaprì non era cambiato nulla. O forse sì.
Aguzzando lo sguardo e fissando con attenzione la riva, Katie si accorse terrorizzata che qualcosa le si stava avvicinando. Una sorta di fascio luminoso serpeggiava fuori dalle acque del lago, dirigendosi verso di lei, lento ma inesorabile.
La ragazza arretrò di qualche passo, ma il fascio continuava a seguirla, copiando i suoi movimenti e avvicinandosi sempre più... A quel punto, spaventata a morte, rimase immobile, cercando di trattenere le lacrime e i singhiozzi che sentiva chiuderle la gola. Si strinse le braccia tremanti al petto mentre osservava quella striscia luminosa arrivare ai suoi piedi, per poi avvolgersi attorno alla sua caviglia. La ragazza chiuse gli occhi di scatto, aspettandosi di sentirsi bruciare, aspettandosi un dolore intenso che però non arrivò. Riaprendoli vide che il fascio era sempre lì, avvolto alla sua gamba, ma l’unica cosa che sentiva era un tiepido calore che le risaliva lungo il polpaccio, per poi diffondersi in tutto il corpo.
Non seppe bene come accadde, ma quando dopo pochi secondi quel calore le invase la testa, cominciò a sentirsi disorientata, confusa. Si sentiva estremamente debole e le sembrava di scivolare lentamente nell’oblio, pur rimanendo consapevole di ciò che aveva attorno. E quella sensazione di debolezza continuò, finchè non si rese conto che non era più in grado di muovere il proprio corpo. Neppure il terrore provato nell’accorgersene riuscì a liberarla da quel torpore; ormai era come vuota, manovrata da qualcosa di molto più potente di lei, qualcosa che sembrava antico quanto il mondo stesso.
La ragazza fu così costretta a vedere, impotente, le proprie gambe muoversi da sole, prima barcollanti e poi sempre più sicure, senza che lei riuscisse ad impedirlo. Una volta arrivata alla riva del lago, il suo corpo cominciò ad immergersi, un passo dopo l’altro, fino ad essere completamente sommerso. Sotto la superficie nulla riusciva a raggiungerla, nessun rumore, nessun pensiero e la luce permeava il lago con una tale energia da rendere tiepida l’acqua prima gelida. La ragazza rimase sospesa sott’acqua, incapace di muoversi; poi dal fondale qualcosa cominciò lentamente a risalire, risucchiando la luce attorno a sè. Qualunque cosa fosse, quel globo di luce si avvicinava sempre più e lei non poteva fare altro che rimanere a guardare, sospesa in quell’attimo senza tempo. E quando finalmente le arrivò davanti, la ragazza allungò la mano. Non appena le sue dita sfiorarono la luce, l’energia racchiusa al suo interno si sprigionò all’improvviso, investendo tutto ciò che trovava sul suo cammino. Veloce com’era iniziato, all’improvviso il bagliore si spense e Katie si ritrovò, al buio, nell’acqua ormai gelida del lago.
 
*
Correvano veloce, troppo veloce. L’uomo al volante continuava a parlare, tentando di nascondere la paura, ma la piccola adagiata sul seggiolino non vi badava. La sua attenzione era completamente assorbita da quelle macchie confuse che scivolavano fuori dal finestrino, troppo veloci per poter assumere una forma precisa. Lei allungava le braccia, ridacchiando felice, cercando di afferrarle con le sue piccole manine, mettendo in quell’impresa tutta la sua concentrazione… Poi, all’improvviso, tutto si fece scuro. La bambina si spaventò, mentre le lacrime iniziavano a rigarle il viso. Avvertiva un’ombra scura che si avvicinava, silenziosa…
Suo padre diede gas all’acceleratore, spingendo l’auto al limite, ma l’ombra continuava ad avanzare, imperterrita, divertendosi perversamente dei loro vani tentativi, divertendosi a vederli fuggire nell’eccitazione della caccia. E ormai li aveva quasi raggiunti. Non avrebbero potuto sfuggirgli, ormai era lì, accanto a lei...
