Anime & Manga > Card Captor Sakura
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Autore: steffirah    28/07/2020    1 recensioni
A causa del lavoro del padre Sakura verrà ospitata a casa di una sua cugina, in una cittadina dal nome mai sentito prima, nell'estremo nord del Paese. Qui farà nuovi incontri, alcuni dei quali andranno oltre la sua stessa comprensione, mettendo a dura prova le sue più grandi paure. Le affronterà con coraggio o le lascerà vincere?
Una storia d'amore e di sangue, di destino e legami, avvolta nel gelo di un cielo plumbeo, cinta dalle braccia di una foresta, cullata dalla voce di un lupo.
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eriol Hiiragizawa, Sakura, Sakura Kinomoto, Syaoran Li, Tomoyo Daidouji | Coppie: Shaoran/Sakura
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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NdA: Terzo (ed ultimo) capitolo dal POV di Syaoran.
 




Colei che rappresentò la sua salvezza



 
Ancora una volta qualcosa cambiò nel mio rapporto con Sakura. Inaspettatamente ci avvicinammo più che mai, più di quanto ritenessi possibile, e le mie reazioni erano del tutto controllate. A scapito di quel che pensassi, riuscivo a pormi dei freni, e compresi nell’arco di un mese che quello che facevamo non era sbagliato. Sentivo che non c’era nulla di male nello starle accanto, abbracciarla, sfiorarla, toccarla. Sentivo che era qualcosa che entrambi desideravamo, qualcosa che entrambi amavamo. Io mi riempivo della sua presenza, così come lei sembrava riempirsi della mia.
Accadde che per un certo periodo si ammalò e, assicurandomi che le mie visite non coincidessero con quelle dei suoi amici umani, mi recai spesso a trovarla, capendo in parte come potesse sentirsi con la febbre. Mi auguravo solo che non fosse atroce per lei quanto lo era per me. Per questo rimasi al suo fianco ogni volta che ne avevo la possibilità, e una sera in cui la sua temperatura raggiunse quasi i trentanove gradi accettai persino di dormire con lei. Ci coprii entrambi, sebbene per me non ce ne fosse bisogno, ma era necessario per tenerla al caldo e, al contempo, al fresco col mio corpo. In realtà non ero sicuro che funzionassero così i processi di guarigione umani, ma in ogni caso assecondai le sue richieste, convinto che lei sapesse cosa fosse ciò che le avrebbe maggiormente giovato alla salute; così si appiccicò del tutto al mio corpo e pur coprendola con le coperte la abbracciai. Crollò in poco tempo e io, incapace di dormire perché volevo assicurarmi che stesse bene, le carezzavo con delicatezza il viso, asciugandola dal sudore. La vedevo rilassarsi sempre più e quell’incendio che era divampato in lei sembrò scemare poco alla volta, durante l’arco della notte, finché al mattino non si estinse quasi del tutto. Quando si svegliò le passai il termometro e con mio enorme conforto scoprimmo che la febbre era scomparsa.
Si avvicinava allora un evento importante, ossia il suo compleanno, giorno che avevo scoperto grazie a Daidouji – la quale per l’occasione ci aveva invitati tutti a cena lì. Dopo aver donato a Sakura il fiore che portava il mio cognome sentivo che, invece, avessi dovuto consegnarle il mio nome stesso, perciò mi adoperai alla realizzazione di un piccolo lupo da rendere un portachiavi – ragion per cui fui preso in giro a lungo dalle mie sorelle, vista la mia “sdolcinatezza”.
Inutile dire che, sin da quando l’avevo vista quella sera, era più radiosa che mai. Mi veniva spontaneo sorriderle, e per questo Hiiragizawa mi punzecchiò abbastanza in seguito, ma io semplicemente lo ignorai, in trepida attesa che lei tornasse quanto prima. Fu purtroppo anticipata da quelle bisbetiche delle mie sorelle e mia cugina, che mi invitarono a prepararmi psicologicamente a quel che avrei visto. Un po’ mi preoccupai, sapendo quanto potessero essere imprevedibili con i loro gusti estrosi, ma quando poi si tolsero d’avanti mostrandomela e incontrai la sua figura mi sentii mancare, letteralmente, la terra da sotto i piedi. Era stupenda, ma non avevo il coraggio di rivelarglielo; o meglio, avrei voluto dirglielo, ma mi sentivo la bocca secca, riarsa, prosciugata, e cominciai a dubitare di riuscire anche a pronunciare una sola parola. Al solito, mi fece tornare al presente Meiling con la sua forza bruta e inevitabilmente si accese una discussione.
«Non riesci proprio a farle un complimento? Sta aspettando soltanto quello!»
«Meiling, guarda che non è facile! Come posso dirle che… che...»
«“Che” cosa?! Davvero, cuginetto mio, sei senza speranze. Dico sul serio.»
«Glielo dirò se ci sarà occasione.»
«Quando pensi che ci sia l’occasione se non adesso?!»
