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Autore: _Lightning_    30/08/2020    5 recensioni
Dopo aver lasciato Nevarro, Din Djarin ha ormai poche certezze: è ancora un Mandaloriano, deve trovare il pianeta natale del Bambino, e i compagni sfuggiti al massacro di Gideon sono vivi, da qualche parte nella Galassia. Quest'ultima è più una speranza, e lui non ha idea di come si viva di speranza. Soprattutto quando tutte le altre certezze, quelle che ha sempre custodito tra cuore e beskar, sembrano sgretolarsi con ogni passo che compie.
Non tutti i suoi fantasmi sono marciati via.
Dall'ultimo capitolo: Il Moff lo conosceva – sapeva il suo nome, da dove veniva, chi fosse la sua famiglia.
Anche Din lo conosceva. Ricordava il suo nome sussurrato di elmo in elmo come quello di un demone durante le serate attorno al fuoco della sala comune, l’unica luce che potessero concedersi in quegli anni di persecuzione. Ricordava il Mandaloriano mutilato e con la corazza deforme che narrava singhiozzando della Notte delle Mille Lacrime, quando interi squadroni d’assalto erano stati vaporizzati a Keldabe dalle truppe imperiali.

[The Mandalorian // Missing Moments // Avventura&Azione // Din&Grogu // Post-S1 alternativo]
Genere: Avventura, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Baby Yoda/Il Bambino, Carasynthia Dune, Din Djarin, Jango e Boba Fett, Yoda
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Episodio 3
LA SPIA

Parte II

 



 
“Non tutti i vostri fratelli hanno scelto di essere fedeli all’Impero... ci occuperemo presto anche di loro.
Voi siete stati scelti perché, a quanto sembra, siete i migliori. Siatelo, e non deludetemi.”

— Darth Vader ai Cloni superstiti della Legione 501, 19 BBY

 
 


Città di Kaha, Pianeta Awath, 9ABY

 
L’impatto del blaster contro il casco fu l’equivalente di un montante sferrato a piena forza da un Trandoshiano inferocito. Si ritrovò bocconi per terra senza nemmeno capire come, con un fischio acuto a lacerargli un timpano, il sapore del sangue a imbrattargli le labbra e una cornice nerastra e pulsante a oscurargli la vista. Il dolore tardò ad arrivare, suggerendo una commozione cerebrale, ma sapeva che non ne avrebbe rimpianto l’assenza. Aveva comunque avuto giornate peggiori.

L’ultima volta che un blaster l’aveva colpito in piena testa a distanza così ravvicinata, era stato durante la battaglia su Kashyyyk, ed era abbastanza sicuro di preferirla. All’epoca, era rimasto semplicemente rintronato per qualche manciata di secondi – comunque troppi, durante uno scontro a fuoco – coi suoi compagni di squadra che gli parlavano via comlink alternando rimproveri bonari, ordini concitati e parole di supporto nel bel mezzo della mischia, mentre gli somministravano una più che gradita dose di bacta. Non che ne avesse davvero bisogno: il suo casco aveva assorbito la maggior parte del danno, ma non si rifiutava mai il bacta. Il tutto si era concluso nel giro di un minuto scarso e con un mal di testa devastante che l’aveva perseguitato per giorni. Non era stata certo la ferita peggiore di quel giorno.

Adesso, quasi trent’anni dopo, ebbe piena consapevolezza di quanto l’Impero fosse andato al risparmio sulle loro corazze, rispetto alla Repubblica. Rimpianse irrazionalmente i “bei vecchi tempi”, più del solito, e prese piena coscienza anche di quanto fosse diventato vecchio lui stesso.

Non così vecchio da non sentire la spinta degli automatismi da battaglia, però: appena ripresa la percezione del proprio corpo rotolò di lato, imbracciò il DC e riprese un assetto verticale sollevandosi su un ginocchio. La Cantina non aveva contorni precisi, distorta da sfarfallamenti e interferenze nel visore causate dal colpo – fierfek, che razza di katarn e circuiti di quarta mano avevano usato, quei caschi vuoti? – e dal sommovimento della folla nel panico, ma era comunque in grado di determinare l’origine dell’attacco e di rivolgere la bocca dell’arma in quella direzione. Un riflesso, un puro riflesso che, si rese conto, non deponeva in favore delle sue intenzioni pacifiche. Ebbe giusto il tempo per realizzare che il Mandaloriano non era più seduto al suo posto, ma in piedi e in pieno assetto da guerra a un passo da lui, e sembrava avere tutte le intenzioni di infilzarlo con la baionetta di un fucile Amban – o di disintegrarlo con esso.