Katie si svegliò, urlando. Anche lì il buio dominava, come nel suo sogno… Rabbrividì al pensiero e strinse le braccia attorno alle ginocchia, tremando. Non era la prima volta che sognava l’incidente ma non l’aveva mai ricordato in maniera così vivida, con così tanti particolari e con l’ombra. Un’ombra che non aveva mai visto, che li voleva, che li cacciava… Chiuse gli occhi, respirando a fondo. Ondate di panico la sommersero, togliendole il respiro. Era come essere ancora lì, come rivivere tutto un’altra volta.
Scosse la testa, battendo i denti. Faceva freddo, troppo in effetti. Si strinse la manica della maglia e un rivolo d’acqua le scivolò lungo la mano. Alzò le braccia, sentendole deboli e pesanti. I vestiti, i capelli, ogni cosa grondava acqua. Eppure l’ultima cosa che ricordava era di essersi addormentata nel tepore del pomeriggio...
Si guardò attorno, disorientata, ma non appena il suo sguardo si posò sulle rive del lago i ricordi cominciarono lentamente a riaffiorare. La luce, quello strano oggetto, tutta quell’acqua e poi il buio...
Katie si strinse la testa tra le mani, confusa, cercando di ricordare altro, di riprendere gli ultimi pezzi di quel folle puzzle, ma nonostante i suoi sforzi non ci riusciva. Nella sua memoria non c’erano altro che attimi bui. La ragazza si diede un ultimo sguardo attorno, a disagio. Sentiva che qualcosa non andava, che mancava un pezzo importante…
Gemette esasperata quando cominciò a girarle la testa, ma proprio in quel momento il particolare che fino a quel momento le era sfuggito le balzò alla mente. Si guardò attorno di nuovo con maggiore attenzione, ancora più spaventata. Non era un caso che non ricordasse nulla. Come poteva, se era svenuta in acqua ed era rimasta priva di conoscenza?
Si morse il labbro, sentendo un brivido freddo correrle lungo la schiena, un brivido che non aveva niente a che vedere con il gelo della notte. Se era svenuta in acqua non avrebbe di certo potuto arrivare fino alla riva da sola, anzi, sarebbe morta annegata; qualcuno quindi doveva averla tirata fuori dal lago quando lei aveva perso conoscenza, per poi scomparire. Qualcuno le aveva salvato la vita, ma chi?
Voltò la testa, cercando una figura tra gli alberi, un segno qualunque, ma non vide nulla. Non c’era nessuno lì e chiunque l’avesse salvata sembrava essere scomparso.
Prese un profondo respiro, cercando di alzarsi, barcollante. Stava bene. Nonostante tutto quello che era successo, incluso il fatto che era quasi annegata, stava bene. Solo un po’ ammaccata, ma niente di che. E…
Si immobilizzò, tesa, quando si accorse di un lieve bagliore vicino ai suoi piedi. C’era qualcosa, a terra. Deglutì nervosamente, guardandosi di nuovo attorno prima di chinarsi a raccoglierlo. Com’era finito lì? Non ricordava che ci fosse quel pomeriggio e non avrebbe potuto non vederlo. Che l’avesse portato il suo ignoto salvatore? Dopotutto lei non ricordava di aver preso niente in acqua e l’unica cosa che aveva toccato era stata quella strana luce, mentre ciò che aveva in mano, qualunque cosa fosse, era reale, duro e freddo metallo.
Strinse gli occhi cercando, al buio, di distinguere che cosa potesse essere. Era un oggetto tondo, pensante, e… Rimase a bocca aperta quando le nuvole si diradarono per qualche minuto, permettendo alla luce della luna di rischiarare leggermente l’oscurità e consentendole finalmente di riconoscere l’oggetto nella sua mano. Un dorato e lucente orologio da taschino. Quel ritrovamento così inusuale la sorprese; in un’epoca moderna come la sua era già raro vederne in giro, ma addirittura vederselo comparire così dal nulla, con tutto quello che era successo, era ancora più strano. Lo avvicinò al viso, cercando di osservarlo in quella luce così scarsa. Era composto da tre quadranti rotondi, disposti a triangolo, con numeri che potevano ruotare su supporti girevoli, e a differenza di quello che le era sembrato all’inizio era più grosso di un comune orologio da taschino. Tutt’attorno i bordi e i pochi spazi liberi erano impreziositi da cornici dorate che si intrecciavano in un complicato arabesco. Due sottili linee argentate correvano lungo i lati, congiungendosi sulla sommità in un piccolo pulsante dorato, con sopra inciso uno strano stemma.
