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Autore: Watson_my_head    01/06/2020    1 recensioni
Settembre 2017. Sherlock e John sono tornati a vivere insieme e tutto sembra andare per il meglio ma un giorno, durante un caso, Sherlock sbatte la testa e perde conoscenza.
Quando finalmente riapre gli occhi è convinto di essere ancora nel 2009.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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V





Sherlock è seduto sul bordo della vasca ancora con quei pensieri nella testa mentre John, in piedi di fronte a lui, sta guardando la ferita sotto il suo zigomo destro. Glielo sfiora con delicatezza minuziosa.

"Fa male?"

"No."

"Bene. E' quasi a posto. Adesso abbassa un po' la testa, vediamo questi punti."

 

John è arrabbiato. E' costantemente arrabbiato, anche se soffoca la rabbia sotto strati di clinica premura. Odia questa situazione con tutto se stesso, a tratti odia anche Sherlock in modo del tutto irrazionale, come se fosse colpa sua se ha perso la memoria, se si è dimenticato di lui. E sa di essere scortese a volte, come poco prima a colazione. Sa che non dovrebbe rispondergli a quel modo ma qual è il modo per interagire con qualcuno, qualcuno come Sherlock, che all'improvviso sembra distante anni luce, irragiungibile più del solito? Qualcuno così intelligente eppure completamente idiota. Non ne ha idea. Dopo tutti questi anni si scopre ad annaspare ancora cercando di stare al suo passo, di comprenderlo. Sospira. Lo guarda, seduto di fronte a lui, bisognoso di cure. Una tenerezza improvvisa lo avvolge riducendo la rabbia ad un rumore di fondo, presente, ma tollerabile. Finisce sempre così. Ciò che lo conforta e che lo aiuta nell'affrontarlo è il suo impellente bisogno di dimostrarsi utile, di servire a qualcosa; la spinta che ha dato inizio ad ogni cosa nella sua vita, gli studi, la medicina, l'esercito, Sherlock. Funziona anche adesso. Lascia andare i pensieri e si affida alle mani, a quello che sa fare meglio.

Mentre gli sfiora la testa e gli sposta i capelli sente di nuovo quella stretta allo stomaco che lo aveva colto nel guardarlo dormire, e poi, come se questo non bastasse, arriva il contatto fisico che per John è sempre stato capace di guarire le ferite dell'animo come per magia. Sente che ogni cosa è di nuovo al suo posto, una miriade di fili invisibili si disintrecciano. Si chiede perché con lui debba essere sempre tutto complicatissimo o estremamente facile, come se non ci fossero vie di mezzo. E' certo che di questo passo impazzirà.

 

*

 

"Allora, hai letto un po' del blog?"- si costringe a non pensare ad altro.

Sherlock, la testa reclinata verso il basso, osserva il pavimento e le ciabatte del suo medico - "L'ho letto tutto."

"Ovvio. Come ti è sembrato?"

Sherlock tergiversa prima di rispondere ma quando sta per farlo John lo interrompe.

"E non intendo cosa ne pensi della mia scrittura, Sherlock."

"Oh. Beh allora è interessante. Abbiamo davvero fatto tutte quelle cose?"

John sorride. - "Certo, e molte altre che non ho potuto raccontare o che non valevano un post intero."- Intanto toglie la garza e osserva i punti schiacciando un po' i lembi della ferita. - "Va tutto bene, non c'è infezione"

Sherlock rimane immobile. -"Quindi hai un fratello."

"Ho una sorella, Harriet."

"Mh."

"Hai sbagliato anche la prima volta." - sorride, un po' compiaciuto.

Sherlock pensa che c'è sempre qualcosa che non capisce e che probabilmente suo fratello, dannato, non avrebbe fatto lo stesso stupido errore. Si morde un labbro. Lascia passare qualche istante. Vorrebbe chiedere molte cose, a cominciare dalle foto che ha furtivamente guardato, ma decide che forse per il momento è meglio non approfondire. Non ha idea di come John potrebbe prendere quell'intrusione nelle sue cose personali, anche se continua a pensare che lasciare tutto in bella vista non sia molto furbo per qualcuno che ci tiene alla propria privacy. Nel dubbio, decide di chiedere altro, una cosa a caso.

"Chi è Irene Adler?"

