Capitolo 31
Tornare
“No, non tornare, avrei crudo sgomento
e mi toglieresti a questi dolci sogni
o forse troveresti che disfatta
è la mia carne e la mia croce viva,
non tornare a vedermi, sono in pace
con le sfere assolute dell’amore
e mi giaccio scoperta e solitaria
come una rosa sfatta nel sereno.”
Alda Merini, No, non tornare
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Napoli,
ottobre 1946
~
Due settimane al matrimonio ~
Come
al solito, la giornata era iniziata con un bel sole e in allegria. Lungo il
breve tragitto che da casa conduceva al Gran Cafè – era abitudine delle due
ragazze percorrere un viale alberato del lungomare per andare al lavoro, dopo
aver contemplato per qualche istante il reciproco specchiarsi del cielo nel
mare e del mare nel cielo nella suggestiva cornice del Golfo di Napoli –, Sarah
prendeva in giro la sua amica per aver bruciato il caffè a colazione
definendolo «una
ciofeca» e Hannah le rispondeva rinfacciandole scherzosamente gli spaghetti
scotti del giorno precedente. Tra un punzecchiamento e una risata, entrambe si
promisero in cuor loro di conservare e coltivare sempre quei momenti di
spensieratezza.
Giunte al Gran Cafè,
Sarah entrò per prima e fu subito accolta da un delizioso profumo di paste e
torte appena sfornate e dal gioviale «buongiorno» del ragazzo dietro al bancone
che, rivolgendosi a entrambe, aggiunse repentinamente: “Vi preparo un caffè?”
Sarah guardò in faccia
l’amica e, ostentando dell’ironia, esplose in una risata abbastanza squillante
e decisamente poco aggraziata. “Dopo il caffè che ha preparato Hannah
stamattina, credo che non ne berrò più almeno per un mese”, gli rispose, mentre
indossava il grembiule.
Hannah si finse
arrabbiata e, lanciandole contro il grembiule che non aveva ancora indossato,
le disse in romanesco: “Ma statte zitta. Menomale che te sposi perché nun te
reggae più.”[1]
Risero tutti, anche la
ragazza che era dietro al bancone dei dolci e che aveva assistito da lontano al
divertente teatrino; poi, d’un tratto, il giovane addetto alla caffetteria
divenne serio e fece un cenno con la testa verso Sarah, come per indicarle la
presenza di qualcuno alle sue spalle e lei, simultaneamente ad Hannah e
all’altra ragazza, riprese il suo abituale contegno, immaginando già di chi si
trattasse.
“Vi sembra questo il
modo di comportarvi?” Il signor Gennaro raccolse il grembiule dal pavimento e,
scuotendolo lentamente su e giù con la mano ben tesa in avanti, proseguì il suo
rimprovero: “è così che lavorate
nella caffetteria più celebre della città?”
Sarah teneva lo sguardo
abbassato e le mani giunte dietro la schiena in un intreccio quasi innaturale,
imbarazzata per esser stata scoperta a bighellonare e, allo stesso tempo,
sorrideva dentro di sé, intenerita dall’incapacità dell’uomo di mostrarsi
severo verso i suoi dipendenti che considerava come figli.
“Scusateci, signor
Gennaro.” Hannah parlò a nome di tutti, mentre riprendeva il suo grembiule
accingendosi subito a indossarlo, anche lei imbarazzata.
“Stanno arrivando i
primi clienti, va’ a prendere le ordinazioni ai tavolini fuori”, le disse e un
mezzo sorriso sotto i suoi baffi grigi ne rivelò la consueta transigenza. Poi
la sua fronte avvizzita si corrucciò in un’espressione preoccupata e, con tono
di voce grave, si rivolse a Sarah: “Vieni con me.”
Sarah pensò subito a
qualche problema riguardante le nozze, dal momento che la sera precedente il
signor Gennaro e il suo futuro suocero erano andati a concordare gli ultimi
dettagli con il proprietario della trattoria vista mare da lei scelta per il
ricevimento e considerato il fatto che i genitori di Matteo obiettavano ogni
sua decisione.
