Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
l’11.11.21
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PARTE SECONDA:
Nervesa e Torre
di Maserada
(13 -27
settembre 1511)
Capitolo
Quindicesimo
13-14
settembre 1511
Hironimo
non sarà stato un fisico o uno speziale, tuttavia aveva
affrontato, specie al cambio di stagioni, sufficienti raffreddamenti da
sapere
che se il mal di gola persisteva oltre un giorno, esso diveniva foriero
di mali
ben peggiori. Solitamente, ai primi sintomi sua madre gli faceva
preparare
dagli spezieri di grosso a San Bartolomeo una miscela di erisimo,
achillea,
partenio, artemisia e valeriana da pigliare sotto forma di tisana tre
volte al
dì prima dei pasti. Se proprio s’ostinava, allora
ricorreva all’enula, al ribes
nesro, al mirtillo rosso e all’ontano nero e se proprio il
malanno non voleva
mollar la presa, ci s’affidava all’infallibile
Triaca che l’avrebbe per certo
guarito.
Nelle sue
attuali circostanze, il giovane patrizio si sarebbe
accontentato anche di un semplice cucchiaio di miele, pur di non
risvegliarsi
l’indomani col fuoco dell’inferno in gola e la voce
pressoché inesistente.
Thomà non se la passava di certo meglio, tossendo a bocca
larga e sputando un
misto di saliva e catarro per terra, per poi soffiarsi con le dita il
naso
rosso che ripuliva o con la manica della camicia o sulla paglia. Il
fantolino
si strofinava gli occhi vitrei e arrossati, come se avesse pianto tutta
la
notte.
Miani
s’era astenuto dal rimproverarlo, rassegnato infatti al
medesimo fato. Invece, gli aveva passato il dorso della mano sulla
fronte,
sospirando di sollievo nel sentirla ancora relativamente fresca.
Altra
magra fortuna consistette nella poca attenzione che Mercurio
Bua poneva su di loro, impegnato infatti a sovraintendere lo
smantellamento del
campo a Montebelluna per muoverlo a Nervesa e il coro di rauche tossi e
scatarri si era rivelato talmente diffuso, da confondersi quello dei
due prigionieri
tra quelli degli altri soldati.
Più
che un esercito in marcia pareva il corteo d’un Trionfo della
Morte, composto da ammalati che trascinavano i piedi e la punta delle
loro
lance; di cavalleggeri ciondolanti dal sonno e dalla fame; di
prostitute talmente
ossute da non indurre in tentazione neppure il più infoiato
dei libertini.
Avanzare
nel terreno fangoso toglieva energie, così come tirare i
buoi e i muli dei carri, i cavalli e le artiglierie, le quali
s’impantanavano
ad ogni pisciata di cane, come commentava frustrato Mercurio beccandosi
di
rimando una velenosa replica dal capitano Jacob Empser, il quale lo
sbeffeggiava ricordandogli l’enorme abisso vigente tra
fanteria e cavalleria.
“Magari
una volta arrivati a Nervesa, ve lo rispiegherò”,
ghignò
il tedesco.
“Non
ho bisogno”, scrollò le spalle Mercurio,
massaggiandosi
noncurante la coscia laddove era stato vilmente ferito, ma la
contrazione dei
muscoli facciali tradiva quanto in realtà quel rimprovero
l’avesse infastidito,
specie se davanti ai propri uomini.
“Suvvia,
non c’è vergogna nell’ammettere la
superiore e antica
tradizione bellica tedesca!”
Al che
l’albanese gli rise in faccia di gusto, sganasciandosi al
punto che perfino Hironimo, fino a quel momento incurante delle beghe
tra i due
condottieri, levò gli occhi in loro direzione,
subitaneamente interessato.
“Pah! Quando voi Tedeschi ancora dondolavate nudi sugli
alberi, noi Greci
conquistavamo Babilonia!”
Il
capitano Jacob digrignò i denti, adesso lui
l’offeso. “Piano
con gli insulti, cane turco!”
Il viso
dell’albanese mutò in una maschera diavolesca,
esacerbata
dalla sommessa risatina di scherno del suo prigioniero.
“Ripetilo e pregherai
che siano i Veneziani ad ammazzarti per primi!”
“Mi
minacci, Mistkerl?”
“Ti
avverto, malakas!”
“Capitaine
Jacob, al posto d’attaccar briga col capitain Bua, vi
consiglio di badare con maggior attenzione alle retrovie. Ci stiamo
avvicinando
al Montello e da ogni buca potrebbero sbucar fuori nemici!”,
gli consigliò
Jacques de Chabannes de la Palice con falsa flemma, intromettendosi tra
i
contendenti che borbottando obbedirono.
Non fosse
il maresciallo intervenuto, i due sarebbero giunti alle
mani e Mercurio si appuntò di farla pagare alla prima
occasione a quel tedesco
borioso.
Non era
il solo a condividere tal sentimento: tra i francesi e gli
imperiali serpeggiava un odio cadaun’ora sempre
più palpabile, lanciando i
gallici sospettose occhiate alle proprie spalle e le loro dita
accarezzavano
nervose le rispettive spade, balestre, lance e pugnali,
giacché temevano più
l’infida lama dei tedeschi che quella ufficialmente ostile
dei marciani. Oltre
alla più gretta questione del cibo, a dividerli rimanevano
le idee tuttora
discordi sul da farsi: i francesi non volevano sputtanarsi la
reputazione
venendo meno all’impegno preso di conquistare Treviso; i
tedeschi ancora
rimanevano testardi dell’idea di andare a saccheggiare la
Patria del Friuli,
oramai ad un tiro di schioppo, incominciando dalle più
vicine Conegliano,
Sacile, Motta di Livenza e Oderzo.
“I
briganti sono più disciplinati di questa masnada di bifolchi
cenciosi: in quale merdaio alemanno li ha scovati
l’Imperatore?”, si lagnava
adirato Mercurio, scoccando di tanto in tanto qualche occhiataccia al
capitano
Jacob Empser, trastullandosi in dolci progetti di vendetta, in cui
vedeva il
tedesco squartato vivo da quattro cavalli. “E tu muoviti,
pelandrone!”,
strattonò la corda che legava le catene di Hironimo,
sbilanciandolo bruscamente
in avanti e solo però un soffio il veneziano
mancò di cadere bocconi per terra.
Conoscendo
assai bene quello sguardo, Lecha Busicchio
s’adoperò a
calmarlo subito: “Lascialo perdere, ci penserà
l’assedio a spedir sottoterra
quell’otre di sterco. Fra poco entreremo nei feudi dei Conti
di Collalto,
alleati dell’Imperatore. Lì avremo di che
sfamarci. Se non erro, a Nervesa
dovremmo trovare anche dei monasteri o roba simile.”
“Sì,
l’Abbazia di Sant’Eustachio e la Certosa di San
Girolamo, me
li ricordo. Benedettini e certosini, molto ben forniti. E sotto la
protezione
dei Collalto.”
“Dunque?”
“Dunque,
giusto per rimanere in tema, ci converrà pregare
affinché
almeno per stavolta i tedeschi si tengano le zampe ben attaccate al
culo e non
si abbandonino a saccheggi. Altrimenti nulla ci salva da una figura di
merda
coi Conti e ora come ora, fin troppa gente qui cambia
bandiera.”
Lecha
strinse le labbra in una linea dura, convenendo suo
malgrado, memore della diserzione del fratello di Mercurio e dei suoi
cognati.
“Allora
oggi le vuoi proprio prendere?”, abbaiò il
capitano
albanese a Hironimo, vibrandogli in faccia minacciosamente la scutica.
In
realtà a rallentare il patrizio era Thomà, che
tra i colpi di
tosse e la stanchezza a causa di quella marcia piuttosto sostenuta per
le sue
gambette arrancava e incespicava, finendo trascinato da Hironimo
finché questi
rapido lo rimetteva in piedi prima che il Bua se ne accorgesse.
“Mi
hai scambiato per un levriere?”, gracchiò il
giovane Miani,
levando a fatica il collo, forzatamente piegato dalla pendente palla di
cannone.
“No,
per un somaro!”, ridacchiò Mercurio.
“Attento,
non vorrei che tu finissi col prenderti in faccia un bel
calcio!”, gli sibilò di rimando Hironimo, balzando
di nuovo in avanti per il
piccato trattone che gli diede l’albanese, che per ripicca e
anche per
distrarsi dal suo cattivo umore, aveva ben pensato di passare ad un
leggero
trotto, lasciando ambedue i prigionieri senza fiato dallo sforzo di
stargli
dietro.
Il che
non giovò ai polmoni già provati del piccolo
Thomà.
“Patron”,
ansimò piagnucolando, le gote costantemente gonfie dai
colpi di tosse e il muco che gli colava in bocca, “no ghe
stò pì in piè!”
“Mo’
via, stà bon!”, lo rimbeccò dolcemente
Hironimo. “Tacate a la
mia caéna”, lo istruì,
acciocché il bambino si aggrappasse alla catena che gli
cingeva i fianchi, nella speranza di giungere quanto prima
all’Abbazia di
Sant’Eustachio a Nervesa.
Lì
(pia speranza) i monaci avrebbero di sicuro provveduto a
curarlo con qualcuno dei loro decotti. Hironimo oramai aveva compreso
che al
Bua serviva vivo, perciò come curavano lui, egli avrebbe
insistito affinché
anche il fantolino ricevesse le medesime attenzioni, secondo la
promessa
fattasi di mantenerlo vivo fino al riscatto o allo scambio.
“Tegni
duro”, mormorò a Thomà, “semo
quasi arrivai.”
Voltandosi,
però, Hironimo non s’era accorto della punta
d’un
pingue sasso far capolino nel fango della strada e puntualmente vi
sbatté il
piede contro, perdendo l’equilibrio e dalla sorpresa le sue
mani abbandonarono
la catena che reggeva la palla di cannone, cosicché il peso
di quest’ultima lo
scaraventò doppiamente più veloce a terra.
A
malapena Hironimo riuscì a coprirsi parte del viso, battendo
dolorosamente il mento e mordendosi di conseguenza la lingua, per poi
sentirsi
il peso di Thomà cadergli sulla schiena nonché la
ruvidezza del sentiero in
alternanza sui fianchi e le ginocchia, non avendo Mercurio ancora
registrato la
sua caduta e pertanto proseguendo imperterrito nella sua cavalcata.
Dulcis in
fundo, la palla di cannone creava attrito, impantanatasi infatti nel
fango,
serrandogli di conseguenza il collare al punto che per qualche istante
il
patrizio si sentì soffocare.
“Che
diavolo stai facendo? Ti pare il momento di fare i capricci?
Sei già stanco, donzelletta?”,
l’apostrofò infastidito Mercurio, tirando la
corda neanche stesse pescando un luccio dal fiume. Hironimo
tentò di rimettersi
in piedi, però la caviglia cedette, frustato da un dolore
acutissimo che gli
provocò striduli fischi fino alle orecchie. Ricadde in
ginocchio, finendo
trascinato ancora per qualche brevissimo tratto. “In piedi!
In piedi, pezzente!
Ratto di laguna! In piedi, perdio, o ti scortico vivo!”
Invece di
aiutare o anche solo biasimare il capitano di ventura
per quell’inutile accanimento, gli stradioti lì
accanto sorridevano compiaciuti
e divertiti da quel piccolo divertissement capitato proprio a pallino
per
interrompere la noia della marcia. Solo Lecha non disse niente,
scuotendo il
capo.
“Zò!
Zò! Fermeve! Fermeve!”, si sforzò
Thomà a gridare, la sua
vocina troppo flebile e roca per giungere alle sorde orecchie del Bua.
“Fermeve! Eo copate!”, strillò isterico.
Notando il modo insensibile in cui il
condottiero seguitava a strattonare Hironimo senza concedergli adeguato
tempo
per rimettersi in piedi, il bambino afferrò un sassetto e lo
lanciò con
chirurgica precisione contro l’albanese, come faceva a casa
sua a Feltre contro
i cani randagi.
