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Autore: Enchalott    28/07/2020    3 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Danza notturna
 
I Daimar avevano attaccato al crepuscolo. Avevano accompagnato l’offensiva degli Anskelisia, gettandosi contro le difese della città appena i tamburi nomadi avevano smesso di spandere il loro ritmo avverso nell’aria immota.
Al morire della luce.
Era raccapricciante pensare alle due forze che si erano abbattute sulle mura secolari di Erinna: Angeli e demoni, uomini e ombre. Tanto differenti, ugualmente letali.
Gli arcieri elestoryani si erano schierati sulla cinta merlata e avevano scagliato i loro dardi infuocati sugli assalitori in una controffensiva condotta quasi alla cieca, rischiarata unicamente dai bracieri che ardevano sulle torri e dalle comete di fiamma che le frecce descrivevano prima di cogliere i loro instancabili bersagli.
La luna, occultata tra le nubi violacee che macchiavano il cielo del Sud, aveva smesso di splendere il suo argento benevolo sul teatro dello scontro, precipitandolo in un’oscurità d’inchiostro.
Phylana era accorsa lungo il perimetro fortificato, sebbene la regina avesse tentato di dissuaderla: il suo sangue Aethalas bramava di incoccare le asticelle alla corda, di ascoltare il sibilo della saetta che compiva il suo percorso inesorabile, di percepire lo schiocco secco di un centro. Di difendere Erinna, di vendicarsi, di trovare pace.
Avvertiva ancora il bruciore al braccio destro: non era affatto usa a ripetere quell’operazione frenetica sino all’esaurimento. La mano sinistra, che aveva retto l’arco per un tempo incalcolabile, era spellata nonostante le fasce di cuoio in cui l’aveva preventivamente avvolta. Non sentiva più le spalle e l’unguento che vi aveva applicato aveva lenito solo in parte l’affaticamento.
Tuttavia, quel sopportabile indolenzimento delle membra non faceva altro che segnalarle di essere ancora viva. Tanti altri non ce l’avevano fatta.
Le armi umane, comprese le valenti spade dei soldati che Kendeas aveva condotto in una carica dirompente fuori dalle protezioni, avevano mietuto soltanto vittime mortali tra i reietti e avevano avuto ragione di alcuni dei sulluhat che li comandavano.
I Daimar erano dilagati sulla sabbia macchiata di scarlatto, nutrendosi dell’odio e del dolore, delle ceneri dell’umanità annientata dalla battaglia.
I loro occhi di granato rovente si erano rivolti ai difensori con calcolata calma, ma per qualche ragione avevano deciso di non penetrare le mura della capitale. Nessuno può arrestare il buio, dunque era ragionevole pensare che avessero compiuto una scelta ponderata. Forse si erano semplicemente ristorati con quel banchetto di anime stravolte in vista di un obiettivo ben più allettante.
A Phylana si era gelato il sangue: non era riuscita a comprendere le parole o gli incantesimi che quelle creature malvage avevano pronunciato, ma aveva visto che non era stato loro necessario levare le armi di metallo nero. Avevano avuto ragione di chiunque avessero attaccato e i pochi superstiti, ne era certa, erano stati lasciati in vita esclusivamente come monito. Per provocare terrore allo stato puro.
Secondo lei, erano riusciti perfettamente nel loro intento.
I feriti erano stati trasportati nel cortile principale, che si era riempito dei loro rantoli di agonia e delle loro urla sconvolte di anime sconvolte dalle tenebre.  
I guaritori non avevano potuto fare nulla, se non fasciare inutilmente i tagli e medicare le contusioni. Curare i morti è superfluo: quelle persone avevano già abbandonato questo mondo, respiravano perché i demoni li avevano destinati a una fine lenta e dolorosa, evitando di risucchiare loro tutta l’essenza vitale. Per puro divertimento.
Lei aveva fissato i loro sguardi vacui farsi sempre più spenti e le loro grida estinguersi in un gorgoglio languente.