Per la sabbia di Geonosis, non era quello il benvenuto che si era aspettato! Dimenticava sempre quanto potessero rivelarsi imprevedibili i Mandaloriani solitari, e ammetteva che avere addosso le insegne imperiali non era un aiuto. Senza lasciare la presa dal calcio del proprio DC, che impostò con uno scatto del dito su “stordimento”, compì la mossa che gli riusciva meglio e al contempo peggio, almeno secondo chiunque l’avesse conosciuto: parlò.

«Wayii, ner vod!» esclamò, optando subito per il Mando’a, la sua unica carta sicura in quella situazione.

Forse chiamarlo “fratello” era un tantino azzardato, considerate le circostanze, ma ogni dubbio riguardo alla formalità evaporò nel momento in cui si rese conto di aver pronunciato solo una sequenza sconnessa e gracchiante di statico, simile all’ultimo lamento di un droide morente. L’interfaccia lampeggiò, vermiglia e del tutto oscurata da un lato. Fierfek: l’altoparlante esterno si era fritto. Il Mandaloriano non sembrava comunque avere molta voglia di parlare… quindi, aveva un problema. E un solo modo per risolverlo.

Scattò in piedi, mollando il DC dopo aver sparato un colpo andato a vuoto. Deviò la canna dell
’Amban, afferrandola con entrambe le mani per poi torcerla e assestare un secco spintone all’avversario. Lo sbilanciò, ma non abbastanza da mandarlo al tappeto: o era molto più massiccio di quanto desse a vedere, complice il beskar, o era lui ad aver perso qualche colpo nell’ultimo decennio. Preferì pensare che fosse l’altro, ad essere un falso magro. Nell’arco di quel pensiero futile, subì un colpo alla tempia sferrato col calcio del fucile, sfuggito alla sua presa. Scartò di lato, tentando di aggirare l’avversario, e riuscì ad afferrarne la cinghia e a strapparglielo dalle mani – per poi rendersi conto che lui gli aveva permesso di farlo. L’arma schizzò via come una scheggia, infrangendo la finestra e svanendo nel buio tra le urla e il caos generale.

Concentrati, concentrati! si rimproverò, con la voce minacciosa del suo sergente che gli abbaiò a sua volta l’ordine nelle orecchie. Sei in battaglia. Da quanto non era in battaglia? Da troppo, a quanto pareva.

Fece appena in tempo ad alzare i polsi incrociati per intercettare quello del Mandaloriano, ed evitare che una vibrolama gli si conficcasse dal basso nella fessura tra spalla e ascella, andando a recidere l’arteria. Senti la lama d’energia sfrigolare feroce contro il metallo, e intravide il riflesso distorto del proprio visore blu in quello nerastro dell’avversario, a pochi centimetri da lui. Non era il tipo di chiacchierata faccia a faccia che si era aspettato, ma non poteva negare che fosse in pieno stile Mandaloriano.


Così come la furiosa testata che riuscì ad assestargli subito dopo, in un cozzare sonante di elmo contro elmo; udì con soddisfazione un lamento soffocato da parte dell’altro, che cedette di un passo all’indietro, tramortito. Ne approfittò per disarmarlo della vibrolama con un colpo secco del palmo sul nervo del gomito. Lo spinse poi verso la parete del locale, in un serrato corpo a corpo che coinvolse un tavolo e un paio di sedie mandati all’aria e una breve vampata di fuoco scaturita dal lanciafiamme del Mandaloriano, inoffensiva contro la sua corazza. 

Incassò anche un paio di ganci, ma la propria mole iniziava a soverchiare quella più agile dell’avversario, sempre più vicino ad essere messo con le spalle al muro: colse la sua mano correre a più riprese verso il blaster al fianco, ma non gli permise mai di raggiungerlo, deviandola ogni volta all’ultimo momento. 