Mercurio
ebbe appena il tempo di captare il sibilo, che un dolore
atroce da Golgota crocifisso gli annebbiò la vista.
Maledetta fu la volta che
s’era alzato la visiera dell’elmo! Esaminando a
tentoni l’eco della sassata
subita, gli occhi del Bua s’allargarono alla vista del sangue
lordargli il guanto, assaggiandolo inoltre sulle
labbra e mentre si
nettava con la lingua capì di come esso provenisse dal naso.
Una
rabbia furibonda, figlia dell’umiliazione d’aver
giocato al
Santo Stefano per mano di un moccioso, portò il capitano
degli stradioti a
portare veloce la mano sull’elsa della spada sordo alle
parole che Hironimo gli
gridava mentre col suo corpo copriva quel mostriciattolo, pronto il Bua
come
gli altri stradioti a decollare quel disgraziato e rispedirlo dai
villani suoi
antenati, al diavolo l’età e il motivo dietro
quella lapidazione improvvisata.
“Avete
finito di dar spettacolo?”, s’intromise la voce
nasale del
conte Gianfrancesco di Gambara, abbandonata la sua postazione per
controllare
quanto accadeva, insospettito dal rallentamento della colonna della
compagnia
del Bua. E guardando pieno di disprezzo lui e i suoi stradioti,
commentò aspro:
“Bel modo di trattare i prigionieri d’alto
rango!”
“Alto
rango? Non vedete che si tratta d’un fottuto villano? Una
bocca in meno da sfamare!”, protestò veemente il
condottiero, indicando con la
scutica un Thomà mezzo coperto dal Miani, già
pronto a difendersi con una
pietra più grossa, reso temerario dalla consapevolezza di
star comunque per
morire.
Mettendosi
in ginocchio, Hironimo ringhiò dietro a Mercurio:
“Questo che tu chiami fottuto villano,
furbo, è mio figlio!”
“Tu
non hai alcun figlio, bugiardo!”
“Tu
non me l’hai mai chiesto, idiota!”, e neanche la
presenza del
Gambara risparmiò il giovane Miani da una scudisciata per la
sua insolenza,
regalandogli una striscia rossa sul braccio sotto il lembo di camicia
strappato.
“Rimettiti
in piedi: ripartiamo”, sbuffò snervato il Bua,
specie
davanti all’insistenza del nobile bresciano a non schiodarsi
dal suo posto,
ritornando alla sua colonna, neanche temesse che l’albanese a
furia di sevizie
finisse per ammazzare il prigioniero. “In piedi,
disgraziato!”
“Non
posso.”
“Non
ho tempo per le tue stronzate …!”
“Non
posso!”, insistette frustrato Hironimo, tossendo poi fino a
sconquassarsi il petto per aver alzato la voce malgrado
l’infiammazione.
“Cadendo temo di essermi storto la caviglia, ti pare che
riesca a camminare?!
Con queste poi?”, scosse platealmente le catene e gli
schiaffò sotto il naso
l’arto offeso, il quale in effetti si presentava sempre
più rosso e gonfio,
pulsando leggermente.
Mercurio
si morse l’interno della guancia, tentennante.
L’arrabbiatura gradualmente spentasi, egli appurò
l’effettiva incapacità del
prigioniero di proseguire la marcia, almeno a piedi. Questo
però comportava
ammettere che il veneziano aveva ragione, l’ultima cortesia
sulla faccia della
terra che gli avrebbe concesso, men che meno col conte Gianfrancesco di
Gambara
come testimone.
Inoltre
il naso non s’era rotto, pertanto poteva anche
magnanimamente risparmiare la vita al nanerottolo, adesso scopertosi
figlio di
quel tanghero linguacciuto. Certo! E quando l’avrebbe
generato quello? In
culla? L’aveva preso per uno stolto sprovveduto? Mercurio
più volte aveva
origliato il moccioso chiamare “patron” il
patrizio, quando mai un figlio si
rivolge così ad un padre? Anche se, ripensandoci, a Venezia
s’interloquiva così
anche tra parenti, specie nei saluti ... Magari
quella era usanza
coi figli illegittimi, chissà, troppi anni erano trascorsi
dall’ultima volta in
cui il Bua aveva vissuto nella città lagunare, i tempi e le
mode cambiavano
ultimamente troppo in fretta … Fermo restando che non fosse
tutta una bufala
per salvare quella bestia antropomorfa, della cui sorte il condottiero
non si
capacitava come mai al veneziano stesse così a cuore. Era
solo un bambino, una
pulce, un essere inutile in guerra, destinato a perire se non di spada
di
stenti o malattia. A che pro mettere a repentaglio la propria vita e
reputazione per tale nullità?
Poco male
- concluse Mercurio - anche se quella notizia non fosse
corrisposta al vero, se il Miani affermava trattarsi di suo figlio, chi
era lui
per contraddirlo se l’affare poteva risolversi a suo
vantaggio? Un padre e un
figlio per una madre e una figlia, uno scambio più che equo
cui nemmeno
quell’intrigante della Signoria poteva obiettare ... Tanto,
che ne avrebbe
potuto sapere lei della verità?
Un poco
raccomandabile sorriso arcuò la bocca ancora macchiata di
sangue del Bua, intanto che questi scendeva faticosamente da cavallo,
poggiando
il peso sulla gamba sana.
Hironimo
strinse gli occhi, sospettoso di quel repentino cambio
d’umore. Anche il di Gambara condivideva medesima
impressione, studiando
accorto ogni movimento del condottiero.
“Giusto”,
soffiò malevolo Mercurio, issando di malagrazia il
giovane Miani e conducendolo zoppicante al primo carro disponibile,
ironicamente quello delle prostitute di campo, e lo pose lì
seduto. “Le donne
sempre viaggiano in carretta!”, esclamò a voce ben
alta acciocché lo
ascoltassero tutti e una risata da parte degli stradioti non
mancò d’elevarsi
nell’umida aria settembrina. “Là! Stai
comodo? Finalmente un ambiente a te
famigliare, una puttana figlia di puttana tra le puttane!”
Alla
stregua di una molla un livido Hironimo scattò in avanti,
raschiandosi ben bene la gola e un grumo grasso e giallo
planò in mezzo al
corsaletto di Mercurio, per poi finire il giovane tra le braccia di una
meretrice a causa di un portentoso cazzotto da parte di Lecha,
prontamente
spintonato via lo stradiota dal conte bresciano.
“Avete
intenzione d’andare avanti così per tutto il
dannatissimo
di giorno?”, ruggì snervato il di Gambara, il suo
sermo subitaneamente
dimentico di ogni lirica raffinatezza aristocratica. “Neanche
ce la stessimo
spassando in una scampagnata estiva!”
Mercurio
montò in sella al suo cavallo senza neanche degnare il
nobile di una parola, pulendo via lo sputo con una decisa strofinata.
Busicchio
prontamente lo imitò, sospirando e domandosi che accidente
avesse preso al suo
collega quel giorno. Raramente l’aveva visto di
così pessimo umore e non poteva
trattarsi solamente a causa degli screzi cogli altri comandanti.
Qualcosa di
ben peggiore gli stava ribollendo in petto e lo stradiota nutriva
qualche
sospetto a riguardo.
“Oh,
poveretto, vuoi una mano?”, deridevano intanto le prostitute
Hironimo, il quale ancora stordito dal pugno si copriva con la mano
l’occhio e
la parte di zigomo martoriati, già l’epidermide
che andava scurendosi in un
bell’ematoma blu e giallo. “Eh? La
vuoi?”, lo schiaffeggiavano e spintonavano
finché Thomà, soffiando a guisa di gatto
selvatico, non prese a sua volta ad
elargire zampate, premurandosi d’usare le unghie.
“Pussa
via, ontissime bagasce!”, berciava e tossiva,
sicché le
meretrici, temendo il contagio, indietreggiarono e si dispersero peggio
degli
scarafaggi. “Mi ve cavo i ocij, mi!”
“Oh,
che carino!”, cinguettò melensa la più
coraggiosa del carro.
“Che vorresti farci, pulcino?”, disse, pigliando il
bambino per le guance e
scotendogli il muso.
Questo, le rispose a fatti Thomà, mordendole
la mano
tra pollice e indice fino a trar sangue e la prostituta urlò
peggio d’un porco
sgozzato, colpendo il fantolino e tirandogli i capelli
acciocché mollasse la
presa, ma i denti di quest’ultimo eguagliavano in tenacia
quelli di un mastino
napoletano.
Ripresosi
dall’intontimento, Hironimo intimò al decenne di
lasciarla andare e a malincuore egli obbedì, non senza
essersi tolto lo sfizio
di tormentare con una poco velata minaccia le altre puttane, esibendo
loro i
denti lordi di sangue. Acquattandosi ben in fondo al carro, le donne
non
osarono più avvicinarsi, paventando una possessione
demoniaca del putto.
“E
così avete un figlio, non l’avrei mai
immaginato!”, insinuò
malizioso il conte Gianfrancesco di Gambara, il quale cavalcava accanto
al
carro. “Non mi date l’impressione di un padre …”
“Voi
non mi date l’impressione di un amico,
cui
confido i fatti miei”, ribatté acido il patrizio,
soffiando non appena i suoi
polpastrelli sfioravano l’ematoma, i recettori di dolore
estremamente attivi e
impazziti. Cautamente mosse la palpebra dell’occhio, per
fortuna non così
gonfia da impedirgli di aprirlo.
“Nondimeno,
non credete sia stato un poco irresponsabile da parte
vostra portare un fanciullo così tenero al fronte?”
“Ciò
dimostra che i nostri bambini posseggono più coglioni dei
Francesi e Tedeschi messi assieme!”
“Uhm
… Più che da figlio, questo pargolo si comporta
alla stregua
d’un can da guardia!”, non desistette il nobile
bresciano in quella (al Miani)
molesta conversazione, scoccando una veloce occhiata a Thomà
che appunto lo
guardava in cagnesco. “Mai visti denti
così!”, commentò gioviale.
“Quei
denti”, ribatté invece cupamente il patrizio,
“gli hanno
salvato la vita” e tacque non arrischiandosi di compromettere
la sua bugia
raccontando di quel triste episodio, laddove durante il sacco di Feltre
un
lanzichenecco, una volta terminato di massacrare la famiglia di
Thomà assieme
ai suoi degni compagni, si trovava lì per lì a
completare l’opera scannando
anche il piccino se quest’ultimo non l’avesse
anticipato, azzannandogli la gola
fino a strappargli via la carne e costì degolarlo, fuggendo
via nel marasma
generale della città saccheggiata e nascondendosi tra i
boschi, giudicando più
misericordiosi i lupi degli uomini.
Un’espressione
molto vicina al rimorso scurì il volto giallognolo
del conte, quasi potesse intuire l’implicazione di quel
mordere animalesco, ma
si trattò un attimo. S’avvicinò invece
al carro, inclinandosi verso di lui come
se volesse render partecipe il veneziano di una qualche confidenza.
“Prima che
ritorni alla mia compagnia, avete bisogno di qualcosa?”,
s’informò neutro, non
tradendo alcun’emozione.
“Da
un traditore non voglio niente” e quel malcelato veleno
provocò un breve rictus nella mascella del conte.
“Non
siate così rancoroso”, blandì questi
flemmatico il giovane
patrizio. “È la guerra, ognuno fa i propri
interessi.”
“Anche
domino Soncino Benzone faceva i suoi interessi e guardate
com’è finito”, gli ricordò
Hironimo con crudele divertimento, sogghignando al
subitaneo irrigidimento della schiena del Gambara, il cui colore
già malaticcio
divenne cinereo, peggio d’un morto.
Come
poteva d’altronde egli obliare la punizione esemplare
riservata al traditore cremasco?