Finché Eudiya, in piedi sulla balconata che dominava la reggia, non aveva ordinato di porre fine alle loro sofferenze e di bruciare i loro corpi, pronunciando un ultimo, straziante commiato.
Le fiamme dei roghi di chi era stato avevano finalmente illuminato la notte e quel bagliore luttuoso si era mischiato al lamento di chi era rimasto provvisoriamente vivo. Non sarebbero stati in grado di reggere a lungo. Finire tra le fauci di quegli esseri oscuri era solo una questione di tempo. Al prossimo urto avrebbero ceduto. Al prossimo calar del sole il buio li avrebbe inghiottiti per sempre.
Non era riuscita a distinguere se tra gli assedianti ci fosse anche Laras. Non le importava di quanti istanti le restassero, le era sufficiente che essi servissero a stanare quel maledetto e che le fosse concesso di ammazzarlo come un cane. Poi i demoni avrebbero potuto divorarla a loro piacimento, se fossero riusciti a batterla.
Phylana attraversò il giardino del palazzo, spinta laggiù dai pensieri funesti e dalle immagini cruente che le stavano impregnando la mente, in cerca di ristoro.
Udì un suono dolce e triste: qualcuno stava suonando un ògera e la musica cristallina si diffondeva nell’aria fresca della notte.
 
Anshar, seduto su uno dei muretti che delimitavano la piscina di mosaico, sfiorava con le labbra lo strumento a fiato e muoveva armoniosamente le dita sulla lunga canna traversa di legno. Teneva le palpebre abbassate, concentrato sulla melodia che riempiva il vuoto con le sue note struggenti.
I braccialetti che portava ai polsi e le collane, che sfavillavano sul suo petto al riflesso della lampada a due becchi appoggiata lì accanto, tintinnavano appena al suo movimento. La fascia rossa e oro di bailye era posata sul bordo della fontana e la lunga chioma castana, raccolta nella coda di cavallo che portava abitualmente, gli incorniciava il viso intento. I piedi nudi sbucavano da sotto le gambe incrociate, avvolte nei morbidi pantaloni color sabbia.
Un’apparizione di pace, di quiete, di serenità in quell’assaggio infausto di apocalisse.
Phylana lo osservò, rapita, trattenendo il respiro per non disturbarlo.
L’odore medicamentoso del balsamo che si era spalmata sulla pelle la tradì.
Il ragazzo sollevò il capo e abbassò lo strumento.
“S-scusami…” balbettò lei, sentendosi alla stregua di un’intrusa.
Anshar sorrise e, nonostante l’umido scintillio degli occhi, la sua voce risultò ferma.
“È raro per me avere degli spettatori” disse con gentilezza.
“Mi dispiace averti distolto dal tuo raccoglimento, ma era talmente… magico!”.
“Addirittura!” restituì lui con modestia “Non miravo tanto in alto, era solo il mio modo di omaggiare gli spiriti e di purificarmi da…”.
Esitò, evidentemente turbato.
La Aethalas ebbe la certezza che il luccichio che aveva scorto tra le sue ciglia socchiuse fosse dovuto alle lacrime. Si sentì ancora più invadente nell’essere pur involontariamente entrata nello spazio privato del giovane, di averlo sorpreso in un momento di sconforto e di meditazione.
“Non pensavo sapessi suonare l’ògera…” farfugliò, imbarazzata e a corto di parole.
“Perché sono il portavoce dei Rhevia o perché sono un uomo?” rispose lui con una punta di cordiale ironia.
“Sì… cioè, no! Tu sei il bailye di una tribù e i maschi solitamente non… oh! Sto peggiorando la situazione, vero?!” borbottò Phylana, con il desiderio di sprofondare.
Anshar rise piano, infilando l’ògera nella stola di seta che gli stringeva la vita.
“Porti un arco guerriero, se non sbaglio… e sei donna” le fece notare con garbo.
