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Autore: Hoel    16/09/2020    5 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
Capitoli:
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato l’11.11.21

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PARTE SECONDA:

Nervesa e Torre di Maserada

(13 -27 settembre 1511)

 

 

 

Capitolo Quindicesimo

13-14 settembre 1511

 

 

 

Hironimo non sarà stato un fisico o uno speziale, tuttavia aveva affrontato, specie al cambio di stagioni, sufficienti raffreddamenti da sapere che se il mal di gola persisteva oltre un giorno, esso diveniva foriero di mali ben peggiori. Solitamente, ai primi sintomi sua madre gli faceva preparare dagli spezieri di grosso a San Bartolomeo una miscela di erisimo, achillea, partenio, artemisia e valeriana da pigliare sotto forma di tisana tre volte al dì prima dei pasti. Se proprio s’ostinava, allora ricorreva all’enula, al ribes nesro, al mirtillo rosso e all’ontano nero e se proprio il malanno non voleva mollar la presa, ci s’affidava all’infallibile Triaca che l’avrebbe per certo guarito.

Nelle sue attuali circostanze, il giovane patrizio si sarebbe accontentato anche di un semplice cucchiaio di miele, pur di non risvegliarsi l’indomani col fuoco dell’inferno in gola e la voce pressoché inesistente. Thomà non se la passava di certo meglio, tossendo a bocca larga e sputando un misto di saliva e catarro per terra, per poi soffiarsi con le dita il naso rosso che ripuliva o con la manica della camicia o sulla paglia. Il fantolino si strofinava gli occhi vitrei e arrossati, come se avesse pianto tutta la notte.

Miani s’era astenuto dal rimproverarlo, rassegnato infatti al medesimo fato. Invece, gli aveva passato il dorso della mano sulla fronte, sospirando di sollievo nel sentirla ancora relativamente fresca.

Altra magra fortuna consistette nella poca attenzione che Mercurio Bua poneva su di loro, impegnato infatti a sovraintendere lo smantellamento del campo a Montebelluna per muoverlo a Nervesa e il coro di rauche tossi e scatarri si era rivelato talmente diffuso, da confondersi quello dei due prigionieri tra quelli degli altri soldati.

Più che un esercito in marcia pareva il corteo d’un Trionfo della Morte, composto da ammalati che trascinavano i piedi e la punta delle loro lance; di cavalleggeri ciondolanti dal sonno e dalla fame; di prostitute talmente ossute da non indurre in tentazione neppure il più infoiato dei libertini.

Avanzare nel terreno fangoso toglieva energie, così come tirare i buoi e i muli dei carri, i cavalli e le artiglierie, le quali s’impantanavano ad ogni pisciata di cane, come commentava frustrato Mercurio beccandosi di rimando una velenosa replica dal capitano Jacob Empser, il quale lo sbeffeggiava ricordandogli l’enorme abisso vigente tra fanteria e cavalleria.

“Magari una volta arrivati a Nervesa, ve lo rispiegherò”, ghignò il tedesco.

“Non ho bisogno”, scrollò le spalle Mercurio, massaggiandosi noncurante la coscia laddove era stato vilmente ferito, ma la contrazione dei muscoli facciali tradiva quanto in realtà quel rimprovero l’avesse infastidito, specie se davanti ai propri uomini.

“Suvvia, non c’è vergogna nell’ammettere la superiore e antica tradizione bellica tedesca!”

Al che l’albanese gli rise in faccia di gusto, sganasciandosi al punto che perfino Hironimo, fino a quel momento incurante delle beghe tra i due condottieri, levò gli occhi in loro direzione, subitaneamente interessato. “Pah! Quando voi Tedeschi ancora dondolavate nudi sugli alberi, noi Greci conquistavamo Babilonia!”

Il capitano Jacob digrignò i denti, adesso lui l’offeso. “Piano con gli insulti, cane turco!”

Il viso dell’albanese mutò in una maschera diavolesca, esacerbata dalla sommessa risatina di scherno del suo prigioniero. “Ripetilo e pregherai che siano i Veneziani ad ammazzarti per primi!”

“Mi minacci, Mistkerl?”

“Ti avverto, malakas!”

“Capitaine Jacob, al posto d’attaccar briga col capitain Bua, vi consiglio di badare con maggior attenzione alle retrovie. Ci stiamo avvicinando al Montello e da ogni buca potrebbero sbucar fuori nemici!”, gli consigliò Jacques de Chabannes de la Palice con falsa flemma, intromettendosi tra i contendenti che borbottando obbedirono.

Non fosse il maresciallo intervenuto, i due sarebbero giunti alle mani e Mercurio si appuntò di farla pagare alla prima occasione a quel tedesco borioso.

Non era il solo a condividere tal sentimento: tra i francesi e gli imperiali serpeggiava un odio cadaun’ora sempre più palpabile, lanciando i gallici sospettose occhiate alle proprie spalle e le loro dita accarezzavano nervose le rispettive spade, balestre, lance e pugnali, giacché temevano più l’infida lama dei tedeschi che quella ufficialmente ostile dei marciani. Oltre alla più gretta questione del cibo, a dividerli rimanevano le idee tuttora discordi sul da farsi: i francesi non volevano sputtanarsi la reputazione venendo meno all’impegno preso di conquistare Treviso; i tedeschi ancora rimanevano testardi dell’idea di andare a saccheggiare la Patria del Friuli, oramai ad un tiro di schioppo, incominciando dalle più vicine Conegliano, Sacile, Motta di Livenza e Oderzo.

“I briganti sono più disciplinati di questa masnada di bifolchi cenciosi: in quale merdaio alemanno li ha scovati l’Imperatore?”, si lagnava adirato Mercurio, scoccando di tanto in tanto qualche occhiataccia al capitano Jacob Empser, trastullandosi in dolci progetti di vendetta, in cui vedeva il tedesco squartato vivo da quattro cavalli. “E tu muoviti, pelandrone!”, strattonò la corda che legava le catene di Hironimo, sbilanciandolo bruscamente in avanti e solo però un soffio il veneziano mancò di cadere bocconi per terra.

Conoscendo assai bene quello sguardo, Lecha Busicchio s’adoperò a calmarlo subito: “Lascialo perdere, ci penserà l’assedio a spedir sottoterra quell’otre di sterco. Fra poco entreremo nei feudi dei Conti di Collalto, alleati dell’Imperatore. Lì avremo di che sfamarci. Se non erro, a Nervesa dovremmo trovare anche dei monasteri o roba simile.”

“Sì, l’Abbazia di Sant’Eustachio e la Certosa di San Girolamo, me li ricordo. Benedettini e certosini, molto ben forniti. E sotto la protezione dei Collalto.”

“Dunque?”

“Dunque, giusto per rimanere in tema, ci converrà pregare affinché almeno per stavolta i tedeschi si tengano le zampe ben attaccate al culo e non si abbandonino a saccheggi. Altrimenti nulla ci salva da una figura di merda coi Conti e ora come ora, fin troppa gente qui cambia bandiera.”

Lecha strinse le labbra in una linea dura, convenendo suo malgrado, memore della diserzione del fratello di Mercurio e dei suoi cognati.

“Allora oggi le vuoi proprio prendere?”, abbaiò il capitano albanese a Hironimo, vibrandogli in faccia minacciosamente la scutica.

In realtà a rallentare il patrizio era Thomà, che tra i colpi di tosse e la stanchezza a causa di quella marcia piuttosto sostenuta per le sue gambette arrancava e incespicava, finendo trascinato da Hironimo finché questi rapido lo rimetteva in piedi prima che il Bua se ne accorgesse.

“Mi hai scambiato per un levriere?”, gracchiò il giovane Miani, levando a fatica il collo, forzatamente piegato dalla pendente palla di cannone.

“No, per un somaro!”, ridacchiò Mercurio.

“Attento, non vorrei che tu finissi col prenderti in faccia un bel calcio!”, gli sibilò di rimando Hironimo, balzando di nuovo in avanti per il piccato trattone che gli diede l’albanese, che per ripicca e anche per distrarsi dal suo cattivo umore, aveva ben pensato di passare ad un leggero trotto, lasciando ambedue i prigionieri senza fiato dallo sforzo di stargli dietro.

Il che non giovò ai polmoni già provati del piccolo Thomà.

“Patron”, ansimò piagnucolando, le gote costantemente gonfie dai colpi di tosse e il muco che gli colava in bocca, “no ghe stò pì in piè!”

“Mo’ via, stà bon!”, lo rimbeccò dolcemente Hironimo. “Tacate a la mia caéna”, lo istruì, acciocché il bambino si aggrappasse alla catena che gli cingeva i fianchi, nella speranza di giungere quanto prima all’Abbazia di Sant’Eustachio a Nervesa.

Lì (pia speranza) i monaci avrebbero di sicuro provveduto a curarlo con qualcuno dei loro decotti. Hironimo oramai aveva compreso che al Bua serviva vivo, perciò come curavano lui, egli avrebbe insistito affinché anche il fantolino ricevesse le medesime attenzioni, secondo la promessa fattasi di mantenerlo vivo fino al riscatto o allo scambio.

“Tegni duro”, mormorò a Thomà, “semo quasi arrivai.”

Voltandosi, però, Hironimo non s’era accorto della punta d’un pingue sasso far capolino nel fango della strada e puntualmente vi sbatté il piede contro, perdendo l’equilibrio e dalla sorpresa le sue mani abbandonarono la catena che reggeva la palla di cannone, cosicché il peso di quest’ultima lo scaraventò doppiamente più veloce a terra.

A malapena Hironimo riuscì a coprirsi parte del viso, battendo dolorosamente il mento e mordendosi di conseguenza la lingua, per poi sentirsi il peso di Thomà cadergli sulla schiena nonché la ruvidezza del sentiero in alternanza sui fianchi e le ginocchia, non avendo Mercurio ancora registrato la sua caduta e pertanto proseguendo imperterrito nella sua cavalcata. Dulcis in fundo, la palla di cannone creava attrito, impantanatasi infatti nel fango, serrandogli di conseguenza il collare al punto che per qualche istante il patrizio si sentì soffocare.

“Che diavolo stai facendo? Ti pare il momento di fare i capricci? Sei già stanco, donzelletta?”, l’apostrofò infastidito Mercurio, tirando la corda neanche stesse pescando un luccio dal fiume. Hironimo tentò di rimettersi in piedi, però la caviglia cedette, frustato da un dolore acutissimo che gli provocò striduli fischi fino alle orecchie. Ricadde in ginocchio, finendo trascinato ancora per qualche brevissimo tratto. “In piedi! In piedi, pezzente! Ratto di laguna! In piedi, perdio, o ti scortico vivo!”

Invece di aiutare o anche solo biasimare il capitano di ventura per quell’inutile accanimento, gli stradioti lì accanto sorridevano compiaciuti e divertiti da quel piccolo divertissement capitato proprio a pallino per interrompere la noia della marcia. Solo Lecha non disse niente, scuotendo il capo.

“Zò! Zò! Fermeve! Fermeve!”, si sforzò Thomà a gridare, la sua vocina troppo flebile e roca per giungere alle sorde orecchie del Bua. “Fermeve! Eo copate!”, strillò isterico. Notando il modo insensibile in cui il condottiero seguitava a strattonare Hironimo senza concedergli adeguato tempo per rimettersi in piedi, il bambino afferrò un sassetto e lo lanciò con chirurgica precisione contro l’albanese, come faceva a casa sua a Feltre contro i cani randagi.