“C’è stato qualche
problema a «La terrazza»?” chiese, infatti, allarmata che qualcosa, o meglio
qualcuno, potesse rovinare il gran giorno e frenò il suo e l’incedere del
signor Gennaro verso la sala interna del Gran Cafè, rimasta arredata come
all’epoca dell’inaugurazione avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento.
“C’è una persona che ti
sta aspettando.” A questa dichiarazione, Sarah sgranò gli occhi e il cuore le
sobbalzò nel petto facendo sussultare visibilmente anche il suo corpo nelle
spalle che si sollevarono e si abbassarono in un tremito incontrollabile. Poi
un brivido freddo le percorse la schiena quando l’uomo sembrò confermare il suo
presentimento, dicendole ancor più serio e apprensivo: “Ha fatto un lungo
viaggio per venire fin qui a trovarti. È molto provato e potresti non
riconoscerlo subito.”
Prima di sprofondare
nuovamente nel baratro dei ricordi delle lacrime di dolore e degli spasimi
d’amore, in una domanda appena sussurrata, Sarah cercò un’ulteriore conferma:
“Chi è?”
“Non gli ho chiesto il
nome, ma è qualcuno che hai conosciuto a Fossoli”, rispose il signor Gennaro e,
scorgendo sul volto della ragazza un profondo turbamento, di cui non immaginava
neanche lontanamente il vero motivo, le consigliò: “Non farti vedere così
agitata. Quell’uomo ne avrà passate tante.”
Il presentimento divenne
certezza e le dimensioni della sua vita presente sbiadirono come se fossero
esse ad appartenere al passato. La sognante e trepidante attesa del matrimonio,
l’entusiasmo per la luna di miele a Ischia, il volto tenero del vero amore
negli occhi e nel sorriso di Matteo, l’innocente intimità nelle loro fughe
d’amore, le irritanti e apparentemente insormontabili divergenze con i suoi
futuri suoceri, i momenti spensierati di una gioventù ritrovata insieme alla
sua amica Hannah, l’ordinarietà di un’esistenza adesso normale. Tutto era
pronto a portarle via per sottometterla di nuovo al tormento di un amore malato
e sentì che una parte di sé, ancor prima di rivederlo, voleva già cedere a
quell’uomo che la stava aspettando nella sala ottocentesca del Gran Cafè, dopo
aver fatto un lungo viaggio per ritrovarla e tornare da lei.
«Hermann», sussurrò
dentro di sé e gli occhi le si velarono di lacrime, mentre il suo cuore iniziò
a battere così forte da rimbombarle nelle orecchie.
Intanto, il signor
Gennaro aveva ripreso a camminare, costringendola così a seguirlo nella sala
interna e, superati gli unici due clienti seduti sulle poltrone rivestite di
velluto beige e il pianoforte a coda laccato in mogano, si fermarono.
“Sarah”, esclamò l’uomo
che, alzatosi di scatto, travolse con le ginocchia il tavolino, facendo
oscillare la tazzina di caffè sul piattino.
Sarah stentò a
riconoscerlo, tanto era cambiato nell’aspetto: il corpo smagrito, i capelli
diradati, il viso scavato, gli occhi spenti di chi aveva visto l’inferno ed era
tornato indietro per raccontarlo, per tener fede a una promessa fatta poco
prima della partenza infausta. Ma non era con lui l’altra metà del suo cuore.
D’altra parte, anche
l’uomo non riconobbe subito in lei il volto della ragazza disperata, nascosto
da un groviglio di capelli e lividi, malamente afferrata dal terreno innevato e
fangoso del campo e strattonata dalla mano del nazista che l’aveva abusata. Era
questa l’ultima immagine che aveva di Sarah.
“Davide?” Esalò un
sospiro tremante, più risollevata che non fosse Hermann anziché lui fosse
ancora vivo.
“Torneranno
gli innocenti tutti pieni di compassione
per
gli errori dei potenti fatti senza esitazione,
senza
lividi sui volti, con un taglio sopra al cuore.
Prendi
un ago e siamo pronti, siamo pronti a ricucire.”
Negramaro,
Fino all’imbrunire