Anime & Manga > Katekyo Hitman Reborn
Segui la storia  |       
Autore: Yuki Kushinada    30/08/2020    0 recensioni
[Lambo]: Lambo non aveva mai considerato Tsuna come un Boss, tanto meno come il proprio Boss, quanto più come un fratello maggiore.
Ma c’erano alcune giornate, alcuni momenti, in cui Tsunayoshi Sawada era veramente un Boss, al di là di ciò che a tutti loro piaceva credere.

[Ryohei]: Non serviva sapere quale fosse il peccato che si sentiva sulla coscienza, semplicemente, non stava bene con se stesso. La mafia non faceva stare nessuno bene.
[Takeshi]: Non fu nell’istante in cui il sangue gli schizzò sulla pelle in macchie che avrebbe poi lavato, macchie che sarebbero comunque rimaste, che il panico lo assalì nella consapevolezza di essere diventato un assassino.
[Mukuro & Chrome]: Non era una sceneggiata a beneficio della malavita, era un giuramento che riguardava esclusivamente loro tre.
[Hayato]: Gokudera Hayato, ex Guardiano della Tempesta della Decima generazione della Famiglia Vongola, deglutì a vuoto, ma non rispose. Sollevò la pistola e se la porse alla tempia.
Un Boss e un Guardiano. E una Famiglia che sa essere maledizione e conforto insieme.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Lambo, Mukuro Rokudo, Ryohei Sasagawa, Takeshi Yamamoto, Tsunayoshi Sawada
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

Vongola Decimo

~ Hayato ~

 

 

 

 

 

 

 

Erano sessantadue ore che Tsunayoshi Sawada non dormiva e non mangiava affatto, e il suo umore ne risentiva già dall’alba del giorno prima. La sua famosa pazienza che lo aveva reso il mito e lo zimbello di tutta la mafia era semplicemente andata a puttane.

Urlava contro chiunque avesse la brutta idea di parlargli, o di suggerirgli di mangiare, dormire, riposarsi, farsi una doccia o qualunque cosa non fosse rimanere al capezzale del letto del suo Guardiano.

Aveva minacciato di usare lo Sfondamento del Punto Zero contro Mukuro quando lo aveva stuzzicato, e non aveva esitato a puntare una pistola addosso a Reborn, quando questi aveva provato a colpirlo per mettergli un briciolo di sale in zucca. E lui non se la portava praticamente mai dietro una pistola.

Reborn dal canto suo lo aveva lasciato stare, troppo fiero del suo atteggiamento da vero Don Vongola per contrastarlo - non che lo avrebbe mai ammesso. E poi, aveva tutto il tempo del mondo per punirlo per la sua mancanza di rispetto e soprattutto di buonsenso.

La sezione medica della Famiglia, d’altra parte, era letteralmente terrorizzata dal loro Boss come non lo era mai stata finora.

Ryohei capiva e Shamal non era di umore molto migliore di quello di Tsuna, ma qualunque altro medico o infermiere entrasse in quella camera, lo faceva come se dovesse affrontare una bestia feroce al punto di aggredire. D’altronde, le occhiate gelide che quegli occhi di ambra riservavano loro ogni volta che mettevano lì piede e il modo in cui le sue mani prendevano fuoco e poi si congelassero subito dopo, ad intermittenza, ogni volta che qualcuno portava una cattiva notizia, sembravano indicare che ritenesse loro gli unici responsabili.

In verità, il Decimo dei Vongola – che era un Boss della mafia ed aveva esaurito sì la pazienza e anche il buonsenso, ma era pur sempre ImbranaTsuna – era perfettamente consapevole che gli unici due responsabili di quella storia fossero Hayato, con la sua stupida impulsività, e lui stesso.

Il suo istinto Vongola glielo aveva urlato il pericolo in agguato, lo aveva capito subito che quel proiettile per Hayato poteva essere letale ed era pronto a riceverlo al suo posto. Ma Hayato glielo aveva impedito, e anzi, gli aveva fatto da scudo.

Era rimasto inerme a guardare mentre il piombo rivestito della Fiamma del Fulmine, la fiamma che fortifica, l’unica che poteva sfondare gli scudi di Gokudera, aveva colpito il suo Guardiano direttamente alla giugulare. Era un Cielo che non sapeva proteggere neanche le persone a lui più care.

Non era morto per un puro miracolo che portava i nomi di Ryohei Sasagawa (ed era per questo che era l’unico che non guardava troppo di traverso quando gli riferiva che Hayato non stava migliorando) e Mukuro Rokudo (ed era per questo che non lo aveva congelato sul serio, ma minacciato soltanto).

Da allora, era rimasto in piedi fuori dalla porta dell’ambulatorio ad aspettare che l’operazione finisse e, non appena Hayato era stato portato in quella stanza, lui non si era più mosso dalla sedia accanto al letto, se non per andare in bagno.

Gli mancò quasi un battito quando il Guardiano aprì gli occhi.

Gokudera si guardò intorno spaesato. Ci volle qualche istante prima che riconoscesse l’ala medica della magione. Almeno quello spiegava perché si sentisse tanto da schifo. La testa faceva un male cane, aveva una nausea tale che avrebbe potuto rimettere in quello stesso istante ed era nettamente in carenza di nicotina. In altre parole, gli giravano come eliche e poteva sparare chiunque in quell’istante.

Hayato.”

Quello era ciò che lui definiva il fottuto karma.

Sapeva esattamente a chi apparteneva quella voce, anche prima di girarsi a controllare e sapeva anche che il tono era tutto men che amichevole.

Tsunayoshi Sawada, Decimo dei Vongola, era forse l’unica persona a cui non avrebbe sparato mai. In nessuna occasione, per nessun motivo.

Tsuna era l’uomo che aveva riconosciuto il suo valore, prima ancora di conoscerlo sul serio. Il valore di un bastardo che aveva rinnegato il suo stesso padre, un cane per chiunque nella mafia.

Non aveva mai messo in discussione il suo ruolo come braccio destro nella più potente fottutissima Famiglia, quando chiunque altro avrebbe considerato un disonore respirare la sua stessa aria.

Gli aveva dato una nuova casa, una nuova famiglia, una vera, non solo mafiosa, una in cui la gente si preoccupa l’uno per l’altro e si sta insieme per il gusto di godere della reciproca compagnia.

E d’altronde, era merito suo se aveva di nuovo una sorella. Bianchi non lo aveva mai perso di vista, ma per quanto gli riguardava lei era tutto ciò che lui non sarebbe stato mai, era facile prendersela con lei, odiarla. Era giovane, ingenuo, immaturo e pieno di rabbia.

Quando Bianchi l’aveva raggiunto in Giappone in veste di amante di Reborn, aveva avuto ben poco da ridire sulla sua presenza lì e da allora, giorno dopo giorno, tra liti e screzi, erano tornati ad essere fratello e sorella. O forse lo erano diventati per la prima volta.

Doveva la vita a Tsuna da ogni punto di vista. E beh, non si sentiva in colpa se non voleva aggiungere motivi alla lista.

“Decimo” rispose solo.

Dopo anni di convincimento da parte dell’altro, aveva ceduto a chiamarlo per nome – Non sopporto che il mio migliore amico non mi chiami Tsuna, gli aveva detto – ma lui più chiunque altro sapeva quando accanto aveva il suo migliore amico e quando il suo Boss.

“Mi avevi fatto una promessa” gli ricordò duramente.

Hayato sospirò.

“Sì” disse soltanto, ben consapevole di dove sarebbe arrivata quella conversazione. E non aveva nessuna voglia di affrettare le cose.

“Mi avevi giurato che non avresti più messo stupidamente la tua vita in pericolo” continuò tra i denti, tremando di una rabbia incontrollata.

Hayato avrebbe veramente voluto avere una sigaretta in quel momento. Più di ogni altra cosa.

“Non l’ho fatto.”

Non lo hai fatto?” ripeté il Decimo, come se lo avesse insultato.

“Ho impedito a te di mettere stupidamente la tua vita in pericolo. Quel proiettile era riservato a me. Non ti avrei mai lasciato prenderlo al posto mio.”

Hayato…!”

“No, Tsuna.” Lo interruppe. Una mancanza di rispetto, secondo l’etichetta. Ma non aveva intenzione che quell’equivoco si protraesse a lungo. Non poteva e non voleva permettere a Tsuna di sentirsi responsabile delle sue ferite. “Il mio dovere è proteggere te, non il contrario. Non ti avrei mai permesso di rischiare la vita al posto della mia. Ho giurato che non mi sarei messo inutilmente in pericolo, ma non che ti avrei lasciato fare lo stesso. Tu sei il Boss della nostra Famiglia, io sono il tuo braccio destro. Non ti permetterei mai di sacrificarti per me. Mi ammazzerei prima dal disonore.”

Tsunayoshi vacillò di fronte quelle parole come se lo avesse colpito con uno schiaffo in piena faccia. Ma fu solo un istante. Prima che potesse rendersene conto, sul suo viso era calata la maschera di Vongola Decimo, quella che indossava quando affrontava i suoi nemici, quando la sua fiducia era stata tradita.

“Allora, forse, non ho bisogno di un braccio destro.”

 

 

Hayato era abbastanza adulto e aveva lavorato per la Famiglia Vongola da abbastanza anni da saper riconoscere una punizione quando ne riceveva una. E tutto sommato, poteva ritenersi piuttosto fortunato.

Era il braccio destro, il secondo in comando, o almeno lo era stato fino a un paio di settimane prima. Dopo quella di Tsuna, era la sua la carica più importante nella Famiglia, e in quanto tale gli era capitato in diverse occasioni di dover gestire la Famiglia da solo, in assenza del Boss.

