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Autore: I am on my way    28/08/2020    0 recensioni
Le sua labbra sono calde, morbide, sanno di menta e il suo volto profuma di shampoo e bagnoschiuma, ma anche di dopobarba: è un odore pungente che mi solletica il naso e mi fa girare la testa.
I nostri respiri si inseguono, mentre le sue mani scendono lungo la mia schiena, fermandosi qualche centimetro più giù del previsto e io vorrei togliermi la maglietta per poter far aderire il suo petto nudo al mio, per sentirlo mio e fondermi con lui in una cosa sola.
I suoi capelli bagnati mi stuzzicano il volto, mentre lascio vagare i miei polpastrelli sulle sue spalle umide, beandomi della sensazione della sua pelle pallida sotto i miei palmi, esplorando, avida, ogni singolo centimetro di pelle, imprimendomi nella mente ogni imperfezione, ogni suo lineamento.
Genere: Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Niall Horan, Zayn Malik
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Un giorno, tre autunni


Wendy

Un giorno ricordo di aver letto, in un vecchio libro che avevo trovato in cantina, un breve detto cinese che recitava così:一日三 秋
La traduzione sarebbe “un giorno, tre autunni”,  è un proverbio usato quando ti manca qualcuno così tanto, che un giorno pesa come fossero tre anni.
Mi chiedo se chi l'ha scritto avesse la propria amata lontano, perchè certe cose per poterle affermare le si deve provare.
La verità è che da quando ho lasciato Oxford, da quando sono entrata in aeroporto, da quando sono atterrata a Clevedon e ho messo piede nel piccolo taxi nero e macchiato dalla pioggia estiva, non faccio altro che chiedermi perchè questi miei quattro anni mi siano sembrati così lunghi. È come se avessi vissuto centinaia di inverni, migliaia di estati puntellate da infiniti attimi di solitudine.
Sospiro, socchiudendo gli occhi. Ho davvero il diritto di sentirmi sola? Ho davvero il diritto di paragonarmi a chi è solo davvero? Sono quattro anni che mi faccio queste domande, quattro anni che non trovo risposte, e so che oggi non sarà diverso.

Mi rigiro il solitario d'oro bianco che porto all'anulare, mentre il tassista canticchia sottovoce un motivetto che mi è sconosciuto.
Fidanzata. È questo quello che sono.
Sposata. È quello che sarò presto.
Al solo pensiero una fitta allo stomaco mi fa quasi piegare in due.
Da bambina, in verità, non vedevo l'ora di legarmi a qualcuno per tutta la vita, perchè ho sempre avuto paura di invecchiare senza nessuno accanto, paura di trovarmi in un appartamento vuoto, in una stanza d'albergo sola. Mi piaceva l'idea di avere una persona che si prendesse cura di me.
Ne ho sempre avuto bisogno, intendo che qualcuno si preoccupasse per me. Ma invece ora sono qui, in un taxi, affranta, svuotata, stanca. Sì, perchè questo matrimonio io non lo voglio. Mi spaventa più dei ragni, più del buio, più di invecchiare in un letto freddo senza nessuno vicino.
Mi spaventa almeno quanto mi spaventa ciò che mi porto dentro.
Quando sei ragazzina fai mille progetti, hai centinaia di sogni e speranze, li porti avanti con cura e gelosia, cerchi di conservarli e preservarli intatti.
«Credici» mi hanno detto fin da subito, quando avevo ancora cinque anni ed ero debole, pronta a cadere nella trappola delle parole, «credi nei tuoi sogni, e allora nessuno ti potrà fermare».
La verità è che mi hanno insegnato a sognare, a farlo in grande, ma non mi hanno insegnato come affrontare una scommessa persa, una porta sbattuta in faccia; nessuno mi ha detto come comportarmi dopo aver visto il mio sogno in mille pezzi davanti a me, non mi hanno spiegato come ricostruirlo pian piano, nessuno mi ha avvertita di quanto potesse fare male averlo là, in frantumi.
E ora io non so cosa fare, non so se sia la cosa giusta riporre l'anello di fidanzamento nella tasca dei miei jeans, né se sia giusto che il mio cuore stia battendo all'impazzata al solo pensiero di tornare a Clevedon. Ma il mio anulare sinistro adesso è vuoto e il mio respiro è accelerato, agitato. Non mi sento neanche in colpa per tutto ciò, l'emozione sta avendo la megli, e io voglio solo dimenticare la data del ventisette settembre, Jared, e ciò che mi porto dietro.
E allora, mentre osservo le vallate inglesi piegate dal temporale e ascolto il tassista continuare a fischiettare quel motivetto irritante, mentre inizio ad intravedere il mare, laggiù, poco dietro quelle colline, mi ritorna in mente la mia voce acuta, squillante, di quando avevo nove anni e l'immagine di me da bambina prende il posto delle spiagge, le onde che si infrangono sostituiscono il ticchettio della pioggia e io sono di nuovo bambina.

