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Autore: OharaNakamura    29/06/2020    5 recensioni
Partenze, arrivi, imprevisti e binari che si incrociano, il Rover Express in partenza da Birmingham direzione Londra diventa la metafora perfetta della vita. Le vite di Lora, Jake, Emily e Alice sono irrimediabilmente intrecciate. Chi nelle coincidenze non ci ha mai creduto sa benissimo che ogni scelta ha delle conseguenze, che prima o poi bisogna affrontare.
Questa storia partecipa al contest “A noi i personaggi, a voi la storia” indetto da elli2998 e Inchiostro_nel_Sangue sul forum di EFP.
Genere: Commedia, Generale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Assassinio sul Rover Express

 
L’incedere stanco della vecchiaia mi guida verso i binari dei treni. Non sono poi così anziana, continuo a ripetermi come se possa fare la differenza. Seduta sulle panchine della stazione di Birmingham, attendo che il treno giunga finalmente al binario 15 A. Osservo con un pizzico di invidia il vorticare rapido della gioventù, ascoltando con attenzione il ticchettio rapido delle scarpe sul pavimento, il tonfo delle valige buttate malamente, il suono di mille voci, il fischio del treno in avvicinamento. Mentre lentamente mi appresto a raggiungere i binari, vengo travolta da una donna dall’aspetto singolare. I miei riflessi sono troppo lenti per riuscire a cogliere più di qualche dettaglio e un «mi scusi» biascicato rapidamente, mentre altrettanto rapidamente si dirige verso i vagoni della classe economica. La vedo sparire inghiottita dalla folla. Intanto la mia attenzione è richiamata da uno degli inservienti della prima classe, che gentilmente si fa carico del mio bagaglio e mi porge un braccio, per aiutarmi a prendere posto.

Nonostante gli agi e le comodità di cui sono circondata, non riesco a trovare la concentrazione necessaria per leggere il mio libro. Gli occhi felini della giovane donna continuano a colorare l’inchiostro del racconto, confondendomi le idee. Spinta da un malsano impulso che non so identificare, mi alzo in piedi e comincio a percorrere adagio il vagone. Cerco di sorreggermi posando la mano sinistra sulle pareti del vagone e a tutto ciò che potrebbe evitarmi una rovinosa caduta, mentre con l’indice della mano opposta mantengo aperto il mio libro, stretto tra pollice e anulare. Cerco la donna misteriosa tra i vagoni, scruto ogni volto femminile che mi si presenta di fronte pur non avendo memorizzato molto del suo viso. Giunta alla carrozza ristorante, le mie povere gambe sono troppo stanche per continuare a sostenere questa insensata ricerca. Il mio sguardo vaga sui tavoli alla ricerca di un posto libero in cui sedermi e riposare. Ci sono pochi tavoli nel mezzo, alcuni con due altri con tre posti apparecchiati. Mi avvicino all’unico posto disponibile, su una postazione laterale, dove due sedie si fronteggiano di fronte un tavolinetto quadrato adiacente al muro.

«C’è posto per una povera donna anziana?» Chiedo all’uomo seduto al tavolo. L’unica risposta che ottengo sono uno sguardo gelido e un asettico cenno della mano. Scosta di poco la sua roba, di modo da farmi spazio, permettendomi di sedermi. Cerco di intraprendere una conversazione con l’uomo impettito di fronte a me. Dopo diversi tentativi falliti decido di rinunciare. Inforco gli occhiali sul naso e riprendo a leggere il mio libro.


 
***


Corro con tutte le mie forze. Sento i muscoli tendere e dolere ad ogni falcata. Vorrei sapere dove sto andando. Sapere che esiste un posto sicuro pronto ad accogliermi e proteggermi dal mondo. C’è un destino inevitabile che delimita la vita di ognuno di noi, un percorso dal quale non possiamo discostarci. Nonostante ogni nostro insulso tentativo di smarrirci.
Corro con tutte le mie forze. Intravedo il mio pallido riflesso nelle vetrine dei negozi. Le gambe mi fanno male, non sono abituata a correre così tanto. E forse sarebbe più efficace se sapessi dove sto andando.
Entro in un piccolo negozietto infilato in un vicolo. È appena visibile dalla strada principale. Sto cercando qualcosa, ma non so ancora cosa. Sono sicura lo capirò nel momento esatto in cui sarà sotto i miei occhi. Sono convinta che il filo rosso del mio destino mi condurrà esattamente dove devo andare, che sia al sicuro o nella tana del leone. Infilo i miei acquisti nella busta di plastica che l’omino in cassa mi porge silenziosamente. Intanto gira lo schermo della calcolatrice per indicarmi il prezzo da pagare. Non so se sia silenzioso perché non conosce la lingua o per colpa mia.