E poi notò gli alloggi per sibilanti nel parapolso. Avvertì il senso di pericolo farsi strada tra adrenalina e fatica: poteva essere sopravvissuto a un colpo alla testa a breve distanza, ma non aveva speranze contro un nugolo di sibilanti a bruciapelo, corazza o meno. Doveva risolvere, e alla svelta, prima che l’altro si sentisse abbastanza minacciato da usarli.

Svicolò da una presa particolarmente molesta, che quasi gli aveva quasi lussato una spalla, e raccolse tutto il proprio corpo all’indietro, pronto a riversare a piena potenza i suoi cento chili buoni di massa corporea e katarn contro il Mandaloriano, mettendo fine a quella rissa da Cantina fuori misura.

Fu in quel momento che si rese conto di quanto i propri riflessi fossero ormai rallentati dall’età: vide chiaramente l’altro cambiare postura: scansò appena il piede più arretrato e abbassò le braccia, modificandone l’angolazione e abbandonando la posizione di parata per assumere quella di leva. Lo vide, e la sua mente marziale interpretò correttamente la mossa successiva. Il suo corpo, però, non reagì per tempo.

Si scagliò comunque in avanti a testa bassa come un Rancor da combattimento; il Mandaloriano, in un’unica mossa fluida, fece perno sulla gamba, ruotò lateralmente, agganciò la presa sulla sua corazza e si lasciò cadere all’indietro, caricando il suo intero peso e sfruttando il suo stesso slancio per scaraventarlo via con un colpo di talloni in pieno ventre.

Il fragore di vetro infranto lo assordò, seguito da uno schianto secco e legnoso. Non seppe se il tintinnio che sentiva fosse quello dei propri timpani rintronati o quello delle miriadi di schegge che si abbattevano sulla strada. Strada.

Tastò con una mano resa insensibile dal guanto il basalto umido di pioggia, e si rese conto di aver sfondato la finestra e poi la balaustra di legno esterna per precipitare dritto al suolo. Un volo di quasi quattro metri, che il vecchio sé – in teoria – venticinquenne avrebbe attutito agilmente, pronto a rialzarsi. Il suo sé attuale sembrava molto più propenso a fare una stima dei danni complessivi appena subìti, elencati quasi a sbeffeggiarlo nelle schermate traballanti dell’interfaccia interna. Kandosii, aveva appena battuto il record di Mygeeto per costole incrinate.

Riuscì a far leva sugli avambracci con un grugnito sofferto, rotolando sulla schiena e staccandosi di appena qualche centimetro da terra prima di paralizzarsi. Oh, quello schiocco era una vertebra, poco ma sicuro.

Non ebbe tempo di constatare altre lesioni, perché nel suo campo visivo entrarono due stivali di cuoio scuriti dalla pioggia, in rapido avvicinamento. Il successivo elemento a entrare nell’inquadratura fu la canna di un blaster puntata verso terra. Non per molto. Stavolta fu il corpo a reagire prima della mente: si trovò a portare le mani al casco, forzando invano la chiusura inceppata e semidistrutta dal colpo. Colse di sfuggita il movimento del blaster che si alzava arrestandosi orizzontalmente, in linea con la sua testa.

Osik-osik-osik, non poteva crepare così come un di’kut, non dopo essere sopravvissuto a Kamino e Geonosis e Kashyyyk e Coruscant... sentiva già Sev che se la rideva dall’oltretomba, pronto a prenderlo per i fondelli in eterno – e il Sergente Vau imbestialito che gli sbraitava contro – cattivo soldato, cattivo Cl

Pop.

La pioggia gli sferzò il volto, salata e amara assieme, accecandolo e facendogli bruciare il taglio che non si era reso conto di avere sulla guancia. Tra gli scrosci d’acqua simili a un sipario scorse la sagoma del Mandaloriano stagliarsi dinanzi a lui, dietro la bocca del blaster pronto a far fuoco. Inalò una boccata d’aria pungente, rilasciandola assieme a tutta la voce che gli rimaneva nei polmoni:

«Dar’akaniir, ner vod! Cuy’ni Mando!»

Non ricordava di essersi mai arreso a nessuno, né sotto la Repubblica, né sotto l’Impero: era la prima volta che quelle parole gli sfuggivano con intento di bocca. 

Sarebbe stato davvero ironico, se fossero state anche le sue ultime.

 

 


 
«Dar’akaniir, ner vod! Cuy’ni Mando!»

