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Autore: JoSeBach    11/07/2020    0 recensioni
*Attenzione: scena di suicidio nel primo capitolo!* (incompiuta)
Da quando Randall è precipitato in quelle rovine, Hershel non è più lo stesso: sembra vuoto, apatico, come se lui stesso stia affogando in quelle tenebre...
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Angela Ledore, Erik Ledore, Hershel Layton
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Tematiche delicate
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Erik Ledore POV
Fremo a ogni gemito proveniente dalla stanza anonima, il suo ruolo perso con i suoi contenuti, le sale tutte gemelle ma prive di abitanti.
Ci è voluto così poco per distruggere una casa.

I lamenti sono tali che la pressione interna potrebbe essere pronta a tramutare lo spirito tormentato in polvere, mimetizzandosi poi nell'abitazione.

I pianti sollevano nella mia testa le grida e il terrore sorti al ritrovo di un cadavere, un corpo che non pensavamo di poter trovare.

Passo per i corridoi spogli, numerose macchie rettangolari tappezzano le pareti laterali sbiadendole, i bordi della carta da parati cadono, la colla secca e ingiallita evade dagli angoli; sono ancora presenti alcuni chiodi, ma nulla si sa delle fotografie o delle cornici.
Ci è voluto così poco per distruggere una famiglia.

Scuoto la testa, riprendendomi. Non posso lasciarmi andare alla disperazione, non ora che la padro… la signo… aspetta, come dovrò chiamarla adesso?
Stupidamente mi chiedo quale titolo dovrò usare d'ora in poi per rivolgermi al fantasma; padrona no, ormai non sono più un suo famiglio dopo il licenziamento; nemmeno lady Ascot, procurerebbe troppo dolore ricordarglielo. Ea è l'unica opzione rimata, ma sarebbe troppo informale e io non sono del suo rango.
Questa è una questione di poco conto! Pensa a consolarla, idiota! Il mio pugno si alza al livello degli occhi, la porta in mogano di fronte a me prova disperatamente a soffocare i pianti, i singhiozzi a fermare le lacrime. Deglutisco al preveggente scenario. «Signora,» colpisco il legno.

L'impatto provoca un sussulto spaventato, silenziando i lamenti persistenti. I respiri vengono trattenuti, ma nessuna risposta verbale viene trasmessa dall'altra parte. Poi lei riprende l'operazione precedente.

Giro la maniglia ed entro, senza attendere il consenso.

La porta rivela l'ora veggente scenario, i mobili mancanti o irriconoscibili, spostati dal loro luogo di appartenenza, privati del loro ruolo originale, ritrovati per caso in posizioni statiche di fortuna ma scomode e poco confortevoli. I soprammobili non sono esenti dal caos, il vaso di dalie del comodino ora uno scarabocchio di acqua, vetro e frammenti di petali mimetizzati al legno ora marcio, terreno di muffa e dalla dubbia stabilità, cigolante a ogni vibrazione ricevuta.
Lei dà la schiena alla porta d'accesso, inginocchiata, la posizione innaturale e la schiena arcata chiaro segno di scomodità, ma mantiene la staticità che accomuna tutti gli elementi della stanza. Lo sguardo è ancorato per gravità al pavimento, la corona stretta le deforma i palmi, l'impatto delle gocce ricorda che il tempo scorre.

Non è la prima volta che vedo la padrona lasciarsi andare nell’intimità della sua camera: tra le mie numerose commissioni vi era anche quella non dettata di consolare la signora Ascot nei momenti di fragilità o instabilità, in genere in seguito a un litigio con il figlio o un diverbio con il padrone, oppure un motivo chiaro non c'era. Anche quelle volte lei si sfogava con la stanza e il suo fragile contenuto, però la distruzione materiale era limitata e quindi riparabile. Ma lei era sempre così: il trucco sotto gli occhi dilavato accentuava le sue borse, irritando gli occhi già sangue; la pelle screpolata tradiva la sua vera età; le dita rigide e angolari negavano la sua delicatezza. Era una donna ansiosa, vecchia, nevrotica.

Ma vedendo ora la figura, una sagoma dalle forme vaghe, dalle orbite raggrinzite tutt’uno con gli angoli oscuri, quasi scorticate, dalle rughe cascanti assieme alle braccia e le vesti, trascinate tutte dai respiri affannosi, dalle unghie incolte e selvagge, si può davvero dire che questa è ancora lei?

Mi avvicino in punta di piedi, cercando di non spaventare gli elementi naturali e soprannaturali contenuti nelle quattro mura.

Lei si irrigidisce, riconoscendo la mia presenza, ma prosegue la fitta di tormenti.