 
 
Entro in un locale posto poco più in fondo nello stesso vicolo. Gli avventori seduti ai tavolini buttati per strada hanno un aspetto poco rassicurante. Alcuni di loro stanno già bevendo, nonostante sia mattina. Li sorpasso velocemente.
Mi dirigo direttamente nei bagni del locale. Mi guardo allo specchio e capisco perché nessuno abbia avuto il coraggio di rivolgermi la parola. Il mio viso è orrendamente imbrattato di trucco colato e sudore. Stento io stessa a riconoscermi. Del preciso e curato chignon che manteneva in ordine i miei capelli rimane solo un vago accenno. Più di qualche ciocca ribelle è sfuggita al controllo decidendo di arricciarsi. Cerco di darmi una sistemata, per quanto possibile. Uso il sapone per cercare di togliere il trucco. Mi assicuro di aver chiuso la porta a chiave, poi cerco di darmi una rinfrescata. Tiro fuori dalla busta gli abiti che ho appena acquistato. Puzzano di negozio, naftalina e qualcos’altro che non riesco a identificare. Lego i capelli in una treccia veloce, raccolgo tutto il coraggio che mi è rimasto, e faccio un taglio netto. Vedo la massa informe dei miei capelli cadere a terra in maniera ordinata. Cerco di sistemare il taglio al meglio delle mie capacità, che non sono poi tante.
Il risultato non è così terribile. Senza trucco, con i capelli corti e disordinati, vestita con una semplice maglietta e dei jeans spero di riuscire a confondermi tra la folla. Prima di uscire dal bagno, faccio sparire tutta la mia roba nel cestino, sotto diversi strati di carta. L’abito che indossavo è troppo vistoso per riuscire a passare inosservato. Provo a tagliarlo con le forbici e distribuirlo in più cestini. Per fortuna le scarpe le ho abbandonate parecchi chilometri prima, quando, dopo essermi fatta accompagnare all’indirizzo sbagliato dall’autista di Sir Benjamin White, avevo avvertito forte l’impulso di correre.
I piedi mi fanno male. Percepisco ad ogni passo le ferite che mi sono procurata correndo scalza sull’asfalto. Temo che possano infettarsi, ma non ho avuto alternative. In questo locale malfamato, dimenticato dal mondo, mi sento al sicuro come non accadeva più da troppo tempo.
Mi siedo in un angolo, aspettando che la cameriera si accorga di me. Una giovane minuta, dai lunghi capelli castani e gli occhi chiari. Si avvicina e prende la mia ordinazione. In verità, nonostante l’aspetto gentile, ha l’aria annoiata. Mi chiedo come sia finita a lavorare in un posto del genere. Dalla mia postazione ho sotto controllo l’intero locale. La maggioranza dei clienti è costituita da lavoratori in divisa. È ancora molto presto, così suppongo che gli individui che avevano già la loro birra in mano, in realtà non avevano mai smesso di bere dalla sera precedente. Di per sé il locale avrebbe potuto essere anche accogliente. Gli elementi dominanti sono i mattoni rossi esposti in bella vista e le grosse travi di legno della struttura. Anche la mobilia è di legno. In realtà sono dei semplici tavoli, circondati da due o tre sedie rivestite di pelle rossa. Davanti al bancone una fila di sgabelli, anch’essi di legno rivestiti di pelle rossa.
Ringrazio e comincio a mescolare pigramente lo zucchero nel cappuccino. Sento ogni singolo granello grezzo raschiare il fondo della tazzina. Mi perdo nei miei ricordi, osservando il piccolo vortice creato dai movimenti della mia mano. Sono troppo codarda per indagare tutte le scelte sbagliate che mi hanno condotta a questo momento. Le accetto tacitamente, convinta che qualunque decisione alternativa avessi preso, il destino mi avrebbe condotta esattamente nella stessa condizione. Oppormi non avrebbe avuto senso, così, senza rendermene conto, mi sono lasciata trascinare dalla corrente degli eventi.
Il tintinnio del cucchiaino di ferro contro la ceramica mi ricorda a intervalli regolari chi sono e dove sono, mentre mi perdo negli avvenimenti delle ultime ventiquattro ore.

