Ecco qua
il (vero) quattordicesimo capitolo!
Ulteriori
note si trovavano a fine pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.
Avvertimenti:
linguaggio scurrile, teorie del complotto e altre
peculiarità.
Ricordiamo
che le vicende narrate sono una ricostruzione
romanzata, in mancanza di fonti specifiche sul protagonista in quel
periodo e
alcuni punti oscuri nelle cronache stesse dell’assedio.
Chiedo
venia se ogni tanto qualche parola di “terraferma”
si
mescola al veneziano “di Venessia”, per quanto
risciacquiamo i panni in laguna
non tutte le ciambelle riescono col buco.
Un
ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94,
Semperinfelix,
Mrosaria e Sagitta72. Grazie a chi ha messo questa storia tra le
seguite,
preferite e ricordate.
Vi auguro
una buona lettura,
H.
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Capitolo
Quattordicesimo
11-12
settembre 1511
Ca’
Contarini dai Scrigni e da Corfù riluceva al sole e al
riflesso ondulato e danzate dell’acqua, mescolando pietre
rosa d’alba mattutina
a bianche d’Istria, vivacizzate dalle calde fantasie degli
arabeschi dei
tappeti persiani e dai grandi vasi di fiori ai balconi, conferendo al
palazzo
un che di leggiadra civetteria femminile.
Sier
Piero “Pinze d’Oro” Contarini
l’aveva costruito alla fine del
Trecento in stile gotico e il suo discendente e attuale proprietario,
il
cavaliere sier Zacharia dai Scrigni q. sier Francesco, ereditato
quell’edificio
nella contrada di San Trovaso, aveva deciso di ritorno dalla sua ultima
missione in Alemagna nel 1496 di restaurarlo e di ampliarlo,
inaugurandolo due
anni dopo tramite suntuosissima festa. Dei
tre piani del palazzo i due nobili
centrali erano stati decorati ciascuno tramite eleganti quadrifore a
sesto
acuto balaustrate al centro e due monofore ogivali per lato iscritte in
una
cornice rettangolare. La porta d’acqua era stata ingrandita e
valorizzata con mezze
colonne doriche e sopra un timpano a forma d’arco con
decorazioni a raggiera a
guisa di conchiglia, creando maggior impatto al visitatore giungente
dal
canale, il quale non poteva non ammirare il felice connubio tra la
spinta
ardita e fiorita del gotico e la placida armonia delle nuove forme
classicheggianti
degli Antichi.
Un luogo
pieno d’aria, di luce, la casa della felicità ecco
lo
scopo ultimo di quel progetto.
Sier
Zacharia in persona aveva seguito i lavori, tra una seduta e
l’altra in Senato e la cura dell’educazione dei
suoi figli minori. Dopo anni di
missioni diplomatiche a Mantova, a Ferrara, a Milano, in Francia e in
Alemagna,
giustamente la Signoria gli aveva concesso un po’ di requie e
dunque l’annoiato
ambasciatore s’era dato alle gioie dell’edilizia,
desideroso di infondere nella
sua casa la sua ritrovata contentezza nella quotidiana
domesticità. Non fosse
stato chiamato nel giugno del 1499 a ricoprire il ruolo di
podestà e capitano a
Rovigo, il Contarini si sarebbe pure dedicato all’antico
castello di famiglia a
Piazzola sul Brenta, uno dei beni portati in dote da sua nonna domina
Maria da
Carrara q. domino Jacopo, ultimi esponenti dell’illustre
famiglia signorile di
Padova.
Tredici
anni da allora e Ca’ Contarini seguitava a conservare
quell’aria di coccola dolcezza, in fiero contrasto
però coi cupi sentimenti dei
suoi abitanti. Sull’intero palazzo gravava infatti una densa
coltre di silenzio
e tristezza, mai mitigata, malgrado i tentativi del figlio di sier
Zacharia,
Francesco, di tener alti gli spiriti acciocché il suo sfarzo
seguitasse ad
abbagliare i preziosi e necessari
ospiti
da lui invitati onde accelerare le trattative per la liberazione del
padre e
del fratello minore Piero, catturati a Cremona nel 1509 e condotti in
Francia
prigionieri, il primo a Parigi e l’altro a Perpignan.
Rifiutando di rassegnarsi
al fato palesemente avverso, Francesco Contarini assieme ai fratelli
rimastigli
– Phelippo, Marco e Polo – e i cognati sier Andrea
Guxoni e sier Marin
Trivixan seguitava ostinato a
battere ogni strada a lui percorribile, intrattenendo fitte
corrispondenze con
diplomati e comandanti francesi per intercedere presso
l’irremovibile Louis XII.
Con buona licenzia della Signoria il patrizio aveva nel maggio scorso
viaggiato
fino a Bologna a casa di domino Franco degli Uberti per discutere
personalmente
del riscatto. Tale era la sua determinazione da riuscire egli a convincere il Consiglio
dei Dieci a
rifiutare richieste di scambi di prigionieri da parte dei francesi,
fintanto che
il re di quest’ultimi s’incaponiva a non rilasciare
sier Zacharia e Piero
Contarini.
A costui
dunque s’erano rivolti madona Leonora Morexini relicta
Miani e suo figlio Lucha su suggerimento del consigliere ducale sier
Batista
Morexini, nella speranza che, grazie alle sue conoscenze, sier
Francesco
riuscisse ad agganciarli a qualcheduno dei comandanti nemici e iniziare
il
processo di riscatto di Hironimo. In particolare madona Leonora
s’era parecchio
raccomandata alla madre del Contarini e sua amica di vecchia data,
madona Alba
Donado dalle Rose, d’intercedere per la sua causa.
Ed
evidentemente dovevano esserci delle novità,
poiché quella
mattina un loro servitore portò in ambasciata a
Ca’ Miani un invito a pranzo,
onde discutere di certe faccende a loro note. Madona Leonora non aveva
fatto
attendere troppo la sua risposta e la Nona [1] ancora non aveva battuto
il
diciottesimo tocco che la sua gondola attraccava alla porta
d’acqua di Ca’
Contarini.