“La
Signoria è la causa dei suoi stessi mali, si è
creata da sé i
suoi nemici”, sentenziò dopo un lungo silenzio il
conte, tuttavia evitando
d’incrociare lo sguardo di Miani. “Soncino Benzone
ne è la prova, vittima sia
dell’invidia del vostro conterraneo Zuam Paulo Gradenigo, suo
rivale fin
dall’epoca della guerra di Pisa, sia della poca riconoscenza
da parte della
Signoria nonostante i suoi successi militari. Fu lui a catturare il
cardinale
Ascanio Sforza e come venne ripagato? Col confino a Padova e questo
grazie alla
testimonianza di Gradenigo, presentando questi frasi vecchie e in altri
contesti. Non l’avessero codeste circostanze umiliato, sono
sicuro che domino
Benzone non avrebbe serbato tal rancore da passare dalla parte del Re
di
Francia, aprendogli le porte di Crema due anni addietro.”
“Il
mio parente [1] Gradenigo l’ha solo inquadrato, capendo
immediatamente con chi avesse a che fare ossia uno scaltro
approfittatore
pronto a cambiar bandiera al primo vento contrario”, si
scaldò il giovane
veneziano, affatto contento di quel vilipendio e in aggiunta desideroso
di
sfogare con qualcuno la stizza dell’umiliazione appena subita
per mano del Bua.
“Domino
Soncino voleva solo risparmiare la sua amata Crema dal
saccheggio e dalla distruzione!”
“Su
suggerimento del suo grande amico, Gian Giacomo Trivulzio, che
gli aveva anticipato i piani suoi e del Re, a patto ovviamente che
oltre alla
città questo novello Giuda consegnasse ai Francesi anche il
podestà sier Nicolò
Pexaro!”, obiettò Hironimo, cingendo
Thomà con un braccio e tenendolo fermo,
acciocché appoggiasse la testa ciondolante dagli scossoni
del carro. “Li
abbiamo ben letti i rapporti di domino Latanzio da Bergamo.”
Su quel
punto di Gambara non poté controargomentare. “Anni
di
confino avvelenerebbero il sangue a chiunque. Per cause ingiuste, per
di più!”,
insistette tuttavia l’uomo. “Negate forse che i
continui rapporti negativi
inviati dal Gradenigo non abbiano influito sull’opinione
della Signoria,
rendendola irriconoscente verso il Benzone e costì
disconoscendone i meriti?
Gli aveva tagliato il mantello dinanzi alle autorità
veneziane. Era ovvio che
gli avesse ordito contro una congiura!”
“Congiura!”,
rise sardonico il giovane patrizio. “Il mio parente
sarebbe incapace di tali bassezze, non possiede una sola fibra
disonesta nel
suo corpo!”
“Nondimeno
per ripicca ha contribuito alla condanna di un
innocente!”
“Un
innocente che ha tentato di corrompere un Capo dei Dieci con
centoventi ducati!” Il conte Gianfrancesco si
voltò di scatto, sbalordito. Al
che Miani schioccò la lingua trionfante. “Ah,
questo non lo sapevate.”
“Un
uomo disperato si dimostra disposto a tutto”,
bofonchiò il
nobile bresciano, stringendo convulsamente le redini del cavallo.
Hironimo
emise uno sbuffo assai scettico. “Dite, signor Conte, non
avrete forse timore di dover un giorno far compagnia a domino Soncino
nell’Antenòra?”, [2] lo
stuzzicò perfido. “O di finire cadavere appeso ad
un
palo in balia degli animali e delle intemperie?”
Gianfrancesco
di Gambara aspirò profondamente dal naso, avvertendo
una certa strettezza al collo mentre fredde gocce di sudore gli
scendevano
lungo la nuca accaldata. Una sensazione di vuoto allo stomaco
seguì poco dopo,
rendendolo ipersensibile ad ogni stimolo esterno, quasi
l’avessero
improvvisamente denudato e costretto all’aria fredda. Tutto
questo il conte
s’ingannava rassicurandosi che si trattava dei sintomi della
malattia contratta
a Montebelluna; in realtà, eccome se ci pensava a domino
Soncino, così come
all’eventualità d’emularne la triste
sorte in caso l’avessero catturato a
Treviso la cui difesa, oh somma ironia, era stata affidata proprio a
Zuam Paulo
Gradenigo, la sua fama di uomo poco tenero coi traditori ben nota a
tutti.
Il conte
bresciano aveva combattuto al fianco di Soncino Benzone,
lo conosceva abbastanza bene e pur simpatizzante per le sue amare
vicende e
ammirandolo per lo spirito ardito e abilità diplomatica e
militare, anch’egli a
malapena aveva tollerato il carattere altero e iracondo del cremasco,
nonché la
violentissima crudeltà con cui trattava la popolazione
assoggettata tra
Vicenza, Verona e Padova, quasi il Benzone avesse voluto
sfogare su
quegli inermi poveracci il suo inestinguibile odio nei confronti della
Signoria.
Onestamente,
sarebbe stato meglio per lui esser rimasto nel
bresciano e nel bergamasco.
Louis XII
aveva infatti commesso un imperdonabile errore nel
trasferire il Benzone così vicino al raggio
d’azione della Serenissima. Il 19
luglio 1510 tra Este e Montagnana venti stradioti riuscirono
inaspettatamente a
catturare il condottiero cremasco con cinque suoi uomini, mentre da
Verona
trasportavano carri di panni e seta a Vicenza. Condotto a Padova, con
non poche
difficoltà venne il prigioniero portato a Palazzo della
Ragione per
l’interrogatorio, le strade bloccate dalla folla inferocita e
intenzionata ad
impiccarlo al primo palo disponibile. Sicché il passaggio
dal giudizio
all’esecuzione era stato immediato ed esemplare: la notizia
della sua cattura
ancora non era giunta a Venezia, che già Soncino Benzone
penzolava dalla forca
su ordine del provveditore, il suo cadavere appeso poi con un sasso ad
un palo
fuori città sull’argine del Brenta, esposto alle
intemperie e agli uccelli.
A
giudicare dalla sua tardiva reazione nell’invio di emissari,
sicuramente Louis XII non s’era aspettato tanta solerzia nel
giustiziare il suo
capitano. Condannando a morte il cremasco senza indugio, il
provveditore sier
Andrea Griti aveva ottenuto il doppio scopo di eliminare un traditore
della
Repubblica e di vanificare un prevedibile intervento francese in suo
favore,
privando il loro re di un validissimo e determinato alleato.
D’altronde
Soncino Benzone nella sua arroganza s’era inimicato la
persona sbagliata. Mai avrebbe creduto che Gradenigo, oltre che a
notificare i
Dieci, avesse largamente condiviso i suoi dubbi e le sue accuse contro
di lui
con amici e familiari. Mai avrebbe il cremasco immaginato, fra tutti i
provveditori, di finir prigioniero del cognato dell’odiato
rivale – sier Andrea
Griti. Mai avrebbe immaginato, dopo la dolce illusione d’aver
vendicato il suo
onore, che l’ultima risata se la sarebbe fatta proprio il
veneziano,
maledicendo chissà il momento in cui le loro strade
s’erano incrociate.
“E’
stato vittima di sfortunate circostanze”, concluse
malinconico
Gianfrancesco di Gambara, percependo una certa pesantezza sulle spalle
che lo
fece sentire d’un tratto ancor più vecchio e
spossato per quel mondo governato
dalla follia, ironicamente da lui invitata a martoriare quelle terre
feconde e
tranquille. Soncino Benzone aveva agito spinto dall’orgoglio
e dalla sete di
vendetta. Lui per la difesa dei privilegi ancestrali e contro
l’imposizione del
governo veneziano. Aveva fatto bene, però? , si domandava
talvolta angosciato.
Quale eredità avrebbe lasciato ai posteri, quale immagine di
lui? Di un
liberatore o di un traditore?
Quella
guerra iniziata con la certezza assoluta della sconfitta
veneziana, quella guerra ch’era stata descritta
dall’Imperatore come la giusta
vendetta per l’arroganza di San Marco, quella guerra che il
Re di Francia
giudicava rapida alla stregua d’un fulmine, ecco quella
guerra per il Gambara
era da tempo divenuta soltanto un’avida voragine buia che
tutto inghiottiva,
uomini, donne, amici, nemici, onore, cavalleria, verità,
menzogna, il giusto e
il sbagliato per rigurgitar fuori null’altro che miseria e
morte per ambedue i
contendenti.
“E
voi, signor Conte”, gli chiese lentamente Hironimo,
scuotendolo
dalle sue cupe elucubrazioni. “Siete anche voi vittima di
sfortunate
circostanze?”
“Voi,
invece?”, gli ritorse il nobile contro la domanda.
Al che
Miani s’ingobbì su se stesso in difesa, sebbene la
sua voce
rimase ferma: “Io non sono una vittima. Io ho fatto le mie
scelte, giuste o
sbagliate che siano, le ho fatte. Non temo le conseguenze.”
Il conte
l’ascoltò in meditabonda contemplazione ora del
suo
interlocutore ora dei contorni dei monti all’orizzonte, i
quali si stagliavano
scuri nel cielo plumbeo quando però le nubi basse non li
celavano, creando
l’illusione di un immenso
incendio.
Similmente
una vampata calda e improvvisa riempì i polmoni del
Gambara, dilatandosi essi fino a correre l’aria rapida lungo
la trachea,
fermandosi in gola e premendogli dietro i denti finché
l’uomo, coprendosi la
bocca, si sfogò in una portentosa tosse talmente profonda,
che ricordava
vagamente il raglio di un asino. Egli tossì,
tossì, tossì in continuazione ed a
brevissimi intervalli a malapena necessari onde ripigliare fiato,
neanche
avesse per azzardo ingoiato della salsa al pepe, il viso paonazzo dallo
sforzo
e la vista annebbiata da pingui lacrime.
Vedendo
il nobile piegato su se stesso e a momenti sputar fuori
l’anima, per un fuggevole istante Hironimo provò
un pelino di pietà nei suoi
confronti.
Giusto un
pelino.
Gianfrancesco
di Gambara si costrinse a raddrizzare la schiena,
schiarendosi la gola e dominando la smorfia di dolore provocatagli
dalle
ghiandole parotidi. S’asciugò in fretta le lacrime
dal viso chiazzato da
macchie rossastre, un po’ per l’affaticamento e un
po’ per aver sputato a terra
del catarro, atto assai poco aristocratico.
Un
incomodo silenzio s’impose tra i due uomini.
“Sul
serio non necessitate di nulla?”, riprese incolore il
bresciano la domanda scatenante quel loro acceso dibattito, intuibile
tentativo
sia di cambiar discorso sia di concluderlo lì.
“Non
ho bisogno del vostro aiuto”, anche il tono di Hironimo
suonava secco e tagliente, poco desideroso di disquisire oltre.
“Men che meno
se finalizzato a placarvi la coscienza!”
Il conte
giostrò con le redini e schioccò la lingua,
acciocché il
suo cavallo intuisse il suo desiderio di girarsi e tornare indietro
alla sua
colonna. Non senza tuttavia aver condiviso col giovane patrizio
un’ultima
confidenza: “Forse un giorno imparerete
l’umiltà di accettare aiuto, messer
Emiliani, dovunque esso arrivi”, fu il suo consiglio.
Dopodiché
speronò il cavallo, galoppandosene via e lasciando
Hironimo in compagnia dei suoi pensieri e ignaro delle frequenti e
segrete
occhiate scoccategli da Mercurio Bua, giratosi infatti questi per
controllare i
movimenti dei due uomini. La fronte dell’albanese, man mano
che il di Gambara
s’attardava col Miani, s’era increspata in una
smorfia scocciata nonché
insospettita.
Cos’era
quel negozio? Sin dal suo arrivo al campo, il conte
bresciano aveva dimostrato fin troppo interesse nei confronti del suo
prigioniero, anche dopo che il Bua aveva chiarito in via definitiva le
modalità
d’uccisione a chi glielo avesse sottratto e giustamente alla
fine ogni pretesa
sul veneziano era decaduta. Evidentemente quel cocciuto pezzente non
aveva
recepito il messaggio.