Din arrestò il blaster a mezz’aria con la stessa immediatezza di un caccia appena uscito dall’iperspazio, e boccheggiò dietro lo strato di beskar inalando un respiro al retrogusto di ferro. Era il suo udito scombussolato dalla testata che lo tradiva, associando parole di una lingua incomprensibile a quella a lui più familiare, o l’Imperiale aveva davvero dichiarato la resa in Mando’a? Dicendo di essere… Mandaloriano?

Qualunque cosa avesse detto, adesso aveva i palmi alzati in un gesto inequivocabile, e a volto scoperto sembrava decisamente più inoffensivo: era piuttosto avanti con gli anni, coi capelli scuri incollati alla fronte dalla pioggia e un brutto ematoma sanguinante sullo zigomo, nel punto in cui il blaster aveva colpito il casco. Si chiese, fuggevolmente, se anche lui sarebbe apparso così, privato dell’elmo. Il solo pensiero gli fece stringere la presa sul calcio dell
arma ricordandogli chi aveva davanti: un Imperiale. Forse addirittura un responsabile della Grande Purga.

Osservando però meglio la corazza constatò che, pur assomigliando molto a quella di un assaltatore pesante, recava delle anomale bande di un giallo brillante su parabraccia e gambali. A dire il vero, anche l’elmo dell’uomo era molto più simile a un buy’ce mandaloriano di quanto avesse realizzato inizialmente: la T, sebbene azzurrina e biforcuta alla base, era ben distinguibile.
Adesso capiva la perplessità suscitata nella Cantina: ad occhi inesperti degli aruetiise, vedere la sua beskar’gam nuova di forgia poteva passare per un semplice cambio d’armatura.

Comunque fosse, quell’uomo non era decisamente un Imperiale, anche se atipico.  E, aguzzando ancora la vista, l’emblema della raggiera imperiale sul giustacuore era stato grattato via a forza. Anzi, modificato, anche se nel buio rilucente d’acqua e pioggia non gli riuscì di capire in che modo. Dettagli che gli erano sfuggiti, spazzati via dalla sagoma agghiacciante di una massiccia corazza bianca e dal visore minaccioso e distorto che aveva spesso fatto capolino nei suoi incubi più lontani, quando Imperiali e droidi da battaglia facevano a turno la ronda nelle sue notti agitate. Ultimamente, avevano ripreso ad aggirarsi tra il sonno e la veglia, più lontani, ma non per questo meno ostili.

 Fissò l’elmo in katarn abbandonato per terra. Un disertore? Forse. O forse solo un cacciatore di taglie sotto copertura. O entrambe le cose.

In ogni caso, aveva un blaster puntato su un uomo al momento inerme. Per quanto una parte di sé gridasse di premere il grilletto, messa in guardia dalla serie di eventi anomali, quella più ragionevole e umana si distolse dall’elmo freddo riverso a terra, piantandosi in occhi grandi e sbarrati, più confusi che atterriti. Abbassò lentamente la mano armata, pur tenendo serrata la mascella.

«Mar’e!» sospirò l’uomo – vecchio, ora che lo vedeva meglio in volto – esalando uno sbuffo sollevato. Mando’a, di nuovo. Finalmente, aveva detto; e poi continuò in Basico: «Promemoria: identificarsi sempre, sempre prima di avvicinare qualcuno. Soprattutto se in uniforme, soprattutto se quel qualcuno è un Mando’ad sconosciuto,» continuò, chinando un poco il capo e lasciando ricadere gli avambracci sulle ginocchia, con rivoli di pioggia che gli scorrevano sul volto.

Din era ancora paralizzato, con la tentazione latente di afferrare anche l’Amban che, si rammentò mentre la mano libera incontrava il vuoto all’altezza della fondina, giaceva a qualche passo da lui.

«Tion'gar?» esalò, senza pensare, per poi correggersi e tornare a rotta di collo al Basico, quasi mordendosi la lingua nella fretta: «Chi sei?»

L’uomo sbuffò un sospiro e poi tossì, roco.

«Ti avevo capito,» lo rimbeccò, assurdamente calmo per qualcuno che era stato quasi freddato sul posto. Si portò una mano al petto per poi continuare: «Scorch. Molto piacere, a parte tutto… beh, quello che è successo,» si presentò, scrollando le spalle e schiarendosi la voce mentre si scioglieva le spalle chiaramente dolenti per la caduta.