Fortunatamente Fudie ci fece zittire, facendoci notare quanto fosse scortese parlare in cantonese davanti a dei giapponesi. Preferii comunque isolare le loro voci, parlottando con Hiiragizawa, finché non rinnovammo gli auguri a Sakura mentre spegneva le candeline. Sapevo che quando lo si faceva si esprimeva un desiderio e per un minuscolo istante desiderai possedere la stessa abilità di Hiiragizawa, per scoprire Sakura cosa volesse.
Successivamente lei mangiò anche le nostre fette di torta, bevendo del tè, mentre noi ci nutrivamo, seppure non fossi pienamente concorde nel farlo davanti a lei, la quale quando lo capì non ne parve per niente turbata. E del tutto indesiderate furono le osservazioni di Meiling; ma quanto meno, fu un buon pretesto per stare un po’ soli, approfittando di tale disagio per defilarcela. Finalmente, avrei potuto mettere in atto il mio piano, la mia prima sorpresa per lei. Non avevo idea di come avrebbe potuto reagire dinanzi a qualcosa di tanto poco umano, così come non ero sicuro che me lo avrebbe lasciato fare. Ma al solito, lei cancellava tutti i miei indugi, concedendomi qualunque cosa; pertanto potei prenderla tra le mie braccia, potei correre alla mia velocità, quella reale, senza dover stare attento ai passi che eseguivo. Potei farlo insieme a lei. Potei mostrarle ancora una volta il vero me stesso, un me stesso che lei non aveva ancora conosciuto del tutto, ma con cui sembrava desiderasse ardentemente avere a che fare.
La cosa più buffa era non solo che era talmente esaltata dalla situazione da non stare ferma e zitta neppure un attimo, mettendo a dura prova i suoi polmoni, ma aveva anche frainteso quale fosse il mio regalo. Glieli diedi così, uno alla volta, mettendomi direttamente nel palmo della sua mano. Le lasciai me stesso, le lasciai noi due, chiedendomi quando si sarebbe accorta dello spartito nascosto. Lei mi domandò cosa potesse darmi in cambio che mi ricordasse se stessa, ma forse non le era ancora chiaro che non serviva niente. In primis, non l’avrei mai dimenticata. Avevo la canzone che avevo cominciato a comporre per noi, avevo i suoi ritratti, avevo il suo regalo di Natale e, in quest’ultimo, si celava ciò che lei era per me. L’avrei rivista ogni volta che avrei sentito la sua mancanza, nelle stelle durante le notti sgombre di nuvole, nei ciliegi ad ogni primavera. Pur nella sua assenza, sarebbe sempre rimasta al mio fianco.
Cercai allora di comunicarglielo, e mentre inaspettatamente le spiegavo quel che sapevo d’astronomia lei si perse – come sempre, era troppo difficile per Sakura restare concentrata a lungo su un argomento senza deviarlo – e mi imbarazzò non poco, comparandomi alla Luna, quella Luna che avevo sempre odiato, in cui mi ero sempre rivisto, e dopo quel suo discorso mi ci rividi più che mai. Aveva ragione perché, fino a poco prima di conoscerla, ero veramente freddo, buio, vuoto, ma poi avevo trovato la mia stella e lei mi aveva avvolto nella sua luce, riempiendomi di vita. Lei mi aveva salvato. E senza di lei, sarei ritornato ad essere il nulla. Non sarebbe più stata un’esistenza la mia, quindi non scherzavo quando dicevo che se lei fosse morta mi sarei ucciso a mia volta. Il piano era quello: far sì che crescesse, raggiungesse la veneranda età, rispettando il ciclo della vita e poi, una volta che fosse giunta la sua ora, sarei morto con lei. Doveva crescere, doveva innamorarsi, doveva costruire una famiglia felice con qualcuno che condividesse la sua stessa natura. Era una realtà quella a cui non potevo strapparla solo perché la volevo con me; pertanto, se fossi stato certo che lei avesse continuato a vivere serenamente, potevo sopportare la sua lontananza. Ma non la sua sparizione dal mondo.
Fui lieto in ogni caso di scoprire che quando ammirava la luna lo faceva pensando a me. Era quasi incredibile il come persino i nostri pensieri sembrassero legati dal filo rosso del destino. Ma no, era un filo di sangue nel nostro caso, un filo che sapevo fosse indistruttibile, e che tuttavia avrei dovuto spezzare con tutte le mie forze, per garantirle un futuro. Sapevo che amare significava anche saper lasciare andare e che quella poteva anzi essere una delle forme più dolorose d’amore. Ma avevo fiducia nella mia forza, nel mio coraggio, nel mio essere determinato. Ci sarei riuscito, ad ogni costo, e proprio come le avevo detto sarei sopravvissuto finché non fosse giunta anche la mia fine.
Le cose divennero difficili dopo che giunse la nuova studentessa. Detestavo il suo odore, era come la copia marcia di quello di Sakura, e mi sembrava che fosse avvolta da un’atmosfera negativa, nefasta. Forse era soltanto una mia impressione, fatto sta che avrei preferito che stesse alla larga da Sakura, visto che con quello che già rischiava non si poteva mai sapere… E invece proprio lei era quasi diventata sua amica per la pelle.