Prima
sarebbero giunti all’Abbazia, meglio sarebbe stato per
tutti. Lì il condottiero avrebbe messo il patrizio
sottochiave in qualche
cella, ben distante dal nobile.
Poiché
figli della medesima razza, Mercurio sapeva benissimo che,
tradito una volta, non ci si metteva nulla a tradire una seconda.
***
Il
blu incominciava a scacciare in cielo l’ultimo oro del
tramonto, ammantando delle sue ombre la dolce pianura sotto la sua
volta e di
gran brillantezza rifulgeva adesso Espero, la sua prima stella. I
grilli al
contempo vicini e lontani cantavano le loro incessanti serenate,
accompagnati
dal lieve fruscio delle fronde degli alberi e dei giunchi dei canali e
fiumi,
il cui scorrere sereno e incurante degli affanni umani riecheggiava
flebile ma
persistente.
In questo
momento di placido transito dal giorno alla notte,
Francesco Contarini di sier Hironimo “Il Grillo” e
i suoi compagni esploratori
s’apprestavano a ritornare con succose notizie a
Camposampiero, laddove era
appostato il resto della compagnia, un totale di cinquecento uomini tra
stradioti e balestrieri agli ordini del provveditore sier Ferigo
Contarini q.
sier Hironimo, di domino Giano di Campofregoso, del conte domino Guido
Rangoni
e dai capitani Domenico, Giorgio, Pellegrino e Pietro Busicchio.
Il
giovane provveditore degli stradioti aveva insistito su quella
sosta, ordinando ai soldati di cenare bene e dormire quanto
più possibile, in
attesa che il conterraneo gli fornisse gli ultimi tasselli necessari a
completare il suo piano. Sicché tutti l’avevano
preso in parola e il campo era
sprofondato in uno stato di beata pennichella di fine estate. Soltanto
lui,
sier Ferigo, seguitava a scrutare insistentemente l’orizzonte
oscurarsi e
perdere la sua fulgente doratura man mano che il carro di Febo cedeva
il passo
a quello di Selene.
Guido
Rangoni l’osservava da lontano, indeciso
se
raggiungere il Contarini e invitarlo a riposare qualche ora o di
lasciarlo al
suo impaziente andirivieni, interrottosi all’improvviso in
una marmorea
immobilità, le mani ben serrate dietro la schiena.
Sebbene
tra i due uomini fosse nata una cauta amicizia, il giovane
conte non si giudicava abbastanza conoscitore dell’animo di
sier Ferigo
nell’approcciarlo quando, dimessa la sanguigna maschera del
capitano impetuoso
e carismatico, egli riacquistava quella sua naturale aria riservata,
discreta
ed esteriormente tranquilla qualunque fossero i suoi contrasti interni,
un po’
tipica della sua gente.
Da
fanciullo Guido aveva appreso da suo padre, il conte Niccolò
Maria Rangoni, come i veneziani generalmente fossero dei simulatori e
dei vendicativi.
Solo molti anni dopo, andando esule e scomunicato a vivere tra di loro,
Guido
capì cosa intendesse veramente il genitore: più
che dei simulatori, i veneziani
erano di natura assai introversa, ossia chiusa e diffidente, poco
inclini a
parlare di sé semmai grandi ascoltatori. Accordavano
difficilmente l’amicizia,
ma una volta concessa non la toglievano, sicché con doppia
tenacia
perseguitavano chi li tradiva, il modenese stesso aveva avuto un
assaggio di
codesta ferocia punitiva, quando s’era adombrato un certo
favoritismo nei
confronti dei suoi conterranei durante la campagna del
Polesine.
Se
sier Andrea Griti vi crede innocente al punto da difendervi dal
parere dei Dieci, non vedo perché non debba fidarmi
anch’io della vostra lealtà
a San Marco. Nondimeno, sappiate che se mi tradirete, il mio settanta
volte
sette sarà quello di Lamec e non di Nostro Signore [3]
“L'é
un quèl ed cl' êter mònd! Mi domando
come accidenti faccia”,
borbottò suo fratello minore Francesco, provocando nel
giovane conte un lieve
sussulto, avendolo infatti creduto ancora beatamente addormentato
accanto
all’altro cadetto, Ludovico.
“C'sa?
Chi?”
“Il
provveditore Contarini”, sbadigliò Francesco,
passandosi una
mano tra gli arruffati capelli castano scuro. “Non dorme mai,
piglia un pasto
tra il dì e la notte, vigilantissimo. Per dîrla
s'cèta e nèta, par quasi
possedere una natura diabolica, che mai si consuma.”
Guido
abbandonò la sua infruttuosa contemplazione delle spalle di
sier Ferigo, oramai accantonando ogni proposito di discorrere con lui.
“Egli
combatte per la sua patria”, gli spiegò
concisamente, prendendo posto accanto
al fuoco e invitando Francesco ad unirsi a lui, se proprio non aveva
alcun’intenzione di tornare a dormire.
“Et
nuêter?”
Con la
scusa di spostare dei ciocchi con l’attizzatoio, il
ventiseienne condottiero evitò al minore risposte infelici.
“Da parte di chi è
quella missiva?”, inquisì cambiando velocemente
discorso, notando il pezzo di
carta mezzo accartocciato tra le dita del fratello che, tentennante,
rispose in
un sussurro:
“Di
… d’Hannibal …”
“Ch'
ét gnés 'n antcōr! Dammi qua!”,
scattò rapido e sottratta di
malagrazia la lettera, il maggiore dei Rangoni la gettò nel
fuoco, che
l’ingollò in una sola vampata.
“Êşen! Quante volte ti ho detto di non accettare
mai più alcuna missiva da parte sua?!”
Da un bel
po’ sia il loro fratello Annibale che il loro zio
Annibale Bentivoglio, da quando avevano recuperato Bologna, stavano
insistendo
coi tre Rangoni acciocché ritornassero a prestar servizio
alla famiglia signorile
bolognese, come ai vecchi tempi. Il Bentivoglio li aveva pure garantito
come si
fosse riappacificato col Duca di Ferrara, alleato degli stessi francesi
che
l’avevano aiutato a riconquistare lo Stato, e come Alfonso
d’Este avesse
dimenticato e perdonato ogni passato screzio tra di loro.
Mal per
l’Estense, Guido Rangoni non aveva dimenticato né
perdonato.
“Ma
Guido! L’è nòster
fradèl!”, protestò sbigottito
Francesco, gli
occhi fuori dalle orbite che si spostavano dal viso del maggiore al
mucchietto
di ceneri in cui s’era trasformata la lettera.
“Nella
nostra professione non abbiamo fratelli, solo una sorella
ovvero la nostra spada!”
“An
dîr dal cojunêdi! Hannibal rimane nostro
fradèl, così come lo
sío Hannibal rimane nostro sío e i Bentivoy
nostri parenti!”
“Anche
Lucrezia d’Este è nostra zia e gli Estensi nostri
parenti,
eppure guarda come ci hanno allegramente sbattuto la porta in faccia al
primo
vento contrario! Ti ricordo, fradèl, che se lo
sío Hannibal ha dovuto mendicare
supporto ai Francesi per ripigliarsi Bologna, deve ringraziare proprio
quel
ciocapiât del Dóca ed Ferêra,
tanto bravo a proclamarsi loro amico e
dispiaciuto per le loro disgrazie che misere nobis quando i Bentivoy
hanno
voluto riprendersi lo Stato! Li ha consegnati al Papa su di un piatto
d’argento
come Salomè! Anni di servizio da parte sia nostra sia di
nostro padre, tutti
buttati giù nella cloaca e perché cosa?
Perché noi abbiamo dimostrato di
possedere rispetto a lui più onore alla parola data e
lealtà verso i legami
familiari?”
Richiamato
il suo capitano in gran pressa da Bologna a Ferrara, il
duca Alfonso d’Este lo aveva posto dinanzi ad un aut-aut: o
il servizio alla
casata ducale ferrarese, o la sua famiglia bolognese. Se
varcherete
quella soglia, lo aveva avvertito
minaccioso, guadagnerete un
nemico tenacissimo.
Per
la vita, gli
aveva allora a sua volta promesso
Guido Rangoni, voltando le spalle al Duca, a Ferrara e
all’antica alleanza che
per anni aveva unito gli Estensi ai Rangoni. Per mesi Alfonso
d’Este aveva
cercato di catturare il ribelle, le cui spiccate doti militari lo
avevano però
sempre salvato da ogni imboscata da parte dei ferraresi capitanati dal
fratello
dell’Este, il cardinale Ippolito. Si narrava perfino che
quest’ultimo,
frustrato e umiliato dall’ultima abile fuga del Rangoni,
dalla stizza avesse
ordinato d’impiccare l’oste che aveva ospitato a
Bologna il giovane conte.
Abbandonata
la madrepatria e scomunicati dal Papa Giulio II, Guido
e Ludovico Rangoni s’erano acclimatati facilmente alla nuova
vita a Venezia,
riparando al loro feudo di Cordignano impestati d’odio a
causa di
quell’ingiusto tradimento da parte di coloro per le cui cause
avevano sempre
combattuto, ponendo la vita in prima fila, per poi venir ripagati con
del
gretto egoismo calcolatore. Al contrario Francesco Rangoni, il
più piccolo dei
fratelli, ancora faticava a lasciarsi tutto indietro e a voltar pagina.
“La
verità”, gli rammentò aspro Francesco,
“è che a te non importa
più della nostra famiglia, né dei Bentivoy. A te
basta dargliela in qualsiasi
modo sui corni agli Estensi!”
Guido si
sporse in avanti verso il cadetto, puntandogli severo
contro le iridi marroni. “Vuoi tornartene a Bologna? Fai
pure, vattene! Chi ti
trattiene? Sei forse mio prigioniero? Però rammenta che se
tu dovessi cadere
una seconda volta col culo per terra, sappi che non mi troverai
lì ad
aiutarti!”
Il
ragazzo abbassò il mento sul petto, le dita strette e
intorcolate tra di loro. Comprendeva perfettamente la situazione in cui
le
avverse vicende li avevano scaraventati; era
quell’implacabile rigore da parte
di suo fratello maggiore che non comprendeva.
“Mi
manca … mi manca tanto nostro fradèl …
nostra mêdra, le nostre
surèle … Mòdna ... Bologna ... il
nostro palazzo a San Sismondo …”,
farfugliò
mesto, avvertendo un familiare pizzicore agli occhi.
“Mócio!
An fêr di snóm! Non piangere, non sei
più un putèin!”, lo
zittì perentorio Guido, a voce forse troppa alta
ché Ludovico si scosse dal
sonno, puntellandosi disorientato sui gomiti.
“…
‘sa succede?”, si stropicciò gli occhi,
ancora mezzo
addormentato. “E’ già ora di
partire?” e accortosi sia dello sguardo duro e
furioso del fratello maggiore sia di quello basso e penitente del
cadetto,
insistette: “Perché quelle facce?” Scese
dal letto e li raggiunse, studiandoli
preoccupato.
Guido
cacciò fuori un profondo sospiro, massaggiandosi stancamente
la fronte intanto che si poneva in piedi a contemplare il fuoco. Sin da
quando,
quindicenne, aveva perduto il padre e s’era trovato costretto
a sostituirlo sia
alla guida dell’esercito che della famiglia, il giovane conte
s’era sempre
prodigato per assicurare il meglio ad entrambi. A quanto pareva, era
più facile
dirigere una masnada di indisciplinati soldati che i propri parenti.
“Allora?
Di che cosa stavate discutendo?”
