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Autore: Nadine_Rose    10/06/2020    1 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Nella foto, come immagino Davide e Maria.

 

Ho scelto l’immagine della miniserie televisiva “La guerra è finita” che, tratta da una storia vera, racconta il difficile ritorno alla vita di un gruppo di bambini e ragazzi sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti.

 

Capitolo 32

 

L’infausto giorno della partenza

 

- In Davide e Maria, l’abbraccio di un padre e una madre -

 

“Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo.”

Primo Levi, Se questo è un uomo

 

Sarah si gettò tra le braccia di Davide che l’accolse stringendola forte a sé e fu lui il primo a prorompere in lacrime, commosso per aver ritrovato l’unica sopravvissuta dei suoi compagni di baracca a Fossoli e per essere riuscito a tener fede alla promessa fatta da sua moglie a quella ragazza così somigliante alla loro amata figliola per l’età e il colore degli occhi. Maria, l’altra metà del suo cuore, non era più con lui, volata via nel cielo nero di Auschwitz nell’estate del ’44.

Davide pianse lacrime liberatorie, senza vergognarsene, mentre Sarah, anche lei singhiozzante, gli si stringeva al collo, lasciando da parte quel senso di pudore che avrebbe potuto esserci nell’abbracciare così calorosamente un uomo che non fosse il suo promesso sposo. In lui, abbracciò un padre, un fratello e la speranza di veder ritornare i propri cari e la speranza e la paura di sapere Hermann ancora vivo. Intuì quale amara sorte fosse toccata a Maria e rimase a lungo in quell’abbraccio che, a Fossoli, nell’infausto giorno della partenza verso Auschwitz, era stato loro disumanamente negato.

 

22 febbraio 1944

 

Nella camera che aveva iniziato a rassettare, aleggiava ancora un profumo di sapone e crema da barba al quale si univa l’inconfondibile fragranza di ambra e muschio. L’uniforme che aveva posato nella cesta portabiancheria, per andare poi a lavarla, ne sembrava ancora pregna.

Metteva in ordine e spolverava Sarah, muovendosi per la stanza come un automa, volutamente incapace di ascoltare i propri pensieri per eludere il confronto con la parte di sé che avrebbe voluto sfiorare ancora la pelle nuda che indossava quel profumo dalle note orientali.

Avvicinatasi alla finestra, passò lo strofinaccio sul vetro e, sentendo l’eco di molti passi e un fitto vociare dall’accento tedesco provenienti dal campo, guardò in basso. Provò un senso di vergogna per aver dimenticato che giorno fosse, tanto presa dal ricercare e rifuggire le sensazioni suscitatele da Hermann.

Rivolse lo sguardo verso la sua baracca e vide dapprima uscire i bambini, piccole vittime innocenti e inconsapevoli che, tenendosi per mano, si unirono alla fila dei prigionieri che i soldati conducevano ordinatamente al cancello. Posò la sua attenzione sull’appariscente capigliatura riccia di Agnese e una fitta di rimorso la colpì nel petto, propagandosi a tutte le sue membra. Se solo non fosse rimasta a dormire tra le braccia del tenente, avrebbe potuto darle quei biscotti alle mele che, vinta dalla fame e dalla golosità, aveva mangiato fino all’ultimo. Le diede la nausea il proprio egoismo e ricordò l’avvertimento di don Franco di non trasformarsi in una persona diversa e proprio lui, facilmente riconoscibile dalla tonaca, intravide in lontananza, dal Campo Vecchio, salire su uno dei camion diretti verso la stazione di Carpi. Arrivato ad Auschwitz, si sarebbe ricongiunto con i suoi bambini, condividendone lo stesso terribile destino.

Un attimo dopo, vide uscire dalla baracca anche Maria e Davide e, quando l’uomo avvolse con un braccio le spalle di sua moglie in segno di conforto, le apparve davanti agli occhi l’immagine dei suoi genitori, mentre, stretti l’un l’altra, abbandonavano la chiesa, lasciando sola lei. Forse era ancora in tempo a prendersi quell’abbraccio mancato, a proferire loro le parole non dette per il forte sbigottimento e rammarico dell’imminente distacco, sotto lo sguardo del grande Crocifisso che dominava la navata centrale della chiesa. Con decisione, gettò lo strofinaccio sul davanzale della finestra e, di corsa, uscì dalla camera da letto e dall’edificio occupato dai tedeschi per raggiungere Davide e Maria e, in loro, abbracciare suo padre e sua madre un’ultima volta.