Mercurio ebbe appena il tempo di captare il sibilo, che un dolore atroce da Golgota crocifisso gli annebbiò la vista. Maledetta fu la volta che s’era alzato la visiera dell’elmo! Esaminando a tentoni l’eco della sassata subita, gli occhi del Bua s’allargarono alla vista del sangue lordargli  il guanto, assaggiandolo inoltre sulle labbra e mentre si nettava con la lingua capì di come esso provenisse dal naso.

Una rabbia furibonda, figlia dell’umiliazione d’aver giocato al Santo Stefano per mano di un moccioso, portò il capitano degli stradioti a portare veloce la mano sull’elsa della spada sordo alle parole che Hironimo gli gridava mentre col suo corpo copriva quel mostriciattolo, pronto il Bua come gli altri stradioti a decollare quel disgraziato e rispedirlo dai villani suoi antenati, al diavolo l’età e il motivo dietro quella lapidazione improvvisata.

“Avete finito di dar spettacolo?”, s’intromise la voce nasale del conte Gianfrancesco di Gambara, abbandonata la sua postazione per controllare quanto accadeva, insospettito dal rallentamento della colonna della compagnia del Bua. E guardando pieno di disprezzo lui e i suoi stradioti, commentò aspro: “Bel modo di trattare i prigionieri d’alto rango!”

“Alto rango? Non vedete che si tratta d’un fottuto villano? Una bocca in meno da sfamare!”, protestò veemente il condottiero, indicando con la scutica un Thomà mezzo coperto dal Miani, già pronto a difendersi con una pietra più grossa, reso temerario dalla consapevolezza di star comunque per morire.  

Mettendosi in ginocchio, Hironimo ringhiò dietro a Mercurio: “Questo che tu chiami fottuto villano, furbo, è mio figlio!”

“Tu non hai alcun figlio, bugiardo!”

“Tu non me l’hai mai chiesto, idiota!”, e neanche la presenza del Gambara risparmiò il giovane Miani da una scudisciata per la sua insolenza, regalandogli una striscia rossa sul braccio sotto il lembo di camicia strappato.

“Rimettiti in piedi: ripartiamo”, sbuffò snervato il Bua, specie davanti all’insistenza del nobile bresciano a non schiodarsi dal suo posto, ritornando alla sua colonna, neanche temesse che l’albanese a furia di sevizie finisse per ammazzare il prigioniero. “In piedi, disgraziato!”

“Non posso.”

“Non ho tempo per le tue stronzate …!”

“Non posso!”, insistette frustrato Hironimo, tossendo poi fino a sconquassarsi il petto per aver alzato la voce malgrado l’infiammazione. “Cadendo temo di essermi storto la caviglia, ti pare che riesca a camminare?! Con queste poi?”, scosse platealmente le catene e gli schiaffò sotto il naso l’arto offeso, il quale in effetti si presentava sempre più rosso e gonfio, pulsando leggermente.

Mercurio si morse l’interno della guancia, tentennante. L’arrabbiatura gradualmente spentasi, egli appurò l’effettiva incapacità del prigioniero di proseguire la marcia, almeno a piedi. Questo però comportava ammettere che il veneziano aveva ragione, l’ultima cortesia sulla faccia della terra che gli avrebbe concesso, men che meno col conte Gianfrancesco di Gambara come testimone.

Inoltre il naso non s’era rotto, pertanto poteva anche magnanimamente risparmiare la vita al nanerottolo, adesso scopertosi figlio di quel tanghero linguacciuto. Certo! E quando l’avrebbe generato quello? In culla? L’aveva preso per uno stolto sprovveduto? Mercurio più volte aveva origliato il moccioso chiamare “patron” il patrizio, quando mai un figlio si rivolge così ad un padre? Anche se, ripensandoci, a Venezia s’interloquiva così anche tra parenti, specie nei saluti ...  Magari quella era usanza coi figli illegittimi, chissà, troppi anni erano trascorsi dall’ultima volta in cui il Bua aveva vissuto nella città lagunare, i tempi e le mode cambiavano ultimamente troppo in fretta … Fermo restando che non fosse tutta una bufala per salvare quella bestia antropomorfa, della cui sorte il condottiero non si capacitava come mai al veneziano stesse così a cuore. Era solo un bambino, una pulce, un essere inutile in guerra, destinato a perire se non di spada di stenti o malattia. A che pro mettere a repentaglio la propria vita e reputazione per tale nullità?

Poco male - concluse Mercurio - anche se quella notizia non fosse corrisposta al vero, se il Miani affermava trattarsi di suo figlio, chi era lui per contraddirlo se l’affare poteva risolversi a suo vantaggio? Un padre e un figlio per una madre e una figlia, uno scambio più che equo cui nemmeno quell’intrigante della Signoria poteva obiettare ... Tanto, che ne avrebbe potuto sapere lei della verità?

Un poco raccomandabile sorriso arcuò la bocca ancora macchiata di sangue del Bua, intanto che questi scendeva faticosamente da cavallo, poggiando il peso sulla gamba sana.

Hironimo strinse gli occhi, sospettoso di quel repentino cambio d’umore. Anche il di Gambara condivideva medesima impressione, studiando accorto ogni movimento del condottiero.

“Giusto”, soffiò malevolo Mercurio, issando di malagrazia il giovane Miani e conducendolo zoppicante al primo carro disponibile, ironicamente quello delle prostitute di campo, e lo pose lì seduto. “Le donne sempre viaggiano in carretta!”, esclamò a voce ben alta acciocché lo ascoltassero tutti e una risata da parte degli stradioti non mancò d’elevarsi nell’umida aria settembrina. “Là! Stai comodo? Finalmente un ambiente a te famigliare, una puttana figlia di puttana tra le puttane!”

Alla stregua di una molla un livido Hironimo scattò in avanti, raschiandosi ben bene la gola e un grumo grasso e giallo planò in mezzo al corsaletto di Mercurio, per poi finire il giovane tra le braccia di una meretrice a causa di un portentoso cazzotto da parte di Lecha, prontamente spintonato via lo stradiota dal conte bresciano.

“Avete intenzione d’andare avanti così per tutto il dannatissimo di giorno?”, ruggì snervato il di Gambara, il suo sermo subitaneamente dimentico di ogni lirica raffinatezza aristocratica. “Neanche ce la stessimo spassando in una scampagnata estiva!”

Mercurio montò in sella al suo cavallo senza neanche degnare il nobile di una parola, pulendo via lo sputo con una decisa strofinata. Busicchio prontamente lo imitò, sospirando e domandosi che accidente avesse preso al suo collega quel giorno. Raramente l’aveva visto di così pessimo umore e non poteva trattarsi solamente a causa degli screzi cogli altri comandanti. Qualcosa di ben peggiore gli stava ribollendo in petto e lo stradiota nutriva qualche sospetto a riguardo.

“Oh, poveretto, vuoi una mano?”, deridevano intanto le prostitute Hironimo, il quale ancora stordito dal pugno si copriva con la mano l’occhio e la parte di zigomo martoriati, già l’epidermide che andava scurendosi in un bell’ematoma blu e giallo. “Eh? La vuoi?”, lo schiaffeggiavano e spintonavano finché Thomà, soffiando a guisa di gatto selvatico, non prese a sua volta ad elargire zampate, premurandosi d’usare le unghie.

“Pussa via, ontissime bagasce!”, berciava e tossiva, sicché le meretrici, temendo il contagio, indietreggiarono e si dispersero peggio degli scarafaggi. “Mi ve cavo i ocij, mi!”

“Oh, che carino!”, cinguettò melensa la più coraggiosa del carro. “Che vorresti farci, pulcino?”, disse, pigliando il bambino per le guance e scotendogli il muso.

Questo, le rispose a fatti Thomà, mordendole la mano tra pollice e indice fino a trar sangue e la prostituta urlò peggio d’un porco sgozzato, colpendo il fantolino e tirandogli i capelli acciocché mollasse la presa, ma i denti di quest’ultimo eguagliavano in tenacia quelli di un mastino napoletano.

Ripresosi dall’intontimento, Hironimo intimò al decenne di lasciarla andare e a malincuore egli obbedì, non senza essersi tolto lo sfizio di tormentare con una poco velata minaccia le altre puttane, esibendo loro i denti lordi di sangue. Acquattandosi ben in fondo al carro, le donne non osarono più avvicinarsi, paventando una possessione demoniaca del putto.

“E così avete un figlio, non l’avrei mai immaginato!”, insinuò malizioso il conte Gianfrancesco di Gambara, il quale cavalcava accanto al carro. “Non mi date l’impressione di un padre …”

“Voi non mi date l’impressione di un amico, cui confido i fatti miei”, ribatté acido il patrizio, soffiando non appena i suoi polpastrelli sfioravano l’ematoma, i recettori di dolore estremamente attivi e impazziti. Cautamente mosse la palpebra dell’occhio, per fortuna non così gonfia da impedirgli di aprirlo.

“Nondimeno, non credete sia stato un poco irresponsabile da parte vostra portare un fanciullo così tenero al fronte?”

“Ciò dimostra che i nostri bambini posseggono più coglioni dei Francesi e Tedeschi messi assieme!”

“Uhm … Più che da figlio, questo pargolo si comporta alla stregua d’un can da guardia!”, non desistette il nobile bresciano in quella (al Miani) molesta conversazione, scoccando una veloce occhiata a Thomà che appunto lo guardava in cagnesco. “Mai visti denti così!”, commentò gioviale.

“Quei denti”, ribatté invece cupamente il patrizio, “gli hanno salvato la vita” e tacque non arrischiandosi di compromettere la sua bugia raccontando di quel triste episodio, laddove durante il sacco di Feltre un lanzichenecco, una volta terminato di massacrare la famiglia di Thomà assieme ai suoi degni compagni, si trovava lì per lì a completare l’opera scannando anche il piccino se quest’ultimo non l’avesse anticipato, azzannandogli la gola fino a strappargli via la carne e costì degolarlo, fuggendo via nel marasma generale della città saccheggiata e nascondendosi tra i boschi, giudicando più misericordiosi i lupi degli uomini.

Un’espressione molto vicina al rimorso scurì il volto giallognolo del conte, quasi potesse intuire l’implicazione di quel mordere animalesco, ma si trattò un attimo. S’avvicinò invece al carro, inclinandosi verso di lui come se volesse render partecipe il veneziano di una qualche confidenza. “Prima che ritorni alla mia compagnia, avete bisogno di qualcosa?”, s’informò neutro, non tradendo alcun’emozione.

“Da un traditore non voglio niente” e quel malcelato veleno provocò un breve rictus nella mascella del conte.

“Non siate così rancoroso”, blandì questi flemmatico il giovane patrizio. “È la guerra, ognuno fa i propri interessi.”

“Anche domino Soncino Benzone faceva i suoi interessi e guardate com’è finito”, gli ricordò Hironimo con crudele divertimento, sogghignando al subitaneo irrigidimento della schiena del Gambara, il cui colore già malaticcio divenne cinereo, peggio d’un morto.