Il
maggiore dei Rangoni invitò Ludovico ad avvicinarglisi e
anche
al minore. “Hannibal rimarrà per sempre nostro
fradèl, però ha fatto la sua
scelta e noi la nostra. A Mòdna non ci possiamo
più tornare, se non a capo di
un esercito”, asserì rassegnato, scrutando accorto
il viso impassibile di
Ludovico e quello dispiaciuto di Francesco. Colto da un subitaneo moto
d’affetto, Guido appoggiò le mani dietro la loro
nuca, conducendoli a sé e
abbracciandoli. “Ludovico, Francesco … in questo
momento voi siete tutto ciò
che mi rimane della nostra famiglia frammentata e dispersa. Dobbiamo
impedire
ad ogni costo di perdere fiducia l’uno nell’altro.
E come abbiamo servito
fedelmente i Bentivoy e gli Estensi, adesso con altrettanto zelo noi
dobbiamo
servire la Repubblica, senza se e senza ma. Mi si spezzerebbe il cuore
vedervi
penzolare come Soncino Benzone …” ed ebbe appena
il tempo di terminare il suo
discorso, che improvvisamente l’aria serale vibrò
dell’energia della tromba e
del tamburo, cui funse d’accompagnamento musicale agli
schiamazzi concitati dei
balestrieri e degli stradioti, i nervosi nitriti dei loro cavalli e il
ventiseienne conte seppe che il campo aveva ricevuto l’ordine
di levarsi.
“Su,
sbrigatevi, non facciamo la figura dei poltroni!”
Allorché
i tre fratelli modenesi raggiunsero il resto della
compagnia, trovarono il provveditore degli stradioti già
pronto, occupato a
monitorare alla stregua d’un gatto ogni preparativo, mentre
ascoltava
soddisfatto e sornione quanto sier Francesco Contarini gli stava
riferendo.
“Buone
notizie?”, s’informò celere Guido
Rangoni col suo collega
Giano di Campofregoso.
“Ottime”,
esclamò vivacemente il genovese, salendo sul suo
cavallo. “Si preannuncia uno scontro interessante. E
proficuo”, aggiunse,
girandosi poi ad ordinare le ultime istruzioni ai suoi uomini.
Quand’ecco che
il suo sguardo cadde su Francesco Rangoni, che se ne stava un
po’ a disagio
seminascosto dietro al fratello Ludovico. “Belin, anche il
piccolino viene?
Dite, è la vostra prima volta?”,
s’informò cortese, peccato che
quell’innocente
domanda venne travisata da maliziose interpretazioni, almeno a
giudicare dal
divertito grugnito di Ludovico, subito fustigato da
un’occhiataccia da parte di
Guido.
“Francesco,
l’illustrissimo signor comandante di Campofregoso
v’ha
posto una domanda”, incoraggiò questi il minore a
parlare, essendosene rimasto
lì imbambolato a bocca aperta.
Il
ragazzo strabuzzò comicamente gli occhi e annuì
veloce, grato
dell’oscurità che gli copriva il fastidioso
rossore alle gote.
“Avete
paura?”
“Nossignore”,
gracchiò Francesco, stringendo convulso le redini.
“Non
vergognatevene: tutti abbiamo paura al primo assalto. Dopo
però diverrà per voi naturale come
respirare”, l’assicurò il
cinquantaseienne
condottiero, sorridendogli tenero, memore dei tempi passati quando
anch’egli
aveva tremato la prima volta in cui aveva battezzato di sangue la sua
spada.
“Osservate bene vostro fratello e imparerete dal
migliore!”
“Grazie
signore, lo terrò a mente e farò del mio
meglio”, espresse
il giovane la sua riconoscenza verso quei consigli. E non appena il
Campofregoso gli diede le spalle per conferire con Guido, Francesco
elargì una
stizzita manata a Ludovico, che ridacchiando lo ripagò
d’una sfrontata
linguaccia, forte della distrazione del maggiore.
Un
attento silenzio generale impedì al ragazzo di rendergli la
pariglia, ogni sguardo diretto verso sier Ferigo Contarini,
ch’aveva levato la
mano in alto per conferire.
“I
nostri esploratori ci hanno comunicato come il nemico abbia
dato ordine di preparare e spedirgli da Castelfranco carri di pane,
farine e
biade per sfamare loro e i cavalli”, esordì il
provveditore. “Vedete che
ladri?” e calcò bene la parola, strisciandola e
riempiendola di veleno e
disgusto. “Si nutrono del cibo rubatoci! Del cibo cavato di
bocca a chi se l’è
onestamente guadagnato! Del cibo prodotto da una terra che non li
appartiene!”,
esclamò veemente, indirizzato soprattutto questo discorso
alle coscienze dei
soldati veneti, i quali digrignavano feroci i denti, essendosi infatti
alcuni
di loro arruolati sia per patriottismo sia perché non
avevano altro modo di
sfamare le loro donne e i loro figli. “Allora io dico: con
tal feccia non c’è
da esser gentiluomini!”
Un primo
entusiasta ululato fendette la quiete notturna, garbando
ai soldati la piega che quell’arringa stava prendendo.
Conscio
di aver ben scaldato gli animi, sier Ferigo annunciò
dunque con trascinante impeto: “Dieci carri spettano alla
Signoria, il resto è
tutto vostro!”, fu la sua solenne promessa.
Un
giubilante ruggito l’accolse, accompagnato dal forsennato
battersi
il pugno sul corsaletto e dal cozzare della zagaglia contro la targa e
gli
stradioti apparivano quasi commossi dalla bella notizia, qualcuno
addirittura
che accarezzava il possente collo del proprio fedele cavallo,
raccontandogli
della scorpacciata di biada che a breve si sarebbe fatto.
Sier
Ferigo domandò di nuovo di porgergli orecchio.
“Domani oltre
che ad essere domenica, è la festa
dell’Esaltazione della Santa Croce. Anche se
non possiamo ufficialmente celebrare la Messa [4], ugualmente preghiamo
e
affidiamo nelle mani del Signore le nostra missione e le nostre
vite”, esortò
il giovane provveditore a quel breve attimo di raccoglimento, onde far
pace con
Dio e cavalcare sereni al loro destino, qualsiasi esso fosse stato.
Eseguito
un lento e grave segno della Croce, il Contarini recitò a
voce ben alta e chiara il Salmo della Messa festiva:
“Ascolta,
popolo mio, la mia legge,
porgi
l’orecchio alle parole della mia bocca.
Aprirò la
mia bocca con una parabola,
rievocherò
gli enigmi dei tempi antichi.
Quando li
uccideva, Lo cercavano
e tornavano
a rivolgersi a Lui,
ricordavano
che Dio è la loro roccia
e Dio,
l’Altissimo, il loro redentore.
Lo
lusingavano con la loro bocca,
ma Gli
mentivano con la lingua:
il loro
cuore non era costante verso di Lui
e non
erano fedeli alla Sua alleanza.
Ma Lui,
misericordioso, perdonava la colpa,
invece di
distruggere.
Molte
volte trattenne la Sua ira
e non
scatenò il Suo furore.
Nos autem
gloriari oportet in cruce Domini nostri Iesu Christi, in
quo est salus, vita et resurrectio nostra, per quem salvati et liberati
sumus!”, terminò ieratico sier Ferigo, aprendo gli
occhi. “Amen!”
“Amen!”,
lo imitò il resto della compagnia, la quale aveva
ascoltato in devotissimo silenzio, a capo chino e chi poteva a mani
congiunte,
tingendo conforto in quelle sacre parole, unica certezza in un mondo
dai
continui rovesci di fortuna, morale ed amicizie.
“In
nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti”, si
segnò
nuovamente il giovane provveditore degli stradioti tosto imitato dai
soldati.
Dopodiché, egli appoggiò la sua fiaccola sul
braciere e avvoltasi di fiamme la
punta, la ritirò e accese quella dell’altro
Contarini, che a sua volta accese
la fiaccola di Giano di Campofregoso e lui quella di Guido Rangoni e
così via a
catena, finché tutto il campo venne illuminato a giorno.
“In
nome del Cristo Risorto, della Vergine, di San Marco e di San
Giorgio, a Castelfranco!”, incitò sier Ferigo i
suoi stradioti e balestrieri,
cui fecero eco le zagaglie, le balestre e le insegne levate in alto
dagli
uomini eccitatissimi alla prospettiva della battaglia e soprattutto del
pingue
bottino.
“A
Castelfranco! A Castelfranco! Marco! Marco!”
Perfino i
cavalli parvero nitrire il loro assenso, guidati al
galoppo dai loro cavalieri in una compatta colonna formatasi assai
rapidamente
e in un batter d’occhio il campo si era svuotato
completamente, ingoiato dal
silenzio.
E un
fiume luminoso penetrò nell’oscurità
notturna, simile ad una
folgore in cielo preannunciante un portentoso temporale di morte e
distruzione
del nemico.
***
Le
truppe dei Franco-Imperiali giunsero a Nervesa di prima
mattina e subito Jacques de Chabannes de la Palice, monseigneur de
Boissy e du
Molard, Mercurio Bua e Lecha Busicchio, Gianfrancesco di Gambara,
Giulio
Sanseverino e Galeazzo Pallavicino si diressero all’Abbazia
di
Sant’Eustachio[5], la quale sovrastava la zona
dall’alto di una collina
terrazzata da viti feconde. Il capitano Jacob e gli altri comandanti
tedeschi
invece avevano preferito sostare alla Certosa di San Girolamo, da
lì poco
distante.
Appartenente
all’ordine benedettino, l’Abbazia di
Sant’Eustachio
era stata fondata nel 1062 dal conte Rambaldo III di Collalto e da sua
madre
Gisla, godendo pertanto essa della costante protezione della famiglia,
la quale
le aveva garantito una notevole indipendenza dalla diocesi di Treviso
nonché
l’ingerenza del suo vescovo, il cui potere i Collalto avevano
voluto limitare.
Di
conseguenza, vista dal basso l’Abbazia poteva assomigliare
più
ad una piccola fortezza che ad un edificio di preghiera o di
sanificazione del
territorio, come invece erano le sue consorelle sparse nella
Terraferma,
costruite infatti ai piedi di colli o montagne, in terreni dapprincipio
marci e
inutili. Le spesse mura del corpo principale del monastero e il
massiccio
campanile da cui si poteva visualizzare la vallata sottostante lo
rendevano un
robusto rifugio da ogni pericolo esterno.
Il
maresciallo francese l’aveva scelta apposta per la sua
posizione strategica e i suoi sottoposti avevano convenuto animosamente
con
lui, assai allettati dall’idea d’alloggiare in un
luogo finalmente asciutto e
confortevole, anche a costo di doverlo condividere tra di
loro.
Purtroppo,
la lunga ed estenuante marcia li aveva fatto scordare
come quel giorno fosse domenica e per di più festa solenne
dell’Esaltazione
della Santa Croce e ciò ritardò i loro piani di
ristoro, costringendoli
all’attesa.
“Siete
i benvenuti ad assistere alla Messa”, spiegò il
padre
guardiano ai nuovi arrivati, non appena li ebbe raggiunti dalla sua
casetta
poco lontano dal cancello principale. Parlava nervosamente, incerto
cosa
aspettarsi da quegli stranieri malgrado le rassicurazioni del conte
Joanne
Antonio da Collalto. “Tuttavia dovete attendere la fine della
funzione, prima
di poter conferire con l’Abate.”
“Molto
volentieri, fateci per cortesia strada”, accettò
La Palice
di buon grado quella proposta, sia per ripararsi dalla pioggia
ch’aveva ripreso
ad importunarli sia perché sentiva l’impellente
necessità di una benedizione,
preoccupato nel suo intimo di tutte quelle sciagure capitatigli di
recente tra
capo e collo, quali epidemie nel campo, penuria di approvvigionamenti,
liti
continue tra soldati francesi e tedeschi, i Veneziani che lo
tallonavano da
ogni angolo e l’Imperatore che s’era perso tra i
monti, giurando e stragiurando
che si sarebbe unito alle sue truppe per l’impresa di Treviso
e invece di
Maximilian non si vedeva manco la punta del suo grossissimo naso.
La
tentazione di mandare l’Habsburg a mangiar rave nei campi lo
tentava ogni dì sempre di più, soltanto il senso
dell’onore e dell’impegno
preso gli impedivano di tornarsene a Verona o a Milano direttamente.