Avvolgo il fantasma, la presa debole per darle aria, altrimenti morirà.
Ricambia il gesto, la mano forte per darmi sicurezza, altrimenti piangerò.
Lei respira, ma è davvero viva? Lei risponde, ma è ancora lei?    

Ora acqua idrata la mia spalla, assorbita in parte dalla camicia menta, in parte dalla cute sottostante; la durata dell'abbraccio è incalcolabile. Potrebbe essersi fermato il tempo, per quanto ne so.

La sua rigidità non svanisce con la morsa, dandomi di nuovo la schiena, subito le gambe vicine a sé, aderite al torace instabile. Nonostante le lenti riflettano la poca luce presente, è facile veggere il suo sguardo lontano, proiettato verso immagini irrealizzabili, infrante.

Un brivido di risentimento mi inghiotte.

La nuova aria si fa soffocante nonostante le tende danzanti.
Le aperte mura si fanno strette nonostante i mobili assenti.
Le sue labbra si serrano nonostante il tentato conforto. Non vi sono segni di parole improprie, paurose, esitanti. Non ha intenzione di replicare. Non vi è neanche un comune "grazie", come usava sempre dire lei.

Riconosco il tentativo vano, il fallimento grave nella coscienza, le lacrime silenziose spontanee. Senza fiatare o provocare altri rumori, lascio la stanza, chiudendo dietro di me la porta.

Pochi secondi di silenzio vengono interrotti dai suoi pianti, i suoni tra i singhiozzi randomici e indecifrabili, senza nomi, preghiere o domande, come soleva fare.
Ci è voluto così poco per distruggere una persona.

Dovevo immaginarlo che sarebbe finita così.
 

Il giorno seguente mi risveglio dal divano di cuoio secco, le crepe della pelle con nuova polvere pronta a innevare le stanze e i suoi contenuti; i cuscini risentono della mancata manutenzione, gridando addolorati. I primi bagliori filtrano per le tende scombinate, la Stella mi acceca momentaneamente, ancora basso. Saranno circa le sei del mattino. La messa inizierà fra tre ore. Meglio prepararsi subito: non possiamo di certo rischiare di arrivare tardi, in particolare oggi.
Metto mano alla mia divisa di servizio: nonostante l'importanza della cerimonia di oggi e la solennità che richiede, non ho altre vesti più presentabili ed eleganti di questa. Cerco di stirare la camicia stropicciata e umida, sia per il sudore che per le lacrime, tirandola con le mani, rimuovendo una alla volta le squame di pelle abbandonate dal sofà; riabbottono le maniche, spazzolo via la polvere dalle semplici brache kaki, sputo sulla superficie delle scarpe e rimuovo la polvere con una tenda ritrovata a terra, finendo col impolverarle di più, le incalzo come se nulla fosse. Spazzolati i capelli con le dita, scalo i gradini in coppia, agganciandomi le bretelle nel mentre.

Raggiungo quindi la porta familiare, il silenzio invade i polmoni. Per un istante sono ad Akubadain, il gelo sulle mie spalle trema, di fronte a me una fossa, il corpo dislocato grida morte, la vittima bloccata dalle ragnatele, gli occhiali persi nella caduta. Il pugno si stringe, esita, le immagini della sera precedente ancora fresche, io stesso incerto su cosa possa far sentire meglio lei. Ma la mente mi ricorda l'importanza della cerimonia di oggi, dove la puntualità è d'obbligo. Raccolgo un respiro e colpisco dolcemente l'uscio. Poi, attesi secondi di silenzio, ripeto più forte. Giro la maniglia ed entro, senza attendere il consenso.

Lo spiraglio rivela altri danni seguiti nella notte: alcune boccette di profumo non più integre, i portagioie smembrati dall'impatto con le creme, polveri preziose e cosmetici in parte spalmati a terra, in parte sulle tende strappate, non più ridenti, insieme alle coperte inutili, crude, irriconoscibili. Gli odori sprigionati sono forti e nauseanti.
Lei dà la schiena alla porta d'accesso, la sedia su cui si trova di fronte a una delle poche mobilie risparmiate dal caos generale, lo specchio leggermente macchiato dagli schizzi della cosmesi ma nel resto miracolosamente intatto. Lei non reagisce ai miei passi o alla mia presenza, si limita a guardare distante il mio riflesso.

Io invece mi blocco, rimuginando sulle parole che sceglierò di dire: sarà pure silenziosa, ma compenserà le sue parole con l'ascolto attento.
«Buongiorno...» inizio, lasciando aria dove ci sarebbe stato il titolo.

Nulla.

«Spero il sonno la abbia accolta bene questa notte.»

Le cade il mento.

«Si ricorda cosa c'è oggi, vero?»