Katie aguzzò lo sguardo, istintivamente tentata da quel pulsante, cercando di decifrare quel piccolissimo simbolo, ma con quella luce non riusciva a distinguere granché e dopo poco tempo lasciò perdere. Eppure c’era qualcosa in quell’oggetto che la attraeva. Forse stava cominciando a delirare, per via dello sfiorato annegamento e del gelo di quella notte, ma le sembrava quasi che quell’orologio la chiamasse a sé.
Scosse la testa, ridendo di sé stessa. Non poteva perdersi a fantasticare, aveva cose più importanti a cui pensare. Per esempio a come spiegare ai suoi genitori il fatto di tornare a casa bagnata fradicia, quasi congelata e nel bel mezzo della notte. Cosa avrebbe potuto raccontare? Non certo la verità, non le avrebbero mai creduto e come poteva biasimarli, visto che neppure lei credeva a ciò che era successo? Sospirò, stringendosi le braccia al petto, mentre il tremore continuava ad aumentare. Là fuori non avrebbe resistito ancora a lungo, doveva tornare a casa il più in fretta possibile.
Si alzò, incamminandosi verso gli alberi, ma dopo appena qualche passo si fermò, incerta, abbassando lo sguardo sulla sua mano. L’orologio. Come avrebbe potuto spiegarne l’improvvisa comparsa? I suoi genitori si sarebbero senza dubbio chiesti da dove provenisse e neppure lei aveva una risposta a quella domanda. No, la situazione era già abbastanza complicata di per sè; quell’oggetto doveva sparire.
Si voltò, dirigendosi verso il lago e cercando di decidere il da farsi. Sapeva benissimo che buttarlo in acqua sarebbe stata la scelta più sicura, ma sapeva anche che sarebbe stata una decisione irreversibile; una volta presa non sarebbe più potuta tornare indietro e dentro di sè in qualche modo sentiva che non era la cosa giusta da fare. Si avvicinò alle sponde del lago, cercando di individuare, tra la vegetazione, il posto ideale, un posto in cui sarebbe stato al sicuro. In poco tempo individuò un piccolo roveto e, cercando di ferirsi il meno possibile con le spine, vi nascose l’orologio. Solo lei ormai avrebbe potuto ritrovarlo.
Quando anche quel problema fu risolto si rialzò in piedi a fatica, dolorante; i vestiti inzuppati continuavano a farla rabbrividire e le dita delle mani ormai erano quasi insensibili, fredde come ghiaccio. Cominciò a camminare verso casa, rigida e goffa, con i piedi che scivolavano nelle scarpe ancora impregnate di acqua. Stava rischiando seriamente di morire assiderata e lo sapeva; sapeva che più tempo avrebbe impiegato per tornare a casa, più si sarebbe sentita assonnata e debole, finchè non si sarebbe arresa, abbandonandosi ad un sonno da cui non si sarebbe più risvegliata. Un sorriso ironico le si aprì sul viso; sembrava davvero che la vita volesse prendersi gioco di lei in quel momento. Era stata salvata dalla morsa del freddo quando era neonata, a costo della vita di suo padre, per poi rischiare di morire nello stesso identico modo 18 anni dopo. Possibile che fosse destinata a subire la stessa sorte?
Strinse i denti, rifiutando quell’idea con tutte le sue forze. Superò velocemente la prima schiera di alberi, sperando che il movimento l’avrebbe aiutata a riscaldarsi, ma dopo appena un paio di minuti barcollò, rischiando di cadere a terra, e dovette appoggiarsi ad un albero per sostenersi. Si sentiva sempre più intontita e faticava a ragionare lucidamente, come se una fitta nebbia fosse entrata nella sua mente e la avvolgesse, opprimendola. Sospirò, riaprendo gli occhi, e solo a quel punto, fissando gli alberi davanti a lei, si accorse di non ricordare più in che direzione dovesse andare. Quella constatazione la impietrì, mentre la disperazione che fino ad allora aveva lottato per arginare iniziò a travolgerla ad ondate, pesando come un macigno sul suo petto. Si era persa. Strinse i pugni, furiosa con sè stessa. Aveva fatto quella strada migliaia di volte, conosceva quel bosco come le sue tasche eppure si era persa?? 