Che magra
figura ci avrebbe fatto, ragionava poi, col suo Roi Louis e con
quell’arrogantaccio di suo nipote Gaston de Foix-Nemours?
Neppure l’ognora
comprensivo Bayard l’avrebbe giustificato, rimproverandogli
la poca costanza e
d’altronde conoscendo le Bon Chevalier, quello sarebbe stato
capacissimo di
correre scalzo e in mutande a Treviso pur di non mancare alla parola
data.
Contemplando
abbacchiato le betulle ai lati della stradina onde
salire all’Abbazia, il de La Palice
s’augurò di trovar risposta nella
preghiera, non essendogli mai capitato in vita sua di non saper quale
decisione
prendere.
Il
maresciallo e il resto dei comandanti passarono per il secondo
portone, quello del monastero vero e proprio, attraversando un ampio
cortile di
solito brulicante d’attività ma in quel momento
silenzioso per via della Messa
solenne, le cui litanie cantate si potevano udire già dai
gradini dalla
basilica in stile tardo romanico. Quasi in punta dei piedi il gruppetto
si
ritagliò un angolino tra le colonne della navata principale,
ammirando con la
tipica imbarazzata curiosità dei visitatori gli affreschi
trecenteschi sulle
volte e le statue in rilievo sulle colonne. In realtà, essi
guardavano altrove
per non dover incrociare lo sguardo penetrante dell’Abate, il
quale li
squadrava dal suo scranno con la medesima intensità del
gigantesco Christus
Triumphans posto al centro dell’abside, dalle cui braccia
pendeva un pesante
panno d’oro di broccato finissimo e ghirlande.
Terminato
di cantare il Gloria si
passò alle
Letture e neppure quando il monaco lesse cantando il passo biblico,
smise
l’Abate il suo accigliato studio di La Palice e compagni, in
particolare di
Mercurio Bua e Lecha Busicchio che coi loro abiti orientaleggianti
potevano
benissimo passare per ortodossi o peggio per turchi.
“Dal
libro dei Numeri: In quei giorni, il popolo non
sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro
Mosè: “Perché ci avete
fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto?
Perché qui non c’è
né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo
così leggero.” Allora il
Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali
mordevano la gente, e un
gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da
Mosè e disse: “Abbiamo
peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro
di te; supplica il
Signore che allontani da noi questi serpenti”.
Mosè pregò per il popolo. Il
Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo
sopra un’asta; chiunque sarà
stato morso e lo guarderà, resterà in
vita”. Mosè allora fece un serpente di
bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso
qualcuno, se
questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.”
L’Abate
poteva ben figurarsi quale favore quegli stranieri
sarebbero presto venuti a chiedergli – già il
conte Joanne Antonio da Collalto
gli aveva anticipato la loro venuta. L’uomo chiuse gli occhi
e sospirò a fondo,
il petto dilaniato da sentimenti contrastanti. Da una parte sapeva che,
in
quanto supportati dalla famiglia dei Collalto, nessun male sarebbe
incorso
all’abbazia e ai suoi abitanti. Dall’altra,
però, conosceva bene il cuore della
gente del Montello ed esso era marchesco, sicché costoro che
si trovava
costretto per cristiana carità (e politica convenienza) ad
ospitare per i
locali erano messaggeri di morte, così come per Treviso
nella cui giurisdizione
l’abbazia si trovava.
Mio
Dio, sorreggici nella prova, noi che non siamo nulla senza di
Te, pregò
l’Abate, mandando a Messa terminata a prelevare il
maresciallo francese e i suoi comandanti, invitandoli a seguirlo per il
chiostro adiacente fino al suo studiolo.
“Padre
reverendissimo, vi saluto”, s’inchinò de
la Palice,
baciando l’anello portogli dall’Abate.
“Vi ringraziamo dell’ospitalità
vostra.”
“Ringraziate
i conti di Collalto di San Salvatore”, lo corresse
ambiguo l’anziano monaco. Quand’ecco che la sua
espressione s’indurì. “Vi
rammento che questa è la casa di Dio e un sacro luogo di
preghiera e che
pertanto non saranno tollerati atteggiamenti ad esso inaccettabili,
checché a
comandarvi sia un re autoproclamatosi cristianissimo”,
l’ammonì
perentorio, puntandogli al petto il riccio del pastorale.
La Palice
deglutì a disagio, schiacciato dal peso delle passate e
tristemente note colpe dell’esercito franco-imperiale, famoso
per razziare il
razziabile, in barba alla funzione dell’edificio
saccheggiato. “Giuro sul mio
onore che ci comporteremo nella maniera più discreta e
consona a questo luogo sacro.
Chiediamo soltanto ospitalità per qualche notte, in attesa
di completare il
ponte e di muovere a Treviso il campo”, gli
garantì solennemente.
L’Abate
soppesò a lungo i pro e i contro, tamburellando le dita
sul pastorale finché non chinò lentamente il capo
in assenso. “Vi farò avere
una celletta per voi, maresciallo de la Palissa. E anche al signor
conte di
Gambara”, aggiunse, notando il viso pallidissimo del nobile
bresciano, gonfiato
di tanto in tanto da colpi di tosse che questi cercava di trattenere in
petto o
di coprire con la mano. “Quanto al resto dei vostri
comandanti, potranno
usufruire degli ospizi dei pellegrini.”
“Vi
ringraziamo infinitamente della vostra generosità.”
“Padre
colendissimo”, s’intromise con ossequiosa mitezza
Mercurio
Bua, inchinandosi con l’elmo sottobraccio, “potrei
aver l’ardire di domandarvi,
se per caso avreste qualche celletta assai isolata?”
“Per
voi?”, domandò confuso e lievemente sospettoso
l’uomo,
conoscendo infatti la fama poco raccomandabile dei mercenari
greco-albanesi.
“No,
venerabilissimo Padre, per due miei prigionieri, la cui …
sicurezza mi sta molto a cuore.”
L’Abate
strinse gli occhi, non molto convinto. Ciononostante,
rispose affermativamente: “Ci sono le celle dove i monaci
ribelli alla Regola
hanno modo di riflettere sui loro peccati.”
“Non
avrei osato sperare di meglio, Padre eccellentissimo”,
baciò
riconoscente il condottiero l’anello del perplesso religioso.
Così,
mentre Mercurio Bua col beneplacito del maresciallo de la
Palice distruggeva le altrui aspettative di ristoro mettendo i soldati
subito
al lavoro alla costruzione del ponte per transitar sul Piave, berciando
a
destra e a manca come si fossero anche fin troppo riposati a
Montebelluna
nell’ozio più osceno, Hironimo e Thomà
vennero tirati giù dal carro e
trascinati al loro nuovo alloggio. Un asfissiante buco stretto, senza
luce
naturale e puzzolente di muffa, però almeno se ne stavano
per conto proprio.
Il
veneziano si adoprò subito per preparare un giaciglio dove
poter far distendere il ciondolante fantolino, sostenendo questi non
aver
dormito bene e di conseguenza sofferente d’un brutto mal di
testa e rigidità
del collo.
Con la
scusa di accendere una pingue candela, Mercurio ne
approfittò per spiare i movimenti del giovane,
meravigliandosi dall’infinita
premura impiegata nell’avvolgere il bambino nella ruvida
coperta di lana e nel
sistemargli della paglia sotto la testa, nonché dalla
tenerezza in cui gli
scostava via dalla fronte le ciocche umide. Tali amorevoli gesti
l’albanese li
aveva visti soltanto in sua madre e in sua moglie Caterina, quando la
sera
aiutava la loro Maria ad addormentarsi, spaventata la piccina dalle
sinistre
ombre proiettate dall’armatura sulla tenda e dagli schiamazzi
dei soldati.
E
similmente agli occhi neri di Caterina, i quali dopo aver finito
con la loro creatura lo fissavano ricolmi di malcelato disprezzo, anche
quelli
di Hironimo non gli risparmiavano alcunché, biasimandolo di
ogni loro
disgrazia.
A
Mercurio si serrò la gola, imprimendo le sue dita eccessiva
forza nella cera tanto da lasciarne l’impronta: in quei
grandi occhi nerissimi
egli rivedeva ogni sguardo della moglie e pertanto
s’immalinconiva e al
contempo s’arrabbiava quand’essi lo guardavano
rancorosi, poiché per lui era
come ritrovarsi davanti alle sue colpe nei confronti di Caterina. Il
Bua s’era
sempre vantato d’esser stato un buon marito, ma
più trascorreva il tempo in
compagnia del suo prigioniero, più le sue espressioni si
confondevano con
quelle della moglie e allora l’uomo incominciava a dubitare
se avesse mai
capito l’animo di lei, se non avesse dato per scontata la sua
presenza accanto
a lui.
Ed ecco
che a Mercurio sfuggì un risolino amaro: tanto
filosofeggiare
per una banale somiglianza nel colore degli occhi!
Cos’avrebbe fatto, allora,
se a Castelnuovo di Quero avesse catturato una castellana al posto di
un
castellano?
“Ti
piace la tua nuova stanza?”
“Tutto
è bello senza te tra i piedi!”
L’albanese
ridacchiò magnanimo, posando per terra la candela.
“In
questo modo potrò coordinare i lavori al ponte e dormire
sereno la notte, senza
la scocciatura di voialtri tossicolosi”, gli
spiegò, intanto che sfilava
all’imbronciato patrizio le manette, le cavigliere e il
collare. Neanche il
tempo di posare quest’ultimo, che il Bua ghermì
per la gola Hironimo e lo
costrinse a guardarlo ben in faccia, avvertendolo mortalmente serio:
“Bada a
non giocare al furbo, o massacro di pugni questo tuo muso impertinente
che perfino
tua madre si schiferà al sol guardarti!”, e
abbandonò malamente la presa, tanto
che il giovane cadde all’indietro di schiena.
Massaggiandosi
il collo arrossato e tossendo forte sia per la
malattia che per il ritrovato ossigeno, Miani si sforzò
d’apparire tranquillo,
elargendogli noncuranti spallucce. “Se lo dici tu”,
sputò e tossì ancora,
nettandosi l’angolo della bocca con la camicia.
“La
tua caviglia?”, s’informò brusco
Mercurio.
“Grazie
a te non bene”, gli cantilenò beffardamente dietro
Hironimo, dalla cui smorfia però si tradiva il fastidio
ch’essa gli provocava.
In
effetti, appurò il condottiero storcendo la bocca, il
veneziano
non stava panicando alla stregua d’una donnicciola: la
caviglia aveva assunto
un colore tra il rosso e il bluastro, il piede in una posizione
più rigida e
storta rispetto all’altro.
Delicatamente,
l’albanese lo sollevò dal tallone, esaminandolo
cauto tramite lenti movimenti circolari e fermandosi non appena
avvertiva
piccoli spasimi convulsi nel patrizio, il quale a viva forza tratteneva
ogni
esclamazione di dolorosa protesta dinanzi a quella manipolazione.
“Te
la senti intorpidita?”
“Sì.”
“Hai
come una sensazione di bruciore?”
“No.”
Mercurio
appoggiò per terra il piede e si rialzò.
“Ti farò portare
delle pezze d’acqua fredda e qualche unguento. Non credo tu
te la sia
fratturata, il che è un bene perché in barella
fino a Treviso non ti ci porto!”
Magari il suo prigioniero ne avrebbe approfittato anche per pulirsi un
poco,
avendo le gambe sporche di fango, di croste di sangue per le
escoriazioni ed i
tagli, nonché piene di punture d’insetto e
arrossamenti cutanei a causa del
bacio dell’ortica. S’appuntò di dargli
poi una camicia pulita, neanche un
porcaro se ne andava a zonzo con una talmente lercia come la sua.
“An,
visto che sei così gentile, perché non mi porti
anche un
vasetto di miele?”, esigette petulante Hironimo, indicandogli
la gola con uno
storcere di bocca assai infantile. “Mi fa bua qua”
e rise
sardonico.