Tsuna era in missione in Russia, quando aveva stanato e scoperto la presenza di alcune talpe nei ranghi più basse della Famiglia e su di lui, quindi, era ricaduto il compito immediato di decidere del loro destino. Lui non era magnanimo come Tsuna, né altrettanto comprensivo. Le punizioni che aveva sancito erano state tutt’altro che clementi.

Dunque, anche se era stato declassato, non poteva lamentarsi più di tanto. In fondo, era ancora un Guardiano, continuava a vivere nell’ala della magione che gli era da sempre riservata, godeva di ottima salute e non aveva perso il rispetto dei suoi uomini.

Aveva perso il rispetto del suo Boss, però. Per una colpa che non riusciva ad accettare.

Tsuna era arrabbiato per come era andata la missione. Era arrabbiato perché non era riuscito a proteggerlo e perché lui non gli aveva concesso di farlo. Sapeva che, prima che potessero discuterne di nuovo, doveva quanto meno sbollire la rabbia.

Dopo due settimane, non era ancora successo.

Tsuna non gli si era avvicinato per nessun motivo, le sue missioni gli arrivavano per e-mail, i suoi incarichi erano stati ridimensionati, non lo aveva più chiamato per consultarsi come faceva puntualmente ogni sera alle diciotto, lo stava ignorando e basta.

Per quanto quella non fosse affatto tra le più crudeli delle punizioni mai sentite, non poteva non ritenerla comunque ingiusta.

Quando anche la terza settimana passò nel più totale silenzio, iniziò a sospettare che la sua non fosse una punizione momentanea, dettata dall’angoscia della situazione. E all’improvviso tutto iniziava ad apparirgli fin troppo sbagliato.

Veniva punito per aver fatto il suo dovere?

Quella sera a cena non prese posto a tavolo dei Guardiani, lasciando il posto alla destra del Boss totalmente vuoto. D’altronde non aveva più motivo di occuparlo, no?

E se Tsuna aveva qualcosa da dirgli, sapeva dove era la sua stanza e dove era il suo ufficio. Se voleva parlargli, sarebbe andato a trovarlo.

Non lo fece.

 

 

Per quanto potesse fingere indifferenza, Tsuna non poteva fare a meno di fissare il posto vacante alla sua destra.

Con quello era il quarto giorno che Hayato si rifiutava di sedersi a tavola con il resto della famiglia. Aveva interrogato i cuochi e i camerieri della magione per accertarsi non stesse saltando i pasti, ma a quanto pareva Gokudera preferiva mangiare da solo in camera sua.

Neanche a dirlo, la cosa non lo riempiva per niente di buon umore.

Immaginava una reazione da parte del suo Guardiano, che diamine si aspettava di vederne una molto prima a dirla tutta, ma non era quella che sperava.

Gli aveva inferto una punizione che non meritava e per i primi due giorni ancora la cosa andava bene. Era arrabbiato, voleva chiarire il suo punto di vista ed era un modo più che ragionevole di farlo. Dopo no. Dopo, si aspettava di vederlo sbroccare, di ritrovarselo sotto il muso ad urlargli addosso quanto si stesse comportando da idiota.

E per quanto la versione irosa di Hayato non mancasse mai di incutergli una forma di timore, era esattamente ciò che sperava di vedere.

Sarebbe stato tutto più semplice. Discutere, affrontare il problema, superarlo.

Invece, Hayato aveva preferito obbedire ai suoi ordini senza neanche pensare di metterli in discussione. E la cosa lo faceva ribollire di rabbia.

Il Guardiano della Tempesta era il suo primo e migliore amico, ma lo trattava come un capo. Tra un Boss e un subordinato non c’è amicizia, ma rispetto. Ed era esattamente quello che Gokudera gli stava mostrando.

Rispettava le sue decisioni, non lottava per la sua amicizia.

Hayato era nato nella mafia, la sua Famiglia era tra le più influenti dell’Alleanza, al punto tale che anche quando lui aveva lasciato la casa di suo padre non era stato abbattuto. Conosceva le regole della mafia meglio dei Dieci Comandamenti e, giacché era completamente ateo, erano anche le uniche leggi morali che rispettava.

Tsuna non poteva non saperlo, era Hayato che gli aveva insegnato l’etichetta esatta da seguire durante un incontro con un’altra Famiglia o come trattare gli affiliati alla Famiglia per assicurarsi la loro fedeltà e il loro rispetto.

Ma il fatto che lo sapesse, non significava gli andava a genio: finché sarebbe stato il suo Boss, Hayato avrebbe sempre considerato la propria vita meno importante della sua. E per lui era un concetto semplicemente inaccettabile.

 Sperava che punendolo senza motivo lo avrebbe spinto a mettere in discussione il suo ruolo di capo, o quanto meno a non idolatrarlo. Erano una squadra loro e al diavolo di quale fosse l’etichetta della malavita. Non gli interessava.

Era Vongola Decimo, era lui la legge, decideva lui l’etichetta. E lui aveva deciso che la vita dei suoi Guardiani era importante allo stesso modo della sua. O forse anche di più. Era lui il Cielo che li proteggeva e abbracciava tutti, stava a lui proteggerli.

Era diventato possessivo da quando era Boss. Forse era perché nella sua infanzia aveva avuto così poco, che crescendo avrebbe fatto qualunque cosa per i suoi amici e la sua famiglia. Se doveva lottare contro i preconcetti di Hayato per fargli capire quanto era importante per lui era disposto a farlo. Senza sconti e ad armi spiegate.

Anche se il fatto stesso che, anche quella mattina, Hayato Gokudera non fosse alla sua destra a fare colazione al suo fianco indicava che quella battaglia l’aveva persa.

 

 

Quando sentì bussare alla porta del suo studio, sapeva già si trattasse di Takeshi. Non c’erano alternative. O il suo istinto era piccato particolarmente, quella mattina.

“Avanti.”

Il Guardiano della Pioggia lo salutò con un cenno della mano, poi si avvicinò ad una delle due poltroncine di fronte la sua scrivania. Non si sedette. Non aveva intenzione di restare a lungo.

Poteva prevedere benissimo dove sarebbe andata a parare quella conversazione. Lo capiva dal sorriso plastico scolpito sul suo volto, un sorriso che non raggiungeva affatto gli occhi, ma gli tirava rigidamente uno spigolo di un labbro. Temette quasi che se lo manteneva ancora un po’ si sarebbe spaccato.

“Non ti siedi?” gli chiese solo per perdere tempo.

Non aveva paura di affrontare quella conversazione, ma non ne aveva neanche voglia. In più, sapeva che Hayato non avrebbe parlato con nessuno dei loro problemi, quindi non lo avrebbe fatto neanche lui.

Nah, sarò veloce.”

Takeshi era cresciuto con Gokudera e Tsuna, aveva trascorso con loro metà della sua vita. Non aveva bisogno di fare domande per sapere cosa fosse accaduto tra i due, né aveva intenzione di schierarsi da una parte o dall’altra.

Semplicemente, non capiva perché la tirassero tanto per le lunghe.

Kyoya e Mukuro litigavano prima e dopo i pasti, con una puntualità che rasentava il metodico. Si massacravano di botte e passava tutto. Certo, qualche volta qualcuno finiva in ospedale e qualche altra veniva giù una parete, ma niente di che. O per lo meno, niente per cui accumulassero ulteriore rancore.

Una discussione di settimane, per lui, non aveva senso. Non si sarebbe comunque intromesso nella faccenda, non tra i suoi due migliori amici.

“Dimmi, allora.”

Gli sorrise. E per un istante quel sorriso parve quasi sincero.

“Non ti farò da braccio destro. Non discuto la tua decisione di sollevare Hayato da quel ruolo, ma non sarò io a sostituirlo.”

Tsuna si alzò e si diresse verso il ripiano alla sua sinistra, dove la caffettiera era pronta a consolarlo in ogni occasione.

“Caffè?” chiese, inserendo una cialda.

“No, grazie.”

Riempì il bicchierino di plastica fino a un terzo e premette il tasto ‘Stop’. Il sapore di caffeina gli esplose sulle papille gustative qualche istante dopo. Quello e qualcos’altro. Poison cooking, rifletté ruotando la lingua intorno al liquido bollente nella sua bocca, tentando di distinguere quale veleno gli avrebbe contratto lo stomaco non appena avesse ingoiato.

Ingoiò.

Poi si voltò nuovamente verso il suo Guardiano.

“Non ti ho offerto quella posizione, Takeshi.”

Yamamoto sbatté gli occhi confuso, per un istante. “Bene.” Si grattò la testa. “Molto bene.”

Se avesse detto a Reborn che non riconosceva la sostanza nel suo caffè, il suo ex-tutor lo avrebbe addestrato di nuovo a suon di calci e veleni. Riconobbe i sintomi, però, quando lo stomaco si contrasse e sentì brividi all’altezza delle caviglie. Se avesse provato a parlare, il respiro corto lo avrebbe tradito.

Annuì soltanto.

“Bene, io vado, allora.”

Il Guardiano lo salutò con un sorriso. Il primo vero sorriso che gli rivolgeva da quella mattina.

 

 

Si asciugò con una mano la fronte madida di sudore. Per lo meno fece un tentativo, ma era ridotto ad uno straccio in ogni senso. Aveva il respiro pesante e i polmoni sembravano faticare a collaborare. Dentro. Fuori. Dentro. Fuori. Non era poi tanto difficile respirare, eppure in quell’istante gli sembra un’impresa insuperabile.

Chiuse gli occhi, lasciandosi cadere sulle ginocchia esauste. I muscoli tesi chiedevano perdono per quanto li avesse forzati. Come diavolo facevano quei due deficienti maniaci di baseball e boxe ad andare avanti per giorni con quei ritmi, senza stramazzare a terra morti?

Fu l’esperienza a rimetterlo all’erta. Aveva progettato quella stanza da solo, ispirandosi a quella che aveva realizzato la sua controparte del mancato futuro in cui Byakuran era un pazzo psicopatico – più di quanto lo fosse nella loro realtà. Ma aveva provveduto a perfezionarla a dovere.