“Le
siore patrone colendissime la N.D. Leonora Morexini relicta Miani,
la N.D. Leonora da Molin dil Bragadin et domina Maria Morexini
relicta
Querini, comtessa de Stampalia et Amorgo.”
Non
potendo accompagnarla né Lucha per via dei suoi impegni in
Quarantia Criminal né suo fratello Batista per via del suo
incarico che lo
obbligava a rimanere super partes,
madona Leonora aveva scelto come chaperon due sue nipoti,
così da non apparire
una supplice disperata e per dirottare altrove l’attenzione
degli elementi in
sovrappiù a Ca’ Contarini.
Il
maestro di casa a seguito dell’annuncio guidò le
tre donne nel
portego del piano nobile, là dove tra i muri tappezzati di
ricchi arazzi, i
pavimenti di seminato ricoperti di tappeti turcheschi, gli scranni in
legno
scolpiti e decorati a foglie d’oro e ottomane di cremisino
l’attendevano madona
Alba Donado in Contarini e sette dei suoi dieci figli –
Francesco, Phelippo, Maria, Camilla, Lugrezia, Talesia
e Contarina [2] - tutti
vestiti con tal
eleganza da confondersi con la lussuosa stanza e parevano decorazioni
anche
loro. Madona Alba e le sue figlie vestivano di balzo di velluto e i
fiori
d’argento ed oro ricamati ad arte sul raso delle loro ampie e
gonfie maniche
rilucevano alla settembrina luce del meriggio, così come le
scuffie di seta
ricamate a filo d’oro con motivi geometrici e le due sottili
collanine di perle
intrecciate al collo. Sier Francesco, invece, indossava una casacca
nera
sciallata che lasciava intravedere la camicia bianca plissettata e le
maniche
di velluto scarlatto; quella del fratello Phelippo, invece, si
presentava turchese
e ambedue portavano i capelli a caschetto e la barba, secondo la nuova
moda
vigente.
A
confronto di tal variopinta tavolozza, le tre ospiti
corrispondevano ad un pugno nell’occhio: vestite
sì di velluto, ma di un nero
cupissimo da capo a piedi, ognuna col suo personale lutto,
l’unica macchia di
colore la fine camiciola di seta bianca che copriva la scollatura della
sola
madona Leonora, non giudicando le sue nipoti, entrambe nel fiore degli
anni,
necessario fustigare il naturale rosato del loro decolté.
Levatesi il pesante
paneselo nero che li arrivava fino a metà coscia, le donne
rimasero con le loro
scuffie sempre nere che coprivano in toto le loro trecce; niente
gioielli, se
non le vere nuziali al dito.
Sembravano
uno stormo di corvi che s’imbatteva in uno di pavoni.
Ciononostante, ironia della sorte aveva pur disposto un unico elemento
in
comune tra quegli astanti diversissimi tra di loro, ossia
espressioni serie e granitiche, nessuno
incline al sorriso e non per cattiveria o maleducazione.
“El
fio mio Lucha, el vu dimanda la perdonaça, s’el
nol gh’ha
podesto vegnir à disnar cum vui: ea Quarantia Criminal lo
tegne occupà pì dil
necessario”, si scusò madona Leonora con
l’amica, dopo aver scambiato i dovuti
convenevoli. “Staltro fio mio, Marco, el me scrive
ch’el Marcolin vuostro se
porta ben et che se fa honor, che no xélo mai stuffo
d’agiudar i soi compari a
l’opere a le mura di Trevixo”, aggiunse e il volto
smunto di madona Alba si
tinse brevemente di sollievo, inquieta a causa delle scarse notizie
circa il
fuggiasco suo figliolo che col suo silenzio aggiungeva insulto
all’ingiuria,
tutto il contrario di suo fratello Polo Contarini che pur imbarcato
nell’Armata
del Po scriveva regolarmente alla madre.
Attraversata
la vasta stanza attigua al portego, adibita a
lanziera d’armi, il gruppetto si stava nel frattanto portando
nella sala ove desinare,
anch’essa ricoperta di broccati e quadri dai soggetti ora
sacri ora profani e
sulle cui pareti s’appoggiavano credenze di legno di noce
stracolme di
scintillanti argenterie, di vivaci e variopinte maioliche di Faenza, di
Cafaggiolo, di Urbino; di sottili vetri di Murano, di ninnoli e
statuette delle
più variegate forme e provenienza e perfino di pezzi
d’antichità greche e
romane, tutti raccolti in artificioso assetto. Il tavolo stesso, per un
pranzo informale
quasi en famille, era stato
preparato
con elegante dovizia di vasellame e decorazioni.
“Co’
ripatrieré a Stampalia, siora comtessa?”,
s’informò sier
Francesco, tallonando immediatamente la vedova figlia di sier Batista
Morexini,
la cui bellezza non si lasciava strapazzare né dal lutto
né dalla nascita del
figlio postumo del fu conte Zuanne Querini. Semmai, il nero
dell’abito di
velluto le slanciava la figura e risaltava il biancore alabastrino
della sua
pelle, così come gli occhi nerissimi e la bocca vermiglia e
sensuale. Eppure,
dietro a tal beltà si celava un dolore acutissimo, del quale
Maria pareva
quasi gelosa, custodendolo per sé senza mostrarlo al mondo.
Che le pizzocchere la
tartassassero pure scambiando il suo stoicismo per indifferenza, lei
non doveva
dimostrare niente a nessuno. Zuanne le mancava da morire,
però la nobildonna doveva
vivere per i suoi figli e per la sua famiglia.