Una lacrima le accarezza la guancia.

Ma sei scemo o cosa?! Sudo freddo, passo oltre, avvicinandomi. «L-la aiuto a prepararsi.»

La goccia raggiunge le dita sovrapposte al ventre.

Inspiro profondamente. Le mie dita inesperte e grezze cercano il vestito più adatto. Non ho la più pallida idea di cosa dovrebbe indossare una signora per questi eventi, ma mi limito a vedere per un abito elegante e nero. I polpastrelli sentono un tessuto leggero e traspirante, perfetto per una calda giornata estiva come questa. Deve essere seta. Prendo la sua gruccia e ispeziono da vicino il completo: un vestito in maniche lunghe dai dettagli assenti, quasi piacevoli, insieme al suo velo discreto. È nero, e questo mi basta.
Mi volto e trovo lei già in piedi, pronta per la vestizione, senza una mia verbale richiesta. La aiuto con l'inserimento delle maniche e delle spalle, sistemando le spalline piegate ed eliminando tutte le grinze; stiro la gonna, rivelando la lunghezza che nasconde i piedi callosi.

Lei contribuisce con la vestizione, passivamente. Si torna a sedere, sapendo esattamente cosa segue.

Prendo da terra il cofanetto di legno ora decorato da crepe e trucco. Alla signora Ascot era molto caro questo portagioie, avendo al suo interno i suoi regali di nozze più preziosi e cari. "Vedi, questi me li ha regalati al nostro primo anniversario." mi disse una volta. Prendo gli orecchini d'oro all'istante, inserisco il chiodo nel lobo e chiudo con la farfallina.

Lei si guarda allo specchio, scoprendo le orecchie dalle ciocche laterali. Ma poi silenzio, il suo sguardo cade sull'anulare sinistro nudo.

Ora tocca sistemare l'acconciatura: raccolgo la spazzola, le setole spartite e rovinate dal vetro, e rimuovo le pericolose schegge; separo la sua folta chioma in ciocche e le pettino, una per una, piano piano, per evitare che qualche nodo possa procurarle fastidio. Inserisco delle spille, raccogliendo i capelli in uno chignon.

Se normalmente si lamentava della lentezza e superficiale cura, ora non fiata.

Esamino il volto di lei, annotandomi in mente tutti i segni indesiderati da nascondere, come mi insegnò la signora Dalilah in una delle sue lezioni riguardanti l'uso della cosmesi. Ricordo ancora come «non vi è signora, tanto meno nobil donna quale signora Ascot, che possa permettere di esibire la sua vera età o rivelare in qualsivoglia forma le problematiche e disagi privati con cui convive,» ricordo anche la sua risata altezzosa in risposta alla mia domanda. «Perché, mi chiedi? Ma è ovvio: non sarebbe educato far presente agli altri dei propri problemi, ne avranno già abbastanza loro! E poi non risolverà il proprio malessere.» Ma certamente aiuterà, avrei risposto se fossi stato più coraggioso, ma al tempo tenni il pensiero per me.
Provo a raccogliere quanto si può salvare della cosmesi gettata, in bella vista un bastoncino con corte setole affogato in inchiostro nero. Rimane reperibile solo un flacone color carne, la crema completamente contenuta. Un fondotinta. Me lo farò bastare.
Spalmo la lozione sotto gli occhi, la stanchezza esistenziale impossibile da occultare.

Non reagisce alle mie dita, possibile fonte di disturbo alle sue visioni.

Raccolgo le scarpe gettate a terra. Pettino il velluto, ora la tonalità di rosso omogenea su tutta la superficie.

Lei estende una gamba alla volta in posizione.

Mi appoggio al ginocchio destro e calzo i piedi.

Si alza dalla sedia e si guarda allo specchio, senza dare vero pensiero ai gesti, automatici per l'abitudine. Neanche il tacco riesce a nascondere la sua recente gobba. Gli occhi vuoti vagano per la stanza, poi collidono sulla porta.

Mi dirigo lì, apro l'uscio, offrendole l'apertura, come mi hanno insegnato, e lei procede, i passi lenti per provocare più rumore. La prendo a braccetto e la accompagno verso la rampa di scale. Al primo gradino mi accorgo dell'ombra slegata, i tacchi fissi seguono un religioso silenzio rivolto alla porta proibita, gli occhi fissi perlustrano le scritte sbiadite, le dita scorrono i contorni storti di cartone; anche se quei cartelli erano stati fatti di fretta da Randall, nessuno ha mai osato violare la loro richiesta: "vietato l'accesso". Solo a me era stato concesso di varcare la porta sotto ordine del padroncino. Ma ora entrarvici sarebbe un sacrilegio.

Lei ha già varcato l'entrata.