Mercurio
borbottò qualche improperio, sbattendo la porta e
chiudendola a chiave.
Rimasto
finalmente solo, Hironimo gettò indietro il capo e
cacciò
un profondo sospiro, portandosi poi al petto le ginocchia che
abbracciò a mo’
di conforto, percependo ogni singola energia abbandonargli il corpo.
Negli
ultimi giorni gli stava costando moltissimo tener testa sia fisicamente
che
mentalmente al suo carceriere, tormentato in ambedue dalla malattia e
dai mille
dubiti e quesiti che lo punzecchiavano feroci.
Perché,
perché ancora nessuno aveva domandato di lui?
Perché
nessuno s’era fatto avanti con una proposta di riscatto? O di
scambio? Le
famiglie dei capitani Colle e Doglioni avevano subito provveduto a
pagare la
loro taglia, liberandoli, come mai nessuno della sua famiglia aveva
mandato
alcun’ambasciata al Bua?
Vero, con
Lucha avevano dovuto attendere ben quattro mesi prima di
riabbracciarlo, però perché l’avevano
trasferito in Alemagna e dunque non era
stato facile capire dove fosse finito.
Ma lui?
Come facevano a non sapere dove si trovasse? A meno che …
A meno
che non lo pensassero già morto. No, no, non poteva essere.
Altrimenti il Bua sul serio l’avrebbe ammazzato, una volta
compresa la sua
inutilità … O forse era
così, l’albanese ancora non sapeva che a
Venezia lo davano per ucciso e quindi nulla gli avrebbe impedito,
appresa la
novità, di gettarlo nel Piave con la palla al collo
…
No, no,
no! Di sicuro, in qualche astruso modo, le spie veneziane
avevano riferito in Senato della sua sopravvivenza alla mattanza di
Castelnuovo
di Quero. Ma allora perché quel silenzio?
Quell’inazione? Cosa attendeva la
Signoria per riscattarlo?
Hironimo
aveva origliato frammenti di conversazioni degli emissari
di uno dei capitani alla custodia di Treviso, il signor Vitello
Vitelli, e
nessuno chiedeva di lui, neppure suo fratello Marco che lì
si trovava, o
meglio, che il giovane Miani aveva scoperto trovarsi lì
tramite terzi perché
Marco …
…
lo odiava.
Ancora
gli riverberavano le dure parole del fratello all’orecchio,
la loro collera, la loro delusione nel dover ascoltare le minchionate
che
Hironimo, giudicandosi all’apice della saggezza umana, aveva
stoltamente
pronunciato.
Parole
pronunciate giusto perché aveva la lingua, senza
rifletterle, senza ponderarne l’effetto devastante che
avrebbero potuto avere
su una delle poche persone che per tutta la sua giovane vita
l’aveva amato e
protetto, contro questa persona le aveva lanciate, azzannandola
sconsiderato,
vigliaccamente, stupido idiota che non imparava mai niente! Ogni
confidenza, ogni
difficoltà superata assieme, la fiducia estrema tra di loro
sputtanata dal suo
nocivo orgoglio, da quella tossica necessità di volersi
sentire superiore a
chiunque, più intelligente, più coraggioso e
invece eguagliava a stupidaggine
una lumaca spiaccicata dallo zoccolo di un asino.
Era stato
meschino, antipatico, ingiusto nei confronti di Marco e
anche di Carlo, arraffando come dovuto il loro affetto e non
premurandosi di
proteggerlo, né di nutrirlo
… Anche se fosse riuscito a ritornare a
casa, con che faccia li avrebbe affrontati? Con quali parole poter
spiegare
loro il motivo dietro quella sua sconsideratezza?
Non devi
prendertela, gli era stato rassicurato; sono arrabbiati
anche loro, hanno bisogno di tempo per gettarsi alle spalle quanto
accaduto … Balle!
Balle! Balle! Hironimo ben s’era accorto del gelo,
dell’imbarazzo e della
delusione aleggiare negli occhi dei fratelli, in Marco soprattutto, non
lo
avevano perdonato, non avrebbero dimenticato, una volta oltrepassata
una certa
linea non c’era via di ritorno, nulla sarebbe ritornato come
prima ed egli non
poteva convivere con l’eterna angoscia del biasimo nascosto
dietro un’ipocrita
maschera di cordialità, di udire il pianto
dell’anima sua lacerata dal rimorso
e dai dolci ricordi laddove rivedeva quei giorni pieni
d’amore l’uno verso
l’altro …
Amore?
Come avevano potuto amare una persona così ingrata? Come
avevano potuto amare una persona così vile?
E lui,
cretino altero, perché non s’era scusato?
Perché non li
aveva spiegato i suoi motivi, non li aveva costretti ad ascoltarlo
anche a
costo di trattenerli fisicamente? Li aveva urlato di far il piacer
loro, che
non doveva delucidazioni a nessuno, men che meno a chi si rifiutava di
capirlo
… Se non volevano accettare ciò che stava
sostenendo, erano affaracci loro,
troppo ciechi e sordi nelle loro convinzioni per abbracciare la
verità!
La
verità!
Quale
verità?
Si
meritava il loro disprezzo, ecco qual era la verità, si
meritava il loro disinteresse per la sua sorte. Era stata questione di
tempo
che si disinnamorassero di loro, disillusi da una falsa sua
bontà per poi
scoprire realmente quale bestia lui fosse e magari, magari …
magari anche Madre
aveva visto finalmente dietro la cortina dell’inganno,
realizzando che razza di
mostro avesse generato …
Niente se
non un continuo fallimento, ecco cosa lui rappresentava
per la sua famiglia, una pietra di scarto, d’imbarazzo, una
zavorra che forse
non sarebbe mai dovuta esistere …
Aveva
rovinato tutto. Come sempre. Tutto quello che toccava, lui
rovinava.
Come
sempre.
“Etcì!”
Hironimo
scattò in un buffo balzo, voltandosi indietro verso il
fagotto qual s’era trasformato Thomà.
Aiutandosi
a porsi in piedi appoggiandosi contro il muro, il
patrizio zoppicò fino al giaciglio di fortuna laddove
giaceva il fantolino,
avvolto da una pesante coperta di lana. Sin dal suo risveglio, la sua
faccia
appariva d’un giallo cera poco rassicurante, circondate le
tempie da ciocche
bagnate e perle di sudore e adesso il labbro aveva incominciato a
tremare
similmente al suo corpicino.
Il
giovane gli si sedette accanto, accarezzandogli la punta del
naso arrossato col dito, così da svegliarlo evitandogli un
coccolone al cuore.
“Thomà? Ti te dromi ancora?”
Si
stupì d’udire la sua voce così tremula,
d’un tocco talmente
infantile che perfino Thomà sbatté le ciglia
disorientato.
“Uhm
…?”
“Su,
Thomà, sveia, zò!”, lo scosse
dolcemente Hironimo, nel suo
intimo tuttavia preoccupato dalla mancanza di reazione nel solitamente
vispo
decenne, il quale alzò un poco la testa, guardandosi attorno
distratto e
affaticato, per poi ripiombare sul raffazzonato guanciale di paglia.
“Gh’ho
sono, patron …”, sbiascicò, al che
Miani lo sollevò di
spalle, appoggiandoselo al petto e abbracciandolo onde riscaldarlo, il
cuore
che gli batteva impazzito nel percepire i continui tremiti nel bambino.
“Lassème pisocar …”, chiuse
gli occhi, accoccolandosi contro il giovane uomo,
la testa pesante e i muscoli intorpiditi.
Hironimo,
imperterrito, lo scosse ancora e gli accarezzò col
pollice la guancia, costringendolo a star sveglio. “No
xélo pì patron,
ma sior Pare, gh’hastu
desmentegà?”, gli ricordò, tentando di
mascherare la sua ansietà dietro un tono allegro.
“Chome
volé”, bofonchiò Thomà,
riappisolandosi.
Miani non
glielo permise, destandolo per la terza volta. “Via,
verzi sti ocieti bei!”, lo incoraggiò e stavolta
il fantolino si mise
d’impegno, sistemandosi a fatica seduto, pur avviluppando il
braccino magro
contro quello più robusto del patrizio.
Silenzio.
“Perché
gh’avé dito al Griego, vui seti el sior mio
pare?”,
inquisì infine Thomà, giocherellando svogliato
coi lacci della camicia di
Hironimo.
“Te
volevi ea testa su la panza?”, gli delucidò
questi,
sovvenendosi dell’enorme paura provata alla vista del sangue
dal naso del Bua e
dell’animalesca espressione assassina nei suoi occhi, quando
stava per estrarre
la spada e costì vendicare il suo onore. Nonché
della sorpresa nel vedersi
coprire col proprio corpo il bambino, d’istinto, quasi stesse
proteggendo un
figlio suo invece di un mocciosetto, che fino a qualche mese fa per lui
era
stato un signor nessuno, un anonimo addetto alla mescolatura delle
polveri come
tanti altri.
“No,
no, sora queo vuj gh’avé rason. Perhò,
a saria stà pì logico
dir che mi gero on fradel picenin ch’on fio vuostro. Seti
massa zovene par
farme da pare”, argomentò Thomà le sue
perplessità circa la scelta di parentela
da parte del Miani, che esclamò ilare:
“Massa
zovene? Co’ te geri nato, mi gh’aveo zerca quindexe
anni,
nol gero cussì picenin!”
Il
decenne schioccò la lingua affatto persuaso. “El
mio sior Pare
l’gera omo no putelo!”, sentenziò,
levando lo sguardo vitreo in alto onde
incrociare quello di Hironimo. “Comprendeu?”
Anche se
gli costava ammetterlo, sì, egli comprendeva. La
paternità era questione di maturità mentale, non
fisica. Tutti possono generare
figli, a qualsiasi età, però allevarli si
trattava di ben altro negozio che non
sempre si concludeva con successo. Hironimo col senno di poi aveva
appurato
quanta fatica fosse costata ai genitori la sua educazione, ripagando
assai
miseramente i loro sforzi. L’unica consolazione che gli
rimaneva stava nel
saper Padre morto, risparmiandogli la vergogna di aver avuto un fallito
per
figlio.
“Hé,
ti no te pol ser mio fradel, anca perché
la siora
mia Mare xéla fià vecia par ser la toa.”
A questo
Thomà non vi aveva pensato, logicamente all’oscuro
delle
dinamiche familiari del Miani. Anzi, fino a quel momento
l’aveva sempre creduto
figlio unico, tanto gli ricordava il suo carattere inflessibile e
prepotente
quello di chi l’aveva ogni volta avuta vinta. “La
perdonança, mi no la
cognosso. Chome xéla?”, volle improvvisamente
sapere.
“Bona
chome la Madona”, sussurrò flebile Hironimo,
d’un tratto
vergognoso nell’accennare a Madre, quasi si considerasse
indegno di lei e del
suo amore.
“Donca
chome xéla che vuj seti un Turcho?”
“No,
mi sum l’Orso.”
Thomà
arrossì colpevole, borbottando imbarazzato come non fosse
educato origliare le altrui preghiere.
“Me
piasarave incontrarla …”, confessò al
patrizio in un gran
sospiro. “Et ringrassiarla.”
“De
che?”
“Sciò
mi.”
“Co’
saremo liberi, mi te zuro che ‘ndremo tuti et do a Veniexia
da ela.”
“Sì,
un zorno …”, scosse il bambino sognante il capo,
socchiudendo
gli occhi. “Grassie, mille grassie per esserme stà
siempre vizin, anca se per
vuj nol gero nissun. Mi me despiase se ve gh’ho talvolta
astià, perhò a mi me
consola morir cum qualchedun ch’a me vol ben et no da solo
chome un can …” e
tacque in un gran sospiro, umettandosi le labbra secche.
Un lungo,
possente e doloroso tremore rivoltò ogni nervo di
Hironimo da capo a piedi all’udire quelle rassegnate parole,
recependone allibito
il tremendo significato e ribellandosi di conseguenza ad esso
– non con lui
vivo, non se poteva far qualcosa per impedirlo!