Soprattutto, aveva inserito un fottuto comando vocale che, se attivato, cessava tutte le tempeste che minacciavano di trascinarlo con la loro irruenza e i robot che ne fuoriuscivano per aggredirlo.

Si coprì il volto appena in tempo per evitare che la ventata di sabbia lo accecasse e scartò di lato per puro istinto, mentre uno di quei fottuti robot gli veniva addosso puntando direttamente alla gola.

Il sistema di controllo era impazzito, doveva avvisare Spanner.

I robot iniziarono ad aggredirlo sempre più velocemente, costringendolo a ricorrere al Vongola Gear, per evitare di soccombere a quell’assalto. Quando le fiamme della tempesta li avvolsero, capì che non c’era nessun guasto da riparare.

“Sorella” mormorò con una smorfia.

L’altoparlante si attivò con un click.

“Non te la stai cavando male, per essere uno che a stento si regge in piedi.”

“Fottiti.”

Negli anni il loro rapporto era migliorato parecchio. Erano diventati fratelli sul serio. Bah, era abbastanza adulto da ammettere che lui era migliorato parecchio. Bianchi per lui c’era sempre stata, lui invece le aveva fatto scontare peccati che non aveva commesso.

Si sarebbe sentito in colpa, se sua sorella non fosse la stessa persona che lo aveva avvelenato ottocentosettantatré volte, in modi diversi. Sapeva ovviamente perché lo faceva, Shamal era stato un maestro per entrambi: il vizio di avvelenare la gente lo aveva preso da lui.

Quando in Bulgaria si era seduto a tavola con una Famiglia rivale, in veste di secondo al comando dei Vongola, aveva riconosciuto il veleno che stava ingerendo al primo boccone. Aveva continuato a mangiare, perfettamente consapevole che il suo organismo era ormai del tutto immune a quel pericolo, divertendosi ad alimentare le speranze di Don Petrov.

C’era voluta quasi mezzora prima che quel vecchio flaccido e bastardo si accorgesse che era totalmente immune alla stricnina e che non sarebbe caduto a terra in preda alle convulsioni.

Gli occhi bulbosi di quella palla di lardo avevano perso ogni divertimento, quando si era alzato in piedi, e si erano spalancati in preda al terrore appena aveva iniziato a camminare verso di lui. I proiettili normali non potevano nulla contro i suoi scudi, per cui se l’era presa comoda, gustandosi appieno il terrore di quello stronzo, mentre gli si avvicinava e infine gli fracassava la testa contro lo spigolo del tavolo.

Lo aveva risparmiato, Don Petrov aveva giurato eterna fedeltà ai Vongola e, l’ultima volta che lo aveva visto, quello si era pisciato nei pantaloni dalla paura. Tsuna lo aveva guardato senza capire, ma lui si era limitato a stringersi nelle spalle.

Doveva molto a Bianchi e le sarebbe stato pure grato, se quella stronza non avesse tentato di ammazzarlo almeno una volta a settimana. E a quanto pareva, oggi era il suo fottuto giorno fortunato, perché gli scorpioni avvolti dalla fiamma della Tempesta che lo aggredivano da ogni lato erano tutto meno che giocattoli, e se uno lo avesse punto lui sarebbe finito in shock anafilattico. Nel migliore dei casi.

Non sarebbe stato un gran problema quell’assalto, se non fosse già chiuso in quella stanza da sette ore, con i nervi a pezzi e i muscoli massacrati.

Dovette fare ricorso a tutta la disperazione del Coraggio di Morire della sua Fiamma, per riuscire a raggiungere l’uscita da quell’inferno.

“Stronza” sottolineò, appena la individuò nella zona di controllo.

Il sorriso che gli rivolse da sotto gli occhiali protettivi, che indossava a suo beneficio, gli ricordava da morire quello che lui aveva sfoggiato a Don Petrov prima di presentare ripetutamente il tavolo alla sua fronte. Eppure, benché se lo aspettasse e i campanelli d’allarme ci fossero tutti, Bianchi riuscì lo stesso a scaraventargli una delle sue torte direttamente in bocca.

Ottocentosettantaquattro.

 

 

La musica che sua madre aveva composto per lui.

Era una delle poche cose che riusciva a calmarlo, a distrarlo.

Come facesse Bianchi a conoscerla, non lo aveva mai capito, ma la suonava perfettamente, come se avesse passato mesi, anni a provarla ancora e ancora.

Solo per lui, probabilmente.

Bianchi non aveva mai perso le speranze con lui e, alla fine, Hayato era stato costretto ad imparare ad amarla come sorella maggiore. Avrebbe ucciso per lei, non che Bianchi avesse bisogno della cavalleria.

Il calcio al materasso che per poco non lo fece volare via dal letto, lo distrasse dai sentimentalismi.

“Si è svegliato, il coglione.”

Aveva una nausea terrificante. Quello scossone era l'ultima cosa che gli servisse.

“Muori, vecchio del cazzo.”

Shamal non si scompose, ma assestò un secondo calcio al letto per buona premura.

Bianchi, imperterrita, continuava a suonare il pianoforte a coda, nell'angolo della sua stanza, come se non stesse accadendo nulla.

“Bevi.”

Guardò il bicchiere che il dottore gli porgeva con aria interrogativa. Shamal e i suoi mosquitos non erano molto meglio di Bianchi. Fu quando allungò il braccio per afferrare il bicchiere, che si accorse della flebo attaccata al braccio.

“Un integratore salinico. Eri disidratato.”

Bevve prima di chiedere cosa fosse. Shamal aveva sostituito il ruolo di suo padre da anni, o quanto meno quel vecchio rompipalle ne era convinto.

Hayato era anarchico per scelta e vocazione, ma sapeva scegliere le proprie battaglie. Almeno in genere.

Il calcio che lo colpì ad un fianco, non appena restituì il bicchiere, gli fece cambiare idea.

“Fanculo, stronzo.”

“Esattamente, il tuo piano qual era? Suicidarti?”

Roteò gli occhi al soffitto, solo perché era troppo spossato per alzare un dito medio.

“Mi stavo solo allenando. Se voi due non rompeste così tanto il…”

Il calcio in bocca lo fece sdraiare di nuovo.

“Hai bisogno di riposo, Hayato.”

“Ho bisogno che vi leviate dalle palle e che mi lasciate in pace” biascicò, mentre tentava di rimettersi seduto.

Bianchi intonava il ritornello di quella melodia che gli toccava l’anima. Era insieme un dono e un tormento.

“Non te l’ho esattamente chiesto, Hayato.”

Gokudera non era stupido. E con Shamal c’era cresciuto. Fu allora, e non perché provò a muoverle, che capì che le sue gambe erano totalmente immobilizzate. Il fa diesis si prolungò per un’ottava di troppo.

“Io sono un mercenario, Hayato, non sono fedele ai Vongola. Né a nessuno” gli ricordò distrattamente il suo mentore, giocando con una siringa.

“Stai minacciando il Decimo?”

Shamal inserì l’ago poco sotto la giuntura tra la sacca della flebo e la cannula. “Forse sì, forse no.”

Sham…”

“Dormi. Il dottore ti ha prescritto tre giorni di assoluto riposo. Ne riparleremo quando ti svegli.”

 

 

Fu Ryohei, non Shamal, a consegnargli il referto medico. Tsunayoshi non si fece domande sulla cosa, conosceva già le risposte. Il Guardiano del Sole entrò nel suo studio spalancando la porta con più forza di quanto ne fosse necessaria. Ma questo era più o meno normale.

Lo sguardo di biasimo, con cui gli lanciò il referto sulla scrivania, non lo era. Aveva avuto per tutor il killer più efficiente che la storia ricordasse, sapeva riconoscere una critica quando ne riceveva una, senza bisogno di parole.

Ma Ryohei, in generale, non era mai stato troppo silenzioso. Quindi, bussò con le nocche delle dita sul tavolo della scrivania, come ad attirare la sua attenzione, non che si fosse distratto nel mentre.

“Datti un’estrema svegliata” lo riprese. Ed uscì dalla sua stanza.

Tsunayoshi, rimasto solo, sbuffò pesantemente, ravviandosi i capelli ribelli. Aveva avuto una pessima sensazione tutto il giorno. Aveva percepito che Hayato si fosse buttato totalmente sul lavoro, ma un referto medico era molto più di quanto si aspettasse.

Aveva ignorato il suo istinto e aveva sbagliato.

Il referto che lesse gli gelò il sangue nelle vene.

Hayato si era allenato fino allo sfinimento, al punto che Shamal lo aveva dovuto sottoporre a due flebo. La situazione gli stava sfuggendo di mano, ma se c’era una cosa che gli era chiara era che il suo braccio destro non aveva assolutamente capito un cazzo.

 

 

Quando aprì gli occhi si aspettava di rivedere sua sorella al suo capezzale. O Shamal per continuare la lite di tre giorni prima.

Lo sperava. Si sentiva in forze e moriva dalla voglia di prenderlo a calci in culo. Lo aveva addormentato per tre giorni senza il suo consenso.

Avrebbe mentito se avesse detto di non sentirsi come rinato, ma i coglioni gli giravano lo stesso.

Quando riconobbe il suo Boss, in piedi accanto al suo letto, dovette ingoiare la voglia di uccidere il medico e il buon umore.

“Decimo” sbuffò, con una curiosa sensazione di déjà-vu. Avrebbero litigato di nuovo? Avrebbero finalmente chiarito la questione? Era pure ora.

Per quanto si dichiarasse completamente diverso da quell’idiota fissato col baseball, Gokudera e Yamamoto avevano punti di vista molto simili, quando si trattava di affrontare una discussione. Qualche cazzotto ed è tutto risolto. Oppure, ci scappa il morto. Pazienza.