“Era di mio fratello” si giustificò lei con un pizzico di nervosismo.
“Era di mia sorella” rimandò lui, sfiorando con affetto lo strumento.
La ragazza restò in silenzio, sotto lo sguardo sincero e aperto del capotribù.
“Finisco sempre per parlare a sproposito, quando ci sei tu” sospirò, rammaricata “Perdo il potere di farmi comprendere, a quanto pare”.
“Me ne scuso” affermò il giovane, tutt’altro che offeso.
“Oh, ecco, vedi! L’ho rifatto!” sbottò lei, portandosi le mani alle guance in fiamme “Sono imperdonabile a permettere che tu porga un’ingiusta ammenda!”.
Anshar abbassò le gambe, sedendosi più comodamente sul muretto.
“Ti farebbe sentire meglio pagare un pegno?” propose con divertita cortesia.
Phylana lo fissò, dubbiosa e leggermente intimorita.
“Laggiù” continuò il ragazzo, scorgendo il suo ansioso cambiamento emotivo “Il melograno che sporge da quell’angolo. Mostrami come tiri con l’arco”.
“C-come?”.
“Beh… mi hai ascoltato suonare, cioè svolgere un’attività che per i tuoi canoni di giudizio reputi prettamente femminile. Fammi dunque vedere ciò che la tua gente ritiene propriamente un compito maschile”.
Colpita e affondata. La parola giudizio la fece arrossire fino alla radice dei capelli.
La giovane comprese perfettamente il senso del discorso e la lezione che vi era insita. Ogni volta che lo incontrava, il bailye riusciva a polverizzare le sue categoriche convinzioni tramite un insegnamento sottinteso che, tuttavia, non le faceva pesare. Una dote rara e preziosa, tanto più che nei suoi occhi striati di verde giada non c’era traccia alcuna di presunzione.
Sfilò l’arco dalla spalla ed estrasse una freccia dalla faretra. Ignorò gli spasmi muscolari e prese la mira, concentrandosi sul tronco lontano nel buio. Lo colpì alla prima, ma non fu un centro perfetto.
Anshar sorrise, soddisfatto, saltando giù dalla cinta mosaicata per osservare meglio.
“Non vorrei essere tuo nemico” disse pacato.
“Narsas avrebbe fatto meglio. Lui avrebbe preso il nucleo dell’albero, io invece…”.
“Anche Lilah era più in gamba di me con l’ògera” ammise lui, malinconico.
“Lilah? Era il nome di tua sorella? Suoni per… per ricordarti di lei?”.
“Sì, la maggiore delle due” spiegò il giovane Rhevia, passandosi le dita tra le ciocche non trattenute dalla fascia “E no… suono perché mi piace, perché la mia anima si libera, anche se… certo, la melodia mi fa pensare a lei”.
“Io… non avrei dovuto proferire quelle sciocchezze” fece ammenda Phylana “Non conosco a fondo le tradizioni della tua tribù, non ho seguito nemmeno quelle della mia e mi sono permessa di… ah, non avrei dovuto neppure sostare nell’ombra, come una ladra, e metterti a disagio!”.
“Il giardino non è precluso” mormorò lui, allargando il braccio a indicarne l’ampiezza “Non ho provato imbarazzo, non vedo perché avrei dovuto”.
“Oh… perché mi era parso che tu… no, lascia stare”.
“Che io stessi piangendo?” sorrise lui, gentile “Sì, è così. Quanto è successo poche ore fa mi ha trafitto il cuore, nello stesso punto in cui la ferita che gli Anskelisia hanno inferto ai Rhevia non si è ancora rimarginata. Non sono un guerriero e non avrei mai immaginato di dover versare il sangue altrui nella mia vita. Oggi sono stato costretto a combattere e ho accettato questo dovere, come essere umano e come bailye. Ma la mia anima si è rattristata e i ricordi l’hanno riempita con il loro peso. È così difficile mantenersi in equilibrio tra giusta indignazione e sete di vendetta. Inevitabilmente, quando scende una notte di dolore come questa, penso alla mia famiglia, alla mia tribù e… suono il mio ògera. Non riesco ad arrestare le lacrime. Non voglio farlo. Per i morti e per i vivi il mio cuore continua a bruciare e il mio spirito a sanguinare. Non c’è nessuna vergogna in questo, Phylana, figlia di Varsya”.