John si immobilizza per un istante prima di rifare la medicazione. - "E' stato un caso complesso."

Sherlock coglie l'indecisione nella sua voce ma attende comunque che risponda alla domanda. John sospira.

"Possedeva informazioni molto personali su persone...influenti. Ti è stato chiesto di recuperarle."

"E per persone influenti intendi la famiglia reale."

"Esatto."

Sherlock riflette qualche secondo mentre John in silenzio continua ad armeggiare con la sua testa in un modo che sospetta sia fin troppo delicato.

"Davvero sono andato nudo a Buckingham Palace?"

"Si, Sherlock. Ma avevi un lenzuolo addosso." - John non può fare a meno di ridersela un po' al ricordo di quel momento. - "Mycroft andò fuori di testa."

"Questo vorrei proprio ricordarmelo."

"Lo ricorderai Sherlock."

Seguono alcuni minuti di silenzio in cui John completa la medicazione e Sherlock si interroga su molte altre cose.

"Ho finito."

Sherlock rialza la testa, lo guarda. - "Perché pensavi che fossi devastato dalla morte di questa Irene Adler?"

John rimane con le mani a mezz'aria, lo guarda qualche secondo prima di girarsi e mettere via le sue cose.

"Perché lo eri."

"Era una mia amica?"

John sospira. "Non direi, no."

Sherlock non capisce.

"Allora dubito che io fossi, come hai scritto? Devastato?"- dice l'ultima parola con ironia tagliente, come se volesse prendersi gioco di quello che John ha scritto con il solo tono della voce.

"Tu non c'eri."

"Io c'ero, John. Non essere ridicolo."

"Oh Dio. Certo che c'eri ma non c'eri tu, quello di adesso. Non puoi saperlo. Io c'ero invece. Io so. Ti ho visto."

Sherlock rimane in silenzio. John va verso la porta ma prima di uscire dal bagno può sentire Sherlock dire: "Sono sicuro che ti sei sbagliato."

 

*

 

Sherlock rimasto da solo sente per la prima volta che il piccolo bagno lo 'disaccoglie' come se lui fosse un parassita da debellare ed espellere. All'improvviso le pareti verdi non sono più calmifiche e sembrano invece dirgli 'tu non appartieni a questo posto'. Si sente estraneo, più di quanto non fosse già. E si sente solo. Inizia a temere che l'accoglienza di certi luoghi si attivi solo con la presenza di John ed è un'opzione non tollerabile, un'eventualità da schivare in ogni modo. Come se non fosse abbastanza poi, John continua ad avere delle reazioni che lo confondono e il non riuscire a rimettere insieme tutti i pezzi gli impedisce di capire. Mancano troppe informazioni. Resta seduto sul bordo della vasca a lungo, fino a quando il freddo che risale dalle caviglie non lo sveglia dal torpore indotto dai pensieri. Al di là della porta John è rimasto silenzioso, o forse, si è soltanto permesso di non percepirlo, scollegandolo dalla realtà del suo presente. Decide che impegnarsi in una cosa alla volta può essere la chiave per decifrare questo nuovo tempo sconosciuto e che rincorrere pensieri senza via di uscita è solo una perdita di tempo. Dopotutto, un uomo senza memoria ha molte domande, ma da solo non può avere risposte. Essere pragmatici quindi è forse la cosa più sensata, l'unica risposta plausibile. Può finalmente lavarsi i capelli, l'ammasso informe di ricci e disinfettante che si ritrova sulla testa, ma capisce subito che evitare di bagnare la medicazione non sarà un'impresa facile.

 

*

 

Quando John esce dal bagno resta qualche minuto sulla porta, non per controllare Sherlock, non per ascoltarne i gesti, non per assicurarsi che si stia lavando e che vada tutto bene. Non è per questo. Rimane lì perché è atterrito. Atterrito dall'ironia sprezzante di cui Sherlock è capace, dalle sue risposte, e sì, anche dalle sue domande. Sentire di nuovo quel nome non ha giovato al suo umore, non giova mai al suo umore. Eppure non riesce a decidere se l'abbia destabilizzato di più il ricordo di Irene Adler o la saccenteria di Sherlock. Forse per la prima volta da quando si è svegliato ha percepito davvero la portata della loro reciproca distanza. Una distanza fatta di ricordi persi, mancanze, complicità perdute. Sherlock è lo stesso di otto anni prima, lo sconosciuto arrogante e geniale che sa zittirti con una parola e mettere anni luce di distanza fra te e lui, farti sentire in un istante che vali poco o niente e allo stesso tempo farti disperare perché il solo fatto di non appartenere in qualche modo alla sua vita ti fa sentire di valere ancora meno del niente che sei.