«Guarda che quella parte sta crollando» lo ammonisco, puntando l'indice contro il lato sinistro del castello di sabbia.
I miei piedi nudi sono zuppi delle onde che ritmicamente ricoprono il bagnasciuga, i capelli biondi e umidi di Niall sono incollati alla sua fronte, le nostre mani continuano a scavare buche per ricreare il fossato attorno al castello. Lui è più veloce di me ad intaccare la sabbia, i suoi polpastrelli si muovono rapidi, le sue braccia da dodicenne hanno più forza delle mie.
«Meglio, così sarà una fortezza diroccata» dice, sorridendo trionfante di quell'affermazione.
Io alzo gli occhi al cielo. Maschi, hanno la passione per le cose rotte, distrutte, rovinate e macabre. Mentre mi chiedo il perchè, mi siedo sui talloni, stanca di continuare a togliere o mettere sabbia e guardo Niall finire il lavoro al posto mio.
Lo osservo mentre rifinisce le guglie del castello o rende più profondo il fossato, è bravo. Lui è il fratello che non ho, penso.
«Direi che è perfetto» sorrido compiaciuta «sembra un castello incantato».
Entrambi lo guardiamo e a me sembra un piccolo capolavoro, altro che i lavoretti che facciamo a scuola.
«Detto così sembra una cosa da femminucce» si lamenta Niall, lasciandosi cadere sulla sabbia.
Io lo imito, pensando se sia il caso che gli risponda o meno, ma una domanda preme sulle mie labbra e io non riesco a trattenerla, quasi fosse questione di vita o di morte.
Allora glielo chiedo, curiosa come sempre «Niall, se tu potessi scegliere, che super-potere vorresti avere?»
«Mmh» temporeggia «vorrei poter essere invisibile! Così potrei intrufolarmi in cucina ogni volta che voglio e mangiarmi tutti i biscotti nella credenza» lancia un sasso nel mare «e tu?» mi chiede poi.
Io poggio il mento sulle mie ginocchia e, mentre guardo un gabbiano planare sull'acqua, dico «io vorrei avere le ali per volare».


Mi sposto una ciocca di capelli che mi è finita davanti gli occhi.
È incredibile come certi particolari si imprimano nella nostra memoria e non si riesca a cacciarli via neanche dopo anni. Mi rendo conto che, ultimamente, sono diventata un magazzino di immagini e conversazioni che dovrebbero essere sepolte in qualche angolo del mio cervello, ma che invece sono qui, esattamente al centro.
«Le dispiace proseguire per quella via?» gli domando indicando con il dito la strada alla nostra sinistra.
«Ma così allunghiamo» obietta.
«Non importa» dico senza aggiungere altro.
E lui esegue, va avanti e lascia che i pini della riserva poco più in là vengano sostituiti da un muro in pietra di guano. Una costruzione grande, forse troppo per essere definita casa, inizia a  comparire da dietro le alte palme del giardino: è esattamente come la ricordavo, con le pareti in stucco bianco, il tetto grigio fumo e le ampie vetrate del salone che si affacciano verso la strada. È immensa e bellissima.