Provai a parlargliene, sia di quella sensazione che dei miei timori, della mia paura di perderla, che qualcuno me la strappasse via con la forza, che non fossi in grado di salvarla sebbene fossi disposto a tutto, tutto, per proteggerla. Lei mi ascoltava, sembrava capirlo, e mi rincuorava. Lei rincuorava me, quando avrebbe dovuto essere il contrario e io avrei dovuto sostenerla in ogni momento.
Forse lo fece per alleviare quella mia sofferenza, fatto sta che si finì col parlare di cromature. Con la sua bianca voce mi mostrò l’estate, un’estate fino ad allora immaginata e mai vissuta, permettendomi di avvicinarmici, promettendomi persino che saremmo andati al mare insieme. Era una cosa che mi aveva sempre lasciato indifferente, ma improvvisamente la prospettiva di poterlo fare con lei rese allettante il recarmici. Mi parlò dei suoi colori preferiti, le parlai del mio colore preferito, lo stesso che tingeva le sue iridi, facendole brillare. Quel colore che mi aveva sempre dato il buongiorno, sin dalla mia nascita, quel colore in cui potevo comportarmi secondo la mia vera natura, quel colore che non più semplicemente mi piaceva e mi faceva sentire a mio agio, ma che amavo da quando l’avevo conosciuta.
All’improvviso però successe di nuovo qualcosa che non avrei mai potuto prevedere, e avrei dovuto invece prevenire. Giusto per rimproverarla e farle capire che non doveva farsi del male, neppure inconsciamente, le feci notare cosa si fosse combinata alle dita. Fortunatamente non usciva sangue, ma rispetto alla prima volta che accadde a scuola mi sentivo più controllato, più sicuro di riuscire a dominarmi, per cui se anche ce ne fosse stata una goccia ero sicuro che non l’avrei morsa. Rispetto a quel che accadde a febbraio, in quel momento ero in me, avevo il pieno controllo dei miei sensi. Quindi non ci sarebbe stato niente di male se avessi avvicinato quella piccola ferita al mio naso, se avessi odorato la sua pelle, se le avessi permesso di approcciarsi ancora di più a me, di posare il suo naso sulla mia guancia per fare lo stesso, di schiudere le labbra, di sfiorarmi col suo dolce respiro, bagnandomene a mia volta le labbra, gustandomi soltanto esso, pur desideroso di rimuovere qualsiasi distanza… Ma no, proprio come ad Halloween, non potevo permetterlo. Era un discorso strano forse per lei, anche perché mi era già capitato di cedere e baciarla, ma se lo avessi fatto sulle sue labbra… Se avessi posato le mie sporche labbra, labbra con cui uccidevo, sulle sue, che con tanto candore, tanta purezza, pronunciavano il mio nome, dandomi la vita col loro sorriso... L’avrei macchiata col mio peccato. E proprio perché la amavo non potevo permettere che accadesse. E ciononostante, avevo quasi ceduto. L’avevo quasi sporcata.
Avendocela con me stesso, mentre ce ne andammo non riuscii a fronteggiarla, sebbene fossi turbato e combattuto anche per un’altra ragione: lei, come sempre, sembrava esserci rimasta male. Neppure quel poco ero in grado di fare, neppure quella piccola gioia avrei potuto darle, e per questo mi odiavo sempre di più.
Fortunatamente mi richiamò a sé, raggiungendomi in men che non si dica, e fece riferimento al componimento che le avevo lasciato, chiedendomi di suonarglielo anche se incompleto. Poi mi sorprese nominando quei ritratti di cui con tanta attenzione avevo evitato di parlare – a quanto pareva a casa mia era impossibile tenersi un segreto.
Non potendo più tirarmi indietro a quel punto, la feci accomodare nella mia stanza, rimirandola in silenzio mentre sedeva sul mio letto, totalmente a suo agio, immersa nell’ammirazione dei disegni. Tutto era cominciato dal nostro primo compito insieme: esso prevedeva che ci ritraessimo a vicenda e vedere il suo disegno di me fu in parte buffo, poiché era pieno di cancellature, quasi trovasse difficile replicarmi alla perfezione, e fu anche un’occasione per guardarmi attraverso gli occhi di qualcun altro. Rispetto ai ritratti che mi erano stati fatti dai membri della mia famiglia sembravo più evanescente in quello schizzo insicuro e tremolante, quasi irreale. Neppure lei stessa sembrava convinta del suo operato, tanto che mi definì più bello di come mi avesse disegnato. Ad essere onesto non avevo mai pensato alla bellezza prima di allora, ma col passare del tempo che trascorrevamo insieme mi resi conto che se avessi dovuto assegnarle un nome, quello sarebbe stato il suo. Lei era bellissima, sia fuori che dentro. Mentre pensavo a ciò, mi si scaldò il cuore nel vederla così vicina a me, nel renderla sempre più partecipe di quella che era la mia vita. Al di là di ciò che temevo una volta che avrebbe scoperto dei ritratti che le avevo fatto – timoroso che potesse scambiarla per un’ossessione o un mio essere maniaco, quando semplicemente rappresentavano ricordi ed erano un mezzo per averla sempre con me, anche quando se ne sarebbe andata –, lei reagì commuovendosi. E tale commozione si palesò maggiormente dopo che le ebbi suonato il brano che avevo composto per noi. Per darci un lieto fine, ma quello ancora non ero riuscito a trovarlo. E forse non lo avrei mai trovato.