John sa che non vuole provare di nuovo queste sensazioni.

Respira a fondo prima di allontanarsi. Vorrebbe rifugiarsi nella sua camera, come un ragazzino arrabbiato, ma non è un ragazzino. E' un uomo che ha affrontato mille problemi nella sua vita, è un soldato, è un medico capace. Capisce che la cosa più deleteria al momento sarebbe lasciarsi andare al rancore per cose che Sherlock non può controllare perché l'unico in grado di tenere la situazione sotto controllo è lui e non può permettersi di perdere le staffe, battere in ritirata e distruggere i ponti. Sherlock non è un nemico da tenere distante, è qualcuno da riaccogliere invece.

E poi, potrebbe avere bisogno di lui, perché per quanto sia arrogante, strafottente e distante, John sa che correrebbe da lui come ha fatto sempre, fin da quel 'vieni se puoi, e se non puoi, vieni lo stesso'. Sa adesso, come sapeva allora, che andrà da Sherlock sempre e anche quando non potrà, troverà il modo.

Forse non avrebbe dovuto lasciarlo da solo e chiudere la porta come fosse una trincea oltre la quale salvarsi.

 

*

 

Sherlock non riesce nel suo intento. La cosa più facile da fare sarebbe infilare la testa sotto il getto d'acqua e lavare via ogni cosa, ma non è possibile. Si innervosisce. Come può John aver pensato che sarebbe riuscito da solo in quest'impresa? Come può un uomo lavarsi i capelli da solo senza compromettere una ferita alla testa non potendo guardare quello che sta facendo? Cosa crede quel John, che solo perché è una specie di genio, sia in grado di fare il contorsionista, lavarsi e allo stesso tempo tenere sotto controllo una medicazione? Si arrabbia. Il bagno è ancora meno accogliente di qualche minuto prima, come se fosse in grado di reagire allo stato d'animo delle persone e disporsi di conseguenza. Sospira. Decide di lasciar perdere. Attraversa la porta che comodamente dà nella sua stanza e torna a letto, dopo aver chiuso l'altra con un colpo secco.

E' quasi mezzogiorno.

 

*

 

John è seduto sulla sua poltrona a cercare di leggere il giornale, schiavo in realtà dei suoi pensieri, quando sente la porta della camera di Sherlock sbattere con un rumore sordo. Passa stancamente una mano sugli occhi, sa già cosa significa. Aveva quasi dimenticato che questo Sherlock, lo Sherlock di otto anni prima cioè, oltre ad essere un'arrogante testa di cazzo, assomigliava molto anche ad un adolescente frustrato più che ad un adulto, almeno in certe sue reazioni. A quel tempo gli ci era voluto un po' per abituarsi ai repentini cambi d'umore - secondo lui del tutto immotivati - che Sherlock sembrava mettere in mostra in modo molto teatrale. E gli ci era voluto ancora di più per imparare ad ignorarlo del tutto senza farsi coinvolgere, nelle poche volte in cui non lo lasciava in casa a sbollire da solo qualunque cosa avesse. Adesso John non può fare a meno di pensare che trovarsi di nuovo in quella situazione sia frustrante, ma che abbia anche un che di vagamente ironico. Ironico, niente affatto divertente, comunque. Dovrebbe essere lui infatti a sbattere porte e a mettere su sceneggiate, se non fosse che davvero non è più un ragazzino. Sospira. Si prepara ad affrontare la guerra e qualsiasi motivo per cui essa sia stata scatenata.

Si avvicina alla porta con cautela, quasi contenesse un mostro che non deve essere svegliato e si stupisce da solo di quanta accortezza stia usando quando bussa. Vorrebbe piuttosto buttare giù la porta e mettersi a urlare che è il caso di smetterla, ma non sarebbe consono.

"Sherlock."

Nessuna risposta.

"Sherlock?"

"Che vuoi."

"E' tutto a posto? Hai bisogno di qualcosa?"

"No."

Sospira. "Ok. Sono in salotto se hai bisogno."