“Nol
sciò”, replicò la giovane contessa in
un sussurro vellutato,
le palpebre abbassate come il gatto che fingendo di dormire in
realtà osserva
attentissimo ogni movimento che lo circonda. “Gh’ho
da star drio ai lavori a la
nova Cha’ Querini; el
mio missere Nicolò Querini
tendaran optime a le tere anca sença de mi. De
pì, el mio putelo Nicolò xélo
massa picenin per inbacarse et la siora mia Mare et el sior mio Pare
voleno
ch’el staga qui a Veniexia cum eli. Chi songio mi par
desobedir?” e soprattutto
perché a Venezia Maria poteva tutelare
l’eredità dei figli minorenni contro
ogni pretesa della famiglia del marito, nonché evitare di
sentire il costante
fiato sul collo della minaccia turca alle isole greche infeudate ai
Querini.
“Chome
steli i vuostri parenti, i lustrissimi sier Antonio Trum
procurator et Lucha Trum savio a tera ferma?”, domandavano le
Contarini a
Dionora da Molin in Bragadin, la quale rispose lentamente e con
diffidenza,
mentre s’accarezzava i primi cenni del ventre rigonfio:
“Assa’
ben da l’ultima volta che mi gh’ho
parlào cum eli.”
“Gh’ho
sentio ch’el Procurator gh’ha da depositar 800
ducati de
presenti a la Signoria per un anno. O geran 900?”
“Nol
sciò, el sior barba di la siora mia Mare ancuo (oggi, ndr.)
gh’ha
da parlar en Colejo –
s’avedarà.”
“Xélo
vero, ch’el gh’ha refudà ea nomina a
Capitan Zeneral?”
“El
cognosse i soi limiti.”
“Raccomandatime
à lhor siori riveriti, donca.”
“No
falarò”, finse di promettere Dionora, cogliendo la
frecciatina
delle due donne sulla salute del suo prozio materno. Tuttavia,
dissimulò
ignoranza e non tanto per ingannare le sue interlocutrici, quanto
coloro che
rappresentavano, ovver i mariti ed i fratelli la cui linea politica non
sempre
coincideva con quelli dello zio e cugino della sua defunta madre madona
Crestina Miani da Molin. Il recente rifiuto poi di sier Antonio Trum
a
sostituire il capitalo generale sier Anzolo Trivixan gli aveva
guadagnato molti
occhi puntanti contro e critiche borbottate a denti stretti. Il nipote
del fu
Serenissimo, imperturbabile, s’era giustificato sostenendo la
sua poca dimestichezza
nella marina militare, mancanza inaccettabile in tempi delicati come
quelli:
piuttosto, che tale compito venisse affidato ad un comandante
d’esperienza,
magari più giovane di lui, povero vegliardo settantunenne
pieno di reumi qual
era.
In
aggiunta, alla giovane patrizia i Contarini dai Scrigni non
erano mai andati tanto a genio (con l’unica eccezione del
Marcolin e del Piero,
gli amici del suo barba Momolo) e di conseguenza non li frequentava
più del
dovuto, avendo infatti ereditato quella nuova generazione la medesima
aristocratica spocchia della loro bisnonna domina Maria da Carrara,
credendosi
alla pari di Dominiddio soltanto perché possedevano un
fottio di terre, danari
e potevano permettersi ospiti illustri e per di più foresti,
senza che la
Signoria avesse molto da ridire. Bah.
“Amiga
mia, no me scolté? An, la perdonança!”
Madona
Leonora strabuzzò gli occhi disorientata. “Per
cossa,
Alba?”, fece confusa.
La
nobildonna scosse il capo, stringendo con imbarazzo il piròn
che mulinava in aria a vuoto, indecisa se impirare la carne sul piatto
o se
appoggiarlo.
“Jo
stago qui a lamentarme di le mie desgrassie, co’ anca vui
gh’avé
le vuostre.”
Stavolta
arrossì Leonora, giacché a onor del vero non
aveva
prestato grande orecchio alla triste e lunga brentana che fu lo sfogo
della sua
amica, la quale trascorreva da ben due anni notti d’angoscia
per la sorte del
marito e del figlio, acuita adesso da quella per il fratello e gli
altri suoi
due figli al fronte. Da Parigi le giungevano lunghe lettere da parte di
sier
Zacharia, ma da Perpignan quasi niente, se non ciò che il
cavaliere riusciva ad
estrapolare da terzi sulle condizioni del suo ultimogenito. E il
Marcolin con
la sua recente fuga l’aveva assassinata e nonostante le sue
veementi insistenze
quell’inutile di suo fratello sier Andrea Donado non riusciva
a persuaderlo ad
alloggiare in casa sua, figurarsi ritornare a Venezia. E a proposito
del podestà
e capitano di Treviso … “Et saveu cossa
gh’ha scrito en Consejo sier Lunardo
Zustignan vuostro parente zerca mio fradelo Andrea?”
“No?”
“Ch’el
podestà val puocho, et usa miseria in li danari di la
Signoria.”
Al che la
vedova Miani, piuttosto di commentare, giudicò
più
saggio bere una sorsata di vino rosso annacquato. Quanto riferito dal
patrizio
corrispondevano alle medesime lagnanze nelle lettere del Marchetto,
laddove suo
figlio si sfogava frustrato protestando quanto sier Andrea Donado
centellinasse
i soldi inviati a Treviso da Venezia per la costruzione delle mura
difensive,
neanche li cacciasse fuori di tasca
propria e pertanto tra soldati, cittadini, popolani, gli
stessi patrizi e
comandanti si lavorava tutti alla stregua di formichine, notte e
giorno, ad
infernali ritmi d’Arsenale.
“Xéle
cosse che se disen”, nicchiò infine madona
Leonora,
appoggiando il bicchiere. “Pitosto, Alba, sora la question di
staltro fio mio …”,
introdusse discreta l’argomento che più le stava a
cuore e per il quale aveva
abbandonato la quiete di Ca’ Miani, arrivando a scomodare
perfino le sue
nipoti.