Le spiegai delle ragioni dietro alle mie azioni, dietro ai miei comportamenti, sperando che lei potesse capirmi, senza pensare invece che, così facendo, non avrei fatto altro che ferire i suoi sentimenti. Così, quando fuggì via, mi sentii morire. La rincorsi sotto la pioggia perché volevo scusarmi per le parole che le avevo rivolto, sebbene fosse esattamente quel che pensassi, o meglio, quel che io ritenessi rappresentasse il meglio per lei, quel che io mi ero convinto fosse più giusto. Lasciarla andare era la scelta più saggia; eppure fu più forte di me, dovetti raggiungerla, dovetti assistere al suo pianto, dovetti coprirla dalla pioggia, dovetti ascoltarla, come era giusto che fosse. Più mi parlava, più mi disperavo per non essere anche io in grado di piangere come lei, di cacciare fuori tutto quello che mi pesava dentro e liberarlo. Gli umani potevano essere così liberi, e io non volevo assolutamente privarla di quella libertà. Aveva così tante opportunità, lei, che a noi vampiri erano negate, ma come in seguito scoprii lei follemente sarebbe stata disposta a rinunciarvi, pur di trascorrere la sua vita con me. Perché lei mi amava. E io, anche io la amavo, la amavo così tanto, ma non potevo dirglielo. Dovevo rifiutarla, ma non avevo la forza di farlo. Forse lo feci con il mio silenzio.
Mi sentivo malissimo. Dover fingere di non amarla, sapendo che lei ricambiava il mio stesso sentimento, era atroce. Aveva ragione lei, avremmo potuto realizzarci, se soltanto io fossi stato più… più istintivo, meno iperprotettivo, più egoista, meno riflessivo. Pensavo di aver scelto il percorso migliore per lei, ma, al contrario, con la mia scelta mi stavo rivelando ancora più egoista. Non sapevo più cosa fosse giusto e sbagliato. Se avessi ceduto al mio desiderio, coincidente col suo, saremmo stati felici entrambi; ci saremmo realizzati entrambi. Tuttavia, così facendo, sarei andato contro la sua natura. Quei pensieri, quei timori, quegli indugi erano asfissianti, soffocanti, angoscianti. Normalmente avrei trovato una risposta, avrei saputo come comportarmi, ma in una situazione simile? Come bisognava comportarsi, quando ci si metteva di mezzo il cuore?
E pensare che allora più che mai dovevo tenere i sensi più all’erta, visto che ormai mancava poco e sarebbe tornata al sud… e proprio in quegli ultimi giorni mi sentivo come se ci fosse qualcosa di incombente: mia madre aveva ricominciato a fare quei sogni nefasti e io mi sentivo sempre più impaurito.
Giunse in fretta la primavera: i ciliegi fiorirono, il confine tra di due mondi divenne più labile, il legame tra vita e morte si rafforzava. La vita di Sakura, la morte di Sakura. Era tutto ciò che mi atterriva, ciò di cui più avevo paura, ciò che più mi spaventava. Vivevo nel terrore, giorno e notte, che avrei potuto perderla da un momento all’altro, che avrebbero potuto strapparmela via, ed era facile adesso che non ero più al suo fianco. Che nessuno di noi poteva più essere al suo fianco perché io, con la mia stoltezza, avevo incrinato il nostro rapporto. Era stato quel mio essere disonesto a distruggere tutto. E ora non potevo far altro che osservarla a distanza e sentirmi trafiggere ogni volta che vedevo il dolore sul suo viso, ogni volta che mi voltava le spalle per non mostrarmelo. Mi sentii, come tanti mesi fa, smarrito, un bambino perso in se stesso, rinchiuso in una gabbia senza vie di uscita. Provai a convincermi, al di là di tutto, che era questione di tempo ormai. Nulla più sarebbe successo e lei sarebbe tornata sana e salva nella sua città.
Per questo, quando sentii che dovesse fare un picnic con le sue amiche, approfittando del sole di un mattino di maggio a pochi giorni dalla sua partenza, non ebbi nulla da ridire e me ne stetti in casa, insieme a tutti. Mi sentivo però inquieto, vagavo avanti e indietro per la stanza, snervando un po’ tutti disturbando il loro sonno, pregando mentalmente che il cielo si annuvolasse quanto prima. E nel momento preciso in cui accadde Hiiragizawa diede conferma ai miei timori: non uno soltanto, bensì una trentina di vampiri erano entrati contemporaneamente nel nostro territorio. Tra questi, uno era un D.