“Thomà?
Thomà, sveia, ti no te xé divertente!”,
lo rimproverò,
impaurito dalla lassa immobilità del fantolino tra le sue
braccia. “Thomà!
Thomà!”, gridò il giovane panicando e
squillando acuta la sua voce nella
semioscurità di quella fetida cella. Strisciando il Miani
afferrò la candela e
la portò al viso del bambino, mordendosi a sangue il labbro
dinanzi al suo
pallore mortale e al bianco dei bulbi oculari, quando aprì
forzatamente le
palpebre del piccino.
“Agiudo!
Agiudo!”, ruggì, fustigato dal crudele e sterile
eco
rimbombante dalle pareti. “Agiudo!”,
ripeté, ponendosi faticosamente in piedi e
gettandosi quasi di peso sulla porta sbarrata e chiusa a chiave.
“El more!
Agiudo! Agiudo!”, prese Hironimo a battere i palmi delle mani
fino a
scorticarseli di schegge, alternandoli con disperati pugni
finché il legno non
si tinse di macchioline rosse.
Constatata
la loro inefficacia, il giovane si voltò alla
forsennata ricerca di un qualsivoglia oggetto utile ad attirare
l’attenzione
dall’interno, trovando soltanto il pitale che però
essendo di terracotta non
poteva certo resistere all’impatto senza sgretolarsi.
E va
bene, non gli mancavano altri mezzi!
Hironimo
strinse i denti e ingoiò il dolore generato
dall’impatto
della sua spalla contro il legno e del peso sulla caviglia ferita,
mentre
rinculando prendeva una breve rincorsa.
Non aveva
combinato niente di buono nella sua vita, né per lui
né
per il suo prossimo. S’avvide chiaramente delle delusioni
date come figlio,
fratello, cittadino, castellano, malgrado non gli fosse mai mancato
né coraggio
né determinazione. Non meritava alcuna pietà
né giustificazione.
Non
stavolta, però, in quest’occasione.
Miani
aveva giurato a se stesso che a qualsiasi costo avrebbe
protetto quel bambino, anche anteponendolo ai propri interessi
personali.
Poca cosa
dunque massacrarsi le ossa contro quel duro legno, se
col suo sangue poteva salvare la vita di un innocente.
Contemporaneamente
a quei disperati tonfi sulla solida porta,
s’aggiungevano quelli nell’acqua provocati dal
legno del ponte, scardinata la
struttura dalla possente corrente del Piave, ingrossatosi per via delle
piogge
e pertanto ribelle ad ogni guado.
Fortuna
che l’Abbazia e la Certosa si trovavano abbastanza
distanti da non crollare dal peso delle bestemmie che si levarono, una
babele
di profanità in francese e tedesco e pure arricchite dalle
espressioni
regionali di tal idiomi.
Jacques
de Chabannes de la Palice assisteva accigliato ai miseri
progressi, le mani strette convulsamente tra di loro dietro la schiena.
S’impose di portar pazienza e insistere sulla costruzione di
quel dannato
ponte: ogni cosa d’altronde si piega al volere umano, se
sussisteva sufficiente
determinazione.
L’ennesimo
crollo lo contraddisse, provocandogli un rictus nervoso
all’occhio specie nel vedere alcuni suoi soldati nuotare a
stento sulla riva,
rigirandosi supini sulla riva, ansimando alla stregua di cani.
“Forse
dovremmo ordinar loro di fare una pausa”, gli
suggerì cauto
Giulio Sanseverino, le cui vicende famigliari gli avevano reso ogni
fiume assai
antipatico [6].
“Avranno
modo di riposarsi stanotte”, commentò aspro la
Palice,
rimbeccando invece i suoi uomini per quel loro tergiversare e
spronandoli a
riprendere chiodi, martelli, corde, livelle e seghe e costì
terminare almeno
metà ponte prima del calar della sera.
“Speriamo
a pancia piena”, gli fece notare Mercurio Bua, levando
gli occhi al plumbeo cielo senza
sole. “Non dovevano arrivare i
viveri da Castelfranco?”, chiese al Sanseverino, il quale si
guardò a disagio
la punta dei piedi.
“Non
una parola a riguardo dal nostro luogotenente”, ammise egli
infine. “Eppure mi ero personalmente raccomandato di spedirmi
una staffetta,
non appena i carri fossero partiti.”
“A
che ora eravate rimasti d’accordo?”
“Verso
le ore undici.”
E adesso
erano quasi le ventuno, pomeriggio inoltrato virante al
tramonto.
“Io
dico che gli è successo qualcosa di brutto”,
concluse il
capitano Jacob Empser, incrociando le braccia al petto. Ottenuta
l’attenzione
dei tre uomini, il tedesco prese coraggio ed esternò la sua
personale opinione:
“Non mi piace star qui ad aspettare di far la fine del
sorcio, morto o di fame
o mangiato dal gatto. Una volta terminato il ponte, andiamocene nella
Patria
del Friuli e riforniamoci lì di provviste e
munizioni!”
La Palice
lo fulminò con lo sguardo. “Vade retro,
satana”, sibilò
velenoso, allontanandosi fisicamente da quel diavolo tentatore.
Il
capitano Jacob non desistette, anzi, pure inseguì il
francese
nel disperato tentativo d’indurlo alla ragione:
“Maresciallo, voi non siete uno
sprovveduto, ciononostante non capisco perché vi ostiniate a
morire di fame in
questa terra ostile! Abbiamo già perso troppi uomini di
malattia, perché
raddoppiarne il numero? Senza contare che le polveri da sparo non ci
bastano né
tantomeno i cannoni! Non chiedo mica di disertare, sapete? Soltanto di
prendere
le piazzeforti friulane, di svuotarle e una volta ben forniti di andare
a
conquistare questa fottuta Treviso!”
Il
maresciallo si bloccò all’improvviso, voltandosi
di scatto
verso il tedesco e spingendolo quasi col petto lo costrinse ad
indietreggiare.
“Volete sapere perché preferisco aspettare qui
piuttosto che in Friuli? Perché
se lì le cose dovessero mettersi male, voi Allemands non
c’impieghereste nulla
a riparare a gambe levate in Allemagne, branco di conigli codardi che
non siete
altro! Mentre noi, capitaine Jacob, noi rimarremmo in balia della
popolazione
assetata del nostro sangue!”
“Dubitate
del sostegno del Kaiser?”, boccheggiò indignato il
capitano Jacob Empser, paonazzo in volto. “Credete che vi
sbatterebbe
irriconoscente la porta in faccia?”
Il
silenzio di la Palice fu molto esaustivo.
“Kapitän
Bua!”, s’appellò allora in extremis il
condottiero
all’albanese. “Il Kaiser vi ha nominato Graf di
Soave e suo consigliere: cosa
ne pensate voi? Che vi diserterebbe, lasciandovi morir sgozzato da un
branco di
bifolchi friulani?”
Ovvio che
no, coi suoi indiscussi meriti Mercurio s’era ben
conquistato la fiducia del Re dei Romani, tanto che questi assecondava
ogni suo
capriccio, il suo aiuto militare divenutogli indispensabile dopo la
morte del
Principe di Anhalt.
Eppure
…
Povero,
povero il mio Maurikos, Conte del Niente! Di quali terre e
titoli ti può investire Maximilianos, se ancora non ha vinto
la guerra? Vai
piuttosto a chiedergli di darti un feudo in terra
austriaca e poi
torna a riferirmi la sua riposta!, gli riecheggiarono d’un tratto le
taglienti parole di sua moglie Caterina, i cui lineamenti nella sua
testa si
stavano sinistramente sostituendo con quelli di
Hironimo. Ogni
volta la stessa storia con lui: molto onor, pochi contanti!
Tutt’al più se non
sei del suo paese!
“Io
non penso niente”, fu la gelida risposta del Bua al
comandante
tedesco, che si bloccò sconcertato, rimanendoci
letteralmente di sasso.
Dopodiché,
riprendendosi da quella tranvata, l’uomo imprecò
due o
tre volte e saltò in sella, spronando stizzito il suo
cavallo in direzione
della Certosa.
“Se
quei mangiarane vogliono crepare di fame o ammazzati dai
Veneziani, facciano pure che ce ne cale?!”, ringhiava tra
sé e sé. “Conigli
codardi … Pah! Quegli arroganti non sanno
che con l’onore non si
mangia?!”
Continua
...
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La
questione di Soncino Benzone, come tutte le vicende, rimane
assai ambigua, considerandosi ambedue le parti nel giusto.
Manzonianamente
diciamo: Ai posteri l’ardua sentenza.
Certo
però che noi non crediamo per niente alle accuse a Gradenigo
di avergli congiurato contro; da come ce lo descrive il Sanudo e gli
altri suoi
contemporanei, Gradenigo era una persona moralmente retta e se gli
stavi
antipatico un motivo c’era e anche oggettivo, non personale.
Insomma, con lui o
si rigava dritto o si finiva male.
Di
conseguenza, Soncino Benzone avrà pur avuto validi motivi
per
serbar rancore contro la Serenissima, ciononostante è anche
vero che se è
finito com’è finito lo deve alle decisioni da lui
prese.
Francesco
Rangoni farà il bravo, Guido il fratellone lo tiene ben
sottocchio XD
Nel
prossimo capitolo si concluderanno le vicende qui iniziate e
si spera la prima parte di questa storia.
Alla
prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
ovviamente alla lontana. Sua
figlia
Gradeniga aveva sposato nel 1506 un altro biscugino del Nostro,
Sebastiano
Contarini di Antonio di Andrea Contairni e Andrianna Miani. Parentela
dunque
alla lontana e acquisita che però il Nostro sta
spudoratamente sfruttando onde
mettere in soggezione il conte Gianfrancesco di Gambara,
giacché a quanto pare
il buon Gradenigo era un po’ il babau dell’epoca.
[2]
Antenòra,
nell’inferno dantesco è dove
si trovano i traditori della patria.
[3]
Gioco di
parole tra l’episodio in Matteo 18,
22 - E Gesù gli
rispose:
“Non ti dico (di perdonare) fino a sette volte, ma fino a
settanta volte sette
- e quello in Genesi 4,
24 - Sette volte sarà
vendicato Caino, ma Lamec settantasette.
[4]
la Messa
vespertina del sabato, che vale come Messa domenicale, è
stata introdotta da
papa Pio XII nel 1953.
[5]
La
descrizione dell’Abbazia di Sant’Eustachio
è stata scritta “intuitivamente” in
base alle poche immagini reperite e a ciò che rimane di
essa: infatti,
l’abbazia è andata distrutta durante la Prima
Guerra Mondiale dopo la Rotta di
Caporetto, trovandosi infatti poco distante dal Fronte del Piave, e
oggigiorno
non rimangono che i ruderi. Al momento non sono riuscita a reperire
testi
descrittivi dei suoi interni prima del 1917, quando ci
riuscirò, modificherò.
Ringraziamo
Semperinfelix
per averci dato qualche supplemento di fonti per orientarci sul modus
operandi
delle abbazie, specie dove risiedevano i viaggiatori.
Piccola
curiosità: l’Abbazia di Sant’Eustachio
era soprannominata
“L’Abbazia del Galateo”,
giacché lo scrittore, letterato e arcivescovo
monsignore Giovanni della Casa vi compose tra il 1551 e il 1555 il
libro
“Galateo overo de' costumi”, dopo essersi ritirato
a Nervesa onde trascorrervi
gli ultimi anni della sua vita. Il libro infatti verrà
pubblicato postumo, nel
1558.
Tra gli
altri ospiti illustri ricordiamo Pietro Aretino e Gaspara
Stampa, insomma un posto culturalmente parlando sia sacro che profano!
[6]
il padre
di Giulio, Roberto Sanseverino d’Aragona, era morto affogato
il 10 agosto 1487
nella Battaglia di Calliano.