Din si limitò a recuperare l’Amban lì vicino senza perderlo d’occhio un istante, cercando di capire perché vederlo gli desse uno spiacevole senso di familiarità. La scarsa illuminazione e la pioggia torrenziale non aiutavano, ma qualcosa gli diceva che avrebbe dovuto riconoscerlo. Scorch emise un lamento quando tentò di spostare il peso per alzarsi, inutilmente, per poi scoccare a lui uno sguardo seccato.

«Allora? Aiuti un povero vecchio o preferisci abbattermi sul posto?»

Din si trovò ad agire senza ordine del cervello, probabilmente ancora abbastanza scombussolato dall’urto per tendere la mano a un Imperiale. Sospetto Imperiale. Probabilmente un disertore, e probabilmente sulle sue tracce. Ma al momento innocuo, o almeno amichevole. Negli ultimi mesi si era abituato ad avere a che fare con situazioni bizzarre, ma questa stava minacciando di fondergli il cervello, e non c
erano nemmeno fenomeni inspiegabili di mezzo.

«Scorch?» ripeté quindi, aggrappandosi a quel dettaglio insolito del tutto irrilevante, nell’insieme più che insolito.

Le sopracciglia dell’altro si aggrottarono all’istante, adombrandogli le iridi, e portò fiaccamente due dita alla fronte in una pantomima di saluto militare.

«Delta-uno-sei-sei-due suonerebbe male, non credi? Non dirmi che sei uno di quelli attaccati fino agli shebs all’etichetta.»

La realizzazione folgorò Din nell’incontrare gli occhi scuri del vecchio – non così vecchio, in effetti. Forse una sessantina d’anni portati male in viso, ma non nel fisico, come spesso accadeva ai veterani di guerra. E un volto familiare, sì, per i più svariati motivi, pur non avendolo mai conosciuto davvero: zigomi pronunciati, carnagione ramata, capelli color carbone screziati di grigio, e un soprannome più adatto a un akk da compagnia che a una persona, a sostituire un numero… certo, che l’aveva già incontrato. Non proprio lui, in verità, ma faceva davvero differenza? Aveva davanti un Clone.

Esattamente il tipo di problema da cui girare alla larga, gli ricordò Ruu, in sordina da qualche parte tra cervelletto e spina dorsale, dove si annidavano gli istinti primari. Imbracciare l’Amban fu un riflesso condizionato.

«Oh, oh, non di nuovo, su! Metti via quell’affare!» sbottò l’altro, alzando comunque le mani. «Se avessi voluto farti fuori, l’avrei già fatto!»

«Sei con l’Impero?» lo ignorò Din, avvicinando la bocca del fucile allo spazio tra le sue sopracciglia, segnato da profonde rughe preoccupate e dall’alone di una vecchia bruciatura. Impostò la modalità disintegrazione con uno scatto minaccioso. «Ti manda Gideon?»

«Chi?» strabuzzò gli occhi quello, facendo fremere le mani a mezz’aria. «Senti, qui c’è un grosso malinteso, ner vod, perché non…»

«Chiamami di nuovo “fratello” e potrebbe sfuggirmi il grilletto,» ringhiò Din, sfiorandogli la pelle con la punta biforcuta della baionetta.

«Ok, sei stato chiarissimo, ne– Mando? Bene, e Mando sia… ora, che ne dici di parlare civilmente? Ho chiesto una tregua, no?»

«Dipende. Non parlo con gli Imperiali.»

«Perfetto, allora, perché io non lo sono. Odio l’Impero quanto te e probabilmente da più tempo di te, da quando era ancora una Repubblica che ci ha mandati tutti al macello. Odio pure la Repubblica, se è per questo,» continuò serratamente, dandogli a malapena il tempo per assorbire le singole parole. «E anche qui sono in buona compagnia, giusto?» aggiunse, con un cauto ma deciso cenno del mento nella sua direzione

Din riassestò le dita sull’arma, senza vacillare, ma si umettò le labbra secche.

«Perché dovrei odiarle la Repubblica?»

Scorch si arrischiò a puntargli un indice contro, a dispetto di essere ancora sotto tiro.