Quella storia, invece, gli stava logorando i nervi.

Hayato.”

“Come posso esservi utile?” mormorò, mettendosi a sedere e cercando di darsi un contegno.

Era assurdo come si sentisse in grado di spaccare una montagna a mani nude, ma le articolazioni gli crogiolassero quando provava a muoversi.

Tsuna lo guardò per un tempo indefinito. Faticava a tenere a bada la Fiamma della disperazione che lo incendiava dentro. La voglia di afferrarlo, scuoterlo ed urlare. Urlare e basta.

Ma che avrebbe risolto?

Aveva minacciato di ammazzare Shamal, quando si era rifiutato di dirgli perché Hayato non si risvegliasse. Il dottore si era difeso, o forse cercava solo un pretesto. Non era finita molto bene. Riportavano ancora entrambi i danni.

La ferita più grave, però, Shamal gliela aveva inferta quando gli aveva rinfacciato che se Hayato era in quello stato comatoso, la colpa era solo sua. O quando gli aveva descritto nel dettaglio i sintomi che mostrava prima che decidesse di addormentarlo.

Si era lasciato colpire ripetutamente di proposito. E per tutto il tempo, si era chiesto come mai Shamal non picchiasse per uccidere, ma solo per ferire.

Dopo quello scontro, aveva sfruttato ogni momento disponibile per infondere la propria Fiamma dell’Armonia in Hayato per rinvigorirlo corpo e mente.

Proprio come aveva fatto qualche settimana prima, quando lo aveva deposto dal suo ruolo di braccio destro, per non aver capito l’importanza della propria vita.

Poteva tranquillamente dedurne che, da allora, Hayato non avesse capito un cazzo.

Era furente.

E deciso a tirare la corda.

“Non puoi essermi utile” rispose gelido, come il ghiaccio dello Sfondamento del Punto Zero che gli congelava l’anima.

“Decimo?”

“Che utilità può avere per me un Guardiano che si invalida da solo?”

Hayato era a corto di parole. O forse era l’effetto prolungato del sonnifero. O l’imminente bisogno di svuotare la vescica. In ogni caso, boccheggiò soltanto. Aprì la bocca per rispondere, ma non emise alcun suono.

“Consegnami il Vongola Gear, Gokudera. Non lo meriti.”

Probabilmente, se il sonnifero non lo avesse stonato troppo, si sarebbe ribellato. Se la vescica gli avesse dato tregua, avrebbe temporeggiato. Se non fosse stato mortalmente deluso, avrebbe difeso la sua causa.

In quel momento però, aveva solo bisogno di tornare a respirare. La presenza di Tsunayoshi Sawada gli levava tutto l’ossigeno in stanza.

Si alzò senza una parola e gli lanciò la cintura, sulla cui fibbia era scolpita l’effige di Uri.

“Se è tutto, sapete dov’è la porta” gli disse soltanto, prima di rimettersi a letto.

Era nuovamente sgonfio di energie, un palloncino bucato da un bambino capriccioso.

Non si accorse della rabbia con cui Tsunayoshi afferrò la sua arma, né del passo furente con cui lasciò la sua stanza, prima di sbattere la porta. Non gli interessava.

 

 

Mosse la testa appena in tempo per evitare il proiettile che minacciava di entrargli nell’occhio destro.

Reborn era svaccato sul divano alla sinistra del suo studio. Fingeva di star continuando a leggere un report che aveva finito di analizzare già da una buona mezzora, e nel mentre gli sparava di tanto in tanto per buona misura. Quando si distraeva. O quando non faceva quello che avrebbe dovuto. O quando semplicemente ne aveva voglia.

Era uno dei passatempi preferiti dell’hitman.

Tsuna aveva smesso di far caso a quelle stranezze o di tentare di capirle.      

“Sai quello che stai facendo?” gli chiese Reborn, sedendosi di fronte a lui.

“Sì” rispose solamente, continuando a sorseggiare la sua tazzina di caffè espresso, accompagnando ad ogni sorso una smorfia.

“Ti ricordi come ti chiami?”

Non ci provò nemmeno a capire il senso della domanda. “Non sono in vena per i tuoi giochetti mentali, Reborn.”

“Rispondi alla domanda.”

Roteò gli occhi al cielo esasperato. “Certo che me lo ricordo.”

“Ebbene?”

Tsunayoshi Sawada, contento?”

“Chi è tua madre?”

“Nana Sawada” sbuffò.

“E tuo padre?”

“Una testa di cazzo.”

Mh” commentò l’hitman, con uno sguardo che pareva perforargli il cranio da parte a parte. Non si fermò a sottolineare che, se Tsuna fosse stato anche solo vagamente di buon umore, non avrebbe mai risposto in quel modo. “Allora non sei impazzito.”

Tsuna gli lanciò un’occhiataccia.

“Ti ho detto che so quello che faccio.”

“Quindi, sai anche che quel caffè te lo ha preparato Bianchi, vero?”

Non sapeva esattamente cosa si aspettava a quella domanda, ma il suo pupillo si limitò a guardarlo come se attendesse che continuasse o qualcosa del genere.

“Sai anche che sono giorni che avvelena i tuoi pasti, vero?”

Tsuna sbuffò, appoggiandosi pesantemente allo schienale della poltrona.

“Senti, se stai pensando di punirla, non ce n’è bisogno.”

“Non sto pensando di punirla. Mi chiedo perché tu abbia deciso di punirti. Se sei sicuro di star facendo la cosa giusta con Hayato, perché lasci che Bianchi ti avveleni?”

Aveva passato gli ultimi giorni massacrato dai crampi e a vomitare anche l’anima. Non aveva molti dubbi sul motivo per cui fosse successo. Né aveva tentato in nessun modo di farla smettere.

Anche Shamal c’aveva dato del suo, ma non sapeva se Reborn ne era a conoscenza e non aveva intenzione di comunicarglielo.

Per quel che gli riguardava, se lo meritava.

Il suo migliore amico stava soffrendo e per colpa sua. Il minimo che potesse fare era soffrire anche lui.

“Quindi, cosa intendi fare? Continuare a farti avvelenare, fino a quando Hayato non avrà imparato la lezione che stai cercando di impartirgli?”

Tsuna non rispose. Aveva riposto il Vongola Gear della Tempesta nel primo cassetto della sua scrivania e l’aveva sigillato con la propria Fiamma del Cielo per assicurarsi che nessuno potesse rubarlo. Non aveva mai protetto un oggetto con tanta cura, a ben pensarci.

L’espressione tradita del suo migliore amico, quando aveva esatto glielo consegnasse, continuava a tormentarlo giorno e notte. Lo aveva deluso e lo sapeva. In realtà, era esattamente ciò che aveva desiderato. Ma Hayato era così fedele alle leggi della mafia che aveva ceduto senza lottare.

Non esattamente il risultato che sperava di raggiungere.

Trangugiò il resto del caffè in un sorso soltanto, quasi a sfidare il killer. “Come ti ho detto, so perfettamente quello che sto facendo.”

Reborn annuì e abbassò la tesa del cappello sulla fronte, celando al suo allievo il suo sguardo.

 

 

Hayato era un fascio di nervi quando Lambo lo raggiunse come un tornado in biblioteca. Continuava a leggere il volume su teoria del caos e sistemi complessi, annotando formule e teorizzando come applicarle alla propria tecnica, ma sapeva di star facendo un lavoro abbastanza misero. Era frustrato e continuava a giocare con l’accendino con scatti nervosi. Accendeva la fiamma, la rispegneva, l’accendeva di nuovo, e per poco non dava fuoco un po’ a tutto.

Hayato!”

La voce del ragazzino nelle orecchie era come unghie che stridevano su una lavagna. Fastidiosa, rumorosa, indesiderata.

Non rispose affatto.

Hayato, mi devi aiutare” esordì il ragazzo sedendosi di fronte a lui e scaraventando senza troppa grazia i propri libri sui suoi appunti.

Da quando vivevano nella magione, lui e il Guardiano del Fulmine avevano sviluppato un rapporto alquanto particolare.

Tsuna era a tutti gli effetti il tutore legale di Lambo. Era il suo boss e suo fratello. Ma Tsuna era anche quello che tendeva a viziare in maniera spropositata sia lui, che I-Pin e Futa.

Hayato aveva preso su di sé il ruolo di assicurarsi che il Bovino rendesse onore alla Famiglia, per cui badava che studiasse, che si allenasse costantemente e che non facesse in generale cazzate.

Lambo odiava i suoi metodi – per lo più violenti – ma adorava essere al centro dell’attenzione. E, soprattutto, rispettava il ruolo che aveva nella sua vita, per quanto se ne lamentasse.

Quando il ragazzo si sedette di fronte a lui, Gokudera sapeva esattamente perché. Aveva un compito in classe di matematica il giorno dopo, aveva paura di non passarlo e aveva paura della sua reazione se non avesse portato a casa un buon voto.

Se fosse accaduto qualche settimana fa, sarebbe stato lui a presentarsi in camera del giovane Bovino e trascinarlo per un orecchio in biblioteca a studiare. Adesso, francamente, non ci riusciva proprio a preoccuparsi anche dei problemi degli altri.

D’altronde, adesso non aveva nessun diritto di urlare contro la giovane Tempesta. Lambo era un Guardiano. Lui non più.

“Ohi, Stupidera, mi stai ascoltando? Devi aiutarmi a capire un esercizio.”

“Non devo fare niente. Sparisci.”

Lambo sbuffò palesemente, stravaccandosi davanti a lui. Si riavvio i ricci ribelli sulla testa. Se fosse stato il moccioso di un tempo, avrebbe fatto una scenata incredibile a quel rifiuto. Per fortuna, crescendo era molto più calmo e molto più annoiato da spendere energie in quel modo. O in qualunque modo.