Come poteva d’altronde egli obliare la punizione esemplare riservata al traditore cremasco?

“La Signoria è la causa dei suoi stessi mali, si è creata da sé i suoi nemici”, sentenziò dopo un lungo silenzio il conte, tuttavia evitando d’incrociare lo sguardo di Miani. “Soncino Benzone ne è la prova, vittima sia dell’invidia del vostro conterraneo Zuam Paulo Gradenigo, suo rivale fin dall’epoca della guerra di Pisa, sia della poca riconoscenza da parte della Signoria nonostante i suoi successi militari. Fu lui a catturare il cardinale Ascanio Sforza e come venne ripagato? Col confino a Padova e questo grazie alla testimonianza di Gradenigo, presentando questi frasi vecchie e in altri contesti. Non l’avessero codeste circostanze umiliato, sono sicuro che domino Benzone non avrebbe serbato tal rancore da passare dalla parte del Re di Francia, aprendogli le porte di Crema due anni addietro.”

“Il mio parente [1] Gradenigo l’ha solo inquadrato, capendo immediatamente con chi avesse a che fare ossia uno scaltro approfittatore pronto a cambiar bandiera al primo vento contrario”, si scaldò il giovane veneziano, affatto contento di quel vilipendio e in aggiunta desideroso di sfogare con qualcuno la stizza dell’umiliazione appena subita per mano del Bua.

“Domino Soncino voleva solo risparmiare la sua amata Crema dal saccheggio e dalla distruzione!”

“Su suggerimento del suo grande amico, Gian Giacomo Trivulzio, che gli aveva anticipato i piani suoi e del Re, a patto ovviamente che oltre alla città questo novello Giuda consegnasse ai Francesi anche il podestà sier Nicolò Pexaro!”, obiettò Hironimo, cingendo Thomà con un braccio e tenendolo fermo, acciocché appoggiasse la testa ciondolante dagli scossoni del carro. “Li abbiamo ben letti i rapporti di domino Latanzio da Bergamo.”

Su quel punto di Gambara non poté controargomentare. “Anni di confino avvelenerebbero il sangue a chiunque. Per cause ingiuste, per di più!”, insistette tuttavia l’uomo. “Negate forse che i continui rapporti negativi inviati dal Gradenigo non abbiano influito sull’opinione della Signoria, rendendola irriconoscente verso il Benzone e costì disconoscendone i meriti? Gli aveva tagliato il mantello dinanzi alle autorità veneziane. Era ovvio che gli avesse ordito contro una congiura!”

“Congiura!”, rise sardonico il giovane patrizio. “Il mio parente sarebbe incapace di tali bassezze, non possiede una sola fibra disonesta nel suo corpo!”

“Nondimeno per ripicca ha contribuito alla condanna di un innocente!”

“Un innocente che ha tentato di corrompere un Capo dei Dieci con centoventi ducati!” Il conte Gianfrancesco si voltò di scatto, sbalordito. Al che Miani schioccò la lingua trionfante. “Ah, questo non lo sapevate.”

“Un uomo disperato si dimostra disposto a tutto”, bofonchiò il nobile bresciano, stringendo convulsamente le redini del cavallo.

Hironimo emise uno sbuffo assai scettico. “Dite, signor Conte, non avrete forse timore di dover un giorno far compagnia a domino Soncino nell’Antenòra?”, [2] lo stuzzicò perfido. “O di finire cadavere appeso ad un palo in balia degli animali e delle intemperie?”

Gianfrancesco di Gambara aspirò profondamente dal naso, avvertendo una certa strettezza al collo mentre fredde gocce di sudore gli scendevano lungo la nuca accaldata. Una sensazione di vuoto allo stomaco seguì poco dopo, rendendolo ipersensibile ad ogni stimolo esterno, quasi l’avessero improvvisamente denudato e costretto all’aria fredda. Tutto questo il conte s’ingannava rassicurandosi che si trattava dei sintomi della malattia contratta a Montebelluna; in realtà, eccome se ci pensava a domino Soncino, così come all’eventualità d’emularne la triste sorte in caso l’avessero catturato a Treviso la cui difesa, oh somma ironia, era stata affidata proprio a Zuam Paulo Gradenigo, la sua fama di uomo poco tenero coi traditori ben nota a tutti.

Il conte bresciano aveva combattuto al fianco di Soncino Benzone, lo conosceva abbastanza bene e pur simpatizzante per le sue amare vicende e ammirandolo per lo spirito ardito e abilità diplomatica e militare, anch’egli a malapena aveva tollerato il carattere altero e iracondo del cremasco, nonché la violentissima crudeltà con cui trattava la popolazione assoggettata tra Vicenza, Verona e Padova, quasi il Benzone avesse voluto sfogare  su quegli inermi poveracci il suo inestinguibile odio nei confronti della Signoria.

Onestamente, sarebbe stato meglio per lui esser rimasto nel bresciano e nel bergamasco.

Louis XII aveva infatti commesso un imperdonabile errore nel trasferire il Benzone così vicino al raggio d’azione della Serenissima. Il 19 luglio 1510 tra Este e Montagnana venti stradioti riuscirono inaspettatamente a catturare il condottiero cremasco con cinque suoi uomini, mentre da Verona trasportavano carri di panni e seta a Vicenza. Condotto a Padova, con non poche difficoltà venne il prigioniero portato a Palazzo della Ragione per l’interrogatorio, le strade bloccate dalla folla inferocita e intenzionata ad impiccarlo al primo palo disponibile. Sicché il passaggio dal giudizio all’esecuzione era stato immediato ed esemplare: la notizia della sua cattura ancora non era giunta a Venezia, che già Soncino Benzone penzolava dalla forca su ordine del provveditore, il suo cadavere appeso poi con un sasso ad un palo fuori città sull’argine del Brenta, esposto alle intemperie e agli uccelli.

A giudicare dalla sua tardiva reazione nell’invio di emissari, sicuramente Louis XII non s’era aspettato tanta solerzia nel giustiziare il suo capitano. Condannando a morte il cremasco senza indugio, il provveditore sier Andrea Griti aveva ottenuto il doppio scopo di eliminare un traditore della Repubblica e di vanificare un prevedibile intervento francese in suo favore, privando il loro re di un validissimo e determinato alleato.

D’altronde Soncino Benzone nella sua arroganza s’era inimicato la persona sbagliata. Mai avrebbe creduto che Gradenigo, oltre che a notificare i Dieci, avesse largamente condiviso i suoi dubbi e le sue accuse contro di lui con amici e familiari. Mai avrebbe il cremasco immaginato, fra tutti i provveditori, di finir prigioniero del cognato dell’odiato rivale – sier Andrea Griti. Mai avrebbe immaginato, dopo la dolce illusione d’aver vendicato il suo onore, che l’ultima risata se la sarebbe fatta proprio il veneziano, maledicendo chissà il momento in cui le loro strade s’erano incrociate.

“E’ stato vittima di sfortunate circostanze”, concluse malinconico Gianfrancesco di Gambara, percependo una certa pesantezza sulle spalle che lo fece sentire d’un tratto ancor più vecchio e spossato per quel mondo governato dalla follia, ironicamente da lui invitata a martoriare quelle terre feconde e tranquille. Soncino Benzone aveva agito spinto dall’orgoglio e dalla sete di vendetta. Lui per la difesa dei privilegi ancestrali e contro l’imposizione del governo veneziano. Aveva fatto bene, però? , si domandava talvolta angosciato. Quale eredità avrebbe lasciato ai posteri, quale immagine di lui? Di un liberatore o di un traditore?

Quella guerra iniziata con la certezza assoluta della sconfitta veneziana, quella guerra ch’era stata descritta dall’Imperatore come la giusta vendetta per l’arroganza di San Marco, quella guerra che il Re di Francia giudicava rapida alla stregua d’un fulmine, ecco quella guerra per il Gambara era da tempo divenuta soltanto un’avida voragine buia che tutto inghiottiva, uomini, donne, amici, nemici, onore, cavalleria, verità, menzogna, il giusto e il sbagliato per rigurgitar fuori null’altro che miseria e morte per ambedue i contendenti.

“E voi, signor Conte”, gli chiese lentamente Hironimo, scuotendolo dalle sue cupe elucubrazioni. “Siete anche voi vittima di sfortunate circostanze?”

“Voi, invece?”, gli ritorse il nobile contro la domanda.

Al che Miani s’ingobbì su se stesso in difesa, sebbene la sua voce rimase ferma: “Io non sono una vittima. Io ho fatto le mie scelte, giuste o sbagliate che siano, le ho fatte. Non temo le conseguenze.”

Il conte l’ascoltò in meditabonda contemplazione ora del suo interlocutore ora dei contorni dei monti all’orizzonte, i quali si stagliavano scuri nel cielo plumbeo quando però le nubi basse non li celavano, creando l’illusione di un immenso incendio.   

Similmente una vampata calda e improvvisa riempì i polmoni del Gambara, dilatandosi essi fino a correre l’aria rapida lungo la trachea, fermandosi in gola e premendogli dietro i denti finché l’uomo, coprendosi la bocca, si sfogò in una portentosa tosse talmente profonda, che ricordava vagamente il raglio di un asino. Egli tossì, tossì, tossì in continuazione ed a brevissimi intervalli a malapena necessari onde ripigliare fiato, neanche avesse per azzardo ingoiato della salsa al pepe, il viso paonazzo dallo sforzo e la vista annebbiata da pingui lacrime.

Vedendo il nobile piegato su se stesso e a momenti sputar fuori l’anima, per un fuggevole istante Hironimo provò un pelino di pietà nei suoi confronti.

Giusto un pelino.

Gianfrancesco di Gambara si costrinse a raddrizzare la schiena, schiarendosi la gola e dominando la smorfia di dolore provocatagli dalle ghiandole parotidi. S’asciugò in fretta le lacrime dal viso chiazzato da macchie rossastre, un po’ per l’affaticamento e un po’ per aver sputato a terra del catarro, atto assai poco aristocratico.

Un incomodo silenzio s’impose tra i due uomini.

“Sul serio non necessitate di nulla?”, riprese incolore il bresciano la domanda scatenante quel loro acceso dibattito, intuibile tentativo sia di cambiar discorso sia di concluderlo lì.

“Non ho bisogno del vostro aiuto”, anche il tono di Hironimo suonava secco e tagliente, poco desideroso di disquisire oltre. “Men che meno se finalizzato a placarvi la coscienza!”

Il conte giostrò con le redini e schioccò la lingua, acciocché il suo cavallo intuisse il suo desiderio di girarsi e tornare indietro alla sua colonna. Non senza tuttavia aver condiviso col giovane patrizio un’ultima confidenza: “Forse un giorno imparerete l’umiltà di accettare aiuto, messer Emiliani, dovunque esso arrivi”, fu il suo consiglio.

Dopodiché speronò il cavallo, galoppandosene via e lasciando Hironimo in compagnia dei suoi pensieri e ignaro delle frequenti e segrete occhiate scoccategli da Mercurio Bua, giratosi infatti questi per controllare i movimenti dei due uomini. La fronte dell’albanese, man mano che il di Gambara s’attardava col Miani, s’era increspata in una smorfia scocciata nonché insospettita.