La ragazza Aethalas spalancò gli occhi, ammirata dalla forza straordinaria e dalla sensibilità che quelle parole appassionate esprimevano. Sospirò, angosciata.
“Tu sei così… così…” mormorò, turbata.
“Strano?” completò lui con un sorriso “Ah, sì… suono il flauto e… pensa che so addirittura ballare come le danzatrici tyala! E poi, piango… tu non lo fai mai?”.
Lei arrossì violentemente, tornando a provare la sensazione di non essere altro che una stupida mocciosa davanti a lui.
“Ho smesso” ribatté in fretta “Nessuna lacrima finché mio fratello non sarà vendicato. Finché Laras non sarà polvere, l’ho promesso a me stessa. Nessuna indulgenza”.
Anshar aggrottò la fronte, interdetto, ma tenne per sé le proprie considerazioni. Poi si sfilò i ciondoli multicolori dal collo, riannodandosi però la fascia di bailye alla fronte. Gli orecchini dorati che portava ai lobi mandarono un bagliore prezioso, quando si inarcò all’indietro reggendosi sulle mani e piroettò, rimettendosi poi eretto con agilità felina.
“Va bene” le disse con trasparente serenità “Niente più pianti per stanotte. La mia musica l’hai già ascoltata. Siamo perciò a due su tre”.
La Aethalas lo guardò sorpresa e colpita, senza capire.
“Danzeresti con me?” domandò lui, schietto, appiattendo la sabbia argentata con il piede nudo “O ti sei imposta un divieto anche su questo?”.
La ragazza lo guardò come se fosse pazzo. Eppure lui sapeva che lei…
“N-no, ma…”.
“Conosco un choreki dove non ci si sfiora neanche” mormorò il giovane, allungando le braccia “Se ricordi la musica di prima e non ti turba posare l’arco per qualche minuto, possiamo tentare”.
Phylana avvertì un nodo alla gola, come se la sua semplice proposta avesse spezzato un blocco illecito che le congelava il cuore.
“Onorata…” rispose in un sussurro.
 
Kiyan, portavoce degli Alkivion, srotolò con solennità una mappa alquanto dettagliata, fissandola al tappeto che ricopriva il suolo con alcune pietre.
“Tutti voi conoscete la valle di Trodora come la Strega del deserto e in effetti la sua fama è più che meritata. Niente acqua per giorni, niente vegetazione, nessun riparo. Solo una landa rocciosa, arroventata dal sole nel dì e gelida di notte. Si narra che lì fuggano gli spiriti inquieti in cerca di pace”.
“Puoi risparmiarci la tua arte poetica?” borbottò Zheule, spazientito.
“Certo, ma mancherei di effetto” ridacchiò il primo, portandosi un paio di treccine dietro l’orecchio “C’è una via in quell’inferno e io l’ho trovata” sintetizzò poi.
“Parli sul serio?” esclamò Eisen, esterrefatto.
“Pongo il cuore sulle dune sacre alla dea” giurò Kiyan “L’ho percorsa in prima persona e questa è stata una delle ragioni del mio ritardo. Pochi mesi fa un gruppo dei miei esploratori si è trovato nel bel mezzo di una tempesta di sabbia. La maledetta è arrivata inattesa, come sta accadendo da un po’ di tempo a questa parte, da quando sembra che la Profezia non voglia più lasciarci scampo”.
Gli altri capitribù annuirono, guardandosi l’un l’altro, consapevoli.