Mi sistemai la gonna cercando di farla tornare al suo posto il più velocemente possibile, senza attirare troppo l’attenzione.
Il mio interlocutore, un uomo di mezza età che nonostante faticasse a reggere l’alcol, si ostinava ad avere il bicchiere sempre pieno di champagne, fece una battuta. L’ennesima della serata, la prima di molte altre. «Solo acqua di qualità per dissetare i nostri palati» disse, levando il calice. Risi fintamente, unendomi al brindisi.
Quale fosse il motivo di tanta gioia non lo avrei mai saputo, forse la pace nel mondo, lo spread o l’ennesimo buon investimento finanziario. In mezzo a quella fiera di dementi, desiderosi soltanto di ostentare le proprie ricchezze, non era molto importante.
Io ovviamente non ero un’invitata, ero solo un oggetto da esibire, come il costoso orologio che Lord Riddley, il padrone di casa, faceva in modo di sfoggiare ogni volta che alzava il calice, stringeva la mano di qualcuno o arrotolava il baffo tra il pollice e l’indice. Cose che avvenivano con straordinaria frequenza.
Mentre fingevo attenzione verso i loro discorsi, mi voltai ad osservare la stanza. L’ampio salone era illuminato da un intricato lampadario. La mia immaginazione, che viaggiava sempre troppo veloce, lo vide infrangersi al suolo, trascinando con sé parte del soffitto.
Immaginai quella grassa donna in rosa, simile a una enorme palla di zucchero filato, finire tragicamente schiacciata dal peso di tanto sfarzo. Forse il topo che portava a spasso nella borsetta si sarebbe salvato, quella fastidiosissima creatura demoniaca che non aveva fatto altro che rantolare, dal momento stesso in cui aveva messo piede nel salone.
Quando mi ripresi dal mio sogno ad occhi aperti era troppo tardi per rispondere alla domanda che qualcuno mi aveva rivolto. Abbassai lo sguardo e ridacchiai, sperando che potesse bastare a similare il giusto grado di imbarazzo. Strinsi leggermente il braccio del mio accompagnatore.
Lord Benjamin White si era sempre dimostrato stranamente gentile nei miei confronti. Mi guardò comprensivo, neanche lui era un grande sostenitore di quegli eventi, ma come mi aveva spiegato durante uno dei nostri incontri, era qualcosa che bisognava pur fare, per mantenere una parvenza di inserimento nella rete sociale. Benjiamin White era l’uomo più silenzioso che abbia mai incontrato. Non parlava mai più del necessario, ogni frase è breve, concisa e va dritta al punto. E soprattutto sembrava essere infastidito dalla presenza dei suoi pari quasi quanto me… ma io ero pagata per ascoltare le loro idiozie, pagata molto bene.
In gioventù doveva essere stato un uomo affascinante e in qualche modo lo era anche in quel momento, grazie al suo portamento distinto e all’abbigliamento curato sin nei minimi dettagli. Indossava un elegante vestito grigio topo, cucito su misura. La camicia color chewingum mi aveva stupita non poco. Mi sembrava una scelta assurda, eppure, indosso a quell’uomo così elegante, aveva acquisito un senso. Niente gingilli assurdi, tranne un anello, particolarmente pacchiano. In tutta quell’eleganza e sofisticatezza, quel grosso cerchio di metallo con una pietra nera incastonata nel mezzo lo facevano sembrare un massone o il membro di qualche assurda setta.
Eppure, in quel momento, mentre con garbo ridacchiava delle stupide battute di Lord Riddley (o almeno fingeva di farlo), non riuscii proprio a immaginarlo durante un rituale inneggiante a satana. Fu soltanto quando più tardi lo vidi parlare con Sir Jacob Walker, che riuscii a immaginarmi come possibile vittima sacrificale in un rituale a metà tra il pagano e il film horror. Da escort e sacrificio umano il passo è veramente breve!