Cos’era quel negozio? Sin dal suo arrivo al campo, il conte bresciano aveva dimostrato fin troppo interesse nei confronti del suo prigioniero, anche dopo che il Bua aveva chiarito in via definitiva le modalità d’uccisione a chi glielo avesse sottratto e giustamente alla fine ogni pretesa sul veneziano era decaduta. Evidentemente quel cocciuto pezzente non aveva recepito il messaggio.

Prima sarebbero giunti all’Abbazia, meglio sarebbe stato per tutti. Lì il condottiero avrebbe messo il patrizio sottochiave in qualche cella, ben distante dal nobile.

Poiché figli della medesima razza, Mercurio sapeva benissimo che, tradito una volta, non ci si metteva nulla a tradire una seconda.

 

***

 

 Il blu incominciava a scacciare in cielo l’ultimo oro del tramonto, ammantando delle sue ombre la dolce pianura sotto la sua volta e di gran brillantezza rifulgeva adesso Espero, la sua prima stella. I grilli al contempo vicini e lontani cantavano le loro incessanti serenate, accompagnati dal lieve fruscio delle fronde degli alberi e dei giunchi dei canali e fiumi, il cui scorrere sereno e incurante degli affanni umani riecheggiava flebile ma persistente.

In questo momento di placido transito dal giorno alla notte, Francesco Contarini di sier Hironimo “Il Grillo” e i suoi compagni esploratori s’apprestavano a ritornare con succose notizie a Camposampiero, laddove era appostato il resto della compagnia, un totale di cinquecento uomini tra stradioti e balestrieri agli ordini del provveditore sier Ferigo Contarini q. sier Hironimo, di domino Giano di Campofregoso, del conte domino Guido Rangoni e dai capitani Domenico, Giorgio, Pellegrino e Pietro Busicchio.

Il giovane provveditore degli stradioti aveva insistito su quella sosta, ordinando ai soldati di cenare bene e dormire quanto più possibile, in attesa che il conterraneo gli fornisse gli ultimi tasselli necessari a completare il suo piano. Sicché tutti l’avevano preso in parola e il campo era sprofondato in uno stato di beata pennichella di fine estate. Soltanto lui, sier Ferigo, seguitava a scrutare insistentemente l’orizzonte oscurarsi e perdere la sua fulgente doratura man mano che il carro di Febo cedeva il passo a quello di Selene.

Guido Rangoni l’osservava da  lontano, indeciso se raggiungere il Contarini e invitarlo a riposare qualche ora o di lasciarlo al suo impaziente andirivieni, interrottosi all’improvviso in una marmorea immobilità, le mani ben serrate dietro la schiena.

Sebbene tra i due uomini fosse nata una cauta amicizia, il giovane conte non si giudicava abbastanza conoscitore dell’animo di sier Ferigo nell’approcciarlo quando, dimessa la sanguigna maschera del capitano impetuoso e carismatico, egli riacquistava quella sua naturale aria riservata, discreta ed esteriormente tranquilla qualunque fossero i suoi contrasti interni, un po’ tipica della sua gente.

Da fanciullo Guido aveva appreso da suo padre, il conte Niccolò Maria Rangoni, come i veneziani generalmente fossero dei simulatori e dei vendicativi. Solo molti anni dopo, andando esule e scomunicato a vivere tra di loro, Guido capì cosa intendesse veramente il genitore: più che dei simulatori, i veneziani erano di natura assai introversa, ossia chiusa e diffidente, poco inclini a parlare di sé semmai grandi ascoltatori. Accordavano difficilmente l’amicizia, ma una volta concessa non la toglievano, sicché con doppia tenacia perseguitavano chi li tradiva, il modenese stesso aveva avuto un assaggio di codesta ferocia punitiva, quando s’era adombrato un certo favoritismo nei confronti dei suoi conterranei durante la campagna del Polesine.  

Se sier Andrea Griti vi crede innocente al punto da difendervi dal parere dei Dieci, non vedo perché non debba fidarmi anch’io della vostra lealtà a San Marco. Nondimeno, sappiate che se mi tradirete, il mio settanta volte sette sarà quello di Lamec e non di Nostro Signore [3]

“L'é un quèl ed cl' êter mònd! Mi domando come accidenti faccia”, borbottò suo fratello minore Francesco, provocando nel giovane conte un lieve sussulto, avendolo infatti creduto ancora beatamente addormentato accanto all’altro cadetto, Ludovico.

“C'sa? Chi?”

“Il provveditore Contarini”, sbadigliò Francesco, passandosi una mano tra gli arruffati capelli castano scuro. “Non dorme mai, piglia un pasto tra il dì e la notte, vigilantissimo. Per dîrla s'cèta e nèta, par quasi possedere una natura diabolica, che mai si consuma.”

Guido abbandonò la sua infruttuosa contemplazione delle spalle di sier Ferigo, oramai accantonando ogni proposito di discorrere con lui. “Egli combatte per la sua patria”, gli spiegò concisamente, prendendo posto accanto al fuoco e invitando Francesco ad unirsi a lui, se proprio non aveva alcun’intenzione di tornare a dormire.

“Et nuêter?”

Con la scusa di spostare dei ciocchi con l’attizzatoio, il ventiseienne condottiero evitò al minore risposte infelici. “Da parte di chi è quella missiva?”, inquisì cambiando velocemente discorso, notando il pezzo di carta mezzo accartocciato tra le dita del fratello che, tentennante, rispose in un sussurro:

“Di … d’Hannibal …”

“Ch' ét gnés 'n antcōr! Dammi qua!”, scattò rapido e sottratta di malagrazia la lettera, il maggiore dei Rangoni la gettò nel fuoco, che l’ingollò in una sola vampata. “Êşen! Quante volte ti ho detto di non accettare mai più alcuna missiva da parte sua?!”

Da un bel po’ sia il loro fratello Annibale che il loro zio Annibale Bentivoglio, da quando avevano recuperato Bologna, stavano insistendo coi tre Rangoni acciocché ritornassero a prestar servizio alla famiglia signorile bolognese, come ai vecchi tempi. Il Bentivoglio li aveva pure garantito come si fosse riappacificato col Duca di Ferrara, alleato degli stessi francesi che l’avevano aiutato a riconquistare lo Stato, e come Alfonso d’Este avesse dimenticato e perdonato ogni passato screzio tra di loro.

Mal per l’Estense, Guido Rangoni non aveva dimenticato né perdonato.

“Ma Guido! L’è nòster fradèl!”, protestò sbigottito Francesco, gli occhi fuori dalle orbite che si spostavano dal viso del maggiore al mucchietto di ceneri in cui s’era trasformata la lettera.

“Nella nostra professione non abbiamo fratelli, solo una sorella ovvero la nostra spada!”

“An dîr dal cojunêdi! Hannibal rimane nostro fradèl, così come lo sío Hannibal rimane nostro sío e i Bentivoy nostri parenti!”

“Anche Lucrezia d’Este è nostra zia e gli Estensi nostri parenti, eppure guarda come ci hanno allegramente sbattuto la porta in faccia al primo vento contrario! Ti ricordo, fradèl, che se lo sío Hannibal ha dovuto mendicare supporto ai Francesi per ripigliarsi Bologna, deve ringraziare proprio quel ciocapiât del Dóca ed Ferêra, tanto bravo a proclamarsi loro amico e dispiaciuto per le loro disgrazie che misere nobis quando i Bentivoy hanno voluto riprendersi lo Stato! Li ha consegnati al Papa su di un piatto d’argento come Salomè! Anni di servizio da parte sia nostra sia di nostro padre, tutti buttati giù nella cloaca e perché cosa? Perché noi abbiamo dimostrato di possedere rispetto a lui più onore alla parola data e lealtà verso i legami familiari?”

Richiamato il suo capitano in gran pressa da Bologna a Ferrara, il duca Alfonso d’Este lo aveva posto dinanzi ad un aut-aut: o il servizio alla casata ducale ferrarese, o la sua famiglia bolognese. Se varcherete quella soglia, lo aveva avvertito minaccioso, guadagnerete un nemico tenacissimo.

Per la vita, gli aveva allora a sua volta promesso Guido Rangoni, voltando le spalle al Duca, a Ferrara e all’antica alleanza che per anni aveva unito gli Estensi ai Rangoni. Per mesi Alfonso d’Este aveva cercato di catturare il ribelle, le cui spiccate doti militari lo avevano però sempre salvato da ogni imboscata da parte dei ferraresi capitanati dal fratello dell’Este, il cardinale Ippolito. Si narrava perfino che quest’ultimo, frustrato e umiliato dall’ultima abile fuga del Rangoni, dalla stizza avesse ordinato d’impiccare l’oste che aveva ospitato a Bologna il giovane conte.

Abbandonata la madrepatria e scomunicati dal Papa Giulio II, Guido e Ludovico Rangoni s’erano acclimatati facilmente alla nuova vita a Venezia, riparando al loro feudo di Cordignano impestati d’odio a causa di quell’ingiusto tradimento da parte di coloro per le cui cause avevano sempre combattuto, ponendo la vita in prima fila, per poi venir ripagati con del gretto egoismo calcolatore. Al contrario Francesco Rangoni, il più piccolo dei fratelli, ancora faticava a lasciarsi tutto indietro e a voltar pagina.

“La verità”, gli rammentò aspro Francesco, “è che a te non importa più della nostra famiglia, né dei Bentivoy. A te basta dargliela in qualsiasi modo sui corni agli Estensi!” 

Guido si sporse in avanti verso il cadetto, puntandogli severo contro le iridi marroni. “Vuoi tornartene a Bologna? Fai pure, vattene! Chi ti trattiene? Sei forse mio prigioniero? Però rammenta che se tu dovessi cadere una seconda volta col culo per terra, sappi che non mi troverai lì ad aiutarti!”

Il ragazzo abbassò il mento sul petto, le dita strette e intorcolate tra di loro. Comprendeva perfettamente la situazione in cui le avverse vicende li avevano scaraventati; era quell’implacabile rigore da parte di suo fratello maggiore che non comprendeva.

“Mi manca … mi manca tanto nostro fradèl … nostra mêdra, le nostre surèle … Mòdna ... Bologna ... il nostro palazzo a San Sismondo …”, farfugliò mesto, avvertendo un familiare pizzicore agli occhi.

“Mócio! An fêr di snóm! Non piangere, non sei più un putèin!”, lo zittì perentorio Guido, a voce forse troppa alta ché Ludovico si scosse dal sonno, puntellandosi disorientato sui gomiti.

“… ‘sa succede?”, si stropicciò gli occhi, ancora mezzo addormentato. “E’ già ora di partire?” e accortosi sia dello sguardo duro e furioso del fratello maggiore sia di quello basso e penitente del cadetto, insistette: “Perché quelle facce?” Scese dal letto e li raggiunse, studiandoli preoccupato.

Guido cacciò fuori un profondo sospiro, massaggiandosi stancamente la fronte intanto che si poneva in piedi a contemplare il fuoco. Sin da quando, quindicenne, aveva perduto il padre e s’era trovato costretto a sostituirlo sia alla guida dell’esercito che della famiglia, il giovane conte s’era sempre prodigato per assicurare il meglio ad entrambi. A quanto pareva, era più facile dirigere una masnada di indisciplinati soldati che i propri parenti.

“Allora? Di che cosa stavate discutendo?”