Uscimmo immediatamente per affrontarli, ma con mio sgomento scoprimmo che quelli nel bosco erano soltanto delle pedine, umani trasformati da sfruttare per occupare il nostro tempo. Pur non conoscendo l’aspetto di Yuna D. Kaito, il sangue delle stirpi lo si riconosceva e lui sicuramente non era lì. Mi sentii ghiacciare fin nelle ossa, capendo. Era un diversivo, ci stava tenendo lontani da Sakura per avere il tempo di usarla come avrebbe voluto. Sapevo che coi neo-trasformati, a meno che non avessero ricevuto un’educazione, fosse futile parlare. E nel suo caso, non poteva trattarsi d’altro che di macchine da guerra, la formazione di un esercito con cui contrastarci. Aveva fatto male i conti, trenta di loro non avevano possibilità di batterci. Mi bastò rivolgere uno sguardo a mia madre, la quale con un cenno mi fece capire che potevamo attaccarli. Non c’erano alternative, sapevamo soltanto che dovevamo sbrigarci, prima che Sakura perdesse la vita.
Dopo averne sconfitti almeno la metà Hiiragizawa mi richiamò, ingiungendomi di recarmi da Sakura e salvare lei e Shinomoto, portandomi dietro Meiling e Daidouji. Non avevo idea di cosa c’entrasse la nuova arrivata, ma poco mi importava. Di quella faccenda potevano occuparsene anche loro due, io avevo un unico compito e quello era salvare Sakura, garantendomi che fosse illesa. Ma sapevo che non era così. Quanto più correvo verso la sua scia, tanto più l’odore del suo sangue diveniva intenso, soffocante, riempiendo l’aria. Era ferita, sicuramente, e forse era troppo tardi, forse aveva già usato il suo sangue per il suo scopo – no, non potevo accettarlo. Non riuscivo ad accettarlo. Non potevo essere arrivato troppo tardi…
Lasciai indietro Daidouji e Meiling, accelerando. Non appena individuai il nemico mi avventai su di lui, allontanandolo da Sakura, lanciandolo distante da lei. Approfittai dell’effetto sorpresa e del tempo necessario a riprendersi per controllare lo stato di Sakura, vedendola stesa accanto a Shinomoto, stretta dai rami, con una ferita al polso. La visualizzai, vedendo che si trattava di un morso. Non poteva essere. Guardai il suo viso, trovandola prostrata, ma i suoi occhi stillanti lacrime erano del confortante verde che conoscevo e il dolore che vi leggevo non era quello che si associava alla trasformazione. Non l’aveva uccisa. Ma le aveva fatto del male, e questo non potevo assolutamente perdonarglielo.
Quasi fosse stata colpa sua, Sakura mi disse che le dispiaceva. A quel punto non ci vidi più dalla rabbia. Mi voltai irato a guardare quel D., trovandolo a rimettersi in piedi. Lessi nel suo sguardo che non vedeva l’ora di un confronto e se tali erano le sue intenzioni lo avrei accontentato volentieri. Ignorai l’implorare di Sakura di andarmene perché no, niente mi avrebbe più fermato. Sapevo quanto potessero essere potenti i D., sapevo che forse non ne sarei uscito vivo, ma dovevo vendicarmi finché non mi sarei sentito sazio. Così mi avventai su di lui, combattemmo, e sebbene i miei movimenti fossero un po’ più rallentati dalla precedente battaglia, riuscivo a tenergli testa. Forse era anche grazie ai riflessi della mia seconda natura. Essa doveva essere un vantaggio, per forza, per cui approfittai di quella mia agilità sfruttandola sia nell’attacco che nella difesa.
Con la coda dell’occhio mi assicurai che Daidouji e Meiling avessero raggiunto Sakura prima di allontanarci di lì, per proseguire indisturbati. Dato che riuscii ad affaticarlo usò un incantesimo per evocare una spada e io ringraziai mentalmente Hiiragizawa per aver reso a portata di mano la mia jian. Purtroppo non eravamo riusciti a trovare qualcosa di efficace contro il suo potere soggiogante, ma se non potevo riuscirci con la mente lo avrei sconfitto con la mia forza fisica. E questa misi nella mia spada, colpendolo con tutte le mie forze.
Come previsto, durante tutto il combattimento provò ad entrare nella mia testa, riuscendoci di tanto in tanto, parlandomi, leggendomi, scoprendo tutto di me, sia le mie forze, che le mie debolezze. Aveva fatto lo stesso anche con Sakura? Aveva indagato e svelato anche i suoi segreti più reconditi? Aveva spiato le sue più intime paure? Una simile mancanza di rispetto era imperdonabile. Sentii la sua voce che mi diceva che a nulla serviva sforzarmi tanto, era risaputa la superiorità dei D. rispetto agli altri clan. Lo sapevo, ma non lo accettavo. Un misero, vile, sporco D. non mi avrebbe battuto con facilità. Non scavando nei miei pensieri. Né sarebbe riuscito a soggiogarmi. Poteva dirmi quello che gli pareva, pensava forse di indebolirmi, di indurmi all’autocommiserazione, ma più di quanto lo facessi da solo non poteva riuscirci. Poteva definirmi un mostro, ma sapevo già di esserlo. Poteva anche definirmi uno scherzo della natura, lo avevo sempre saputo. Ma non doveva osare rivolgersi a mia madre con le sue luride parole, definendola una puttana, perché no, non lo era stata, né a mio padre chiamandolo cane, un bastardo che andava eliminato. Con quello stava sorpassando la linea.