«Il tuo accento,» rispose quindi, in tono così ovvio da suonare quasi irritato. «In Basico, intendo…» un lieve movimento in avanti dell’Amban convinse Scorch a tagliar corto: «Sei di Concord Dawn, vero? L
’hanno devastato tutti, quel pianeta, noi inclusi. anche se io non ero tra quei noi, parola di Clone.»

Din sentì il cuore incepparsi a metà battito e irrigidì la presa sul calcio del fucile, senza riuscire a camuffare la tensione. Non sentiva nominare il suo pianeta natìo da almeno un decennio. Né si sarebbe mai aspettato di vedersi riconoscere come Concordiano da un perfetto sconosciuto, balzato fuori da chissà dove sotto le vesti di Imperiale-ex-Repubblicano. Gli fece un effetto che non seppe definire: un misto di estrema lontananza e vicinanza, strettamente intrecciati a formare i confini di quella che un tempo era stata casa – e poi non più.

La canna dell’Amban si abbassò lentamente, mentre mandava giù un groppo spigoloso in gola. Non rispose, sentendosi tradito da una caratteristica dimenticata da lui stesso e che quasi nessuno sarebbe stato in grado di notare. Se non un altro Mandaloriano. Un vero Mandaloriano, in grado di captare la particolare cadenza di un pianeta alleato da così poche frasi. E poco importava che fosse un Clone, o che non seguisse la Via e no nfosse quindi davvero mandaloriano. Non poteva considerarlo un compagno, né scartarlo ancora come nemico, ma ai suoi occhi si era perlomeno guadagnato la tregua che aveva chiesto.

La baionetta dell’Amban sfiorò la strada attraversata da rivoletti d’acqua. Di rimando, Scorch abbassò piano le braccia, lasciandole ricadere sollevato, e si schiarì nuovamente la voce in quello che sembrava un riflesso nervoso. Din rilasciò un respiro, con l’adrenalina dello scontro che defluiva pian piano, sembrando scorrere via assieme alle gocce di pioggia. Riagganciò l’arma alla fondina da schiena e rinfoderò il blaster, suggellando l’armistizio.

Scorch esitò per qualche istante, prima di chinarsi cautamente sulle ginocchia per recuperare il casco, esaminandolo con premura – la stessa con la quale lui maneggiava il proprio buy’ce. Din evitò di soffermarsi sull’alone carbonizzato che lo segnava da un lato, ben visibile sulla vernice bianca e gialla. Se fosse stato comune katarn, quello fragile dei soldati semplici, il colpo l’avrebbe perforato e ucciso sul posto. Gli tremò la mano sul calcio del blaster per un istante, e scacciò quel tentennamento con una scrollata di dita poi serrate con forza. Aveva sparato senza nemmeno pensare. Dopo Alzoc III gli era successo solo coi droidi… e dopo IG avrebbe avuto qualche remora a farlo persino con loro.

Sospirò, avvertendo solo allora una fitta acuta risalirgli il naso, che pulsava a intervalli regolari spillando sangue. Strinse i denti, inclinando il capo in avanti e trattenendo il disgusto per il retrogusto metallico che gli permeava la bocca. Non poteva fare a meno di pensare, con distaccata ironia, che quel “bacio di Keldabe” ben assestato fosse un ulteriore elemento in favore di Scorch e del suo dichiararsi Mandaloriano, almeno in parte.

Il pensiero della stiva sicura della Crest si fece molto allettante, promessa di un lavello in cui ripulirsi la faccia e di un kit medico con cui rimetterla in sesto. Sperava anche in un aiuto da parte del Bambino, perché aveva tutta l’impressione che il setto nasale fosse rotto – di nuovo. Gli sembrava di sentire i rimproveri di Ruu. Non era però un’opzione contemplabile, non finché non avesse fatto chiarezza su tutta quella faccenda. Inghiottì sangue e dolore, raddrizzando il capo.

Mentre faceva il conto delle ferite, il soldato si era rimesso in piedi, barcollando sulle gambe e ritrovando però subito l’equilibrio sulle pietre viscide. 
Della cenere iniziò a mischiarsi alla pioggia, creando un nevischio grigiastro che andava a formare una fanghiglia infida ai loro piedi e attecchiva a chiazze alle loro armature.