«C’è qualche problema cara?» chiese in tono confidenziale Sir Benjamin White.

«Sono solo un po’ stanca» risposi.

Lo guardai, sperando liberasse entrambi da quella tortura. Con mia estrema sorpresa, si congedò educatamente e ci allontanammo verso il buffet. «Ti ringrazio» dissi.

«Non devi, Albert è convinto di avere un gran senso dell’umorismo».

Entrambi probabilmente eravamo giunti alla stessa considerazione: perché diavolo nessuno gli dice che non è affatto divertente?

Qualcun'altro espresse il mio pensiero in maniera più sofisticata. «Una caratteristica che evidentemente non gli è propria», rispose un uomo che aveva accidentalmente ascoltato il nostro breve scambio di battute.

«Jake, qual buon vento! Ho sempre pensato ignorassi questi eventi mondani!».

L’uomo fece oscillare pigramente il contenuto del suo calice e disse «Attendo il momento in cui qualcuno finalmente zittirà Albert».

«Una scena che non potrei mai perdermi senza grande rimpianto», aggiunse Benjamin.

Mi concessi qualche istante per osservare Jake, ormai rassegnata al fatto che nessuno dei due mi avrebbe introdotta nel discorso.
Era così cambiato che avevo impiegato del tempo a riconoscerlo, nonostante tutto. Nonostante si facesse chiamare Jake. Indossava un completo blu notte, la camicia bianca, ma non portava la cravatta. Osservai ciuffi ribelli di capelli biancastri che spuntavano prepotenti in mezzo alla folta chioma scura.
Più volte, durante la conversazione tra Jake e Benjamin White, avevo avvertito il suo inquietante sguardo di ghiaccio analizzarmi. Non riuscivo a capire se davvero non mi avesse riconosciuta anche lui. Continuavo ad essere esclusa dal discorso.
Mi lamentai, tentando di attirare l’attenzione a lungo negatami. Ma fui zittita da Jacob in maniera brusca. Poi si allontanò senza accennare il minimo gesto di saluto.

«Perdonalo, Jake è sempre così poco civile» disse Benjiamin White, dispiaciuto dei modi sgarbato dell’amico.

Decisi di approfittare della sua logorroicità inaspettata. Ormai Benjamin White era un cliente abituale.
Al terzo incontro di lavoro avevamo avuto una conversazione più lunga di due battute, ma non mi aveva mai chiesto nulla di personale. Si limitava a trascinarmi da evento ad evento senza dire una parola in più rispetto al necessario.
Quella era la prima volta che si mostrava così disposto al dialogo.

«Non si preoccupi, si vede che è un tipo strano. Nulla a che vedere con lei Signor White».

«Jake è un orso, ma è un bravo ragazzo» rispose ridacchiando tutto lo champagne che aveva in corpo.

Tentai di indagare. «Lo conosce da tanto?», chiesi.

Ma Benjamin White tagliò bruscamente la conversazione, facendomi comprendere che non avrei saputo più del necessario su quell’uomo. Posò velocemente i suoi enigmatici occhi azzurri su di me e per la prima volta la luce che vidi in quello sguardo felino riuscì ad inquietarmi. Non riuscii a trovare pace per il resto della serata.


«Le porto qualcos’altro?» chiede la cameriera. Dal suo tono di voce capisco che la domanda mi è già stata rivolta più volte, forse troppe.

«Il conto grazie» rispondo secca.