“Scusa, per favore. Ho bisogno di passare questo test, perché se no il mio maestro dà di matto. Dovresti conoscerlo, è un tipo irascibile con un polipo in testa” lo prese in giro con un sorriso ironico.

La battuta non lo divertì affatto.

“Lambo” lo richiamò con un tono così tagliente che il ragazzo addrizzò di istinto la schiena. “Sparisci.”

Il giovane Guardiano tentennò, agitandosi inconsciamente sulla sedia. “Ma…”

“Ti ho detto sparisci.”

Lambo scattò in piedi in un baleno. Poche volte aveva disobbedito all’uomo che considerava in tutto e per tutto il suo maestro e nessuna di quelle era finita bene per lui.

Eppure, per quanto potesse essere maturato, Lambo a quindici anni ricordava ancora molto il bambino frignone che era stato dieci anni prima.

“Comunque, non è giusto che te la prendi con me, solo perché Tsuna si sta comportando da imbecille” mormorò contrito.

Sentì una mano che gli si stringeva intorno al collo, prima ancora di realizzare che Hayato si era alzato dalla sedia e si era sporto verso di lui, facendo leva sulla scrivania.

Non ti azzardare mai a parlare in questo modo del Decimo.”

Non stava tentando di strangolarlo, ma la presa era punitiva e Lambo non poté trattenere un colpo di tosse. Le lacrime gli si accumularono agli angoli degli occhi e per quanto si ripeté di resistere, si ritrovò a frignare proprio come il bimbo che era stato.

“Sei cattivo” biascicò tra le lacrime e la tosse. “Io non ti ho fatto niente.”

Hayato lo lasciò andare con un vago senso di colpa che si faceva spazio tra la frustrazione e la rabbia. Non aveva tentato di fargli del male, eppure il segno delle sue dita sulla pelle candida del collo del ragazzino raccontavano un’altra storia.

Se la stava prendendo con il moccioso che considerava come un discepolo e, che diamine, come un fratello.

“Piantala” lo riprese perché non riusciva a tollerare quel pianto isterico. Lo feriva in una maniera che non poteva spiegare e al momento aveva troppe ferite da sopportare.

Lambo si impegnò a trattenere i gemiti e le lacrime, ma i singhiozzi lo scuotevano da capo a piedi. Si voltò per andarsene come gli era stato ordinato.

Gokudera prese un sospiro profondo e chiuse gli occhi per un istante. Fanculo, tanto non stava comunque combinando niente di buono.

“Siediti. E apri il libro. Fammi vedere questi esercizi.”

Lambo obbedì, guardandosi bene dal contraddirlo o dal rivelargli che ormai non ne aveva più voglia. Iniziò a studiare, tenendo sempre gli occhi bassi sul quaderno a quadretti, e Hayato non poté resistere per più di una breve manciata di minuti.

“Scusa. Senti, mi dispiace. Non dovevo.”

Lambo singhiozzò ancora. La testa affondata nelle spalle. “Ti perdono” disse più per riflesso, che non perché ci credesse veramente.

Hayato aveva voglia di vomitare. Lambo non faceva neanche lo sforzo di guardarlo negli occhi. Scriveva formule su formule, ascoltando quello che gli diceva e parlando solo se interrogato.

Se si fosse scusato di nuovo, lo avrebbe perdonato di nuovo e non sarebbe cambiato niente.

Era una fortuna che non fosse più il braccio destro del Decimo, si ritrovò a riflettere amaramente, perché non era così che si comportava un vicecapo. Non inculcava terrore in un suo compagno solo perché più giovane.

Quando Lambo voltò la pagina del libro, pose automaticamente una mano sul foglio coprendogli la visuale e costringendolo ad alzare su di lui uno sguardo interrogativo.

Scoprì con una punta di sorpresa che in quel momento non gli interessava affatto comportarsi da bravo braccio destro, ma non aveva passato tutti quegli anni a prendersi cura del moccioso, solo per perdere il suo rispetto in un attacco di rabbia male indirizzata. Non era per fare un favore a Tsuna o per il bene della Famiglia, che aveva cresciuto il giovane Bovino come se fosse suo fratello, per cui non aveva nessun motivo, né nessun intento di smettere di farlo.

“Ohi, se domani fai un lavoro decente al compito, ti porto al ristorante giapponese e puoi ordinare tutti i takoyaki che vuoi” gli promise.

Gli occhi del Guardiano del Fulmine si illuminarono immediatamente, come se avesse totalmente dimenticato l’ultima mezzora trascorsa.

“Davvero, davvero?”

“Ti sembro il tipo che parla a caso? Adesso datti da fare.”

Quando riprese a spiegargli gli esercizi, gli occhi di Lambo erano fissi nei suoi e lo guardavano con la stessa luce che possedevano ogni volta che gli insegnava qualcosa. Trasudavano stima e affetto. Tutto sommato, non aveva affatto bisogno di un titolo, per ricoprire il ruolo che gli spettava.

 

 

Lambo trasalì sul letto quando Tsuna, appena dopo cena, entrò in camera sua senza bussare o senza preavvisi.

Non era il suo modo di fare e, se c’era una cosa che aveva imparato negli anni, era che Tsuna agiva fuori dagli schemi solo quando era fuori di sé dalla rabbia.

Il giovane uomo, ancora vestito in giacca e cravatta, si fermò ai piedi del letto, le mani ben rigide in tasca.

“Lambo, cosa ti è successo al collo?”

Lambo sussultò di nuovo, portandosi una mano alla gola inconsciamente.

Aveva dimenticato l’incidente con Gokudera quel pomeriggio, non aveva pensato che quel trambusto potesse lasciargli segni addosso, né tantomeno aveva cercato di coprirli.

“Non è niente” biascicò appena sperando che bastasse a chiudere la conversazione.

Tsuna lo aveva sempre difeso da bambino, per quanto si lagnasse di non voler badare a lui. Crescendo era maturato da tanti punti di vista, adesso non si lagnava più. Ma era diventato iperprotettivo.

Aveva ucciso per proteggere lui e I-Pin. Glielo aveva visto fare con i suoi occhi. Quindi, non sapeva neanche perché sperasse che quella risposta potesse accontentarlo.

Tsuna non lo riprese nemmeno, si limitò a guardarlo con un sopracciglio inarcato. E in quel momento, Lambo realizzò che non era solo diventato iperprotettivo, era diventato Reborn. Esigente, autoritario, spietato all’occorrenza, ma la famiglia sempre al primo posto.

Si schiarì la gola con un colpo di tosse, poi indossò con cura l’espressione svagata e sfoggiava praticamente in ogni momento. “Ho litigato con un compagno a scuola, ma è tutto risolto” mormorò sventolando una mano come se volesse scacciare via il problema.

Il Boss dei Vongola si sedette sul letto accanto a lui. Non levò le mani dalla tasca, come se volesse mostrarsi totalmente inoffensivo.

“Lambo” lo riprese. Il tono era in qualche modo più rigido e più caloroso al tempo stesso. “Non mentirmi.”

Se c’era un’altra cosa che Tsuna nel tempo aveva affinato era il super intuito dei Boss Vongola. Lambo non sapeva nemmeno perché si sprecasse a fare le domande, se conosceva già la risposta.

“Non è stata colpa sua, va bene? Sono io che lo ho disturbato quando non dovevo…” mormorò con un filo di voce, che tradiva totalmente la sua età, guardando le proprie mani incrociate per tutto il tempo.

“Non devi giustificarlo, Lambo.”

“Non è stata colpa sua!” insisté. Alzò la testa e gli occhi di scatto con una realizzazione improvvisa. “E’ stata colpa tua! E’ tutta colpa tua! Hayato è un Guardiano e il tuo braccio destro e tu ti stai comportando come un idiota!” lo aggredì.

Tsuna rimase esterrefatto a quello sfogo giovanile.

Lambo restò col fiatone e la vaga considerazione che aveva appena insultato il decimo Boss dei Vongola, che già non era di ottimo umore. Gokudera lo avrebbe ucciso se fosse stato presente.

Il Cielo invece non fece nulla di tutto ciò. Sollevo una mano solo per scompigliarli i ricci già ribelli.

“Lo so.”

Lambo lo guardò confuso. “E allora perché lo fai? Lui non si merita tutto questo.”

“Per lo stesso motivo per cui costringo te a mangiare le verdure, anche se non ti piacciono.”

“Perché sei cattivo e antipatico?”

Tsuna rise di cuore a quella domanda e al broncio che lo accompagnava.

“Perché mi preoccupo per te e farei qualunque cosa per farti stare bene. Anche se non ti piace.”

“Sei preoccupato per Hayato?” gli domandò, insicuro. Quando Tsuna non rispose, Lambo abbassò di nuovo la testa, concentrandosi su una pellicina che all’improvviso gli dava un fastidio immenso. “Non c’è bisogno che lo sgridi, sai? Mi ha già chiesto scusa e mi ha promesso che non lo farà più. E poi io sono forte, non c’è bisogno che tu gli dica nulla.”

Tsuna gli sorrise indulgente, come il fratello maggiore che era, capendo più di quanto Lambo riuscisse a dirgli.

“Andrà tutto bene, fidati di me.”

“Va bene.”

Quando Lambo gli si piantò addosso in un ormai raro abbraccio – non manifestava spesso il suo affetto da quando si sentiva un uomo – Tsuna pensò che era esattamente quello di cui aveva bisogno.

Della sua famiglia.

 

 

“Lo sai, da ragazza ero follemente innamorata di Tsuna.”

Non fece neanche lo sforzo di aprire gli occhi e guardarla. “Da ragazza eri irritantemente innamorata di Tsuna” precisò.

Haru si alzò a sedere poggiandosi sui gomiti, a conti fatti smuovendo il lenzuolo così tanto da lasciargli la schiena scoperta.