Il maggiore dei Rangoni invitò Ludovico ad avvicinarglisi e anche al minore. “Hannibal rimarrà per sempre nostro fradèl, però ha fatto la sua scelta e noi la nostra. A Mòdna non ci possiamo più tornare, se non a capo di un esercito”, asserì rassegnato, scrutando accorto il viso impassibile di Ludovico e quello dispiaciuto di Francesco. Colto da un subitaneo moto d’affetto, Guido appoggiò le mani dietro la loro nuca, conducendoli a sé e abbracciandoli. “Ludovico, Francesco … in questo momento voi siete tutto ciò che mi rimane della nostra famiglia frammentata e dispersa. Dobbiamo impedire ad ogni costo di perdere fiducia l’uno nell’altro. E come abbiamo servito fedelmente i Bentivoy e gli Estensi, adesso con altrettanto zelo noi dobbiamo servire la Repubblica, senza se e senza ma. Mi si spezzerebbe il cuore vedervi penzolare come Soncino Benzone …” ed ebbe appena il tempo di terminare il suo discorso, che improvvisamente l’aria serale vibrò dell’energia della tromba e del tamburo, cui funse d’accompagnamento musicale agli schiamazzi concitati dei balestrieri e degli stradioti, i nervosi nitriti dei loro cavalli e il ventiseienne conte seppe che il campo aveva ricevuto l’ordine di levarsi.

“Su, sbrigatevi, non facciamo la figura dei poltroni!”

Allorché i tre fratelli modenesi raggiunsero il resto della compagnia, trovarono il provveditore degli stradioti già pronto, occupato a monitorare alla stregua d’un gatto ogni preparativo, mentre ascoltava soddisfatto e sornione quanto sier Francesco Contarini gli stava riferendo.

“Buone notizie?”, s’informò celere Guido Rangoni col suo collega Giano di Campofregoso.

“Ottime”, esclamò vivacemente il genovese, salendo sul suo cavallo. “Si preannuncia uno scontro interessante. E proficuo”, aggiunse, girandosi poi ad ordinare le ultime istruzioni ai suoi uomini. Quand’ecco che il suo sguardo cadde su Francesco Rangoni, che se ne stava un po’ a disagio seminascosto dietro al fratello Ludovico. “Belin, anche il piccolino viene? Dite, è la vostra prima volta?”, s’informò cortese, peccato che quell’innocente domanda venne travisata da maliziose interpretazioni, almeno a giudicare dal divertito grugnito di Ludovico, subito fustigato da un’occhiataccia da parte di Guido.

“Francesco, l’illustrissimo signor comandante di Campofregoso v’ha posto una domanda”, incoraggiò questi il minore a parlare, essendosene rimasto lì imbambolato a bocca aperta.

Il ragazzo strabuzzò comicamente gli occhi e annuì veloce, grato dell’oscurità che gli copriva il fastidioso rossore alle gote.

“Avete paura?”

“Nossignore”, gracchiò Francesco, stringendo convulso le redini.

“Non vergognatevene: tutti abbiamo paura al primo assalto. Dopo però diverrà per voi naturale come respirare”, l’assicurò il cinquantaseienne condottiero, sorridendogli tenero, memore dei tempi passati quando anch’egli aveva tremato la prima volta in cui aveva battezzato di sangue la sua spada. “Osservate bene vostro fratello e imparerete dal migliore!”

“Grazie signore, lo terrò a mente e farò del mio meglio”, espresse il giovane la sua riconoscenza verso quei consigli. E non appena il Campofregoso gli diede le spalle per conferire con Guido, Francesco elargì una stizzita manata a Ludovico, che ridacchiando lo ripagò d’una sfrontata linguaccia, forte della distrazione del maggiore.

Un attento silenzio generale impedì al ragazzo di rendergli la pariglia, ogni sguardo diretto verso sier Ferigo Contarini, ch’aveva levato la mano in alto per conferire.

“I nostri esploratori ci hanno comunicato come il nemico abbia dato ordine di preparare e spedirgli da Castelfranco carri di pane, farine e biade per sfamare loro e i cavalli”, esordì il provveditore. “Vedete che ladri?” e calcò bene la parola, strisciandola e riempiendola di veleno e disgusto. “Si nutrono del cibo rubatoci! Del cibo cavato di bocca a chi se l’è onestamente guadagnato! Del cibo prodotto da una terra che non li appartiene!”, esclamò veemente, indirizzato soprattutto questo discorso alle coscienze dei soldati veneti, i quali digrignavano feroci i denti, essendosi infatti alcuni di loro arruolati sia per patriottismo sia perché non avevano altro modo di sfamare le loro donne e i loro figli. “Allora io dico: con tal feccia non c’è da esser gentiluomini!”

Un primo entusiasta ululato fendette la quiete notturna, garbando ai soldati la piega che quell’arringa stava prendendo.

Conscio di aver ben scaldato gli animi, sier Ferigo annunciò dunque con trascinante impeto: “Dieci carri spettano alla Signoria, il resto è tutto vostro!”, fu la sua solenne promessa.

Un giubilante ruggito l’accolse, accompagnato dal forsennato battersi il pugno sul corsaletto e dal cozzare della zagaglia contro la targa e gli stradioti apparivano quasi commossi dalla bella notizia, qualcuno addirittura che accarezzava il possente collo del proprio fedele cavallo, raccontandogli della scorpacciata di biada che a breve si sarebbe fatto.

Sier Ferigo domandò di nuovo di porgergli orecchio. “Domani oltre che ad essere domenica, è la festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Anche se non possiamo ufficialmente celebrare la Messa [4], ugualmente preghiamo e affidiamo nelle mani del Signore le nostra missione e le nostre vite”, esortò il giovane provveditore a quel breve attimo di raccoglimento, onde far pace con Dio e cavalcare sereni al loro destino, qualsiasi esso fosse stato.

Eseguito un lento e grave segno della Croce, il Contarini recitò a voce ben alta e chiara il Salmo della Messa festiva:

“Ascolta, popolo mio, la mia legge,

porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.

Aprirò la mia bocca con una parabola,

rievocherò gli enigmi dei tempi antichi.

 

Quando li uccideva, Lo cercavano

e tornavano a rivolgersi a Lui,

ricordavano che Dio è la loro roccia

e Dio, l’Altissimo, il loro redentore.

 

Lo lusingavano con la loro bocca,

ma Gli mentivano con la lingua:

il loro cuore non era costante verso di Lui

e non erano fedeli alla Sua alleanza.

 

Ma Lui, misericordioso, perdonava la colpa,

invece di distruggere.

Molte volte trattenne la Sua ira

e non scatenò il Suo furore.

 

Nos autem gloriari oportet in cruce Domini nostri Iesu Christi, in quo est salus, vita et resurrectio nostra, per quem salvati et liberati sumus!”, terminò ieratico sier Ferigo, aprendo gli occhi. “Amen!”

“Amen!”, lo imitò il resto della compagnia, la quale aveva ascoltato in devotissimo silenzio, a capo chino e chi poteva a mani congiunte, tingendo conforto in quelle sacre parole, unica certezza in un mondo dai continui rovesci di fortuna, morale ed amicizie.

“In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti”, si segnò nuovamente il giovane provveditore degli stradioti tosto imitato dai soldati. Dopodiché, egli appoggiò la sua fiaccola sul braciere e avvoltasi di fiamme la punta, la ritirò e accese quella dell’altro Contarini, che a sua volta accese la fiaccola di Giano di Campofregoso e lui quella di Guido Rangoni e così via a catena, finché tutto il campo venne illuminato a giorno.

“In nome del Cristo Risorto, della Vergine, di San Marco e di San Giorgio, a Castelfranco!”, incitò sier Ferigo i suoi stradioti e balestrieri, cui fecero eco le zagaglie, le balestre e le insegne levate in alto dagli uomini eccitatissimi alla prospettiva della battaglia e soprattutto del pingue bottino.

“A Castelfranco! A Castelfranco! Marco! Marco!”

Perfino i cavalli parvero nitrire il loro assenso, guidati al galoppo dai loro cavalieri in una compatta colonna formatasi assai rapidamente e in un batter d’occhio il campo si era svuotato completamente, ingoiato dal silenzio.

E un fiume luminoso penetrò nell’oscurità notturna, simile ad una folgore in cielo preannunciante un portentoso temporale di morte e distruzione del nemico.  

 

***

 

 Le truppe dei Franco-Imperiali giunsero a Nervesa di prima mattina e subito Jacques de Chabannes de la Palice, monseigneur de Boissy e du Molard, Mercurio Bua e Lecha Busicchio, Gianfrancesco di Gambara, Giulio Sanseverino e Galeazzo Pallavicino si diressero all’Abbazia di Sant’Eustachio[5], la quale sovrastava la zona dall’alto di una collina terrazzata da viti feconde. Il capitano Jacob e gli altri comandanti tedeschi invece avevano preferito sostare alla Certosa di San Girolamo, da lì poco distante.

Appartenente all’ordine benedettino, l’Abbazia di Sant’Eustachio era stata fondata nel 1062 dal conte Rambaldo III di Collalto e da sua madre Gisla, godendo pertanto essa della costante protezione della famiglia, la quale le aveva garantito una notevole indipendenza dalla diocesi di Treviso nonché l’ingerenza del suo vescovo, il cui potere i Collalto avevano voluto limitare.

Di conseguenza, vista dal basso l’Abbazia poteva assomigliare più ad una piccola fortezza che ad un edificio di preghiera o di sanificazione del territorio, come invece erano le sue consorelle sparse nella Terraferma, costruite infatti ai piedi di colli o montagne, in terreni dapprincipio marci e inutili. Le spesse mura del corpo principale del monastero e il massiccio campanile da cui si poteva visualizzare la vallata sottostante lo rendevano un robusto rifugio da ogni pericolo esterno.

Il maresciallo francese l’aveva scelta apposta per la sua posizione strategica e i suoi sottoposti avevano convenuto animosamente con lui, assai allettati dall’idea d’alloggiare in un luogo finalmente asciutto e confortevole, anche a costo di doverlo condividere tra di loro.  

Purtroppo, la lunga ed estenuante marcia li aveva fatto scordare come quel giorno fosse domenica e per di più festa solenne dell’Esaltazione della Santa Croce e ciò ritardò i loro piani di ristoro, costringendoli all’attesa.

“Siete i benvenuti ad assistere alla Messa”, spiegò il padre guardiano ai nuovi arrivati, non appena li ebbe raggiunti dalla sua casetta poco lontano dal cancello principale. Parlava nervosamente, incerto cosa aspettarsi da quegli stranieri malgrado le rassicurazioni del conte Joanne Antonio da Collalto. “Tuttavia dovete attendere la fine della funzione, prima di poter conferire con l’Abate.”

“Molto volentieri, fateci per cortesia strada”, accettò La Palice di buon grado quella proposta, sia per ripararsi dalla pioggia ch’aveva ripreso ad importunarli sia perché sentiva l’impellente necessità di una benedizione, preoccupato nel suo intimo di tutte quelle sciagure capitatigli di recente tra capo e collo, quali epidemie nel campo, penuria di approvvigionamenti, liti continue tra soldati francesi e tedeschi, i Veneziani che lo tallonavano da ogni angolo e l’Imperatore che s’era perso tra i monti, giurando e stragiurando che si sarebbe unito alle sue truppe per l’impresa di Treviso e invece di Maximilian non si vedeva manco la punta del suo grossissimo naso.