Digrignò i denti mentre si sforzava di ricordare, cercando di dissipare la confusione nella sua testa, di lacerare quella nebbia che continuava a intontirla, ma inutilmente. Gemette, lasciandosi cadere a terra e fissando esausta il lago davanti a lei. Forse suo fratello aveva sempre avuto ragione, quando le ripeteva che non sapeva badare neppure a sé stessa. Lucas aveva sempre fatto di tutto per proteggerla e per assicurarsi che fosse al sicuro, almeno finchè non era partito per quella che lui aveva definito ‘la ricerca di sè’. Da allora erano passati quasi 6 anni e per quanto glielo avessero chiesto non si era mai deciso a tornare a casa, a tornare da lei. Ormai anche le cartoline, l’unica traccia che rimaneva di lui, si erano fatte sempre più rade, finchè qualche mese prima erano cessate del tutto. Da allora lei aveva fatto di tutto per trovare una spiegazione plausibile, per credere ancora che, nonostante tutto, Lucas stesse bene e che magari non avesse soltanto il modo di far loro sapere che era tutto a posto. Ma più il tempo passava senza notizie, più l’angoscia la logorava. Quante notti aveva pianto per lui, quante notti insonni a pensare agli ultimi momenti insieme, a sentire la sua mancanza...
Scosse la testa, allontanando quei ricordi. Lucas non avrebbe voluto vederla inerme, non avrebbe mai voluto vederla arrendersi senza lottare. La ragazza strinse i denti e si alzò, barcollando. Era troppo presto per darsi per vinta. Ricominciò a camminare, senza una direzione precisa, con la sola speranza di riuscire per istinto a trovare la strada giusta. Continuò così per almeno cinque minuti, cinque minuti di solitudine, di disperazione e di gelo. Poi, all’improvviso, proprio mentre stava per scavalcare un tronco caduto che le sbarrava la strada, avvertì qualcosa che la pietrificò, qualcosa che riuscì, per un istante, a fermare il battito del suo cuore. Un fruscio di foglie, dei tonfi sempre più forti e vicini. Katie si voltò di scatto, spaventata. Stava arrivando qualcosa, qualcosa di grosso… E con un balzo una sagoma bianca si lanciò su di lei, gettandola a terra con forza. La ragazza urlò, terrorizzata, ma quell’animale non se ne preoccupò, cominciando festosamente a leccarle le guance. E solo allora la luce della luna, filtrando da dietro le nuvole, le permise di vedere che quello altri non era che il loro cane.
“Whitly??”
Whitly abbaiò, cercando con il muso di aiutarla a tirarsi su. Katie si rialzò, incerta sulle gambe, fissandolo sconcertata. Cosa ci faceva lì? E come aveva fatto a trovarla? A quell’ora avrebbe dovuto essere a casa, non certo a girovagare per il bosco... Si bloccò all’improvviso, fissando il vuoto, folgorata da quel pensiero. Whitly arrivava senza dubbio da casa; forse il suo istinto l’aveva spinto a uscire a cercarla, forse aveva intuito che lei era in difficoltà, che le serviva aiuto. E se lui era riuscito a trovarla, allora forse sarebbe anche riuscito a riportarla indietro. Era la sua unica speranza, eppure non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa di strano in quell’incontro, un incontro così fortuito da non sembrare neppure vero. C’erano state fin troppe stranezze quella sera…
Sussultò quando Whitly le tirò la manica, ma poi lo seguì mentre la guidava tra gli alberi, gettando stancamente un ultimo sguardo dietro di sé prima di sparire nelle tenebre. Nel frattempo, nascosti nell’oscurità, due occhi gialli li fissavano, seguendo attentamente ogni loro movimento. Quando poi le due figure si dissolsero nel buio della notte, quello sguardo si spostò in direzione del lago e una schiera di denti bianchi e aguzzi brillò sinistramente nel buio, prima di svanire.
