Nella foto, come immagino Davide e Maria.
Ho scelto l’immagine della miniserie televisiva “La
guerra è finita” che, tratta da una storia vera, racconta il difficile ritorno
alla vita di un gruppo di bambini e ragazzi sopravvissuti ai campi di concentramento
nazisti.
Capitolo 32
L’infausto giorno della partenza
- In Davide e Maria, l’abbraccio di un padre e una
madre -
“Parte
del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è
non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa
agli occhi dell’uomo.”
Primo
Levi, Se questo è un uomo
Sarah si gettò tra le
braccia di Davide che l’accolse stringendola forte a sé e fu lui il primo a
prorompere in lacrime, commosso per aver ritrovato l’unica sopravvissuta dei
suoi compagni di baracca a Fossoli e per essere riuscito a tener fede alla
promessa fatta da sua moglie a quella ragazza così somigliante alla loro amata
figliola per l’età e il colore degli occhi. Maria, l’altra metà del suo cuore,
non era più con lui, volata via nel cielo nero di Auschwitz nell’estate del
’44.
Davide pianse lacrime
liberatorie, senza vergognarsene, mentre Sarah, anche lei singhiozzante, gli si
stringeva al collo, lasciando da parte quel senso di pudore che avrebbe potuto
esserci nell’abbracciare così calorosamente un uomo che non fosse il suo
promesso sposo. In lui, abbracciò un padre, un fratello e la speranza di veder
ritornare i propri cari e la speranza e la paura di sapere Hermann ancora vivo.
Intuì quale amara sorte fosse toccata a Maria e rimase a lungo in
quell’abbraccio che, a Fossoli, nell’infausto giorno della partenza verso
Auschwitz, era stato loro disumanamente negato.
22 febbraio 1944
Nella camera che aveva
iniziato a rassettare, aleggiava ancora un profumo di sapone e crema da barba
al quale si univa l’inconfondibile fragranza di ambra e muschio. L’uniforme che
aveva posato nella cesta portabiancheria, per andare poi a lavarla, ne sembrava
ancora pregna.
Metteva in ordine e
spolverava Sarah, muovendosi per la stanza come un automa, volutamente incapace
di ascoltare i propri pensieri per eludere il confronto con la parte di sé che
avrebbe voluto sfiorare ancora la pelle nuda che indossava quel profumo dalle
note orientali.
Avvicinatasi alla
finestra, passò lo strofinaccio sul vetro e, sentendo l’eco di molti passi e un
fitto vociare dall’accento tedesco provenienti dal campo, guardò in basso.
Provò un senso di vergogna per aver dimenticato che giorno fosse, tanto presa
dal ricercare e rifuggire le sensazioni suscitatele da Hermann.
Rivolse lo sguardo verso
la sua baracca e vide dapprima uscire i bambini, piccole vittime innocenti e
inconsapevoli che, tenendosi per mano, si unirono alla fila dei prigionieri che
i soldati conducevano ordinatamente al cancello. Posò la sua attenzione
sull’appariscente capigliatura riccia di Agnese e una fitta di rimorso la colpì
nel petto, propagandosi a tutte le sue membra. Se solo non fosse rimasta a
dormire tra le braccia del tenente, avrebbe potuto darle quei biscotti alle mele
che, vinta dalla fame e dalla golosità, aveva mangiato fino all’ultimo. Le
diede la nausea il proprio egoismo e ricordò l’avvertimento di don Franco di
non trasformarsi in una persona diversa e proprio lui, facilmente riconoscibile
dalla tonaca, intravide in lontananza, dal Campo Vecchio, salire su uno dei
camion diretti verso la stazione di Carpi. Arrivato ad Auschwitz, si sarebbe
ricongiunto con i suoi bambini, condividendone lo stesso terribile destino.
Un attimo dopo, vide
uscire dalla baracca anche Maria e Davide e, quando l’uomo avvolse con un
braccio le spalle di sua moglie in segno di conforto, le apparve davanti agli
occhi l’immagine dei suoi genitori, mentre, stretti l’un l’altra, abbandonavano
la chiesa, lasciando sola lei. Forse era ancora in tempo a prendersi
quell’abbraccio mancato, a proferire loro le parole non dette per il forte
sbigottimento e rammarico dell’imminente distacco, sotto lo sguardo del grande
Crocifisso che dominava la navata centrale della chiesa. Con decisione, gettò
lo strofinaccio sul davanzale della finestra e, di corsa, uscì dalla camera da
letto e dall’edificio occupato dai tedeschi per raggiungere Davide e Maria e,
in loro, abbracciare suo padre e sua madre un’ultima volta.