 
Niall



«Niall, dove stai andando?».
Mia madre mi sta guardando da in cima alla scalinata di mogano, appoggiata alla ringhiera in ottone d'orata e nera. Tiene le mani posate in grembo e indossa un vestito bianco a fiori rossi che le mette in risalto l'esile figura; i capelli, neri come la pece, sono raccolti in uno chignon ordinato, le labbra color fuoco socchiuse e gli occhi azzurri che mi squadrano. Potrebbe benissimo essere uscita da un film degli anni '50. Un film di quelli in cui la protagonista è una donna sulla quarantina, frustrata perchè il suo ricco marito la trascura, passando più ore a lavoro che in casa e dove magari il figlio fa di tutto per deluderla. Sì, potrebbe essere uno di quei film in bianco e nero che andavano in onda più di sessant' anni fa.
«Allora?» mi ripete, picchiettando con l'indice smaltato di bordeaux sulla ringhiera. Indugia con lo sguardo sui miei jeans sbiaditi e la maglietta nera un po’ stropicciata, poi guarda le chiavi della macchina che tengo nell'anulare sinistro.
«Mi vedo con gli altri al bar, in piazza» dico facendo spallucce, mentre mi accingo a uscire di casa velocemente.
So che avrà da ridire ma forse, se scappo prima che parli, me la potrei cavare semplicemente con una sua occhiata minacciosa e ammonitrice.
Ma no, le sue labbra sono più veloci della mia mano e non mi lascia il tempo neanche di aprire la porta, che la sua voce rimbomba nell'immenso salone, troppo grande per tre persone.
«Non avevi detto che avresti controllato gli opuscoli delle università? Quelli che ti avevo lasciato sulla scrivania l'altro giorno?»
Mi volto di nuovo verso di lei. È scesa di un gradino e la luce, che filtra dalla tenda scura della grande vetrata che dà sul retro del nostro giardino, le disegna parte dello zigomo.
Improvvisamente mi rendo conto di quanto sia invecchiata, lo capisco dalle rughe intorno alla bocca e agli occhi che ha cercato di nascondere col trucco.
«Lo farò stasera quando torno» mormoro tagliando corto. So che sto mentendo, so benissimo che, salito in camera mia questa sera, prenderò quegli stupidi volantini e li getterò nel secchio accanto alla mia scrivania, perchè io la mia domanda già l'ho mandata, sto solo aspettando una risposta.
«Basta rimandare, Niall. Abbiamo già fatto questo discorso più volte, anche con tuo padre».
«Proprio perchè ne abbiamo già parlato, dovresti aver capito che non ho nessuna intenzione di frequentare delle stupide università di economia, o architettura» rispondo, trattenendo a stento la rabbia.
Ne abbiamo discusso così tante volte, che dovrebbe essergli entrato in testa: non voglio diventare un economista, né un manager e nè un architetto. Non voglio entrare in azienda con mio padre, né stare per tutta la vita seduto in un ufficio, davanti ad un computer.
«Ah no?» scende qualche altro scalino, mentre mi guarda con aria di sfida «e allora che vorresti fare? Continuare ad andare in giro a bighellonare con i tuoi amici a fare.. Cosa? - la sua bocca si trasforma in una smorfia di disgusto  - Inizi ad essere grande, dovresti sapere che non si vive di sogni».
Stringo la presa sulle chiavi della macchina, trattenendo per un attimo il respiro. Cerco di trovare qualcosa da ribattere, per poter fare una di quelle uscite da film un po’ plateali, un po’ drammatiche, ma la verità è che contro di lei non si vince, mai.
«Hai ragione» le dico «mi morirò di fame probabilmente. Ma indovina? I soldi non sono tutto nella vita».
Mia madre termina di scendere la scalinata, fissandomi dritto negli occhi.
«I soldi, che tu dici non essere indispensabili, recitandomi qualche stupida frase fatta, ti permettono di girare con la tua bellissima auto nuova, di uscire tutte le sere con quei malfamati dei tuoi amici-».
«Non parlare così di loro!» la aggredisco improvvisamente. Sono migliori di tanta altra gente che sta intorno a te o a papà» sputo fra i denti.
«Gente che potrebbe garantirti un futuro migliore di quello che avresti facendo qualsiasi altra cretinata tu voglia fare!» i suoi occhi sono spalancati dalla rabbia «e modera i toni, non ti permetto di parlarmi a questo modo!».
Beh, mi sembra giusto, io non posso denigrare i suoi 'amici', ma lei può farlo con i miei.
«Non guarderò quei cazzo di volantini, rassegnati - dico infine con aria di sfida - continua pure a poggiarmeli sulla scrivania, perderai solo tempo».
«Basta! Non accetto questo linguaggio, né tantomeno questo comportamento!» mi rimprovera con un'espressione sdegnata in volto, la stessa che avrebbe se avesse appena visto un uomo commettere un omicidio.
«Chiedo venia, madre» ironizzo «ha ragione. La prego di permettermi di rettificare la mia risposta» mi schiarisco la voce «Non, cazzo, guarderò, cazzo, quei, cazzo, di, cazzo, volantini, cazzo, rassegnati, cazzo» le sorrido beffardo e forse anche compiaciuto nel vedere la sua faccia sconvolta «ora, se non le dispiace, esco. Buona giornata» uno, due, tre «Cazzo!» urlo infine, sbattendo con forza la porta alle mie spalle e sentendo le finestre del salone tremare poco più in là.
Perché non mi lasciando fare quello che mi pare? Perché sono così ossessionati da questa faccenda dell'università? Perché non si rassegnano?
Certe volte mi sembra di parlare contro un muro. Gli avrò detto un centinaio di volte le mie intenzioni, ma a loro non interessa ciò che voglio io.
Fisso l'Audi r8 parcheggiata nel viale di casa e una smorfia mi si disegna sul volto. Ricordo che me l'hanno regalata per il mio diciottesimo compleanno, quando anche io credevo che i soldi avrebbero potuto davvero rendermi felice, o almeno avrebbero potuto farmi stare in pace con me stesso, ma poi è morto Timothy e allora ho capito tutto.
Quando due persone importanti lasciano la tua vita, le tue priorità diventano altre, ogni cosa sembra sfaldarsi e perdere importanza.