Similmente
agli antichi pellegrini di Delfi, madona Leonora
interrogava costantemente suo figlio Lucha, i suoi parenti e il
fratello
Batista onde reperire anche la più minuscola informazione
sul suo Momolo,
ricevendo ogni volta la medesima risposta, ossia ch’era in
vita, sorvegliato a
vista da Mercurio Bua e fine della storia. Ma in quali condizioni
versasse, se
in salute o in malattia; se sfamato o lasciato deperire
d’inedia; se vestito o
nudo, se torturato o ben trattato … lo ignorava. Con Lucha,
invece, pur
ricevendo notizie saltuarie le aveva comunque avute, anche per mano di
altri
prigionieri, nel periodo in cui il suo primogenito giaceva nella branda
intontito dagli oppiacei dopo l’operazione chirurgica per
salvargli il braccio
destro. La nobildonna aveva sofferto orrendamente, sì, ma
mai aveva dubitato
della sua incolumità nonostante la prigionia, né
del ritorno di Lucha malgrado
i quattro mesi di attesa.
Momolo,
al contrario … Mille tremende immagini sulla sua sorte si
alternavano nella mente di Leonora, togliendole il sonno già
scarso,
prosciugandole gli occhi di lacrime e l’anima
d’energie. E anche a te una spada
trafiggerà l'anima,
mai parole furono più veritiere.
Talora la
nobildonna si svegliava sussultando
e madida di sudore, l’immagine del
figlio talmente nitida dinanzi a sé che quasi le pareva di
poterlo toccare e
stringere al petto. In altre occasioni giurava d’udire
l’eco della voce di
Anzolo, che la spronava a continuare a pregare, a pregare
ininterrottamente la
Devotissima.
Maria,
afferrando al volo l’ansietà di sua zia, per la
prima
volta dal suo arrivo guardò dritto negli occhi sier
Francesco, sorridendogli
tra il supplice e il civettuolo: “Seti riussì a
parlar cum qualchedun di
comandanti franzosi o todeschi?”
La bocca
del secondogenito di sier Zacharia si contrasse in una
strana smorfia, in bilico tra il dispiaciuto e
l’incoraggiante. “Sì ben
…”,
esordì curiosamente impacciato rispetto alla sua usuale
parlantina assai
sciolta. “Cognosséu la comtessa di Corejo, domina
Veronica de Gàmbara?”
“La
fiola dil traditor brexiano Zuan Francesco de Gambara?”
“La
medesma. Saveu anca chome el sior sòo Pare se trovi horra
à
Monte Beluna agli hordeni di la Peliza, per l’impresa di
Trevixo? Ecco, in
nomine di l’amititia ante la guera, le gh’ho scrito
et spiegà ea situazion …”
Madona
Leonora trattenne il fiato, incalzando impietosa sier
Francesco: “Gh’avela capiò
l’importança …?”
L’uomo
annuì. “La comtessa la me gh’ha riferio
che l’intende et
chome la gh’avea scrito al sòo sior Pare de
zò unde agiudarci.”
“Perché
el conte de Gàmbara vol horra ser
d’ajuto?”, arcuò
scettica Dionora il sopracciglio.
“El
gh’ha scoperto a sòo danno che li franzosi non
xéli cussì
amizi chom’el credea. A Brexa i se gh’han petuffai
de bruto coi gasconi dil cavalier
Bayart; niun i vol pì vedar manco dipinti. Cussì
el Gàmbara horra vorave tornar
a san Marco, ma el Consejo dei X no se fida et chome podaria? El
gh’ha canbià
zò massa bandiera.”
“Perhò,
vui credete a elo”, puntualizzò Leonora.
“Gh’avé
da satre, madona, chom’el 6 di setembrio, ghe gera
stà a Trevixo
‘na scaramuzza coi stratioti dil Mercurio Bua, el qual tegne
prexom vuostro fio
sier Hironimo. El Bua scampolò perhò
s’amaloe et credutolo morto, el conte de
Gambara gh’avea dato hordene de tuor Hironimo im soa
protetitione, cussì che
vuialtri podesse pagar ea taja …”
Dionora e
Maria lanciarono un piccolo gridolino entusiasta, già
figurandosi l’esito positivo di quel piano: accaparrandosi
infatti il
prigioniero per sé, il conte di Gambara poteva disporne a
proprio piacimento,
concludendo scambi o pagamenti di riscatto assai vantaggiosi e anche
dimostrando quanto veritiere fossero le sue lettere inviate al
Consiglio dei
Dieci, nelle quali giurava e stragiurava la sua lealtà alla
Serenissima pur
proclamando a voce alta l’incontrario. Madona Leonora, al
contrario, non
giubilava, accortasi infatti dell’espressione sempre
più mesta sul viso
solitamente superbo del Contarini e non presagendone nulla di buono.
“Purtroppo
desgrassia gh’ha volesto, ch’el Bua nol
gh’avea niuna
intençion de crepar, sicché el se gh’ha
ciapà indrio cum la força vuostro fio, el
qual tegne sconto im sòo pavion, niun pol vedarlo niun pol
propinquarselo
(avvicinarsigli, ndr.) A me spiase …”,
mormorò genuinamente contrito sier
Francesco, percependo quel rovescio d’eventi come
l’ennesima personale sconfitta.
Infatti, aveva creduto il salvataggio di un signor nessuno quale
Hironimo Miani
poca cosa, sottovalutando l’ostinazione
dell’incognita impazzita, al secolo
Mercurio Bua che se lo costudiva manco avesse catturato il Doge in
persona.
La vedova
Miani socchiuse per un istante gli occhi, incassando
stoicamente quell’ennesima stilettata, la speranza di
riabbracciare il suo
ultimogenito di nuovo dispersasi come il caìgo invernale dal
vento e dal sole. “Chome
stelo el fio mio?”, s’aggrappò tenace a
quell’ultima consolazione. “El Gambara,
gh’avelo parlà cum elo? Gh’avelo
visto?”, stridette la sua voce di tal
angoscia, che sier Francesco sussultò lievemente, mentre sua
madre sgranava gli
occhi, pallidissima.
“Siorasì”,
s’affrettò a rassicurarla madona Alba.