Mi avventai su di lui, in preda ad una furia omicida. Se soltanto ci fosse stata la luna piena quella sera e non l’altroieri mi sarei volentieri trasformato per sbranarlo. Ma effettivamente, volendo, avrei già potuto spezzargli quel collo sottile con le mie zanne. Quanto avrei voluto porre fine alla sua esistenza, come avevo fatto con le sue pedine, mozzare la testa del re e schiacciarla sotto i miei piedi, disintegrargli ogni osso, squarciargli quel cuore freddo e stritolarlo tra le mie mani, incenerirlo coi miei fulmini.
Proprio mentre stavo precipitando negli abissi dell’odio, sentii l’odore del sangue di Sakura spandersi nell’aria, dovunque attorno a me. Me ne riempii le narici e, per la prima volta, divenne la mia forza. La forza di tornare in me, al presente, di ritrovarmi e mantenere la lucidità, di non lasciarmi provocare. Non sapevo che sorta di magia stesse facendo Daidouji, sicuramente qualcosa che le aveva insegnato Hiiragizawa e che dovesse aiutarci a sconfiggere il nemico; mi parve, infatti, di vederlo sempre più debole, sempre più fiacco quanto più il suo canto s’innalzava, quanto più il sangue di Sakura si estendeva attorno a noi. Riuscii a restituirgli le stesse ferite che mi aveva inferto, che le aveva inferto, e seppure continuasse a parare in maniera piuttosto abile i miei colpi, vedevo che la sua presa stava cedendo. Avevo a mio vantaggio anche il fatto di essere ambidestro, così cogliendolo di sorpresa gli tagliai i tendini, lo disarmai e lo colpii con un calcio, per farlo piegare in due. Attesi qualche secondo affinché le mie sorelle lo ingabbiassero con i loro poteri prima di approfittare del mal tempo e richiamarne i fulmini, risucchiando tutta l’elettricità che avvertivo nell’aria per riversarla su di lui.
Sapevo che quel tanto sarebbe bastato unicamente per privarlo dei suoi sensi, non era sufficiente ad ucciderlo. Mi era stato tuttavia ordinato di sconfiggerlo soltanto, metterlo fuori combattimento, in modo tale che mia madre e Hiiragizawa potessero interrogarlo. Inoltre, io stesso mi sentivo alquanto spossato, svuotato di tutto. Dover lottare non solo col corpo, ma anche con l’inconscio non era impresa facile; pensare che in parte vi ero già abituato, con la mia doppia natura. Mi sentii le gambe molli, ma prima che cadessi Sakura era lì, a sostenermi nella sua debolezza. Lei, senza un minimo di forza, manteneva me. Me, che avrei dovuto evitare che accadesse tutto questo. Me, che non ero riuscito a fare ciò che mi ero ripromesso. Me, che le avevo fatto vivere un incubo. Se c’era qualcuno che avrebbe dovuto scusarsi, quello ero io, ma sapevo di essere imperdonabile. Lui l’aveva morsa. L’aveva morsa. Avrebbe potuto trasformarla. Avrebbe potuto distruggere tutto ciò che io con tanta fatica, con tante rinunce, stavo tentando di costruire. Mi allontanai da lei, non sopportando la vista della sua ferita, né dei solchi sul suo collo, sulle sue spalle, sulle sue braccia, sulle sue gambe, certo che le avrebbero lasciato dei lividi. Mi avvicinai a mia madre, e insieme a lei dissi addio a mio padre, pregando affinché stavolta potesse riposare in pace. Vidi la sua luce nivea staccarsi dalla terra, fondersi a quel ciliegio bagnato del sangue della ragazza che amavo e sparire insieme ad esso.
Consolai per poco mia madre, prima che ella decidesse di fare lo stesso con Sakura, lasciandola piangere tra le sue braccia, carezzandole i capelli per confortarla con una cura e un affetto materno che non aveva mai potuto mostrare con noi, perché mai noi eravamo stati così tristi. Mai noi avevamo pianto con tanta irruenza, con singhiozzi così forti che le scuotevano tutto il corpo, con una voce dilaniante che sembrava competere coi miei guaiti e ululati da lupo. Era straziante vederla così, ma capivo che gli umani, che avevano la possibilità di farlo, era meglio che cacciassero fuori tutto, sfogandosi.