La tentazione di mandare l’Habsburg a mangiar rave nei campi lo tentava ogni dì sempre di più, soltanto il senso dell’onore e dell’impegno preso gli impedivano di tornarsene a Verona o a Milano direttamente. Che magra figura ci avrebbe fatto, ragionava poi, col suo Roi Louis e con quell’arrogantaccio di suo nipote Gaston de Foix-Nemours? Neppure l’ognora comprensivo Bayard l’avrebbe giustificato, rimproverandogli la poca costanza e d’altronde conoscendo le Bon Chevalier, quello sarebbe stato capacissimo di correre scalzo e in mutande a Treviso pur di non mancare alla parola data.

Contemplando abbacchiato le betulle ai lati della stradina onde salire all’Abbazia, il de La Palice s’augurò di trovar risposta nella preghiera, non essendogli mai capitato in vita sua di non saper quale decisione prendere.

Il maresciallo e il resto dei comandanti passarono per il secondo portone, quello del monastero vero e proprio, attraversando un ampio cortile di solito brulicante d’attività ma in quel momento silenzioso per via della Messa solenne, le cui litanie cantate si potevano udire già dai gradini dalla basilica in stile tardo romanico. Quasi in punta dei piedi il gruppetto si ritagliò un angolino tra le colonne della navata principale, ammirando con la tipica imbarazzata curiosità dei visitatori gli affreschi trecenteschi sulle volte e le statue in rilievo sulle colonne. In realtà, essi guardavano altrove per non dover incrociare lo sguardo penetrante dell’Abate, il quale li squadrava dal suo scranno con la medesima intensità del gigantesco Christus Triumphans posto al centro dell’abside, dalle cui braccia pendeva un pesante panno d’oro di broccato finissimo e ghirlande.

Terminato di cantare il Gloria si passò alle Letture e neppure quando il monaco lesse cantando il passo biblico, smise l’Abate il suo accigliato studio di La Palice e compagni, in particolare di Mercurio Bua e Lecha Busicchio che coi loro abiti orientaleggianti potevano benissimo passare per ortodossi o peggio per turchi.

“Dal libro dei Numeri: In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: “Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero.” Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: “Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti”. Mosè pregò per il popolo. Il Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”. Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.

L’Abate poteva ben figurarsi quale favore quegli stranieri sarebbero presto venuti a chiedergli – già il conte Joanne Antonio da Collalto gli aveva anticipato la loro venuta. L’uomo chiuse gli occhi e sospirò a fondo, il petto dilaniato da sentimenti contrastanti. Da una parte sapeva che, in quanto supportati dalla famiglia dei Collalto, nessun male sarebbe incorso all’abbazia e ai suoi abitanti. Dall’altra, però, conosceva bene il cuore della gente del Montello ed esso era marchesco, sicché costoro che si trovava costretto per cristiana carità (e politica convenienza) ad ospitare per i locali erano messaggeri di morte, così come per Treviso nella cui giurisdizione l’abbazia si trovava.

Mio Dio, sorreggici nella prova, noi che non siamo nulla senza di Te, pregò l’Abate, mandando a Messa terminata a prelevare il maresciallo francese e i suoi comandanti, invitandoli a seguirlo per il chiostro adiacente fino al suo studiolo.

“Padre reverendissimo, vi saluto”, s’inchinò de la Palice, baciando l’anello portogli dall’Abate. “Vi ringraziamo dell’ospitalità vostra.”

“Ringraziate i conti di Collalto di San Salvatore”, lo corresse ambiguo l’anziano monaco. Quand’ecco che la sua espressione s’indurì. “Vi rammento che questa è la casa di Dio e un sacro luogo di preghiera e che pertanto non saranno tollerati atteggiamenti ad esso inaccettabili, checché a comandarvi sia un re autoproclamatosi cristianissimo”, l’ammonì perentorio, puntandogli al petto il riccio del pastorale.

La Palice deglutì a disagio, schiacciato dal peso delle passate e tristemente note colpe dell’esercito franco-imperiale, famoso per razziare il razziabile, in barba alla funzione dell’edificio saccheggiato. “Giuro sul mio onore che ci comporteremo nella maniera più discreta e consona a questo luogo sacro. Chiediamo soltanto ospitalità per qualche notte, in attesa di completare il ponte e di muovere a Treviso il campo”, gli garantì solennemente.

L’Abate soppesò a lungo i pro e i contro, tamburellando le dita sul pastorale finché non chinò lentamente il capo in assenso. “Vi farò avere una celletta per voi, maresciallo de la Palissa. E anche al signor conte di Gambara”, aggiunse, notando il viso pallidissimo del nobile bresciano, gonfiato di tanto in tanto da colpi di tosse che questi cercava di trattenere in petto o di coprire con la mano. “Quanto al resto dei vostri comandanti, potranno usufruire degli ospizi dei pellegrini.”

“Vi ringraziamo infinitamente della vostra generosità.”

“Padre colendissimo”, s’intromise con ossequiosa mitezza Mercurio Bua, inchinandosi con l’elmo sottobraccio, “potrei aver l’ardire di domandarvi, se per caso avreste qualche celletta assai isolata?”

“Per voi?”, domandò confuso e lievemente sospettoso l’uomo, conoscendo infatti la fama poco raccomandabile dei mercenari greco-albanesi.

“No, venerabilissimo Padre, per due miei prigionieri, la cui … sicurezza mi sta molto a cuore.”

L’Abate strinse gli occhi, non molto convinto. Ciononostante, rispose affermativamente: “Ci sono le celle dove i monaci ribelli alla Regola hanno modo di riflettere sui loro peccati.”

“Non avrei osato sperare di meglio, Padre eccellentissimo”, baciò riconoscente il condottiero l’anello del perplesso religioso.

Così, mentre Mercurio Bua col beneplacito del maresciallo de la Palice distruggeva le altrui aspettative di ristoro mettendo i soldati subito al lavoro alla costruzione del ponte per transitar sul Piave, berciando a destra e a manca come si fossero anche fin troppo riposati a Montebelluna nell’ozio più osceno, Hironimo e Thomà vennero tirati giù dal carro e trascinati al loro nuovo alloggio. Un asfissiante buco stretto, senza luce naturale e puzzolente di muffa, però almeno se ne stavano per conto proprio.

Il veneziano si adoprò subito per preparare un giaciglio dove poter far distendere il ciondolante fantolino, sostenendo questi non aver dormito bene e di conseguenza sofferente d’un brutto mal di testa e rigidità del collo.

Con la scusa di accendere una pingue candela, Mercurio ne approfittò per spiare i movimenti del giovane, meravigliandosi dall’infinita premura impiegata nell’avvolgere il bambino nella ruvida coperta di lana e nel sistemargli della paglia sotto la testa, nonché dalla tenerezza in cui gli scostava via dalla fronte le ciocche umide. Tali amorevoli gesti l’albanese li aveva visti soltanto in sua madre e in sua moglie Caterina, quando la sera aiutava la loro Maria ad addormentarsi, spaventata la piccina dalle sinistre ombre proiettate dall’armatura sulla tenda e dagli schiamazzi dei soldati.

E similmente agli occhi neri di Caterina, i quali dopo aver finito con la loro creatura lo fissavano ricolmi di malcelato disprezzo, anche quelli di Hironimo non gli risparmiavano alcunché, biasimandolo di ogni loro disgrazia.

A Mercurio si serrò la gola, imprimendo le sue dita eccessiva forza nella cera tanto da lasciarne l’impronta: in quei grandi occhi nerissimi egli rivedeva ogni sguardo della moglie e pertanto s’immalinconiva e al contempo s’arrabbiava quand’essi lo guardavano rancorosi, poiché per lui era come ritrovarsi davanti alle sue colpe nei confronti di Caterina. Il Bua s’era sempre vantato d’esser stato un buon marito, ma più trascorreva il tempo in compagnia del suo prigioniero, più le sue espressioni si confondevano con quelle della moglie e allora l’uomo incominciava a dubitare se avesse mai capito l’animo di lei, se non avesse dato per scontata la sua presenza accanto a lui.

Ed ecco che a Mercurio sfuggì un risolino amaro: tanto filosofeggiare per una banale somiglianza nel colore degli occhi! Cos’avrebbe fatto, allora, se a Castelnuovo di Quero avesse catturato una castellana al posto di un castellano?

“Ti piace la tua nuova stanza?”

“Tutto è bello senza te tra i piedi!”

L’albanese ridacchiò magnanimo, posando per terra la candela. “In questo modo potrò coordinare i lavori al ponte e dormire sereno la notte, senza la scocciatura di voialtri tossicolosi”, gli spiegò, intanto che sfilava all’imbronciato patrizio le manette, le cavigliere e il collare. Neanche il tempo di posare quest’ultimo, che il Bua ghermì per la gola Hironimo e lo costrinse a guardarlo ben in faccia, avvertendolo mortalmente serio: “Bada a non giocare al furbo, o massacro di pugni questo tuo muso impertinente che perfino tua madre si schiferà al sol guardarti!”, e abbandonò malamente la presa, tanto che il giovane cadde all’indietro di schiena.

Massaggiandosi il collo arrossato e tossendo forte sia per la malattia che per il ritrovato ossigeno, Miani si sforzò d’apparire tranquillo, elargendogli noncuranti spallucce. “Se lo dici tu”, sputò e tossì ancora, nettandosi l’angolo della bocca con la camicia.

“La tua caviglia?”, s’informò brusco Mercurio.

“Grazie a te non bene”, gli cantilenò beffardamente dietro Hironimo, dalla cui smorfia però si tradiva il fastidio ch’essa gli provocava.

In effetti, appurò il condottiero storcendo la bocca, il veneziano non stava panicando alla stregua d’una donnicciola: la caviglia aveva assunto un colore tra il rosso e il bluastro, il piede in una posizione più rigida e storta rispetto all’altro.

Delicatamente, l’albanese lo sollevò dal tallone, esaminandolo cauto tramite lenti movimenti circolari e fermandosi non appena avvertiva piccoli spasimi convulsi nel patrizio, il quale a viva forza tratteneva ogni esclamazione di dolorosa protesta dinanzi a quella manipolazione.

“Te la senti intorpidita?”

“Sì.”

“Hai come una sensazione di bruciore?”

“No.”

Mercurio appoggiò per terra il piede e si rialzò. “Ti farò portare delle pezze d’acqua fredda e qualche unguento. Non credo tu te la sia fratturata, il che è un bene perché in barella fino a Treviso non ti ci porto!” Magari il suo prigioniero ne avrebbe approfittato anche per pulirsi un poco, avendo le gambe sporche di fango, di croste di sangue per le escoriazioni ed i tagli, nonché piene di punture d’insetto e arrossamenti cutanei a causa del bacio dell’ortica. S’appuntò di dargli poi una camicia pulita, neanche un porcaro se ne andava a zonzo con una talmente lercia come la sua.

“An, visto che sei così gentile, perché non mi porti anche un vasetto di miele?”, esigette petulante Hironimo, indicandogli la gola con uno storcere di bocca assai infantile. “Mi fa bua qua” e rise sardonico.