Le scarpe di Sarah
affondarono nel terreno del campo, a tratti fangoso e imbiancato dalla leggera
nevicata notturna, mentre la veemenza dei suoi movimenti allentò lo chignon,
facendole ricadere i lunghi capelli sulle spalle. S’intrufolò nella fila e,
avanzando tra i prigionieri, riuscì ben presto a trovare chi, disperatamente,
cercava.
“Maria”, la chiamò,
fermandola per un braccio e lei, stupita e allarmata, replicò: “Sarah!”
“Vai via, Sarah”,
intervenne Davide con tono severo e apprensivo, temendo una reazione da parte
dei soldati delle SS al loro fermarsi, rallentando così la fila.
E, nelle sue parole,
Sarah percepì erroneamente l’asprezza del rifiuto, di un secondo abbandono.
“Non mi lasciate, vi prego”, disse, rivolgendosi più ai suoi genitori che a
loro.
Con determinazione e tenerezza,
Maria le prese il viso tra le mani e, guardandola profondamente negli occhi –
che le ricordavano tanto quelli di sua figlia –, proferì la promessa che, due
anni dopo, avrebbe portato suo marito a Napoli: “Quando tutto questo sarà
finito, verremo a cercarti, te lo prometto.”
E non fece in tempo a
sigillare la sua promessa con quell’abbraccio rincorso e sperato da Sarah che
la mano di un nazista afferrò la ragazza, allontanandola bruscamente da Maria e
scaraventandola a terra. Piegatosi su di lei, il soldato le urlò contro nella
sua madrelingua, schizzandole saliva sul viso, prima di colpirla ripetutamente
col manganello sul braccio che Sarah aveva messo istintivamente davanti per
ripararsi. Lacrime e grida le si bloccarono in gola tanto fu lancinante il
dolore, ma esso non valicò il senso di colpa nell’intravedere il soldato
avventarsi su Davide – fattosi avanti nel vano tentativo di difenderla – e su
gli altri prigionieri la cui marcia verso il cancello era stata rallentata a
causa sua, mentre di Maria riusciva soltanto a udire la voce modularsi in
parole supplichevoli.
Poi, all’improvviso, una
mano dalla forte presa la sollevò dal terreno, afferrandola per il braccio già
dolorante e facendole contorcere il viso in un’espressione di sofferenza. Dal
profumo che le inondò le narici, capì subito chi fosse e lui impresse le dita
ricoperte dal guanto in pelle nella sua carne, aggiungendo dolore al dolore,
quelle stesse dita che la sera precedente si erano posate dolcemente sul suo
corpo. E non c’era alcun velo di dolcezza sul verde dei suoi occhi, adesso
vitrei e dilatati dalla rabbia, né vi fu un’intonazione gentile dalle sue
labbra che si aprirono in parole dal sapore sprezzante.
“Ma sei impazzita?” Il
tenente parlò con tono di voce basso e furioso e, strattonandola, la spogliò
della dignità che lui stesso le aveva restituito. “Vuoi forse andare con loro,
stupida ebrea?”
Al dolore, si aggiunsero
la delusione e la paura e quell’assurdo senso di colpa per aver rovinato un
sentimento nascente in Hermann che, intanto, resosi conto di stringerla troppo
forte, allentò la presa e distese i muscoli facciali contratti in
un’espressione adirata.
Sapeva benissimo che le
sue parole avrebbero allontanato il cuore delicato di Sarah, ma non si
trattenne nel continuare a dirle, senza addolcire la voce: “Torna subito al
lavoro. Dopo facciamo i conti.” E la lasciò andare via.
“Sally ha patito troppo,
Sally ha già visto che cosa
ti può crollare addosso,
Sally è già stata punita
per ogni sua distrazione o debolezza,
per ogni candida carezza
data per non sentire l’amarezza.”
Vasco Rossi, Sally