Nessuna risposta.

 

*

 

E' l'una quando John inizia a preparare il pranzo che probabilmente mangerà da solo.

E' l'una e mezza quando bussa alla porta di Sherlock per chiedergli se vuole pranzare. Riceve un secco no. Si allontana senza protestare.

 

*

 

Sherlock è raggomitolato nel letto, coperto fino alle orecchie. Non ha fame e non ha intenzione di mangiare di nuovo solo per far un piacere al dottore. Se ne farà una ragione. Quando inizia a pensare a vari modi per essere un po' meschino, il suo cervello scivola nel sonno senza protestare.

 

*

 

John si rassegna a mangiare da solo come non gli capitava di fare da un po'. Nei giorni in cui Sherlock era rimasto incosciente aveva mangiato poco e nulla, una volta con Mycroft in un ristorante vicino l'ospedale, un paio di volte con Jeff, un uomo conosciuto davanti le macchinette del caffè che era lì in attesa che suo marito si svegliasse dal coma. Mentre bevevano un caffè bruciato e quasi freddo, Jeff gli aveva chiesto "Invece cosa è successo al tuo compagno?" e John non aveva saputo dire molto. Era rimasto in silenzio a guardare il fondo del bicchierino di plastica, poi aveva risposto "Non è il mio compagno" e non c'era stato altro da dire per un po'. Le due volte in cui avevano mangiato insieme si erano fatti compagnia con i silenzi ed era bastato.

Un'altra volta aveva accettato il pranzo che un'infermiera gli aveva portato personalmente. Forse era un modo per provarci con lui, forse voleva solo essere carina. Comunque aveva mangiato nella stanza di Sherlock senza nemmeno alzarsi dalla poltrona e senza ricorrere a quei sorrisi flirtanti che era solito distribuire a destra e a manca e che facevano sempre un certo effetto sulle donne. Non aveva mai ben capito perché ma non se ne lamentava. Altre volte non aveva mangiato affatto o aveva bevuto solo un caffè. Ma tutte quelle volte in cui praticamente aveva mangiato da solo, ora non possono neanche minimamente essere paragonate a stare seduto nella cucina del loro appartamento da solo.

La verità è che non è più abituato.

Prima dell'incidente non c'era stata una volta in cui non avessero cenato o pranzato insieme. Era quasi diventato un rito negli ultimi tempi, un modo semplice e non impegnativo per dire 'ci sono, voglio esserci'. Qualche volta era rimasto nello studio certo, ma capitava sempre più di rado. Se poteva, tornava a casa. Se non poteva, cercava di tornare a casa comunque e Sherlock sembrava contento. Una volta si era fatto trovare fuori dallo studio e avevano pranzato in un ristorante nei pressi della clinica. Poi erano andati insieme da Lestrade per discutere i progressi di un caso, anche se era da sei al massimo. John aveva fatto finta di niente, aveva sorriso, lo aveva accolto come fosse una cosa normale, come se non fosse affatto un chiaro passo fuori dal percorso. Ma lo era. Sherlock non lo aveva mai aspettato di sua iniziativa e senza motivi impellenti fuori dal lavoro. Quella era sicuramente un'anomalia, la crepa nella lente, una di quelle che però lascia filtrare finalmente la luce.

Adesso invece, pranzare di nuovo da solo lo fa tornare a molto tempo prima, a quando il non detto non riusciva a creare ponti di comunicazione fatti di gesti, ma solo porte chiuse, silenzi, solitudini.

John mangia lentamente. Continua a sperare che Sherlock esca, che si sieda con lui, che gli racconti di un caso di cui vuole occuparsi, che faccia un po' lo sbruffone e poi gli chieda di preparare le valigie per andare chissà dove. O che magari esca e dica con misurato contegno: "Sai, ho appena ricordato tutto. Andiamo fuori a cena questa sera."

Aspetta.

Non succede niente.