Dato che cominciò a piovere, ci affrettammo a rientrare. Lasciai che Daidouji si occupasse di lei, mentre tutti gli altri erano a casa mia. Stavo per raggiungerli, sebbene per mia madre fosse consigliabile nutrirmi prima, ma non importava, la mia guarigione poteva aspettare. Così mi alzai, dicendo a Sakura di non preoccuparsi, perché pur essendo sotto l’influenza della luna non era più al cento per cento piena, quindi sarei guarito, solo un po’ più lentamente. Affaticato mi avviai per il corridoio, ma naturalmente lei, testarda, mi seguì, facendomi la proposta più forsennata che potesse uscire dalle sue labbra: di bere il suo sangue, nonostante ne avesse già perso troppo, nonostante sapesse che era rischioso e avrei potuto non controllarmi. Tuttavia nei suoi occhi perseverava fiducia in me, e mi chiese soltanto di prometterle di avere cura di me stesso – quando più verosimilmente avrebbe dovuto essere il contrario, ed ero io a doverle chiedere di prendersi cura di sé. Anche perché, a meno che non combattevo, non avrei rischiato nulla.
Non ci misi molto a cedere al suo volere; come sempre mi mettevo totalmente nelle sue mani, e dopo che ebbe avvicinato il suo polso alle mie labbra le schiusi. Chiusi gli occhi, lasciando quel caldo liquido così estraneo eppure tremendamente familiare scorrere in me, riempirmi gli organi, le vene, le arterie, il cuore, nutrendomi per la prima volta di Sakura. E improvvisamente mi sentii come rigenerato. Il suo sangue era realmente speciale. Non era solo il suo profumo, ma anche il suo sapore era dolce, particolare, stucchevole, un invito a favorirne sempre più, senza mai sentirsi sazi.
Mi disse, allora, che io ero un “salvatore”, il che mi faceva ridere perché finché non l’avevo conosciuta, ma anche fino a qualche secondo prima, ero sicuro di essere tutt’altro. Eppure, se era così che mi vedeva, allora poteva essere vero. La guardai sorridente e leccai il sangue dalla sua ferita, ripulendola, decidendo che fosse abbastanza. Mi era bastato, sì, ed era stato il sangue più buono che avessi mai saggiato.
In cambio mi occupai di lei, fasciandola nuovamente, arrabbiandomi un tantino per le sue azioni sconsiderate; riconoscendo tuttavia che il mio lato aggressivo stesse per prendere il sopravvento decisi che fosse meglio per entrambi che me ne andassi. Tra l’altro, da quanto avevo sentito da Daidouji, a breve sarebbero arrivati suo padre e suo fratello, quindi non sarebbe stata sola. Sapevo che loro me l’avrebbero portata via, ma era giusto così. E da lei avevo già ottenuto più di quanto meritassi. Non importava se non avesse mai saputo quel che provavo.
Corsi nel bosco, diretto verso casa, fuori dalla quale incontrai Meiling che tornava da casa di Mihara dopo aver accompagnato Shinomoto. Entrammo insieme, trovando quel D. ancora privo di sensi, legato al centro della sala. Mia madre mi disse che ancora non s’era svegliato, ma ciò non mi stupì. Sicuramente si stava rigenerando, sicuramente stava recuperando le forze sfruttando quello stato di incoscienza. Avremmo dovuto ammazzarlo finché eravamo in tempo. Lo feci capire a mia madre, ma lei mi rivolse una muta occhiata ammonitoria. Digrignai i denti, frustrato, consapevole che Hiiragizawa aveva intenzione di interrogarlo prima. Ciononostante non riuscivo a sopportarlo, per cui preferii allontanarmi di lì e nascondermi nel fitto del bosco, tra le felci, ove permisi a tutti i miei sentimenti di traboccare, rubati dalla luce della luna. Fu allora che fui sorpreso da qualcosa che scorreva sulle mie guance. Piangendo. Stavo piangendo. Era la seconda volta che mi succedeva nell’arco di un’ora, quando per tutta la mia vita non m’era mai capitato. Ero sempre stato troppo freddo, troppo controllato, per permettere che accadesse nei giorni di vulnerabilità. C’erano sempre state rabbia, vendetta, indifferenza a dominarmi. Ma ora, c’era anche tristezza. Mi fermai accanto a una sequoia e alzai gli occhi al cielo plumbeo, concedendo alle lacrime che mi scivolavano sul viso di vincere su di me.
Il giorno successivo sapevo che Sakura avrebbe presenziato all’interrogatorio. Dopo che si era risvegliato quel D. non s’era degnato di rispondere a nessuna delle nostre domande, per quanto lo torturassimo, per cui Hiiragizawa suppose che l’unica a potergli strappare una parola potesse essere lei – sebbene io fossi contrario a quell’idea. Era una faccenda in cui volevo avesse a che fare il meno possibile. Soprattutto ora che c’era la sua famiglia, doveva pensare unicamente ad essa e dimenticarsi di noi. Era seccante però vedere che aveva ragione, che con lei aveva abbassato le difese e stava sputando il rospo. Alla fine, anche quello era un potere di Sakura: l’innata fiducia che intingeva in chiunque.