Nonostante la macchia di vergogna che mi annebbia, mi guardo intorno: pare che nessuno vi sia entrato dopo la scomparsa di Randall, le mobilie intatte, anche se la finestra spalancata, non come l'aveva lasciata lui; questa volta le tende sono sedute sul balcone. Osservo il drappo a terra, il grande enigma svelato, i segni dei pennarelli quasi incisioni sull'intonaco. Solo ora mi accorgo della meraviglia delle sue scoperte, considerando la sua giovane età, oltre che per l'aspetto più tecnico.

Eppure lei non dà attenzioni alle tende, tantomeno agli scarabocchi sul muro spoglio. Alla cieca si avvia verso l'armadio polveroso. Apre le ante, fruga tra i vestiti.

La seguo e trattengo le grida che vogliono esplodere. «Signora, sarebbe ora di andare.»

Lei continua a scompigliare l'ordine. Tra i tessuti sfila un grande sacco di plastica, senza pieghe e imperfezioni. Appende la sua gruccia all'angolo dell'armadio, rompe il sigillo, svelando un completo nero elegante, i bottoni ancora lucidi, uno stemma nascosto dal fazzoletto piegato alla perfezione come nuovo.
I suoi occhi guardano i miei, non il loro riflesso, non la nebbia che si solleva; guarda me, per troppo tempo. Poi il suo sguardo si sposta verso la veste. Le dita rugose afferrano la veste e la misura sulle mie spalle, lungo le braccia e per le gambe appoggiandola, il fine tessuto ora contaminato dalla polvere. Alza il completo nel mio campo visivo, avvicinandomelo: «Indossalo,» mi dicono i suoi gesti.

Prendo la gruccia e, immobilizzato dalla presenza di lei, mi limito a tenerlo lontano da ogni superficie.

Lei si dilegua, gli spettrali tacchi unica indicazione della sua crescente lontananza.

Ne tasto le cuciture, il tessuto carbone ancora morbido come appena confezionato. Indosso la cimicia candida leggermente larga alle maniche, i pantaloni cascanti ai fianchi, la cravata rossa e la giacca che copre le imperfezioni delle vesti. La divisa di lavoro è improvvisamente più sporca e inappropriata al tatto e alla vista. E io che pensavo anche di portarla per un funerale, assurdo.

Lei ritorna, la sua presenza cresce gradualmente, il suo viaggio segnato da una catena di perle e rombi fangosi. La gobba è più pronunciata a causa del peso che portano le sue mani: la destra contiene un paio di consumate ma eleganti oxford pece, la sinistra tiene intrappolata una rosa nera, le spine non danno pietà, lo stelo bagnato di terra e sangue.

Prendo immediatamente le scarpe per liberarla dal peso; le indosso senza calzini e calzascarpe per non perdere tempo. I movimenti sono automatici e i lacci circondano il dorso dei piedi a forza.

Vedendomi pronto, lei si appresta a posizionare il fiore, la depressione dell'anulare ora ricolmata; rimuove il fazzoletto senza troppi pensieri, svelando la figura: un libro sovrasta un martello e una penna incrociati.

E lì mi rendo conto di cosa sta succedendo. A fatica registro gli altri movimenti.
Ho indosso una veste di Randall. Questa è la divisa che lui avrebbe dovuto indossare al Gressenheller. Io- io non posso accettare, non è il mio destino. La divisa è ancora sua.

Lei risistema la rosa, i petali persi nel processo sulle scarpe e a terra. Solleva lo sguardo, gli occhi vivi ma distanti, le labbra mimano parole, ora fiatate. «Ti sta benissimo―mi sorride, per davvero―io e tuo padre siamo così fieri di te. Rendici ancora più orgogliosi, Randall.» mi accarezza la guancia, un peso entra nella mia attenzione. Il nome si sparge in un eco, senza risposta, ma a lei non importa.

Un brivido di timore mi sovrasta. Sì, Ea è sempre stata particolarmente affezionata e devota nei miei confronti e spesso mi diceva che mi avrebbe adottato se avesse potuto. Ma questo, permetterle di proiettare Randall in me?
, mi avrebbe detto la signora Dalilah, se fa sentire la propria padrona a suo agio.
, mi dico io, se è temporaneo. E lo è.

Stavolta lei mi accompagna per l'uscita, continuando a elogiare Randall per i suoi pieni voti.

Un peso sul ponte del naso entra nella mia attenzione, poi mi accorgo della cornice attorno alla mia visione. Deve essere la montatura di scorta di Randall: voleva a tutti i costi averne un altro paio per non poterne mai stare senza. Sono sicuro che anche ora la ha indosso: non oserebbe mai togliersela.
  
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