“El Momolo l’gera
ligà cum catene et en camisia, bianco puina et malmenao,
perhò im boni spiriti
et lengua prontissima.”
Dionora
artigliò quasi la stoffa sopra il pancione, deglutendo;
Maria cacciò un profondo sospiro, appoggiando la sua mano
sopra il polso
della zia a mo’ di conforto.
“Insistareu
cum el conte, sier Francesco?”, esibì poi la
giovane
contessa la più sconsolata delle sue espressioni, le iridi
nerissime da
cerbiatta velate di accorte lacrime. La mano libera viaggiò
molle e discreta
verso quella più grande dell’uomo, sfiorandogli
appena le nocche con la punta
delle dita. Così sporgendosi offrì agli occhi del
Contarini il motivo per cui
non aveva indossato la camiciola bianca e non perché a
Maria importasse un
fico secco di lui, bensì della sorte del suo amatissimo
cugino per la cui causa
era disposta ad offrir il suo modesto contributo.
“Fazzo
el tutto che se pol far”, le promise a disagio sier
Francesco, ansioso di ben figurare con lei pur non perdendo di vista la
personale missione di riscattare i suoi di parenti, ché
stando al saggio
proverbio, ad una bea femena non se nega gnente soprattutto se
s’era come lui
ancora celibi. “Basta spetar l’occasion
propitia.”
Maria
lo trafisse impietosa con quel suo sorriso birichino
pieno di fossette, annuendo soddisfatta mentre con la scusa di levargli
la mano
gli sfiorò il polso, dentro la manica.
“No
v’indubité”, reiterò madona
Alba, scoccando tuttavia
un’occhiata obliqua di monito al suo primogenito maschio, che
tossicchiando
portò il braccio più da rente al bordo della
tavola. E rivolgendosi benevola
verso l’amica: “O prima o dopo el Bua
gavarà pur da dimandar ea taja. No pol
mica tegnirlo seco per sempre!”
Madona
Leonora convenne rigidamente, poco persuasa da quelle
incoraggianti parole, e riconcentrò lo sguardo sulla sua porzione di ambroyno sul
piatto, pollo cotto
con cipolla, zenzero, chiodi di garofano, cannella, cardamomo e sopra
salsa
alle mandorle speziate allo zafferano. In altre circostanze quel piatto
così
ricco e gustoso l’avrebbe di molto gratificata; invece in
quel momento la
nauseava, specie al pensiero di sapersi lì, al sicuro e ben
nutrita, mentre la
carne della sua carne molto probabilmente stava patendo la fame, il
freddo,
forse perfino ammalato e lei non poteva fare alcunché onde
alleviare quelle
tremende condizioni, tranne pregare per una liberazione
ch’ogni giorni si rimpiccioliva
in un pallido miraggio.
“Ma
mio fio insistarà, digo ben Francesco? El conte vol tornar
in
brazo a la Signoria: codesto ajuto pol zogar a sòo et
vuostro vantajo.”
Leonora
avrebbe ardentemente desiderato alzarsi e disertare la
compagnia, sennonché desistette, indossando la sua
giornaliera maschera di
stoica imperturbabilità. Lo doveva al suo Momolo:
dimostrandosi forse troppo
sconvolta, avrebbe scoraggiato sier Francesco nella sua delicata
missione di
persuadere il conte Gianfrancesco di Gambara a non gettare la spugna al
primo
tentativo fallito, impresa non facile considerando la
volubilità dell’uomo.
“Gh’avé
rason, Alba. Tentar et ritentar.”
***
Un altro
magro meriggio si trascinava via al campo dei Collegati di
Montebelluna, immobile in abulica attesa del maresciallo de La Palice,
il tempo
dilatato e scandito a malapena dal muoversi del pallido sole
settembrino,
appesantito da un’aria umidiccia e fastidiosa – el vento dil pizzegamorto, lo chiamavano
i locali.
Vino e
pane pressoché introvabili, al punto che i soldati avevano
dovuto dar fondo alla preziosa carne essiccata e a mattare le bestie
anche per
il trasporto. Si vendeva a prezzo ignominioso del mosto ma la terra,
marcia
d’acqua, aveva prodotto uva scadente da rivoltare lo stomaco.
La pancia non si
riusciva a riempirla adeguatamente da montare la guardia, figurarsi
marciare e
combattere. Ogni tanto qualcuno tornava da qualche perlustrazione con
del cibo,
a malapena sufficiente per sé e pochi compagni. Se ritornavano, caduti in qualche dolina
dell’insidioso Montello o
scannati dai contadini nascostisi nelle grotte.
I litigi
per il cibo erano all’ordine del giorno, specie tra
francesi e tedeschi, quest’ultimi dalle mani ognora lunghe
sulle misere scorte
dei cisalpini.
Le
incessanti piogge costringevano ad una costante manutenzione di
armature e armi, inumidendo le polveri da sparo e il fango di quella
terra
sostanzialmente paludosa rubava letteralmente le loro calzature, alcuni
rimanendo
pertanto scalzi onde evitare di perderle o in attesa di un bottino
migliore per
sostituirle. L’apatia era tale, che neppure le puttane di
campo interessavano
più, preferendo ognuno restarsene o per i fatti suoi o coi
suoi commilitoni, a
domandarsi quale morte l’aspettasse, se o per malattia o in
battaglia, e un
poco rimpiangendo la loro terra natale,
abbandonata a causa dell’allettante promessa di facile
bottino in quel Paese di
Bengodi com’era stata loro da anni descritta
l’Italia.
Ogni
tanto, da qualche angolo non precisato del campo, s’elevava
un fastidioso concerto di grasse tossi catarrose e raschi di gola
seguiti da
sputi e gemiti di chi non riusciva più a respirare col naso.
O il
rumore della terra scavata per tumulare chi non respirava
affatto.
Quand’ecco
che l’inaspettato squillo di tromba ridestò
l’accampamento dal malsano torpore in cui era da giorni
sprofondato.