 
Katie continuava ad avanzare, tremando come una foglia. Il vento era addirittura aumentato e muoversi stava diventando sempre più faticoso; i suoi piedi erano sempre più goffi, le sue gambe sempre più pesanti. Sentiva come se il freddo stesse erodendo la sua forza di volontà secondo dopo secondo e si chiedeva se quella marcia assurda sarebbe mai finita; ogni passo durava un’eternità, ogni albero le sembrava identico a quello precedente, tutto sembrava uguale a ciò che si era appena lasciata alle spalle. Si sentiva talmente intontita e intorpidita che ormai non aveva più né la percezione del tempo né il senso dell’orientamento. Si limitava ad affidarsi a Whitly, che continuava deciso a tirarla per la manica, lasciandosi condurre senza opporre resistenza. Sapeva di dover stringere i denti e continuare, imponendosi ogni volta di mettere un piede davanti all’altro, di non fermarsi finchè non fosse arrivata davanti alla porta di casa. E anche se ogni minuto era un lungo, interminabile momento di dolore, alla fine la sua tenacia fu ripagata. Le pareti bianche, le finestre illuminate, la grande porta in legno finalmente comparvero davanti a lei, ma proprio allora si rese conto con sgomento di non avere più la forza per continuare. Rimase lì in piedi, immobile, fissando disperatamente quella porta, la sua unica salvezza, ben sapendo che anche solo un altro passo avanti l’avrebbe fatta crollare definitivamente.
La testa cominciò di nuovo a girarle, mentre i continui latrati di Whitly la trafiggevano come lame incandescenti. Chiuse gli occhi, il viso contratto in una smorfia di dolore; non sopportava più di sentirlo, voleva solo che smettesse... E alla fine ci fu silenzio. La ragazza riaprì gli occhi, confusa, e fu allora che lo sentì. Un impaziente armeggiare dietro la porta, voci preoccupate e finalmente, davanti a lei, le figure dei suoi genitori, pallidi, tirati e con un’espressione angosciata in volto. Il sollievo che provò in quel momento la avvolse come una coperta calda e finalmente si sentì completamente al sicuro, mentre la tensione e la paura che l’avevano tormentata scivolavano via. La luce, l’orologio, erano ormai talmente lontani che le apparivano irreali, quasi un sogno. O un incubo.
“Katie, dove sei stata?? Mio Dio, stai tremando! E questi vestiti sono fradici! Vieni dentro, sbrigati, devi metterti subito al caldo e cambiarti...”
Katie li lasciò affaccendarsi attorno a lei, assente, quasi inconsapevole di ciò che stava succedendo. Si sentiva come in una sorta di limbo, in cui la sua mente galleggiava senza pensieri. Si riscosse all’improvviso quando la madre le rimboccò i tre strati di coperte sotto cui l’aveva sepolta.
“Katie, ci hai fatto proprio preoccupare, ero tanto in pensiero. Temevo che... che...”
Mentre il senso di colpa riprendeva forza dentro di lei, la ragazza cercò di tranquillizzarla con un sorriso, ma tutto quello che le uscì fu una stranissima smorfia. Al caldo sentiva che ormai la sua attenzione si stava rapidamente dissolvendo, gli occhi si stavano già chiudendo, ma doveva dirlo, doveva trovare la forza per un ultimo sussurro.
“Mi dispiace…”
La madre scosse la testa, baciandola teneramente sulla fronte.
“Non fa niente, piccola mia. Adesso dormi. Domani è un altro giorno.”
Ma la ragazza non la stava più ascoltando, si era addormentata già alle prime parole. Senza fare rumore, Marie si alzò dal letto e sgusciò fuori dalla stanza. Ad aspettarla c’era Ted.
“Come sta?”
“Meglio, adesso sta dormendo. Ha preso davvero molto freddo, ma penso che restando al caldo e a riposo si rimetterà. Però sono davvero molto preoccupata. Dov’è stata? È tornata bagnata fradicia, quasi congelata e… Oh, volevo chiederglielo, ho provato, ma era così stanca e stravolta che…”
Il marito la interruppe, prendendole delicatamente il viso tra le mani.
“Stai tranquilla cara, domani Katie starà meglio e ci racconterà cosa è successo. Dobbiamo solo avere pazienza.”
Lei chiuse gli occhi, stanca, poi, con un sospiro, gli sorrise.
“Hai ragione. Basta solo aspettare.”
   
 
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