Sono stata ferma nello stesso posto troppo a lungo.
Mi dirigo verso la stazione a passo veloce, ma senza correre, per evitar di attirare l’attenzione.
Do una rapida occhiata agli orari dei treni, la prima partenza disponibile è il Rover Express in direzione Londra. Mi affretto a pagare il biglietto e corro verso i binari. Salgo velocemente e cerco un posto disponibile, ma sono troppo irrequieta, comincio a vagare per i vagoni appena il treno parte.
Mi dirigo verso il vagone ristorante, dove ordino un tè caldo, sperando abbia il potere di calmarmi, e cerco un posto discreto in cui sedermi. Mi posiziono in un angolo vicino i finestrini, sono abbastanza distante dagli altri passeggeri e spero di passare inosservata il più possibile. Vedo le leggere goccioline di pioggia abbattersi sui vetri e scivolare giù. Si rincorrono velocemente, disegnando delle linee spesse e irregolari. Quando la pioggia si fa più fitta, il leggero scorrere diventa un tamburellare ritmato, mi ricorda quasi una danza tribale.

Una voce squillante interrompe il fluire dei miei pensieri. «Tu lo conosci Marx?»

Mi volgo infastidita verso la fonte di questa distrazione. Incrocio un paio di occhi azzurri, grandi e indagatori. Mi si gela il sangue nelle vene. Sono incapace di proferire qualsiasi suono. Mi alzo di scatto. Barcollo. Cerco di allontanarmi il più velocemente possibile, ma sono in trappola. La giovane sorride beffarda, osservando ogni mio movimento. Sono incredibilmente instabile. Mi sento come se non avessi mai mosso un passo in vita mia. Nel tentativo di allontanarmi urto l’anziana donna seduta al tavolo. La vedo afflosciarsi. La rivista che aveva in mano, da cui non aveva staccato gli occhi un solo istante, cade a terra con un tonfo.
L’urlo mi muore in gola, mentre il cadavere si riversa a terra, in maniera scomposta. La ragazzina continua a ridacchiare, mentre si avvicina a me con passo felino. La stoffa corto abito bianco che indossa oscilla ad ogni passo, lento e calcolato. Mi sento braccata.
Continuo ad indietreggiare senza voltarmi. Ho il terrore di ciò che potrebbe accadere se staccassi il mio sguardo dal suo.

«Non hai risposto alla mia domanda» dice, continuando ad avanzare.

Supera la carcassa della donna con un passo leggiadro. Quando un raggio di sole la illumina, facendo risplendere i capelli dorati, gli occhi si assottigliano. Giungo di fronte alla conclusione di essere di fronte a un Angelo della morte. Il mio Angelo della morte.

Un rumore insistente attira la mia attenzione. Porto entrambe le mani a coprirmi le orecchie, vorrei farlo cessare, ma non riesco a individuarne la fonte. I miei interlocutori sembrano non subire alcun fastidio. Forse mi stanno torturando, forse mi stanno trapanando il cervello con qualche strumento super tecnologico. Qualcosa mi colpisce sulla testa in maniera brusca e la vista mi si appanna improvvisamente. Riesco a vedere soltanto immagini sfocate. La ragazza di fronte a me mi sorride in maniera sadica. L’uomo comparso alla mia destra ha in mano un fucile, che probabilmente ha utilizzato per colpirmi. Avverto un secondo colpo.


 
***

 
Mi sveglio di soprassalto, ho la vista appannata, un gran mal di tutto e un disgustoso rivolo di bava mi cola dalla bocca.
Sono accaldata e ho i battiti accelerati.
Mi stiracchio con un enorme sbadiglio e il libro che avevo in grembo cade a terra, provocando un tonfo fastidioso. Dannazione, mi sono addormentata su Agatha Christie! 
Il mio collega, Jake mi fissa con fare canzonatorio. È seduto dall’altra parte del vagone, per un istante i suoi gelidi occhi azzurri mi pietrificano.
Divento una statua, come un marinaio che ha appena guardato negli occhi Medusa. Cerco di darmi una parvenza di compostezza sotto il suo sguardo severo. Che figura di merda esagerata.
Controllo il cellulare, sono le sei del pomeriggio, ci sono due chiamate di mia madre e 43 messaggi sul gruppo dei colleghi dell’università, ne leggo qualcuno, poi ripongo il telefono nella borsa infastidita, non saprò mai se sono sopravvissuta.
C’è ancora un’ora e mezza di viaggio da affrontare per raggiungere Londra, quindici ore prima della conferenza nella quale dovrò esporre i risultati della mia ricerca e convincere qualcuno a finanziare il mio progetto. Sospiro, cercando di dedicarmi alla lettura, nella speranza di acquietare l’agitazione che mi attanaglia lo stomaco.
Il treno è praticamente semi vuoto e il numero esiguo di persone sul nostro vagone ci ha consentito di spaziare il più possibile, dando a me la possibilità di ritirarmi in un angolino lontano da tutti.
Concentrarsi con la nipote del mio supervisore che continua a trotterellare per il corridoio è terribilmente difficile. L’illustre professoressa Emily Green, capo del dipartimento di studi classici, è seduta due posti avanti al professor Jacob Walker, conosciuto da tutti come Jake.
È così decrepita che ha bisogno di portarsi dietro quella piccola peste della nipote, Alice White, per poter viaggiare. Sono anni che gira voce del suo imminente pensionamento, aspettiamo tutti con ansia che ciò accada. Non alza mai il naso dalla rivista che sta leggendo, un modo per nascondere la sua faccia schifata. Certo, è troppo sofisticata lei per viaggiare in seconda classe con noi comuni mortali... Ma alla fine aveva dovuto cedere per non viaggiare completamente da sola. Che poi, poteva starsene anche a casa ...