Mi massaggio distrattamente il collo, mentre sento il cellulare vibrarmi nella tasca destra dei pantaloni; lo afferro e rispondo, sapendo già chi è che mi sta chiamando.
«Harry?»
«Niall, si può sapere dove sei?» la musica in sottofondo che sento provenire dal cellulare, mi suggerisce che o è già arrivato al bar, o è in macchina.
«Sono ancora a casa» dico, mentre esco dal grande cancello in ferro battuto «sto venendo a piedi».
«Perchè?».
«Perchè cosa?».
«Perchè stai venendo a piedi?»
Resto in silenzio, sa bene i rapporti che ho con mia madre, quindi gli lascio immaginare la discussione e il mio inutile gesto di ribellione, rinnegando la macchina
Posso quasi immaginarlo alzare gli occhi al cielo, mentre lo sento sbuffare non appena intuisce il problema. Sorrido.
«Fossi al tuo posto userei quella macchina per fare colpo su tutte le ragazze di Clevedon».
«Non ho certo bisogno di una macchina» scherzo, inspirando a pieni polmoni l'aria salina del mare.
«Mi piaci quando sei intraprendente Styles, fossi una donna ti sposerei.»
«E non saresti il solo.»
«Speravo dicessi 'anche io ti sposerei', mi sento ferito. Comunque aspettami là, sto passando a prenderti» e senza aspettare una mia risposta, attacca.
Sorrido, scuotendo la testa, poi infilo le chiavi nella mia tasca sinistra e mi siedo sul ciglio della strada.
Harry arriverà tra circa un quarto d'ora, ma non mi va di rientrare a casa, così aspettare qui diventa l'alternativa più valida.

 
   
 
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