“Bene” continuò il portavoce Alkivion “Fatto sta che i ragazzi erano svegli e dotati di attributi, così quasi alla cieca si sono infilati tra le rocce della gola che porta a Trodora, rifugiandosi in un anfratto in attesa che il cielo schiarisse. Hanno chiuso sommariamente l’entrata con dei massi e hanno acceso il fuoco per riscaldarsi dal freddo notturno. È in questo modo che hanno notato che le fiamme si inchinavano a una corrente che non era quella proveniente dall’ingresso principale. Si sono incuriositi e, tanto per passare il tempo, hanno seguito il corridoio di pietra, che in realtà non terminava affatto pochi metri dopo, come avevano erroneamente creduto”.
“Stento a credere a ciò che sto immaginando” ammise Stelio, speranzoso.
“Non so quanto vasta sia la vostra fantasia, altezza, ma vi posso assicurare che il sottosuolo di Trodora è cavo come un formaggio fermentato e che l’acqua c’è. Siamo noi che non la vediamo, poiché scorre nel ventre della terra a molti metri di profondità. I miei sono scesi parecchio nel seguire il percorso naturale”.
“La tua proposta è quella di nascondere le nostre genti nelle caverne della Strega?” chiese Varsya, interessato seppur dubbioso.
“No” ribatté Kiyan, tronfio “È di farli passare attraverso le grotte, per poi farli sbucare sani e salvi al centro della valle di Trodora, nella parte che abbiamo sempre ritenuto irraggiungibile. Laggiù non ci sono problemi di approvvigionamento e qualcosa ci porteremo dietro a titolo di scorta in caso di soggiorno prolungato. Come potete comprendere, scompare contemporaneamente il problema della fretta”.
Passò l’indice sulla linea evidenziata in rosso che spiccava sul disegno, mostrando ai compagni il percorso rimasto invisibile per secoli.
“Sei certo che nessuno conosca il segreto che hai scovato?” domandò Ayonira.
“Assolutamente sì!” si schermì il bailye Alkivion “A parte una spolpata carcassa di qualche incauto animale qua e là, non ho trovato tracce umane. Ci sono andato apposta, per quanto sia fiducioso nelle capacità dei miei uomini”.
Il sovrano annuì, ben conoscendo l’abilità di segugio del capotribù.
“Sei un toccasana, Kiyan” ammise, esalando un sospiro di sollievo “È ciò che cercavamo con ansia e urgenza”.
“È agevole far transitare i carri là sotto?” si preoccupò Eisen, pragmatico.
“Mh, riduci tutto al minimo e non ci saranno problemi”.
“In quanto tempo è raggiungibile l’entrata da qui?” fece Varsya.
“Quattro… cinque giorni. Conviene che le tribù si preparino immediatamente. Come ho garantito, la mia gente farà da guida e da scorta, ma più gli Anskelisia sono lontani dal sospettare meglio è per tutti”.
Zheule mandò a chiamare con premura Ilyon e Niyla, che si precipitarono a impartire l’ordine di smontare il campo collettivo e di prepararsi alla partenza.
“Pronti per domattina” garantì poi, rientrando nel padiglione riservato “In due gruppi separati, come deciso”.
“Perfetto” approvò Stelio “L’unica mia preoccupazione è quella di contattare gli Haltaki a questo punto. Mancano all’appello e di loro non ho notizie da troppo tempo. Se lo strik a loro destinato ha fatto la stessa fine di quello mai giunto a Kiyan, non so come avvisarli delle nostre ultime e fondamentali risoluzioni”.
Il leader degli Alkivion inarcò un sopracciglio, leggermente sorpreso.
“Deduco che non siate informato, maestà…” asserì con educazione “Il loro anziano portavoce, Mirza, è deceduto qualche mese fa…”.
“Ho saputo” replicò il principe, rammaricato “Non è entrato in carica il successore?”.
“Sì, ma è cosa recente e non ancora del tutto pacificata”.