Come di consueto, nessun rimprovero coglie la piccola Alice, che continua a far svolazzare la sua gonnellina striminzita per il corridoio del treno. Nel pieno di una crisi ormonale adolescenziale, cerca in tutti i modi di attirare le attenzioni di Jake, quell’uomo burbero e scontroso per cui ha una cotta.
Io invece non ho il coraggio di incrociare lo sguardo di quell’uomo, che dall’altro lato del vagone sembra volermi trafiggere. Nella mia vita da studentessa ho fatto qualunque cosa pur di mantenermi e supportare la mia carriera, compreso diventare una delle accompagnatrici di Lord Benjamin White, il marito del mio attuale capo.
Una sola parola di Jake e la mia carriera sarà rovinata per sempre. Dal giorno in cui mi ha colta in flagrante, cinque anni fa, attendo il momento in cui deciderà di distruggermi.
Avverto il suo sguardo severo sfiorarmi, senza che io possa permettermi l’ardore di sfidare i suoi occhi gelidi. Eppure, quando ero una studentessa anche io, come la piccola Alice, durante la mia prima lezione di letteratura greca ero rimasta completamente folgorata dal fascino del giovane assistente del professore. Quando, durante la spiegazione di un passaggio di Omero, i miei occhi verdi si erano rispecchiati nei suoi, le idee nella mia testa si erano completamente rivoltate. Poi, per a una straordinaria coincidenza astrale mi fu assegnato come tutor e lì avevo ringraziato il destino per avermi condotta, senza alcuno sforzo, tra le braccia della mia anima gemella.
Ero ovviamente ancora soggiogata dalla demenza adolescenziale, che stentava ad abbandonarmi, nonostante fossi ormai un’indipendente studentessa universitaria che aveva abbandonato il piccolo paesino di origine per andare a vivere tutta sola in città per coronare le sue ambizioni accademiche. C’era voluto veramente poco per capire che Jake non era la mia persona dall’altro capo del filo rosso del destino, quanto piuttosto il Karma che torna indietro come il rinculo del colpo sparato da un principiante. La realtà mi aveva colta totalmente impreparata, sbattendomi dritta sul naso.

«Ma tu lo conosci Marx?» chiede la piccola impertinente con voce squillante.

Jake abbassa con fastidio il suo giornale, riservandole un’occhiataccia. La ignora completamene, rivolgendosi verso Emily «Professoressa Green, è pregata di tenere a bada il suo animaletto da compagnia.»