Ascoltai muto tutto quello che aveva da dire, tentando di capacitarmi di quelle parole. I sensi di colpa mi attanagliarono quando cominciai a comprendere che fosse stata tutta colpa mia: se mesi prima non avessi protetto Sakura in maniera tanto impulsiva, non l’avrei messa al centro dell’attenzione. Ma se non l’avessi protetta, avrebbe potuto morire. Avevo forse altra scelta? Quale sarebbe stata quella che mi avrebbe garantito la sua sopravvivenza, un’esistenza pacifica, priva di rischi e pericoli? E in essa, la mia presenza era contemplata? Oppure...
I miei pensieri andarono in fumo, non appena confessò quanto la avesse perseguitata. Questa fu solo un’ulteriore aggiunta alla lista delle ragioni per cui lo avrei voluto fare fuori, finché non disse una cosa che mi agghiacciò: Sakura era una Reed. Sakura aveva le mie stesse origini. I nostri mondi non erano diversi, bensì erano uniti, congiunti; il nostro mondo era lo stesso.
Hiiragizawa, al solito, sapeva e taceva. Il padre di Sakura era suo fratello. Potevo capire lei come si sentisse: smarrita, spaesata, persa in falsità. A quel punto non sarebbe stato strano se avesse cominciato a domandarsi chi fosse davvero. C’ero passato anch’io, quindi sapevo cosa si provava a ricevere notizie tanto sconvolgenti. Comprendevo la sua rabbia, la sentivo come mia; ma ancora non mi era chiaro cosa desiderasse.
Avrei voluto che fosse chiara con me, avrei voluto che i suoi desideri li rivolgesse direttamente a me, e non si mettesse nelle mani di nessun altro. Proprio allora quel D. tornò a parlare di questioni di sangue, e io feci due più due. Le aveva promesso di trasformarla! Come osava darle una simile speranza?! Lui, che non aveva alcun legame con lei, che non sapeva niente di lei! Lui, che non conosceva la sua vita! Non aveva alcun diritto di strappargliela! Lo avrei incenerito, lo avrei fatto davvero, lo avrei ridotto in polvere, se Sakura non mi avesse fermato. E allora i sensi di colpa tornarono, perché probabilmente non avevo fatto altro che ferirla ulteriormente: non solo emotivamente, adesso anche fisicamente. Perché? Perché dovevo essere tanto sbagliato?
Disperato, la portai via di lì. Non volevo più vedere la faccia di quel D., non volevo dover più sottostare a tutti quegli sguardi preoccupati per noi, non volevo più vederla soffrire. La prima cosa che feci, assicurandomi che non si fosse bruciata gravemente, fu scusarmi, sebbene sapessi che fossi stato imperdonabile. Poi mi accertai della sua salute. E, come sempre, lei mi chiese di me, quasi capisse come mi sentissi, rivedendomi in lei; per cui le feci capire che anche io, tempo addietro, avevo ricevuto notizie traumatiche, che m’avevano fatto cominciare a sentire inadatto. D’altronde, ero un bambino voluto? Avrei dovuto essere grato a mia madre per avermi tenuto, ma non ero stato uno sbaglio? Ero sempre stato convinto di essere frutto di un errore, ma Sakura, come sempre, mi fece aprire gli occhi: ero frutto dell’amore. E proprio come me, lei si stava porgendo i miei stessi quesiti. “A quale mondo appartengo? Che cosa sono davvero?”
Pensai avesse cominciato a questionarsi sulla sua umanità, ma lei, sempre più forte, sempre più decisa di me, aveva già capito cosa voleva. E quel che voleva mi faceva paura, perché potevo mai essere così fortunato da meritarmi un lieto fine? Decisi allora di essere del tutto sincero, rivelandole quel che provavo e quel che pensavo. Quel che non m’aspettavo fu la sua reazione. Si congelò, letteralmente, finché non pianse dinanzi ai miei sentimenti, in maniera talmente irruente che persino le sue spalle ne erano sconquassate. Non riuscivo a capire, cos’era? Tristezza? Gioia? Andai nel panico, non avendo idea di come comportarmi, finché lei non mi confermò si trattasse della seconda. Allora la abbracciai e mentre ascoltavo il suo pianto felice sentii nel mio cuore quel pezzo che mancava alla nostra composizione. Perciò la condussi là dove avevamo momentaneamente spostato il piano, facendogliela sentire.
Per quanto riguardava la sua trasformazione, non ero più molto fermo nella mia posizione. Ero solo insicuro se fosse o meno la scelta migliore, ma lei sembrava desiderarlo con tutta se stessa, sembrava essere disposta a rinunciare realmente a tutto, e io mi ero messo a sua disposizione per realizzare i suoi sogni. Per questo, dopo non molto tempo mi lasciai persuadere. E in tal modo, finalmente, io e Sakura avevamo trovato la nostra storia.










 
Spiegazione:
"Jian" è il nome della tipologia di spada di Syaoran, dritta e a doppio filo.
  
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