Mercurio borbottò qualche improperio, sbattendo la porta e chiudendola a chiave.

Rimasto finalmente solo, Hironimo gettò indietro il capo e cacciò un profondo sospiro, portandosi poi al petto le ginocchia che abbracciò a mo’ di conforto, percependo ogni singola energia abbandonargli il corpo. Negli ultimi giorni gli stava costando moltissimo tener testa sia fisicamente che mentalmente al suo carceriere, tormentato in ambedue dalla malattia e dai mille dubiti e quesiti che lo punzecchiavano feroci.

Perché, perché ancora nessuno aveva domandato di lui? Perché nessuno s’era fatto avanti con una proposta di riscatto? O di scambio? Le famiglie dei capitani Colle e Doglioni avevano subito provveduto a pagare la loro taglia, liberandoli, come mai nessuno della sua famiglia aveva mandato alcun’ambasciata al Bua?

Vero, con Lucha avevano dovuto attendere ben quattro mesi prima di riabbracciarlo, però perché l’avevano trasferito in Alemagna e dunque non era stato facile capire dove fosse finito.

Ma lui? Come facevano a non sapere dove si trovasse? A meno che …

A meno che non lo pensassero già morto. No, no, non poteva essere. Altrimenti il Bua sul serio l’avrebbe ammazzato, una volta compresa la sua inutilità  … O forse era così, l’albanese ancora non sapeva che a Venezia lo davano per ucciso e quindi nulla gli avrebbe impedito, appresa la novità, di gettarlo nel Piave con la palla al collo …

No, no, no! Di sicuro, in qualche astruso modo, le spie veneziane avevano riferito in Senato della sua sopravvivenza alla mattanza di Castelnuovo di Quero. Ma allora perché quel silenzio? Quell’inazione? Cosa attendeva la Signoria per riscattarlo?

Hironimo aveva origliato frammenti di conversazioni degli emissari di uno dei capitani alla custodia di Treviso, il signor Vitello Vitelli, e nessuno chiedeva di lui, neppure suo fratello Marco che lì si trovava, o meglio, che il giovane Miani aveva scoperto trovarsi lì tramite terzi perché Marco …

… lo odiava.

Ancora gli riverberavano le dure parole del fratello all’orecchio, la loro collera, la loro delusione nel dover ascoltare le minchionate che Hironimo, giudicandosi all’apice della saggezza umana, aveva stoltamente pronunciato.

Parole pronunciate giusto perché aveva la lingua, senza rifletterle, senza ponderarne l’effetto devastante che avrebbero potuto avere su una delle poche persone che per tutta la sua giovane vita l’aveva amato e protetto, contro questa persona le aveva lanciate, azzannandola sconsiderato, vigliaccamente, stupido idiota che non imparava mai niente! Ogni confidenza, ogni difficoltà superata assieme, la fiducia estrema tra di loro sputtanata dal suo nocivo orgoglio, da quella tossica necessità di volersi sentire superiore a chiunque, più intelligente, più coraggioso e invece eguagliava a stupidaggine una lumaca spiaccicata dallo zoccolo di un asino.

Era stato meschino, antipatico, ingiusto nei confronti di Marco e anche di Carlo, arraffando come dovuto il loro affetto e non premurandosi di proteggerlo, né di nutrirlo …  Anche se fosse riuscito a ritornare a casa, con che faccia li avrebbe affrontati? Con quali parole poter spiegare loro il motivo dietro quella sua sconsideratezza?

Non devi prendertela, gli era stato rassicurato; sono arrabbiati anche loro, hanno bisogno di tempo per gettarsi alle spalle quanto accaduto … Balle! Balle! Balle! Hironimo ben s’era accorto del gelo, dell’imbarazzo e della delusione aleggiare negli occhi dei fratelli, in Marco soprattutto, non lo avevano perdonato, non avrebbero dimenticato, una volta oltrepassata una certa linea non c’era via di ritorno, nulla sarebbe ritornato come prima ed egli non poteva convivere con l’eterna angoscia del biasimo nascosto dietro un’ipocrita maschera di cordialità, di udire il pianto dell’anima sua lacerata dal rimorso e dai dolci ricordi laddove rivedeva quei giorni pieni d’amore l’uno verso l’altro …

Amore? Come avevano potuto amare una persona così ingrata? Come avevano potuto amare una persona così vile?

E lui, cretino altero, perché non s’era scusato? Perché non li aveva spiegato i suoi motivi, non li aveva costretti ad ascoltarlo anche a costo di trattenerli fisicamente? Li aveva urlato di far il piacer loro, che non doveva delucidazioni a nessuno, men che meno a chi si rifiutava di capirlo … Se non volevano accettare ciò che stava sostenendo, erano affaracci loro, troppo ciechi e sordi nelle loro convinzioni per abbracciare la verità!

La verità!

Quale verità?

Si meritava il loro disprezzo, ecco qual era la verità, si meritava il loro disinteresse per la sua sorte. Era stata questione di tempo che si disinnamorassero di loro, disillusi da una falsa sua bontà per poi scoprire realmente quale bestia lui fosse e magari, magari … magari anche Madre aveva visto finalmente dietro la cortina dell’inganno, realizzando che razza di mostro avesse generato …

Niente se non un continuo fallimento, ecco cosa lui rappresentava per la sua famiglia, una pietra di scarto, d’imbarazzo, una zavorra che forse non sarebbe mai dovuta esistere …

Aveva rovinato tutto. Come sempre. Tutto quello che toccava, lui rovinava.

Come sempre.

“Etcì!”

Hironimo scattò in un buffo balzo, voltandosi indietro verso il fagotto qual s’era trasformato Thomà.

Aiutandosi a porsi in piedi appoggiandosi contro il muro, il patrizio zoppicò fino al giaciglio di fortuna laddove giaceva il fantolino, avvolto da una pesante coperta di lana. Sin dal suo risveglio, la sua faccia appariva d’un giallo cera poco rassicurante, circondate le tempie da ciocche bagnate e perle di sudore e adesso il labbro aveva incominciato a tremare similmente al suo corpicino.

Il giovane gli si sedette accanto, accarezzandogli la punta del naso arrossato col dito, così da svegliarlo evitandogli un coccolone al cuore. “Thomà? Ti te dromi ancora?”

Si stupì d’udire la sua voce così tremula, d’un tocco talmente infantile che perfino Thomà sbatté le ciglia disorientato.

“Uhm …?”

“Su, Thomà, sveia, zò!”, lo scosse dolcemente Hironimo, nel suo intimo tuttavia preoccupato dalla mancanza di reazione nel solitamente vispo decenne, il quale alzò un poco la testa, guardandosi attorno distratto e affaticato, per poi ripiombare sul raffazzonato guanciale di paglia.

“Gh’ho sono, patron …”, sbiascicò, al che Miani lo sollevò di spalle, appoggiandoselo al petto e abbracciandolo onde riscaldarlo, il cuore che gli batteva impazzito nel percepire i continui tremiti nel bambino. “Lassème pisocar …”, chiuse gli occhi, accoccolandosi contro il giovane uomo, la testa pesante e i muscoli intorpiditi. 

Hironimo, imperterrito, lo scosse ancora e gli accarezzò col pollice la guancia, costringendolo a star sveglio. “No xélo pì patron, ma sior Pare, gh’hastu desmentegà?”, gli ricordò, tentando di mascherare la sua ansietà dietro un tono allegro.

“Chome volé”, bofonchiò Thomà, riappisolandosi.

Miani non glielo permise, destandolo per la terza volta. “Via, verzi sti ocieti bei!”, lo incoraggiò e stavolta il fantolino si mise d’impegno, sistemandosi a fatica seduto, pur avviluppando il braccino magro contro quello più robusto del patrizio.

Silenzio.

“Perché gh’avé dito al Griego, vui seti el sior mio pare?”, inquisì infine Thomà, giocherellando svogliato coi lacci della camicia di Hironimo. 

“Te volevi ea testa su la panza?”, gli delucidò questi, sovvenendosi dell’enorme paura provata alla vista del sangue dal naso del Bua e dell’animalesca espressione assassina nei suoi occhi, quando stava per estrarre la spada e costì vendicare il suo onore. Nonché della sorpresa nel vedersi coprire col proprio corpo il bambino, d’istinto, quasi stesse proteggendo un figlio suo invece di un mocciosetto, che fino a qualche mese fa per lui era stato un signor nessuno, un anonimo addetto alla mescolatura delle polveri come tanti altri.

“No, no, sora queo vuj gh’avé rason. Perhò, a saria stà pì logico dir che mi gero on fradel picenin ch’on fio vuostro. Seti massa zovene par farme da pare”, argomentò Thomà le sue perplessità circa la scelta di parentela da parte del Miani, che esclamò ilare:

“Massa zovene? Co’ te geri nato, mi gh’aveo zerca quindexe anni, nol gero cussì picenin!”

Il decenne schioccò la lingua affatto persuaso. “El mio sior Pare l’gera omo no putelo!”, sentenziò, levando lo sguardo vitreo in alto onde incrociare quello di Hironimo. “Comprendeu?”

Anche se gli costava ammetterlo, sì, egli comprendeva. La paternità era questione di maturità mentale, non fisica. Tutti possono generare figli, a qualsiasi età, però allevarli si trattava di ben altro negozio che non sempre si concludeva con successo. Hironimo col senno di poi aveva appurato quanta fatica fosse costata ai genitori la sua educazione, ripagando assai miseramente i loro sforzi. L’unica consolazione che gli rimaneva stava nel saper Padre morto, risparmiandogli la vergogna di aver avuto un fallito per figlio.

“Hé, ti no te pol ser mio fradel,  anca perché la siora mia Mare xéla fià vecia par ser la toa.”

A questo Thomà non vi aveva pensato, logicamente all’oscuro delle dinamiche familiari del Miani. Anzi, fino a quel momento l’aveva sempre creduto figlio unico, tanto gli ricordava il suo carattere inflessibile e prepotente quello di chi l’aveva ogni volta avuta vinta. “La perdonança, mi no la cognosso. Chome xéla?”, volle improvvisamente sapere.

“Bona chome la Madona”, sussurrò flebile Hironimo, d’un tratto vergognoso nell’accennare a Madre, quasi si considerasse indegno di lei e del suo amore.

“Donca chome xéla che vuj seti un Turcho?”

“No, mi sum l’Orso.”

Thomà arrossì colpevole, borbottando imbarazzato come non fosse educato origliare le altrui preghiere.

“Me piasarave incontrarla …”, confessò al patrizio in un gran sospiro. “Et ringrassiarla.”

“De che?”

“Sciò mi.”

“Co’ saremo liberi, mi te zuro che ‘ndremo tuti et do a Veniexia da ela.”

“Sì, un zorno …”, scosse il bambino sognante il capo, socchiudendo gli occhi. “Grassie, mille grassie per esserme stà siempre vizin, anca se per vuj nol gero nissun. Mi me despiase se ve gh’ho talvolta astià, perhò a mi me consola morir cum qualchedun ch’a me vol ben et no da solo chome un can …” e tacque in un gran sospiro, umettandosi le labbra secche.