 

*

 

Quando Sherlock riemerge dal sonno impiega un po' per mettere a fuoco la stanza e capire che ore siano. Le tende semichiuse lasciano entrare quel poco di luce sufficiente a fargli dedurre che è tardo pomeriggio. Il suo telefono, abbandonato sul comodino dal giorno prima, conferma che sono le diciassette passate. Controlla i messaggi: un paio di sua madre, uno di suo fratello, una decina di mail nella casella postale di un indirizzo nuovo che deve aver creato in questi anni. Ne apre qualcuno. Le persone più disparate chiedono il suo aiuto per risolvere sparizioni, piccoli furti, fatti apparentemente senza spiegazione. Legge tutto con divertimento ed eccitazione, a volte risponde, ma in realtà nessuno di quei rompicapi è così travolgente da ottenere la sua completa attenzione e così, perso l'interesse, mette via il telefono e guarda il soffitto. Il sonno ha portato via con se ogni residuo di rabbia, gli resta solo l'amarezza per non essere riuscito nemmeno nell'impresa elementare di lavarsi i capelli. Tende l'orecchio ai rumori dell'appartamento ma non sente nulla, sembrerebbe vuoto. Si chiede cosa stia facendo John, se sia uscito, se l'abbia lasciato solo. Forse non avrebbe dovuto insistere con quella storia di Irene Adler, è chiaro che per John rappresenta un tasto dolente, anche se ne ignora completamente il motivo. Arriva a immaginare di essersi in qualche modo messo in mezzo tra loro due, pur di trovare una spiegazione. Forse a John interessava questa Irene e forse lui ha rovinato tutto, in un modo o nell'altro. In effetti John sembra una persona avvezza a cose tipo il corteggiamento, il flirt. Fa una smorfia. Si chiede quante donne abbia avuto... Eppure nel blog racconta espressamente di uno Sherlock devastato dalla morte di questa donna, anche se poi si è rivelata finta. Sherlock si sente confuso, come praticamente ogni momento da quando si è risvegliato. Si gira di lato abbracciando uno dei cuscini. E se invece avesse avuto davvero un coinvolgimento emotivo nei confronti di Irene Adler? Sarebbe capace di provare tali sentimenti per una donna? Lo crede difficile, altamente improbabile, magari non impossibile. Sospira.

 

*

 

Sherlock esce dalla sua stanza ancora assonnato, camminando silenzioso nell'appartamento chiedendosi se sia davvero rimasto solo. Ma non è così. John è seduto sul divano con un giornale in mano, alza lo sguardo non appena lo vede attraversare la porta del salotto.

"Ben svegliato."

"Grazie." - Sherlock si guarda attorno, come qualcuno che cerca di reprimere un certo imbarazzo. Non è abituato a condividere gli spazi del risveglio, a qualunque ora esso si compia. David non era quasi mai in casa e comunque Sherlock evitava di uscire dalla sua stanza quando lo sentiva aggirarsi in cucina. John invece è sempre nei paraggi, come qualcuno che vive davvero la propria cosa e non la sopravviva soltanto.

"Hai fame?"

Sherlock rimane in mezzo alla stanza come se non sapesse dove andare o cosa fare ed è così effettivamente. Vorrebbe dire che no, non ha fame, ma la verità è che il suo stomaco brontola e il suo cervello quasi protesta per avere degli zuccheri. Annuisce.

John gli sorride. - "Vieni, c'è il tuo pranzo, te lo scaldo".

Sherlock lo segue prima con lo sguardo mentre si alza e va in cucina poi gli va dietro senza dire nient'altro.

 

*

 

Sherlock mangia in silenzio, John sorseggia una tazza di tè seduto nel lato opposto del tavolo.

"Non ci sei riuscito?"

"Mh?"

"A lavare i capelli."- lo dice con una punta di tenerezza. John si stupisce da solo di come le sue reazioni a Sherlock siano altalenanti ma in fondo è sempre stato così con lui, fin dal primo giorno.

"No."- Sherlock non capisce perchè dovrebbe provare vergogna, quando fino a poche ore fa l'unica cosa che sentiva era la rabbia ma sospetta e teme di essere anche visibilmente arrossito. Non ha mai sopportato di mostrare la propria debolezza davanti a nessuno, a maggior ragione davanti a John, una persona che a tutti gli effetti è nuova. Non gli piacciono nemmeno le persone nuove.

Di solito.

John coglie l'imbarazzo sul suo viso. Trovarlo adorabile è qualcosa che non dovrebbe permettersi.

"Posso aiutarti?"

"A fare che cosa?"

John pensa che è proprio un idiota. - "A lavare i capelli."

Sherlock quasi si strozza con un pezzo di carne.

*


 

   
 
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