Una
stanca eppure festante esclamazione di giubilo si levò
all’ingresso del maresciallo Jacques de Chabannes de La
Palice, in testa ai
rinforzi portati da Vicenza. Sia tedeschi che francesi, accantonando le
loro
divergenze, gli erano andati incontro, salutando il comandante e i
nuovi
compagni e ovviamente adocchiando famelici il carro dei viveri.
Eppure,
chi aveva occhi per vedere non gioiva: da Vicenza era
giunta una barzelletta di rinforzi, sia in termini di uomini che di
munizioni.
Uguale
sconforto lo stava assaporando in quell’esatto momento
anche il de La Palice, guardandosi intorno smarrito e incredulo: aveva
lasciato
un campo abbastanza completo di soldati e invece gli si presentava il
desolante
spettacolo di un branco d’ammalati macilenti e di prostitute.
Le barche per
attraversare il Piave erano ridotte a moncherini carbonizzati. Le fosse
coi
cadaveri aumentate e i rami degli alberi ornati più di
impiccati che di foglie.
Il campo emanava ovunque un tanfo nauseabondo di carne putrescente,
d’erbe
marce, di terra bagnata e di feci.
Il
francese allungò il collo verso il padiglione di Mercurio
Bua e
dove attorno stava la sua compagnia; deglutì malamente
appurando quanto il
fallito attacco di Treviso l’avesse quasi dimezzata. Aveva
udito della debacle
dell’albanese, soltanto che non si figurava un tal disastro.
Tutti,
giurò tra
sé e sé il furibondo l’uomo, tutti i
suoi sottoposti gli avrebbero dovuto
spiegare molte cose e dettagliatamente.
Lecha
Busicchio irruppe nella tenda del collega, tallonato da
Zilio Madalo. “Il maresciallo è
tornato!”, annunciò tutto d’un fiato.
Puntellandosi
al contrario pigramente sui gomiti, Mercurio si
grattò la testa, sbadigliando sonoramente. “E
dovevi proprio svegliarmi in sì
malo modo per comunicarmelo?”, disse affatto compiaciuto di
quell’eccesso di
zelo. Il magro pranzo non l’aveva sfamato e si sa che ci
dorme mangia, tanto
era convalescente e aveva ogni sacrosanto diritto di poltrire.
Grugnendo
il Bua si pose seduto, osservando soddisfatto
l’eccellente processo di risanamento della sua coscia: invero
quella sua lesta
guarigione aveva un che di miracoloso, considerando come cinque giorni
addietro
il cerusico se lo fosse disputato alla morte a dadi e scalpello.
L’animo
superstizioso del condottiero ne dedusse che la fortuna stava pian
piano
ritornando ad arridergli e quisquiglie quali il de La Palice e le sue
rogne non
gli avrebbero di sicuro guastato il ritrovato buonumore. Neppure gli
ultimi
fastidiosi rimasugli di febbre. Alla faccia di chi gli diceva
ch’aveva
contratto il Male Innominabile e già gli cantava la Messa da
Requiem.
L’albanese
gioì un po’ di meno quando, postosi in piedi, la
gamba
ferita cedette al primo passo, sbilanciandolo rovinosamente e se
Thomà gli
sfuggì eseguendo una circense capriola, Hironimo si
ritrovò a fungergli da
materasso, assorbendo in totum l’urto della sua caduta, il
fiato mozzato da
quel massiccio corpo.
Perlomeno,
Zilio e Lecha accorsero solerti a liberarlo di tal peso
morto e il giovane Miani ritornò a respirare, la mano
premuta all’addome,
avendogli involontariamente dato Mercurio una gomitata proprio
sull’antica
ferita.
Sicché,
non trovando modo di sciogliere la catena che l’aveva
ingarbugliato al prigioniero, l’albanese si risolse
d’aprire la manetta, anche
perché l’arrivo degli altri comandanti significava
per Hironimo ritornarsene
nel suo angolino dietro la tenda. Se non fosse stato per i ceppi, le
cavigliere
e soprattutto il collare con la palla di cannone, che lo costringeva
disteso
sul pagliericcio, il giovane veneziano ne era quasi contento,
rassicurato e
protetto dall’intimità di quella mea. Nondimeno,
ritornare a tu per tu col
fetore della stuoia umida d’acqua e fango e
l’innaturale posizione riversa gli
sconquassarono ugualmente le budella, rischiando di fargli vomitare la
poca
colazione consumata, se non fosse stato per il provvidenziale
intervento di
Thomà che gli tappò la bocca, costringendolo a
ricacciare tutto indietro.
Inoltre,
da quella mattina Miani percepiva un acuto dolore alla
gola, non dissimile a quello provocato da una spina di pesce e
ogniqualvolta
tentava di deglutire, gli sembrava d’avere un sasso ad
ostruirgli l’esofago. Doveva
aver dormito a bocca aperta oppure era disidratato, si disse
giustificando quel
nuovo e persistente malessere.
Hironimo
tossicchiò di prova e gli parve d’aver due
tenaglie ora,
oltre al collare.
“Cos’era
quella?”, udì il giovane la seccata domanda del
condottiero da dietro la tenda. Senza neanche degnarlo di una risposta,
il patrizio
si rigirò sul fianco e si mise a richiamare quanta
più saliva in bocca, così da
inumidire la gola irritata.
“Bevete,
patron”, gli offrì solerte Thomà la sua
ciotola d’acqua,
dopo essergli gattonato accanto. Gli offrì poi un pezzetto
di pan nero,
previamente salvato dall’ultimo pasto e che aveva tenuto
nascosto sul fianco
ossuto, dentro la mutanda.
Miani si
voltò di scatto, gli occhi nerissimi spalancati.
“Ripeti!”, gli ordinò perentorio,
disdegnando le vivande, più interessato a
squadrare fissamente il perplesso fantolino.
“Patron?”
“Che
disestu?”
“Mi?”
“Parla
de novo!”
“Mi
no gh’ho dito gnente, mi!”