“Eri geloso?” gli chiese, mentre lui si metteva supino e si buttava un braccio sugli occhi.

Perché diavolo aveva acceso l'abatjour?

“Sinceramente no. Ma eri irritante.”

Gli mollò uno schiaffetto sulla spalla. “Beh, non è che tu mi fossi poi tanto simpatico.”

Ghignò spontaneamente. Innervosire quella donna era ancora troppo semplice.

“E comunque Tsuna era buono, dolce, affabile, si prendeva cura di tutti, sempre.”

Mugugnò soltanto. La pensava allo stesso modo, non aveva molto altro da aggiungere.

Haru aspettò a vuoto una reazione per qualche minuto, poi si decise ad andare avanti. “Da ragazzo, anche tu eri innamorato di Tsuna.”

Spostò il braccio appena, quello che bastava per aprire un occhio solo e squadrarla più o meno attentamente.

“Non sono mai stato...”

“Non in quel senso. Ma Tsuna è stato il tuo primo amico, il primo a credere in te, ti ha dato una casa, un posto nella Famiglia e tu gli hai giurato fedeltà.”

Non sapeva dove stesse andando a parare, ma capì che non lo avrebbe lasciato dormire.

Afferrò il pacchetto di sigarette sul comodino e ne accese una, appena si mise comodo contro il cuscino. Agli inizi, Haru aveva odiato il suo vizio di fumare a letto. Ormai aveva smesso di farci caso.

“È normale, chiunque al tuo posto lo avrebbe fatto. Tsuna meritava la tua lealtà.”

“Cosa stai cercando di dirmi?”

“Che solo perché hai fatto una promessa a 14 anni non sei tenuto a rispettarla, se quello che vedevi in lui viene meno.”

La scrutò attentamente, incurante di soffiarle il fumo addosso.

“Tu vuoi farti ammazzare” concluse.

“Mi farai ammazzare?”

Era nato e cresciuto nella mafia, conosceva le regole del gioco più di chiunque altro in quella famiglia, anche più di quel bastardo di Rokudo. E nel gioco della mafia chi tradisce il Boss, viene torturato e ucciso. Diventa un esempio per tutti gli altri.

Lo sapeva di persona. Aveva provveduto a dare ordini precisi quando si trattava di punire qualche talpa. E a suo avviso, chi tradiva il Decimo non meritava pietà o perdono.

Aveva costretto tutti i suoi uomini ad assistere, al solo fine di mostrare loro cosa accadeva a chiunque pensasse di fare il doppio gioco con la Famiglia.

Tsuna non aveva mai apprezzato particolarmente il suo metodo di trattare con quegli scarti umani, ma da quando quella troia di Sabrina aveva spinto Takeshi a diventare un assassino, il suo perdono doveva essere meritato.

Hayato non perdonava. Mai.

La mafia era ancora più spietata.

Sì alzò dal letto. Sentiva il bisogno di una doccia.

“So cosa si prova quando qualcuno che ami ti delude.”

Si fermò e si voltò verso di lei, continuando imperterrito a fumare.

“Non dovresti parlare così del Decimo Don della Famiglia più importante della mafia.”

“Non sto parlando di lui, sto parlando di te.”

Inarcò un sopracciglio.

“Di me?”

Anche Haru scese dal letto e gli andò incontro.

“Ti sei preso un proiettile che non spettava a te, sei finito in coma.”

“Ero il fottuto braccio destro della Famiglia, era il mio compito farlo. È esattamente ciò che ci si aspettava da me. Te l'ho detto dall'inizio”

Perse la pazienza. “Beh, allora sono contenta che Tsuna ti abbia declassato.”

Anche lei era ancora brava a farlo incazzare.

Si chiuse in bagno, prima di dire qualcosa che potesse ferirla.

Quando uscì dalla doccia, lei era ancora seduta sul letto ad attenderlo.

“Il giorno che capirai che sei più di questo, sarà sempre troppo tardi.”

“Non so dove vuoi andare a parare, ma vorrei che mi lasciassi tornare a dormire. Grazie.”

“Pensi che venga a letto con te perché eri il braccio destro di Tsuna?”

“No, solo perché lui si rifiuta di farlo e mi hai fatto pena” ribatté con sottile nota acida.

Quella cosa tra loro era iniziata come un modo come un altro per ammazzare la noia e sfogare gli ormoni.

Non sapeva quando fosse diventata importante.

“Già, sei solo il mio trastullo momentaneo, è per questo che sto con te da cinque anni.”  Si sdraiò di nuovo sul letto, senza risponderle e lei continuò. “Lambo fa affidamento su di te perché sei o eri il braccio destro di Tsuna, non perché ti considera un modello da imitare. Gli altri Guardiani ti rispettano solo perché eri più in alto nella scala gerarchica, non perché hai lottato in prima fila al loro fianco e salvato loro la vita in centinaia di occasioni. Reborn ti stima solo perché eri il braccio destro di Tsuna, non per la tua lealtà e dedizione alla famiglia.”

Sarebbe dovuta durare due ore la loro storia, invece erano ancora lì. Non avrebbe saputo spiegarne il motivo neanche volendo.

Non erano ufficialmente una coppia, né avevano mai festeggiato un anniversario insieme, non avevano una data che avesse sancito la loro unione, se di unione si poteva parlare.

In compenso, aveva sempre rifiutato le avances di tutte le arrampicatrici sociali che avevano provato a far carriera nella Famiglia portandoselo a letto. Donne bellissime, pronte a far qualunque cosa pur di bere il suo seme o magari portare in grembo suo figlio. Gli davano repulsione.

L'ultima volta che un Don gli aveva offerto la mano della figlia in dono, per poco non lo aveva sparato in mezzo agli occhi.

Quella sera, aveva piegato Haru esattamente sullo stesso spigolo del letto su cui sedeva adesso e l'aveva scopata prima fino a farle urlare il suo nome, poi fino a farle perdere la voce.

Agli inizi, si era ripetuto che era solo una scelta strategica: non avrebbe mai preso una compagna che non fosse fedele quanto lui alla Famiglia, di cui non si fidasse ciecamente o che avesse potuto infrangere l'omertà.

Haru era solo la scelta migliore per trascorrere un paio di ore di passione, senza conseguenze.

Poi era ricapitato. Ancora e ancora.

Ora lei gli bendava le ferite e lo ascoltava quando si lasciava sfuggire dettagli del suo passato o del suo lavoro, in preda alla frustrazione. Non gli faceva mai domande, non gli chiedeva mai più di quello che potesse darle, si limitava a massaggiargli i nervi del collo quando capiva che qualcosa non andava.

In cambio, lui le aveva insegnato a difendersi e a sparare, e le aveva curato la febbre quando Bianchi e Shamal avevano iniziato ad avvelenarla e infettarla per fortificare il suo sistema immunitario.

Il fatto che le uniche due persone che considerava membri della sua originaria famiglia si fossero fatte carico di addestrarla a modo loro, gli aveva fatto capire che la loro tresca non era poi tanto segreta.

Aveva scoperto di odiare le mattine in cui non si svegliava al suo fianco, che non sopportava il tocco delle altre donne che tentavano di lusingarlo durante le serate di gala o assistere alle scenate patetiche di qualche testa di cazzo che ci provava con lei.

Non le aveva mai chiesto se fosse ancora innamorata di Tsuna, ma non si era mai ripreso l'anello che gli aveva sfilato giocosamente dal mignolo una sera e lei non aveva mai smesso di portarlo al pollice.

Il che spiegava esattamente perché non l'avesse ancora mandata al diavolo, nonostante quella tirata.

“Ho capito l'antifona.”

“No, non l'hai capita.”

“Donna, sono le tre di notte. Dormi. E lascia dormire me.”

Da ragazzo prima di chiamarla donna badava bene ad aggiungere stupida. Sapeva fosse tra le più intelligenti della sua scuola, ma lo irritava abbastanza da guadagnarsi quell'appellativo.

Quando gli salì a cavalcioni sul ventre, pensò che da ragazzo era illuminato da profonda saggezza. Non era difficile da capire ‘dormi’.

“Anche se tu lasciassi la Famiglia ti seguirei.”

Non sapeva chiaramente di cosa parlasse.

“Morirò, prima di lasciare la Famiglia.” In un caso o nell'altro.

Haru rimase in silenzio per qualche istante, comunque troppo pochi.

“Se Tsuna non capisce quanto tu gli sia fedele, forse non se lo merita.”

“Se fossi un’altra persona ti avrei già strappato la lingua” la informò, tanto per fare. L’aveva oggettivamente massacrata durante gli addestramenti, ma non le aveva mai fatto del male altrimenti.

“Ma se tu non capisci quanto sei importante, forse sei tu a non meritare un ruolo nella sua vita.”

Tacque, la fissò attentamente negli occhi per un tempo indefinito.

“Stai parlando di Tsuna, o di te?” Le chiese, infine.

Haru si strinse nelle spalle. “Fai un po’ tu” ribatté scendendo dal suo corpo.

Rimase a guardarla senza parlare, mentre raccoglieva intimo e vestiti. Non la fermò neppure quando lasciò la sua stanza.

E non riuscì a chiudere occhio lo stesso.

 

 

Tsuna sbuffò pesantemente rileggendo i documenti che gli ricordavano l’incontro di quel pomeriggio. Aveva ancora i crampi allo stomaco dopo la colazione a base di Poison Cooking.

Il brutto della mafia era che si metteva sempre in mezzo, in qualunque occasione. Non poteva mancare all’incontro alla villa dei Montesanti, non quando vi sarebbero state le più influenti Famiglie mafiose, molte delle quali avrebbero interpretato la sua assenza come un affronto personale.

Inoltre, molti dei capi dei suoi nemici sarebbero stati presenti ed era il modo migliore per riuscire a tenerli d’occhio.