Un lungo, possente e doloroso tremore rivoltò ogni nervo di Hironimo da capo a piedi all’udire quelle rassegnate parole, recependone allibito il tremendo significato e ribellandosi di conseguenza ad esso – non con lui vivo, non se poteva far qualcosa per impedirlo!

“Thomà? Thomà, sveia, ti no te xé divertente!”, lo rimproverò, impaurito dalla lassa immobilità del fantolino tra le sue braccia. “Thomà! Thomà!”, gridò il giovane panicando e squillando acuta la sua voce nella semioscurità di quella fetida cella. Strisciando il Miani afferrò la candela e la portò al viso del bambino, mordendosi a sangue il labbro dinanzi al suo pallore mortale e al bianco dei bulbi oculari, quando aprì forzatamente le palpebre del piccino.

“Agiudo! Agiudo!”, ruggì, fustigato dal crudele e sterile eco rimbombante dalle pareti. “Agiudo!”, ripeté, ponendosi faticosamente in piedi e gettandosi quasi di peso sulla porta sbarrata e chiusa a chiave. “El more! Agiudo! Agiudo!”, prese Hironimo a battere i palmi delle mani fino a scorticarseli di schegge, alternandoli con disperati pugni finché il legno non si tinse di macchioline rosse.

Constatata la loro inefficacia, il giovane si voltò alla forsennata ricerca di un qualsivoglia oggetto utile ad attirare l’attenzione dall’interno, trovando soltanto il pitale che però essendo di terracotta non poteva certo resistere all’impatto senza sgretolarsi.

E va bene, non gli mancavano altri mezzi!

Hironimo strinse i denti e ingoiò il dolore generato dall’impatto della sua spalla contro il legno e del peso sulla caviglia ferita, mentre rinculando prendeva una breve rincorsa.

Non aveva combinato niente di buono nella sua vita, né per lui né per il suo prossimo. S’avvide chiaramente delle delusioni date come figlio, fratello, cittadino, castellano, malgrado non gli fosse mai mancato né coraggio né determinazione. Non meritava alcuna pietà né giustificazione.

Non stavolta, però, in quest’occasione.

Miani aveva giurato a se stesso che a qualsiasi costo avrebbe protetto quel bambino, anche anteponendolo ai propri interessi personali.  

Poca cosa dunque massacrarsi le ossa contro quel duro legno, se col suo sangue poteva salvare la vita di un innocente.

 

Contemporaneamente a quei disperati tonfi sulla solida porta, s’aggiungevano quelli nell’acqua provocati dal legno del ponte, scardinata la struttura dalla possente corrente del Piave, ingrossatosi per via delle piogge e pertanto ribelle ad ogni guado.

Fortuna che l’Abbazia e la Certosa si trovavano abbastanza distanti da non crollare dal peso delle bestemmie che si levarono, una babele di profanità in francese e tedesco e pure arricchite dalle espressioni regionali di tal idiomi.

Jacques de Chabannes de la Palice assisteva accigliato ai miseri progressi, le mani strette convulsamente tra di loro dietro la schiena. S’impose di portar pazienza e insistere sulla costruzione di quel dannato ponte: ogni cosa d’altronde si piega al volere umano, se sussisteva sufficiente determinazione.

L’ennesimo crollo lo contraddisse, provocandogli un rictus nervoso all’occhio specie nel vedere alcuni suoi soldati nuotare a stento sulla riva, rigirandosi supini sulla riva, ansimando alla stregua di cani.

“Forse dovremmo ordinar loro di fare una pausa”, gli suggerì cauto Giulio Sanseverino, le cui vicende famigliari gli avevano reso ogni fiume assai antipatico [6].

“Avranno modo di riposarsi stanotte”, commentò aspro la Palice, rimbeccando invece i suoi uomini per quel loro tergiversare e spronandoli a riprendere chiodi, martelli, corde, livelle e seghe e costì terminare almeno metà ponte prima del calar della sera. 

“Speriamo a pancia piena”, gli fece notare Mercurio Bua, levando gli occhi al plumbeo cielo senza sole.  “Non dovevano arrivare i viveri da Castelfranco?”, chiese al Sanseverino, il quale si guardò a disagio la punta dei piedi.

“Non una parola a riguardo dal nostro luogotenente”, ammise egli infine. “Eppure mi ero personalmente raccomandato di spedirmi una staffetta, non appena i carri fossero partiti.”

“A che ora eravate rimasti d’accordo?”

“Verso le ore undici.”

E adesso erano quasi le ventuno, pomeriggio inoltrato virante al tramonto.

“Io dico che gli è successo qualcosa di brutto”, concluse il capitano Jacob Empser, incrociando le braccia al petto. Ottenuta l’attenzione dei tre uomini, il tedesco prese coraggio ed esternò la sua personale opinione: “Non mi piace star qui ad aspettare di far la fine del sorcio, morto o di fame o mangiato dal gatto. Una volta terminato il ponte, andiamocene nella Patria del Friuli e riforniamoci lì di provviste e munizioni!”

La Palice lo fulminò con lo sguardo. “Vade retro, satana”, sibilò velenoso, allontanandosi fisicamente da quel diavolo tentatore.

Il capitano Jacob non desistette, anzi, pure inseguì il francese nel disperato tentativo d’indurlo alla ragione: “Maresciallo, voi non siete uno sprovveduto, ciononostante non capisco perché vi ostiniate a morire di fame in questa terra ostile! Abbiamo già perso troppi uomini di malattia, perché raddoppiarne il numero? Senza contare che le polveri da sparo non ci bastano né tantomeno i cannoni! Non chiedo mica di disertare, sapete? Soltanto di prendere le piazzeforti friulane, di svuotarle e una volta ben forniti di andare a conquistare questa fottuta Treviso!”

Il maresciallo si bloccò all’improvviso, voltandosi di scatto verso il tedesco e spingendolo quasi col petto lo costrinse ad indietreggiare. “Volete sapere perché preferisco aspettare qui piuttosto che in Friuli? Perché se lì le cose dovessero mettersi male, voi Allemands non c’impieghereste nulla a riparare a gambe levate in Allemagne, branco di conigli codardi che non siete altro! Mentre noi, capitaine Jacob, noi rimarremmo in balia della popolazione assetata del nostro sangue!”

“Dubitate del sostegno del Kaiser?”, boccheggiò indignato il capitano Jacob Empser, paonazzo in volto. “Credete che vi sbatterebbe irriconoscente la porta in faccia?”

Il silenzio di la Palice fu molto esaustivo.

“Kapitän Bua!”, s’appellò allora in extremis il condottiero all’albanese. “Il Kaiser vi ha nominato Graf di Soave e suo consigliere: cosa ne pensate voi? Che vi diserterebbe, lasciandovi morir sgozzato da un branco di bifolchi friulani?”

Ovvio che no, coi suoi indiscussi meriti Mercurio s’era ben conquistato la fiducia del Re dei Romani, tanto che questi assecondava ogni suo capriccio, il suo aiuto militare divenutogli indispensabile dopo la morte del Principe di Anhalt.

Eppure …

Povero, povero il mio Maurikos, Conte del Niente! Di quali terre e titoli ti può investire Maximilianos, se ancora non ha vinto la guerra? Vai piuttosto a chiedergli di darti un feudo in terra austriaca  e poi torna a riferirmi la sua riposta!, gli riecheggiarono d’un tratto le taglienti parole di sua moglie Caterina, i cui lineamenti nella sua testa si stavano  sinistramente sostituendo con quelli di Hironimo. Ogni volta la stessa storia con lui: molto onor, pochi contanti! Tutt’al più se non sei del suo paese!

“Io non penso niente”, fu la gelida risposta del Bua al comandante tedesco, che si bloccò sconcertato, rimanendoci letteralmente di sasso.

Dopodiché, riprendendosi da quella tranvata, l’uomo imprecò due o tre volte e saltò in sella, spronando stizzito il suo cavallo in direzione della Certosa.

“Se quei mangiarane vogliono crepare di fame o ammazzati dai Veneziani, facciano pure che ce ne cale?!”, ringhiava tra sé e sé. “Conigli codardi …  Pah! Quegli arroganti non sanno che con l’onore non si mangia?!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua ...

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La questione di Soncino Benzone, come tutte le vicende, rimane assai ambigua, considerandosi ambedue le parti nel giusto. Manzonianamente diciamo: Ai posteri l’ardua sentenza.

Certo però che noi non crediamo per niente alle accuse a Gradenigo di avergli congiurato contro; da come ce lo descrive il Sanudo e gli altri suoi contemporanei, Gradenigo era una persona moralmente retta e se gli stavi antipatico un motivo c’era e anche oggettivo, non personale. Insomma, con lui o si rigava dritto o si finiva male.

Di conseguenza, Soncino Benzone avrà pur avuto validi motivi per serbar rancore contro la Serenissima, ciononostante è anche vero che se è finito com’è finito lo deve alle decisioni da lui prese.

Francesco Rangoni farà il bravo, Guido il fratellone lo tiene ben sottocchio XD

Nel prossimo capitolo si concluderanno le vicende qui iniziate e si spera la prima parte di questa storia.

Alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] ovviamente alla lontana. Sua figlia Gradeniga aveva sposato nel 1506 un altro biscugino del Nostro, Sebastiano Contarini di Antonio di Andrea Contairni e Andrianna Miani. Parentela dunque alla lontana e acquisita che però il Nostro sta spudoratamente sfruttando onde mettere in soggezione il conte Gianfrancesco di Gambara, giacché a quanto pare il buon Gradenigo era un po’ il babau dell’epoca.

[2] Antenòra, nell’inferno dantesco è dove si trovano i traditori della patria.

[3] Gioco di parole tra l’episodio in Matteo 18, 22  - E Gesù gli rispose: “Non ti dico (di perdonare) fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette -  e quello in Genesi 4, 24  - Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette.

[4] la Messa vespertina del sabato, che vale come Messa domenicale, è stata introdotta da papa Pio XII nel 1953.

[5] La descrizione dell’Abbazia di Sant’Eustachio è stata scritta “intuitivamente” in base alle poche immagini reperite e a ciò che rimane di essa: infatti, l’abbazia è andata distrutta durante la Prima Guerra Mondiale dopo la Rotta di Caporetto, trovandosi infatti poco distante dal Fronte del Piave, e oggigiorno non rimangono che i ruderi. Al momento non sono riuscita a reperire testi descrittivi dei suoi interni prima del 1917, quando ci riuscirò, modificherò.

Ringraziamo Semperinfelix per averci dato qualche supplemento di fonti per orientarci sul modus operandi delle abbazie, specie dove risiedevano i viaggiatori.

Piccola curiosità: l’Abbazia di Sant’Eustachio era soprannominata “L’Abbazia del Galateo”, giacché lo scrittore, letterato e arcivescovo monsignore Giovanni della Casa vi compose tra il 1551 e il 1555 il libro “Galateo overo de' costumi”, dopo essersi ritirato a Nervesa onde trascorrervi gli ultimi anni della sua vita. Il libro infatti verrà pubblicato postumo, nel 1558.

Tra gli altri ospiti illustri ricordiamo Pietro Aretino e Gaspara Stampa, insomma un posto culturalmente parlando sia sacro che profano!

[6] il padre di Giulio, Roberto Sanseverino d’Aragona, era morto affogato il 10 agosto 1487 nella Battaglia di Calliano.

 

  
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