I capitribù presenti si guardarono, sconcertati. Non accadeva praticamente mai che il subentrante in carica di un bailye venisse discusso o contestato: era costume che il prescelto fosse messo alla prova da tempo, affiancando il predecessore alla guida della tribù in modo che tutti potessero saggiarne le doti e farsi un’opinione, al fine di non creare instabilità al momento del passaggio.
“Cosa?” esclamò Stelio “Gli Haltaki sono privi di portavoce? Ecco perché nessuno è venuto a presentarsi a me ufficialmente! Ho creduto che fosse per via delle difficoltà di comunicazione e di viaggio”.
“In verità no…” borbottò Kiyan, palesemente a disagio nel ruolo di pettegolo di turno “La loro rappresentante è la primogenita di Mirza, ma per vari motivi non tutti sono d’accordo con la decisione da lui presa. La donna è stata a lungo assente dal deserto e il suo comportamento è stato giudicato talvolta… ehm, inappropriato. Gli Haltaki sono guerrieri, gente tagliata con l’accetta… ma sulle questioni d’onore non transigono”.
“Lei come si chiama?” domandò il reggente, incuriosito.
“Aylike, maestà”.
 
 
Kesthar, seduto sulla sponda del letto, cingeva alla vita Màrsali, che si fondeva a lui nell’amplesso, aggrappata alle sue spalle possenti.
I loro abiti erano sparsi a terra e la vampa del focolare tracciava volute danzanti sui loro corpi accalorati, sui capelli color miele di lei, sciolti lungo la schiena candida e delicata, sulle membra massicce di lui che si muovevano con vigore, sui dehalbh azzurri e cangianti della veggente, sulla lunga cicatrice che sfigurava il volto del custode delle prigioni.
All’inizio non aveva osato toccarla, non aveva osato neppure guardarla e, quando avevano fatto l’amore per la prima volta, si era rifiutato di spogliarla completamente e si era a malapena allentato i vestiti, tenendoli ostinatamente addosso come una residua forma di rispetto, come una difesa.
La ragazza, che tra loro due era quella priva di esperienza, lo aveva seguito timidamente, ma non aveva rinunciato ad abbattere la riservata deferenza dietro alla quale il guardiano trincerava i propri timori e le proprie vergogne.
Una volta dopo l’altra, con una dolcezza che penetrava ogni ostacolo, con una passione che diventava a ogni contatto sempre più incontenibile, la stoffa che funzionava come un’estrema barriera era scivolata sul pavimento insieme con le esitazioni dell’uomo.
La nudità dei loro corpi avvinti corrispondeva a quella raggiunta dalle loro anime.
Se Kesthar aveva medicato e guarito le ferite fisiche inferte dal principe alla moglie e, ora, la pelle chiara di lei era priva di lesioni, allo stesso modo Màrsali aveva sanato le piaghe del suo cuore, che si era fatto forte, sicuro, pulito. Lo aveva costretto a perdonarsi, a recuperarsi, a smettere di nascondersi e lui lo aveva compiuto attraverso l’amore che lo incendiava, attraverso il dono reciproco che si scambiavano ogni notte. Aveva smesso di pensare a lei come a qualcosa di irraggiungibile, che si sarebbe corrotto a causa della grave responsabilità nelle sofferenze altrui, che lui si attribuiva per essere stato Haffgan in una lunga parte della sua vita.
La fanciulla che stringeva al proprio petto, però, lo voleva e lo amava per ciò che era: non per il ricordo dell’amico d’infanzia che era stato, non per la misericordiosa compassione di una persona dedita al prossimo, come aveva erroneamente creduto. Era l’amore profondo di una donna che, seppur giovanissima, ne conosceva il significato e non lo paventava. L’amore, in anima e corpo, per l’uomo che aveva scelto.