“Cossela
sta voze da masorin?” (anatra selvatica, ndr.)
Il
biondino decenne si grattò colpevole il collo, ingobbendosi
contrito. “A me dole ea golla, patron”, ammise
infelice.
“Da
quanto?”
“D’eri.”
“Et
ti, ebete, ti no te m’avverti?!”
“Cospetto,
patron!”, esclamò di rimando Thomà tra
l’incredulo e il
deliziato. “Anca vui gh’avé la voze da
galina! Semo compagni horra et podemo
orar Sen Biasio tuti et do!”
“Cancaro
d’un puto, te scortego la fazza a furia di s-ciafoni,
altro che i peteni de Sen Biasio!” [3]
Poco
incline a beccarsi lo scappellotto castigatore per la sua
impertinenza, il bambino sbrodolò lesto
un’intellegibile sequela di
piagnucolosi miagolii e paternostri-avemarie, mulinando esagitato le
braccia,
finché il troppo parlare gli rubò il fiato e il
patrizio si ritrovò il viso
ventilato da una lunga e profonda tosse secca.
La tenda
si scostò bruscamente.
“Cos’è
questa cagnara?”, ringhiò Mercurio Bua,
sostenendosi su di
una sorta di gruccia sotto l’ascella e vestito di tutto punto
col corsaletto
già indosso, presagendo infatti un’eventuale
visita da parte del maresciallo de
La Palice alla sua tenda. Gli occhi dell’uomo scandagliarono
ogni minimo
dettaglio della “cella” del suo prigioniero, dalla
ciotola vuota appoggiata sul
pagliericcio al veneziano che si premeva il viso del moccioso contro il
petto. “Ebbene?”
“Parlavamo,
o ci è proibito anche questo?”, sibilò
astioso
Hironimo con tono di voce sospettosamente basso e roco, neanche fosse
ubriaco.
Mercurio
avanzò piano verso di lui. “Chi dei due
tossiva?”,
inquisì aspro.
Il
giovane Miani si scorticò petto, esofago e gola fino alle
lacrime
in un roboante colpo di tosse. “Io”,
mentì, peccato che poi gli venne da
tossire sul serio, rimanendo per un istante senza fiato e pure gli
venne da
sputare, cosa che fece senza rimpianti e per di più ai piedi
di uno schifato
Mercurio.
Un’espressione
sgomenta impallidiva tuttavia il volto da
convalescente del condottiero, che per una volta non seppe cosa
ribattere,
specie dinanzi al biancastro grumo per terra. Imprecando stizzito, si
voltò per
andarsene ma ecco che uno starnuto lo bloccò.
“Di
nuovo io?”, si strofinò Hironimo il naso,
sforzandosi con ogni
fibra della sua persona d’ignorare il muco e la saliva sulla
sua camicia,
cortesia di Thomà che ci aveva starnutito sopra.
“Gamo ti poutana mou!”,
inveì ruggendo Mercurio, zoppicando rapido verso uno dei
suoi cassoni e in un
battibaleno Miani si ritrovò ad acchiappare più o
meno al volo una pesante coperta
di lana. “Vedi di un creparmi!”, gli
intimò snervato il capitano di ventura,
chiudendo malamente la tenda, nel frattempo che abbaiava ordini ai suoi
sottoposti, il suo umore decisamente guastato.
“Faccio
quel che posso, ma non t’assicuro un bel niente!”,
lo
sfotté poco convinto Hironimo, intento al contrario nella
difficile operazione
di avviluppare con la coperta sia lui che Thomà,
ostacolatagli infatti dalle
catene e la palla al collo. Sicché il piccino, pigliando in
mano la situazione,
afferrò il panno e fatto cenno al più grande di
stendersi, lo sistemò sopra di
loro.
Quel
ritrovato tepore sarebbe stato pure una bella sensazione, se
il giovane patrizio non si fosse ritrovato a contemplare le smorfie del
bambino
mentre deglutiva a fatica, all’occasione interrotto da
timorosi colpetti di
tosse, che Thomà soffocava sotto la coperta, sulla paglia.
Non avendo nulla da
fare, il fantolino d’un tratto incominciò a
sbadigliare, si stropicciò gli
occhi e serrando la mano contro lo scollo della camicia del Miani, si
addormentò così da ignorare i crampi della fame e
del mal di gola.
Vegliando
accorto sul dormiente piccino, Hironimo gli massaggiava
intanto dietro la schiena, tra i capelli, tentando di dargli un poco si
sollievo. Espirò a lungo, più che altro per
impedire di tossire anche lui,
emettendo così un penoso ibrido tra un gemito e un ansimo e
gli sembrò d’esser pure
lui scorticato dai pettini di ferro di San Biagio.
***
“Ponti?”
“Esatto:
se non possiamo scendere con le zattere, lo faremo
costruendo dei ponti man mano che procediamo verso Treviso. Legna, come
potete
vedere, qui non manca.”
“In
questo modo terremo anche occupati i soldati, così da
evitare
eventuali diserzioni o, Dio non voglia, sollevazioni. È
inutile rimanere qui a
marcire a Montebelluna: bisogna muovere il campo, adesso o mai
più.”
Mercurio
Bua arcuò un sopracciglio in direzione del conte
Gianfrancesco di Gambara, sorpreso da quell’inusuale supporto
da parte sua.
“Esatto”,
reiterò
l’albanese, “avete sicuramente sentito
della spedizione di Giovanni
Forti da Orte? Di come abbia distrutto a Noale dei mulini? O, come da
me
previsto, della distruzione del ponte di Bassano per opera di Giampaolo
Manfrone
di Schio?” e alla risposta positiva degli astanti
proseguì: “Ci stanno sia
affamando, sia creando terra bruciata attorno. Non possiamo
tergiversare,
maresciallo, una decisione deve esser presa, anche a costo di
disobbedire
all’Imperatore!”