«Professor Walker, è pregato di rivolgersi verso la mia congiunta con rispetto» lo rimbecca, scuotendo il naso squadrato in un involontario gesto di disgusto, prima di tornare alla sua lettura anche lei. Jake alza gli occhi al cielo, stropicciando rumorosamente il giornale, nel tentativo di ostentare l’unico oggetto degno della sua attenzione.
Quel lato così rude e intollerante di Jake mi ha sempre affascinato. Non posso fare a meno di sospirare mentre osservo i lineamenti squadrati della sua mascella, parzialmente addolciti da una leggera barba, il naso dritto, che gli conferisce un’aria ancora più severa e quei capelli leggermente brizzolati che sottolineano la sua maturità. Come faccia a viaggiare nel suo completo blu, non riuscirò mai a comprenderlo. Però è così bello.
Sospiro nuovamente, totalmente incapace di porre un freno ai miei più bassi istinti. … no, aspetta, ma cosa diamine sto dicendo? Quel grandissimo stronzo mi tratta continuamente con aria di sufficienza e superiorità, mi ha demolita completamente durante la mia partecipazione a un’importante giornata di studi tenuta a Cambridge – un sogno per me – senza contare che con una sola parola potrebbe distruggere completamente la mia carriera!
Sarà sicuramente la vicinanza della ragazzina che mi contagia con la sua stupidità adolescenziale. Insomma, Lora, smettila di sospirare vogliosa, non hai quindici anni! Chiudo di scatto il libro che ho in mano, tanto non finirò mai di leggerlo, mi alzo velocemente e cercando di non cadere, mi dirigo da qualche parte. Ho bisogno di cambiare aria… non che io abbia chissà quante alternative, sono pur sempre su un treno.

Percorro quasi l’intera lunghezza del treno, beccandomi ripetute occhiatacce dagli altri passeggeri, infastiditi dal mio vagare. Ogni tanto accampo una scusa, fingendo, per esempio, di star cercando un bagno, anche se sono poco credibile.
Nel mio incedere continuo a ripetermi che sono un’imbecille, ma tento ugualmente, con risultati migliori di quanto io stessa possa sperare, di mantenere una parvenza di sanità mentale. Mi fermo soltanto quando giungo in prossimità dell’ultimo vagone, fermandomi a riflettere nella cabina antistante. Letteralmente riflettere, perché mi sto di fatto specchiando nel riflesso del finestrino.
In effetti, da quando ho dovuto tagliare i capelli (dopo che il cosmo ha riequilibrato un brutto tiro fatto alla mia coinquilina – una specie di Barbie sempre vestita di rosa – con una gomma nei capelli), sembro quasi una ragazzina. I lineamenti minuti e l’abbigliamento perennemente informale non mi aiutano a guadagnare anni e credibilità.
Forse dovrei smetterla di usare le creme anti- age e ostentare le mie rughe come segno di maturità intellettuale. Ma cosa sto dicendo? Okay, guardati, sei un’affascinante donna in carriera e presto il tuo lavoro riceverà il riconoscimento che merita. Continuo a ripetere il mio mantra, senza sortire alcun effetto positivo.
Questa volta sospiro, consapevole che i trent’anni non mi hanno resa meno idiota.
“Voglio avere trent’anni vincenti e seducenti” diceva la ragazzina in un film, prima di soffiare sulle candeline che avrebbero avverato il suo desiderio di compleanno. Vincenti e seducenti… vivo ancora con degli estranei, spesso stento a pagare l’affitto e oltre il mio lavoro in università, cerco di giostrare al meglio la giornata per riuscire a ricavare qualche soldo extra in ogni modo. Mi sembra di essere ancora la studentessa di dieci anni fa, pronta a fare qualunque cosa pur di guadagnare e raggiungere un briciolo di indipendenza.
Seguendo le orme della mia coinquilina, avevo, per un breve periodo, fatto l’escort. All’epoca mi sembrava una cosa fantastica, soldi facili con il minimo sforzo, dovevo solo fingere un’accondiscendenza che non mi è propria, sorridere tanto, e vestirmi bene. Finché non ho incontrato Benjamin White e quello era stato un enorme problema, perché completamente inconsapevole della sua identità, mi ero cacciata in un impiccio terribile. Un impiccio che era diventato una tragedia nel momento in cui, durante una serata, nelle vesti di accompagnatrice, avevo incontrato Jake, che nel frattempo, abbandonato le vesti di assistente, aveva viaggiato per diverse nazioni, acquisendo sempre più successo in ambito accademico. Non lo vedevo da tempo, eppure non aveva avuto difficoltà a riconoscermi… purtroppo per me. Che idiota! Mi volto, devo tornare al mio posto, prima che qualcuno mi rimproveri.