Doveva assolutamente partecipare e doveva rispettare l’etichetta: sarebbe stato accompagnato da tutti e sette i suoi Guardiani, ma solo il suo braccio destro aveva il diritto e il dovere di assistere alla riunione.

E nonostante tutto quello che era accaduto negli ultimi giorni, lui aveva un solo ed unico braccio destro. Hayato Gokudera, il suo migliore amico.

L’urgenza di quell’incontro lo costringeva a forzare la mano. Doveva superare il problema subito, prima che entrambi fossero usciti da quella magione indossando la maschera di bravi mafiosi. Prima che quell’errore potesse ripetersi un’altra volta.

Non avrebbe mai voluto spingersi a tanto, ma sperava solo che, almeno questa volta, tutto andasse per il meglio.

Doveva, o avrebbe fatto cadere il suo bluff.

In quel caso, ne sarebbero usciti senza vincitori o vinti e, prima o poi, tutto sarebbe ricominciato. Ingoiò a vuoto ed indossò la maschera del Boss mafioso.

 

 

Quando Hayato Gokudera raggiunse la stanza del Decimo, non era entusiasta di farlo. Sospettoso, più che altro. Dopo essere stato respinto sia come braccio destro che come Guardiano, non sapeva più cosa aspettarsi.

Aprì la porta ed entrò a passo deciso, fermandosi giusto ad un metro dalla scrivania prima di esibirsi in un inchino decoroso. L’occhio gli cadde sulla scrivania in mogano del Boss dei Vongola, insieme al caos creato dalla solita montagna di scartoffie, sul banco facevano bella mostra di sé una pistola e il suo Vongola Gear.

Non riusciva a capire che diamine significasse, gli stava restituendo il suo posto come Guardiano? Come lo sciocco che era, la speranza lo avvinse, prima che potesse riflettere sulla situazione.

Lo aveva perdonato.

“Decimo, mi avete fatto chiamare?” chiese retorico, con un sorriso che gli si formava sulle labbra.

Tsuna si fermò un istante a guardarlo, chiuse gli occhi e si appoggiò pesantemente allo schienale prima di riaprirli.

“Sì, Hayato.”

“Ditemi tutto, Decimo.”

“Ho pensato attentamente a quello che è successo in questi giorni e sono giunto ad una conclusione.”

“Quale, Decimo?”

“La tua presenza nella mafia ormai è inutile, ma sai troppe cose per lasciarti andare semplicemente. Per questo devi sparire e voglio che ci pensi da solo.”

Hayato guardò il suo Boss per qualche istante. La confusione si rifletteva nel verde dei suoi occhi. Questo, da Tsuna, non se lo sarebbe mai aspettato.

“Decimo…”

“E’ un ordine, Hayato.”

Gokudera Hayato, ex Guardiano della Tempesta della Decima generazione della Famiglia Vongola, deglutì a vuoto, ma non rispose. Sollevò la pistola e se la porse alla tempia.

Osservò l’uomo a cui aveva dedicato la propria intera fottuta vita non vacillare neanche, mentre lui tremava da capo a piedi con il dito puntato sul grilletto.

E alla fine non si scoprì terrorizzato, neanche deluso. Semplicemente, stanco.

“No.”

Posò la pistola sulla scrivania e infilò le mani in tasca, in una posa tutto meno che rispettosa. Pensò vagamente che se qualcuno si fosse presentato in quel modo di fronte al Decimo qualche settimana prima, lo avrebbe pestato a sangue senza troppa compassione.

Ma qualche settimana prima avrebbe dato la vita per quell’uomo. Porca puttana, aveva dato la vita per quell’uomo.

La conversazione con Haru gli tornò in mente prepotente. Forse avrebbe dovuto dare più ascolto a quella stupida donna.

Hayato.”

“No.”

Il volto di Tsunayoshi era una maschera perfetta. Non una sola emozione gli attraversava lo sguardo ambrato. Anche quando inarcò un sopracciglio, sembrò non tradire assolutamente nulla.

“Ti ho detto che è un ordine.”

“Perdonatemi, Vongola, ma ho smesso di riconoscere in voi il mio Boss. Per cui, non prendo ordini. Se volete farmi fuori, c’è una pistola sulla vostra scrivania” lo disse con sfida, con disprezzo mal celato.

In un modo o nell’altro, quello sarebbe stato il suo ultimo giorno nella Famiglia. E non era così ingenuo da credere di poter lasciare la Famiglia Vongola vivo. In fondo, sapeva veramente troppo.

“Stai disobbedendo ad un mio ordine diretto” gli fece presente Vongola Decimo.

La maschera iniziava a cedere, capì, notando l’occhio che gli pulsava. Irritazione. Rabbia. Disappunto.

“Sì.”

Tsuna scattò in piedi così rapidamente che quasi non se ne rese conto. Le mani rigide sulla scrivania, la maschera esplosa, il volto contratto totalmente dalla rabbia.

La Fiamma del Cielo si sprigionò intorno a loro come un incendio che non brucia. L’armonia totalmente contrastante con quegli occhi che adesso gridavano tutte quelle emozioni che fino al momento aveva cercato di nascondere.

Sembrava che Tsuna stesse soffrendo. Urlava.

“Hai detto tu che sono il tuo Boss. Hai detto tu che saresti sempre stato un mio subordinato. Hai detto tu che la tua vita non è importante come la mia. Ti sto chiedendo di dimostrarlo.”

Gokudera sgranò gli occhi per un istante, come abbagliato da quella luce crepuscolare che lo circondava come un abbraccio, come un incendio. E la riconobbe.

 Riconobbe la Fiamma dell’Armonia. L’aveva sentita fluire nel suo corpo ogni volta che aveva perso i sensi. Ogni volta che Tsuna si era preso cura di lui.

Ogni. Singola. Volta.

Quando era tornato dalla missione.

Quando era svenuto per colpa dell’allenamento eccessivo a cui si era sottoposto.

Ogni singola volta, quella fiamma lo aveva avvolto come una madre che stringe il figlio al petto.

Raddrizzò istintivamente la schiena e, quando afferrò la pistola, se la puntò di nuovo alla tempia e sorrise.

Il lampo di assoluto terrore che attraverso lo sguardo di Tsuna, quando premette il grilletto, fu la cieca conferma che l’arma fosse scarica. Sentendo la Fiamma dell’Armonia avvolgerlo protettiva, si chiese come diamine avesse potuto dubitarne.

Doveva decisamente dare più ascolto a quella donna che gli tormentava l’esistenza.

Il tempo parve congelarsi tra loro. Abbassò nuovamente l’arma senza guardare veramente il ragazzo di fronte a sé. Sentiva Tsuna respirare forte e scorse le sue mani tremare come fuscelli al vento, quasi fosse lui quello che aveva appena giocato alla roulette russa.

In un qualche modo contorto, lo aveva fatto davvero.

Quando Tsunayoshi parlò di nuovo, aveva lo sguardo a terra, i capelli sul viso, e la sua voce era appena un sussurro.

“Quando nessuno credeva in me, tu lo hai fatto. Mi hai giurato fedeltà quando ero il fottuto zimbello di tutta la scuola: quello che i bulli picchiavano e si lasciava picchiare. E tu li hai presi a calci uno dopo l’altro. Mi hai insegnato a credere in me stesso, mi hai insegnato cosa significasse avere un amico, avere una famiglia. Sei stato il mio primo amico. E sei stato il mio braccio destro prima ancora che io capissi cosa diavolo è la mafia” alzò gli occhi all’improvviso. Dorati, lucidi. Si chiese se era il riflesso delle Fiamme o se stesse per piangere. E il pensiero fu un pugno nello stomaco. Ma Tsuna non gli concesse di distrarsi. Gli incollò quello sguardo indifeso addosso e lo afferrò per la cravatta per ottenere tutta la sua attenzione. “Se muori per me, non mi salvi la vita. Come pensi che possa sopravvivere al pensiero che tu muoia per colpa mia?”

Tsuna.”

“Se tu muori, io sono finito. Per cui, devi scegliere. Se vuoi essere un mio sottoposto, allora prendi quella porta e vattene, perché non sei più desiderato qui. Ma se vuoi essere il mio migliore amico, allora, ti prego, ti prego,” ripeté “non farmi stare più così male.”

In tutta la sua vita, non aveva mai creduto che un giorno avrebbe avuto la possibilità di uscire vivo dalla mafia. E siccome le vecchie usanze sono dure a morire, non prese neanche in considerazione quella opzione.

“Vale lo stesso anche per me, Tsuna. Non sei solo il mio Boss, ma che razza di amico sarei, se non provassi a difenderti, quando hai bisogno di me?”

Tsuna scosse la testa agitato, come un bambino che si rifiutava ad ascoltare ragione.

“Non ce la faccio, Hayato. Non con tutta la merda che ho già addosso. Ci sono dentro fino al collo. Ho bisogno…” Si interruppe, aveva perso le parole. Deglutì a vuoto, di nuovo. La sua voce scese di due ottave quando riprese a parlare. “Ho bisogno di sapere che se io non sarò in grado di difenderti, tu penserai prima alla tua vita, e solo dopo alla mia.”

Tsuna…”

“Ne ho bisogno, Hayato. Davvero. Non mi serve un braccio destro, non ne ho bisogno. Ho bisogno di sapere che tu ti fidi di me.”

Fu il turno di Hayato di inghiottire la saliva alla ricerca delle parole giuste. O della forza per combattere la voglia di inginocchiarsi ai piedi dell’uomo più grande che – almeno a suo avviso – la mafia avesse mai conosciuto e mostrargli il giusto rispetto.

“Mi fido di te, Tsuna. Sempre.”

Appena pronunciò quelle parole, capì che erano vere.

Si era fidato anche nelle ultime settimane, nonostante non ne avesse avuto davvero motivo. All’improvviso, non capì perché quella lite era durata tanto a lungo.