Le scarpe di Sarah affondarono nel terreno del campo, a tratti fangoso e imbiancato dalla leggera nevicata notturna, mentre la veemenza dei suoi movimenti allentò lo chignon, facendole ricadere i lunghi capelli sulle spalle. S’intrufolò nella fila e, avanzando tra i prigionieri, riuscì ben presto a trovare chi, disperatamente, cercava.

“Maria”, la chiamò, fermandola per un braccio e lei, stupita e allarmata, replicò: “Sarah!”

“Vai via, Sarah”, intervenne Davide con tono severo e apprensivo, temendo una reazione da parte dei soldati delle SS al loro fermarsi, rallentando così la fila.

E, nelle sue parole, Sarah percepì erroneamente l’asprezza del rifiuto, di un secondo abbandono. “Non mi lasciate, vi prego”, disse, rivolgendosi più ai suoi genitori che a loro.

Con determinazione e tenerezza, Maria le prese il viso tra le mani e, guardandola profondamente negli occhi – che le ricordavano tanto quelli di sua figlia –, proferì la promessa che, due anni dopo, avrebbe portato suo marito a Napoli: “Quando tutto questo sarà finito, verremo a cercarti, te lo prometto.”

E non fece in tempo a sigillare la sua promessa con quell’abbraccio rincorso e sperato da Sarah che la mano di un nazista afferrò la ragazza, allontanandola bruscamente da Maria e scaraventandola a terra. Piegatosi su di lei, il soldato le urlò contro nella sua madrelingua, schizzandole saliva sul viso, prima di colpirla ripetutamente col manganello sul braccio che Sarah aveva messo istintivamente davanti per ripararsi. Lacrime e grida le si bloccarono in gola tanto fu lancinante il dolore, ma esso non valicò il senso di colpa nell’intravedere il soldato avventarsi su Davide – fattosi avanti nel vano tentativo di difenderla – e su gli altri prigionieri la cui marcia verso il cancello era stata rallentata a causa sua, mentre di Maria riusciva soltanto a udire la voce modularsi in parole supplichevoli.

Poi, all’improvviso, una mano dalla forte presa la sollevò dal terreno, afferrandola per il braccio già dolorante e facendole contorcere il viso in un’espressione di sofferenza. Dal profumo che le inondò le narici, capì subito chi fosse e lui impresse le dita ricoperte dal guanto in pelle nella sua carne, aggiungendo dolore al dolore, quelle stesse dita che la sera precedente si erano posate dolcemente sul suo corpo. E non c’era alcun velo di dolcezza sul verde dei suoi occhi, adesso vitrei e dilatati dalla rabbia, né vi fu un’intonazione gentile dalle sue labbra che si aprirono in parole dal sapore sprezzante.

“Ma sei impazzita?” Il tenente parlò con tono di voce basso e furioso e, strattonandola, la spogliò della dignità che lui stesso le aveva restituito. “Vuoi forse andare con loro, stupida ebrea?”

Al dolore, si aggiunsero la delusione e la paura e quell’assurdo senso di colpa per aver rovinato un sentimento nascente in Hermann che, intanto, resosi conto di stringerla troppo forte, allentò la presa e distese i muscoli facciali contratti in un’espressione adirata.

Sapeva benissimo che le sue parole avrebbero allontanato il cuore delicato di Sarah, ma non si trattenne nel continuare a dirle, senza addolcire la voce: “Torna subito al lavoro. Dopo facciamo i conti.” E la lasciò andare via.

 

“Sally ha patito troppo,

Sally ha già visto che cosa

ti può crollare addosso,

Sally è già stata punita

per ogni sua distrazione o debolezza,

per ogni candida carezza

data per non sentire l’amarezza.”

 

Vasco Rossi, Sally 

 

 

   
 
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