Quando quell’assoluta convinzione era scesa in lui, tra i sospiri prorompenti di desiderio che scambiava tra le coltri con quella che era realmente sua moglie, aveva finalmente lasciato libero se stesso. A sua volta si era dato nella sua totalità e non aveva più avuto paura di prendere. Lei gli apparteneva, allo stesso modo in cui Kesthar si sentiva suo.
Si mosse con maggiore intensità, finché non gli mancò il fiato, finché non sentì che lei stava provando lo stesso slancio, finché non raggiunsero il climax e non si avvinghiarono spossati, ansimando, l’uno all’altra.
Allora la strinse forte, lasciando che la ragazza gli inoltrasse le dita nella peluria del petto, che gli sfiorasse le labbra, che sollevasse su di loro la coperta di pelliccia che giaceva stropicciata ai piedi del letto.
“Ho paura di svegliarmi…” le sussurrò all’orecchio, ancora fremente di eros.
“Sei già sveglio” sorrise lei arrossendo per il bacio che il marito le impresse sul collo.
“Eppure ho perso la nozione del tempo” ammise il custode.
Màrsali socchiuse gli occhi, protetta nel suo abbraccio virile.
“Già…” mormorò “Dieci giorni trascorsi da quando il principe si è scontrato con il Nemico… così mi rammenta il dono della visione. Il tempo di riposare, di sanare…”.
“Di fare l’amore come gli dei comandano…” aggiunse lui, carezzevole.
“Sì” sorrise la veggente, appoggiandosi alla sua spalla “È ora di tornare”.
“Cosa?” sussultò Kesthar, fissandola in volto, agitato “Non dirai sul serio?”.
La ragazza serrò la sua mano nella propria, arrestandone l’impeto.
“Per quanto, qui con te, io sia felice come non lo sono mai stata, il mio posto è a Jarlath. Lo sai anche tu. Non ci sono stati vincitori nella battaglia tra Anthos e Ishkur e l’oscurità soffocante, della quale non abbiamo scorto che la propaggine, si sta rinforzando. Ho percepito una potente vibrazione proveniente dalla Torre, non è mai accaduto nulla del genere, penso sia un segno… ho giurato alla principessa Adara che sarei stata al suo fianco. Non verrò meno alla parola data”.
Haffgan sospirò, docile, sapendo che non sarebbe riuscito a farle cambiare idea. In fondo, se lo aspettava da un pezzo.
“Se torni a Leu-Mòr, il reggente ti ucciderà. Sei viva per miracolo, Màrsali… se non fosse stato interrotto, lui…”.
“Lo so” ammise lei, inquieta “Eppure nel suo sguardo ho visto… qualcosa. Ho avuto la netta sensazione che non volesse più giustiziarmi. Quando la principessa gli ha parlato, quando ha completato il Medaglione con la Pietra del Cielo… non so come spiegarlo. Devo andare alla fortezza per comprendere anche questo”.
L’uomo scosse la testa, tutt’altro che convinto.
“Pensi di presentarti al suo cospetto come se nulla fosse? Armata di scuse che non vorrà neppure ascoltare?”.
“Correrò il rischio. È il mio destino, l’ho accolto quando ho accettato i dehalbh”.
Il guardiano delle prigioni annuì, rassegnato.
“Verrò con te. Il fato che nomini lo hai diviso con me, se ben ricordi”.
La veggente sorrise, commossa, accarezzandogli il viso ruvido di barba.
“Ti amo, Kesthar…”.
“Sono vivo perché l’hai detto” rispose lui sottovoce “Persino ai deamhan…”.
Un rumore, proveniente dall’esterno, interruppe la loro intimità. Il guardiano scattò a sedere, raccogliendo rapidamente gli abiti dal pavimento e lanciando un’occhiata veloce all’ascia appoggiata contro la parete.
“Resta qui” ordinò perentorio, guadagnando in fretta l’uscita.
Màrsali annuì con la preoccupazione dilagante nelle iridi celesti.