Se non fosse andato contro ogni suo credo, gli avrebbe semplicemente dato un pugno. Non per rabbia, ma per mettere la parola fine a tutta quella storia. Ma Hayato era un uomo d’onore e Tsuna era il suo Boss, oltre che il suo migliore amico. Per cui si concesse di stringerlo in un abbraccio fraterno, che il Decimo dei Vongola ricambiò come se ne andasse della sua vita.

 

 

I Guardiani scesero tutti e sette dalla limousine parcheggiata nel lungo viale della Famiglia Montesanti.

Kyoya e Ryohei in prima fila, perché se qualcuno avesse tentato di aggredirli, Hibari non voleva perdere troppo tempo prima di insegnare a quegli stolti chi comandava.

Mukuro, con un braccio posato in maniera decisamente possessiva sulla vita di Chrome, seguiva il passo con un sorriso bastardo che prometteva morte a chiunque. Chrome stringeva il suo anello all’anulare e il tridente tra le dita. Se era esasperata per i modi del consorte, non lo dava a vedere, ma manteneva un atteggiamento serio e professionale.

Lambo, alle sue spalle, sudava freddo. Non avrebbe mai rinunciato al suo posto come Guardiano, ma questo non gli impediva di avere paura. Probabilmente, era la Fiamma della Pioggia di Takeshi, che gli aveva buttato un braccio sulle spalle, a dargli la forza di mantenere un atteggiamento composto.

A chiudere la fila Tsunayoshi Sawada, decimo Boss della Famiglia Vongola, e il suo braccio destro Hayato Gokudera.

Questi ultimi, furono gli unici ad entrare nella sala principale della villa, dove la riunione tra ‘capi dei capi’ avrebbe avuto luogo. Seduto a capotavola, con Hayato rigidamente in piedi alle sue spalle, Tsuna notò che nemmeno Enma, con alle spalle Adelheid, era particolarmente rilassato.

Dino, accompagnato da Romario, invece, sembrava essere perfettamente a suo agio.

Yuni, d’altro canto, era un fascio di nervi e non faceva che guardarsi intorno. Tuttavia, se il suo istinto non mentiva, il suo nervosismo aveva molto più a che vedere con il fatto di essere seduta in braccio a Byakuran in una riunione così importante, che non con la riunione stessa. Peccato che il Guardiano del Mare non lo capisse e, anzi, sembrava più rilassato che sul divano di casa.

Byakuran non si faceva problemi a sfidare la mafia e l’etichetta. D’altro canto, qualunque Famiglia rivale avesse mai colto la provocazione era magicamente sparita nel nulla, senza lasciar traccia. Tsuna lo sapeva e ne era contemporaneamente sollevato ed esasperato. Il fatto che in quella realtà fossero alleati rendeva tutto più facile.

Conosceva tutti i volti dei mafiosi che si sedettero alla stessa tavola. Si fidava di meno della metà di loro. La riunione iniziò a breve. Si tenne ben attento dall’esprimere pareri o opinioni. Il suo viso era una maschera perfetta, fatta appositamente per non mostrare nessuna espressione.

Ogni emozione, poteva essere interpretata come un segno di debolezza e lui, lì in mezzo, era la figura più potente. Le prime volte che aveva partecipato come Vongola Decimo a delle riunioni formali con altre famiglie, Reborn lo aveva costretto ad attivare l’HDWM perché entrasse in quello stato mentale in cui la disperazione supera la rabbia e oltre l’obiettivo non esiste più nulla. Non la paura, non il dolore, non l’angoscia.

La riunione procedette con calma quasi straziante. Ciascuno misurava troppo le parole, i tempi morti erano eccessivi, ebbe il sospetto che sia il Boss dei Montesanti che dei Mandragola temporeggiassero troppo, come se stessero aspettando qualcosa.

Quando il braccio destro dei Mandragola si allontanò discretamente per rispondere ad una telefonata una sensazione agghiacciante lo aggredì, come ogni volta quel suo istinto innaturale si risvegliava per segnalargli un pericolo.

Hayato” mormorò soltanto al suo braccio destro che annuì.

Non gli chiese se avesse capito, né si volto per controllare se lo avesse sentito, d’altronde non poteva permettersi di distogliere lo sguardo dal nemico.

La sparatoria iniziò solo pochi minuti dopo, distruggendo mobili e finestre, facendo schizzare ovunque pezzi di intonaco e schegge di legno. Mitra. Un attacco para-militare.

Avrebbe potuto rappresentare un serio problema per tutti gli invitati, se solo scudi di ossa fiammeggianti del fuoco rosso della Tempesta non si fossero alzati prontamente a proteggere i commensali, come a creare una cappa protettiva intorno a loro.

Il Don dei Vongola, illuminato della fiamma del Cielo, si voltò immediatamente verso il suo braccio destro. Annuì, un gesto che valeva tanto un grazie, quanto il riconoscimento della sua bravura. “Qui, pensaci tu” gli disse solo, prima di lanciarsi fuori da quel campo protettivo e affrontare il nemico a viso aperto.

Lo aveva fregato, pensò Hayato, sorridendo. Il suo ruolo di braccio destro gli imponeva di esporsi davanti al suo boss in uno scontro a fuoco, pronto a rischiare la vita se necessario. Non di certo di rimanersene al sicuro, rintanato in una gabbia impenetrabile. Ma se lo avesse seguito, avrebbe disobbedito ad un ordine diretto.

Indeciso su quale fosse la cosa migliore da fare, si accese una sigaretta, mentre Dino, Emma e Adelheid accorrevano in aiuto di Tsuna e Byakuran faceva quello che gli riusciva meglio: seminare il panico e ricordare a tutti che era la peggiore minaccia che il mondo avesse mai conosciuto.

Yuni d’altro canto, era scattata in piedi come se tentasse di inseguire Byakuran e gli altri, ma capendo bene che sarebbe stata solo di intralcio. Eppure, con le mani congiunte come in preghiera, rimaneva al limitare dei suoi scudi in piedi e Hayato non era sicuro riuscisse davvero a vedere lo scontro oltre le sue barriere o se stesse semplicemente pregando per la salvezza di tutti.

Lui, d’altro canto, non era tipo da preghiere.

Si assicurò di mantenere gli scudi attivi per tutto il tempo che serviva, fumando lentamente e ascoltando i rumori della battaglia che si svolgeva lì intorno.

Si prese con calma il tempo di avvisare Takeshi Yamamoto, il braccio sinistro di Tsunayosh, della situazione lì dentro, ordinando che tutti i cecchini che attendevano all’esterno della magione fossero rintracciati e uccisi.

Solo quando chiuse la telefonata si prese il disturbo di cercare il traditore. Don Mandragola non c’era in quella stanza, probabilmente era scappato nel trambusto. Attivò la fiamma della Tempesta e Uri, il leopardo, si strusciò tra le sue gambe cercando approvazione e attenzioni. Gli grattò piano la testa, nonostante la Fiamma della Tempesta che infiammava le orecchie della fiera.

La nutrì con la sua fiamma e la lasciò andare alla caccia. Avrebbe trovato quel bastardo e glielo avrebbe portato, non falliva mai.

Solo allora si mosse per controllare come procedeva la battaglia. I nemici erano tanti, ma avversari di quel livello non costituivano una reale minaccia. A quelle condizioni, poteva anche starsene buono. Se Tsuna voleva proteggerlo, per una volta poteva lasciarglielo fare.

Si volse verso Don Montesanti sapendo benissimo di avere tutti gli occhi dei mafiosi che proteggeva con i suoi scudi puntati addosso. Almeno quelli della gente che non era troppo impegnata a urlare per il trambusto e il panico.

Puntò una pistola in mezzo agli occhi del Don, non stupendosi neanche un po’ quando il braccio destro di quello la puntò a lui.

In fondo, il Decimo aveva detto di pensarci lui, lì, rifletté con un sorriso sadico.

“Ti consiglio di ordinargli di spararmi prima che sia io a premere il grilletto” suggerì mellifluo. Che era un modo carino per annunciare che se non lo avessero ammazzato al primo tentativo, allora avrebbe banchettato sul cadavere di quel bastardo.

E lo scagnozzo ci provò pure a scaricargli addosso il caricatore, così come fece lo stronzo che puntava. Hayato sbuffò con un ghigno. Sul serio, come poteva credere che fosse indifeso quando stava proteggendo da solo oltre trenta persone da una carneficina.

I proiettili si schiantarono su uno dei suoi scudi, lasciandolo del tutto illeso. E fu solo per l’urlo di Yuni, preoccupata per lui, che evitò di torturare quel cane lì e subito. Byakuran non avrebbe gradito nessun trauma riportato dall’Arcobaleno del Cielo e avrebbe rotto i coglioni al Decimo, e da lì a qualche minuto, Gamma avrebbe stracciato le palle a lui.

Eppure, quel figlio di puttana, che ora alzava le mani balbettando strane frasi confuse che tra i singhiozzi della paura capiva a stento, aveva attentato alla vita del suo boss, Vongola Decimo.

Si rese conto, la rabbia che gli montava addosso non era quella di un cane asservito al padrone. Quel figlio di puttana aveva tentato di ammazzare il suo migliore amico, Tsuna.

E mentre si sedeva di fronte a quel bastardo e gli mormorava molto lentamente che avrebbe parlato e forse, se lo avesse messo di buon umore, lo avrebbe risparmiato, pensò che non era una questione di mafia, ma di famiglia. Seguiva da sempre l’etichetta, ma ormai per lui era semplicemente una forma di costume. Tuttavia, per la sua famiglia, per quelle persone, per Tsuna sarebbe sempre stato pronto ad uccidere o ad essere ucciso.

Non per il suo Boss, ma per il suo migliore amico.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Katekyo Hitman Reborn / Vai alla pagina dell'autore: Yuki Kushinada