Din rivolse lo sguardo verso la Cantina, appena distinguibile oltre il muro d’acqua che si rovesciava ancora dal cielo. Dal lato intatto del camminamento esterno era affacciata una sparuta folla, probabilmente avida spettatrice del loro confronto. Sospirò, incamminandosi verso l’ingresso sul retro e ripercorrendo flemmatico i passi di appena mezz’ora prima.

«Lì dentro?» lo richiamò Scorch, allarmato. «Non credo saranno felici di rivederci, sai?»

«Saranno ancor meno felici se non ripago i danni.»

Imboccò le scale senza attendere risposta e, dopo un breve silenzio, sentì i passi dell’altro seguirlo.


 


 
Note:
– Concord Dawn si trova nel Settore Mandaloriano. Il Basico parlato dai Concordiani è chiaramente riconoscibile per via dell’accento, e in alcune zone si parla un particolare dialetto di Mando’a, comprensibile ma comunque radicalmente diverso dalla lingua standard (presente sardo e italiano? Ecco). Essendo stato cresciuto dalla Ronda della Morte/Tribù, Din mantiene l’inflessione natale concordiana in Basico, ma parla Mando’a standard. Ovviamente il fatto che Din sia Concordiano è un mio headcanon. Quando ho scritto la storia non c'erano fonti sul suo pianeta natale; adesso è stato rivelato che il suo luogo d'origine sia Aq Vetina, che io ho convenientemente trasformato in una città su Concord Dawn, visto che non viene specificato sia un pianeta.
Info-dump aggiuntivo: 1. Jango Fett era Concordiano, per questo Scorch ha familiarità con l’accento (pur non essendo stato sotto il suo diretto comando su Kamino). 2. Il sergente Vau, nominato di sfuggita, è uno dei Mandaloriani convocati da Jango su Kamino.


Glossario:

aruetiise: estranei/traditori; per esteso, non Mandaloriani.
dar’akaniir: arrendersi/tregua [mio neologismo: serviranno pur a qualcosa gli studi di linguistica!)
fierfek: imprecazione in Huttese, largamente usata dai Cloni.
kandosii: grandioso, fantastico.
(ner) vod: fratello (mio).

shebs: chiappe
wayii: esclamazione generica (gioia, sorpresa o allarme).



Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
vi presento Scorch, la linea com– NON È LA LINEA COMICA! (i fan di Boris capiranno <3) Scherzi a parte, spero di avervi colto di sorpresa! Diverse persone avevano ipotizzato che l’ "uomo del mistero" fosse Boba Fett, e tecnicamente, considerando che i Cloni sono appunto clonati da suo padre Jango, non avevano tutti i torti... ma ci sarà tempo anche per Boba-vero, promesso. Seguo sempre il principio della pistola di
Čechov ;)

Piccola panoramica del personaggio, che presumo sia sconosciuto a molti di voi (i suoi retroscena avranno comunque spazio nella storia): Scorch è un Clone Commando della Repubblica (e poi dell’Impero) che appare nel videogioco Republic Commando e nell’omonima serie di libri. Per lui valgono le conoscenze di base comuni a tutti i Cloni, con la peculiarità che lui fa parte di un corpo d’élite. Secondo l’universo espanso, i Cloni, oltre ad essere copie di Jango Fett, vengono anche addestrati perlopiù da guerrieri mandaloriani, di qui il riconoscersi (spesso) come tali. Il tutto verrà spiegato meglio prossimamente. Sappiate solo che era importante introdurre adesso questo personaggio :) Unica precisazione: sì, i Cloni invecchiano a circa il doppio della velocità rispetto agli umani. Non l’ho dimenticato e c’è un motivo canonico per cui Scorch è ancora vivo, sebbene attempato.
Per qualsiasi chiarimento, sono disponibile <3

Ringrazio di cuore
Miryel, Old Fashioned, LadyOfMischief, AMYpond88 e leila91 per aver letto e commentato gli scorsi capitoli, e tutti coloro che hanno letto la storia in silenzio e/o l’hanno aggiunta alle loro liste <3
Alla prossima settimana,

-Light-

P.S. Ogni riferimento ai nasi rotti riconducibile a Pedro Pascal è assolutamente voluti e intenzionali. E se non sapete di cosa parlo, recuperatevi l’intervista agli attori nella Gallery di The Mandalorian
   
 
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