 
Nonostante la corporatura imponente, Haffgan era silenzioso come un ghali. Era uno dei motivi per i quali, nel fondo tetro delle carceri, si era guadagnato quel soprannome demoniaco. Giungeva non visto, non udito, come un’ombra fatale.
Il gocciolio tamburellante della pioggia lo aiutò a mascherare gli scricchiolii prodotti dagli stivali pesanti sull’assito del portico che circondava la casa. Il buio era fitto e non si riusciva a distinguere a un palmo di naso. Dalle finestre chiuse dell’abitazione non fuoriusciva alcuna luce.
Si sentì sollevato in quella tenebra, cui era assuefatto: nessun baluginare maligno degli occhi rossi dei deamhan, nessuna fiaccola brandita dai soldati del principe di Iomhar, nessuna lucerna di qualche inatteso viandante. Forse, si era trattato soltanto del raspare prodotto da un animale selvatico.
Perse quella certezza quando il rumore si replicò, unito a un lamento soffocato.
Raggiunse il granaio, appiattendosi contro la parete e stringendo il manico della scure a due lame. L’elsa del pugnale che portava alla cintura borchiata gli premeva contro il fianco: imprecò silenziosamente per non averlo lasciato a Màrsali.
Schizzò attraverso la porta scardinata, bilanciandosi sulle gambe possenti: la luce fioca di una fiammella, schermata dalle chiusure di una lampada a olio, illuminò una figura vestita di bianco, accasciata a terra.
Kesthar si rilassò, ma non abbassò la guardia, avvicinandosi con circospezione. La creatura si mosse leggermente, come se non riuscisse a sollevarsi. Forse parlò, ma lui, senza scorgere il movimento delle sue labbra, non fu in grado di stabilirlo.
Piegò il ginocchio e sfiorò con la mano quella che, da vicino, gli parve una donna dai lunghi capelli rossi.
“Chi sei!?” domandò perentorio “Che fai qui!?”.
Lei sollevò il capo e sul suo volto cereo si diffuse un’espressione spaventata. Cercò di respingerlo o di farsi comprendere, ma la debolezza prevalse: perse i sensi, scivolando nuovamente a terra.
Haffgan la tirò su come un fuscello, correndo poi con ansia verso la casa buia.
“Màrsali!” chiamò “Apri la porta!”.
La veggente spalancò il battente all’istante e lo fece entrare, sbarrando gli occhi nel vedere la figura femminile riversa tra le braccia del marito.
“Ma cosa…” balbettò, sconcertata “È…?”.
“Non mi pare ferita, ma non sono riuscito a capire bene nell’oscurità” riferì lui.
La ragazza annuì, indicandogli di portarla nella stanza attigua. La luce delle lampade illuminò i tratti sofferenti della donna e la sua chioma fradicia color melograno.
“Oh, dei! È fredda come la morte!” constatò “Passami quelle coperte, Kesthar… e fai scaldare l’acqua nel paiolo, ti prego”.
Il custode obbedì, attizzando il focolare con della nuova legna, mentre Màrsali cercò di riscaldare il corpo gelido e spossato della nuova ospite. Non era armata, salvo uno stiletto celato tra le pieghe dell’abito.
Finalmente questa aprì gli occhi, cercando di mettere a fuoco l’ambiente sconosciuto.
“Siete al sicuro adesso, non temete” la confortò la veggente, rilevando la sua espressione angosciata “Mi chiamo Màrsali e quello che vi ha trovata è mio marito… qual è il vostro nome?”.
Lei mosse faticosamente le labbra, priva di forze. Le afferrò con ansia il polso con la mano che tremava di freddo e di agitazione.
“Io… sono Dessri…” boccheggiò, appena udibile “Devo… devo parlare con la principessa Adara… a Jarlath… vi prego…”.
La veggente e il guardiano si scambiarono uno sguardo inquieto.
“Siete salva, Dessri” sorrise poi Màrsali con gentilezza “Le mura della capitale sono sopra di noi”.
   
 
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