«Sc- scusi» balbetto contro la figura imponente contro cui mi sono scontrata «che diamine stai facendo, mi sei venuto a cercare?» borbotto, con poca convinzione a dire il vero.

«Speravo scappassi via, lascandomi più tempo per esporre la mia relazione.»

«Ma prego, fai pure, anzi, occupa pure tutto il tempo, saremo tutti felici di ascoltare gli sproloqui dell’eminente Jacob Walker.» Oh mio dio, cosa diamine sto dicendo? Lora, lo sai che te la farà pagare, vero? Oddio, comincerà a riempirmi di domande tendenziose e ad appellarsi a ogni minimo dettaglio fino a farmi diventare matta.

«Di questo non ne dubito. Ma voglio essere magnanimo, darò l’opportunità di parlare molto anche a te.» Ecco, lo sapevo, mi sono condannata a morte. Come se non avessi già compreso l’antifona fin troppo bene, ripete «MOLTO» regalandomi uno dei suoi meravigliosi sorrisi sghembi. Dio, come è bello. Eccola, l’adolescente arrapata che è in me, che preme contro la gabbia toracica pronta a balzare fuori con impeto. Ma questo tamburo che ho nel petto lo sente anche lui come lo sento io?
Che ingiustizia, la concentrazione delle qualità dovrebbe essere contraria alle leggi di equilibrio del cosmo, invece questo cretino è bello, intelligente e affascinante. Devo tornare indietro prima di dire o fare qualcosa di inopportuno e sconsiderato.
Cerco di muovermi in quello spazio angusto per raggiungere la porta e tornare a scorrere per i vagoni fino a tornare al mio posto, ma sono – ovviamente – la solita imbranata.
Ci spostiamo prima entrambi verso destra, poi di nuovo entrambi verso sinistra.

«Insomma, vuoi farmi passare!» mi lamento con troppa enfasi.

«Sei tu che ti intralci da sola!» risponde con il tono di uno che sta spiegando qualcosa di semplicissimo a un’idiota.

Intanto si sposta nuovamente di lato e io sfoggio tutto il mio estro intellettuale muovendomi di riflesso nella stessa direzione. Ovviamente.

Mi afferra per le spalle con entrambe le mani. Sono a un passo da lui. La mia mente si dimostra fin troppo attiva, visti i precedenti, e comincia a divagare. Improvvisamente siamo su un’isola deserta, al tramonto. Anzi no, siamo in un lussuoso resort di Copacabana, il tramonto che si rispecchia sul mare, le creature dell’oceano che intonano una melodia romantica.

Baciami! Baciami! Baciami!

Ovviamente non lo fa. Mi volta facendomi compiere una mezza piroetta, poi mi indica il corridoio.

«Vede Dottoressa – soffia vicinissimo al mio orecchio, così vicino che posso sentire il tepore del suo respiro e l’odore del dopobarba – quella è la strada dell’essere, la percorra senza indugi!»

Ridacchia e mi lascia andare, dandomi una leggera spinta. Sono arrossita, oppure sono sbiancata, o forse entrambe le cose. Non sono neanche sicura di come si cammini.

Raggiungo il mio posto in uno stato di trance. La mia mente continua a vagare nello spazio infinito e non sono in grado di formulare un solo pensiero coerente. Dopo qualche minuto, o forse dopo qualche secolo – tanto ormai non sono più in grado di cogliere nulla – sento una voce trillare gioiosa.

«Non hai risposto alla mia domanda: tu lo conosci Marx?»

Finalmente so che fine ha fatto la Lora del sogno e chi le ha sparato. 



 

Angolo delle elucubrazioni d'autore

Questa storia è stata scritta per il contest  "A noi i personaggi, a voi la storia" indetto da Inchiostro_nel_Sangue ed elli2998, che ringrazio per avermi dato l'opportunità di cimentarmi in qualcosa di alternativo e diverso rispetto a quello che scrivo di solito.

Ringrazio tutti quelli che hanno letto la mia storia, spero di non avevi annoiati e, perchè no, anche di essere riuscita a sorprendervi.
 
Grazie a tutti,

Ohara Nakamura.
  
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