Riunitisi
per comodità il de la Palice e il resto dei comandanti
nel suo padiglione e ascoltato il predicozzo del francese con la
medesima
svogliatezza dello scolaro impenitente, Mercurio Bua non aveva perso
tempo e
subito dirottava l’argomento su questioni più
urgenti, ossia decidere se
continuare l’impresa di Treviso o di tornarsene a Verona a
svernare, ritentando
in primavera. Ormai l’estate volgeva al termine e considerate
le premesse, si
prospettava un autunno infame e un inverno da lupi, fattori non ideali
per
cingere d’assedio una città così ben
fortificata.
“Cesare
Borgia conquistò la rocca di Ravaldino in
gennaio”,
ricordò Giulio Sanseverino al Bua. “E anche quella
era considerata
imprendibile.”
Du Molard
e de Boissy convennero, memori di quel famoso assedio
che aveva tenuto in scacco per quasi un mese il Valentino e tutta
Italia col
fiato sospeso. “Saint-Séverin ha ragione:
perché dovrebbe Trévise sottrarsi da un
destino analogo?”
“Perché,
monseigneurs? Perché da allora son trascorsi ben undici
anni”, fu la semplice e disarmante replica di Mercurio Bua.
“I tempi sono
cambiati. Gli ingegneri militari sono cambiati. Il nemico stesso
è cambiato. Se
pensate d’assediare Treviso alla stessa maniera di Ravaldino,
allora è meglio
che ce ne torniamo tutti a Verona a farci un bell’esame di
coscienza e magari
testamento!”
Treviso
sarà anche stata una città-fortezza in via di
perfezionamento,
aveva concluso l’albanese, ciononostante rimaneva comunque
una fortezza alla
moderna, progettata e costruita ad hoc per respingere gli attacchi
della
medesima artiglieria che tanto aveva sconvolto le sorti
d’Italia. I comandanti
francesi lì presenti stavano inoltre sottovalutando un altro
fattore
importantissimo, ovvero che il provveditore Zuam Paulo Gradenigo poteva
contare
non soltanto sul supporto militare di compagnie di ventura ormai
avvezze a
combattere contro cisalpini ed imperiali, ma anche sul pronto e fedele
sostegno
della popolazione locale, vantaggio di cui l’irriducibile
Contessa di Forlì non
aveva potuto giovarsene ai tempi di quel lontano assedio.
Galeazzo
Pallavicino ci tenne però a puntualizzare:
“Verissimo, il
vostro previo scontro sotto le mura di Treviso ha confermato la
preparazione bellica
della città. Tuttavia, bisogna anche considerare che i
nostri numeri appaiono di
gran lunga superiori rispetto ai loro. Possiamo infatti contare sulle
truppe
ausiliari del Duca di Brunswick, di quelle stanziate a Castelfranco e a
Soave.
Lo stesso Giovanni Gonzaga è disposto ad unirsi a
quest’impresa. Perché
rinunciare proprio ora, quando siamo ad un passo dalla meta
finale?”
Tutte le
teste si voltarono in direzione di Mercurio, il quale a
onor del vero non possedeva alcuna risposta precisa a riguardo,
soltanto l’eco
di una brutta sensazione che non l’aveva più
abbandonato, dopo la cocente
sconfitta sotto le mura di Treviso.
Le prime
ombre vespertine e il conseguente consiglio di guerra
l’avevano infatti sorpreso ancora intento a terminare gli
ultimi dispacci,
nello specifico al contino di Melzo Galeazzo Sforza e a Sebastiano
d’Este,
ambedue stanziati a Soave assieme a buona parte della compagnia di
Federico
Gonzaga da Bozzolo. Li aveva avvertiti di non abbassare la guardia,
insospettito dalle continue e serrate sortite da Padova delle bande di
Ferigo
Contarini, di Zuam Paulo Manfron, del conte Guido Rangoni, di Giano di
Campofregoso e ovviamente dei parenti di Lecha, i Busicchio al gran
completo.
Pareva che i provveditori di Padova Christofal Moro e Polo Capello e il
vicegovernatore Fortebracci di Montone avessero dato ordine ad ogni
capitano di
ventura di sbizzarrirsi in incursioni a loro piacere, colpissero dove
volessero. All’apparenza a caso, eppure il Bua intuiva uno
schema di fondo.
Quale però?
“Evidentemente,
questa serie di continue sconfitte incomincia a
pesare sul vostro giudizio tattico, o mi sbaglio?”, lo
stuzzicò Teodoro
Trivulzio.
“Pah,
a Garigliano c’eravate anche voi!”, lo
rimbeccò astioso
l’albanese. “Così come tra i vincitori
c’era l’Orsini degli Anguillara cui
stiamo per andare incontro! Scommetto che gli farà piacere
rivedervi!”
Anticipando
un probabile battibecco tra i due offesissimi
condottieri, il conte di Gambara s’intromise, tagliando la
testa al toro: “Non
è il numero, bensì la qualità. Ora
come ora, non possediamo sufficiente
artiglieria né polvere da sparo per sostenere un lungo
assedio. Per questo
concordo col capitano Bua: prima attacchiamo, prima toglieremo a
Treviso ogni
possibilità di terminare il rafforzamento delle mura. Prima
attacchiamo, prima
evitiamo di finire sbranati dai nostri stessi soldati.”
“Maresciallo,
a voi l’ultima parola.”
Eletto a
Salomone in quella contesa, Jacques de Chabannes de la
Palice si ritrovò dunque inguaiato nell’ingrato
compito di mettere d’accordo ciascuno
senza scontentare chicchessia. Una bella gatta da pelare e tutto
perché
Maximilian ancora tergiversava nel raggiungerli di persona, le sue
promesse
solide quanto il vento di burrasca.
“Soit”, sentenziò
grave
il francese, “l’impresa di Trévise
continuerà e non per obbedienza nei
confronti dell’Empereur, bensì per non venir meno
alla parola data: ne va del nostro
onore. Se Maximilien è un codardo
e preferisce vincere dalla sicurezza delle retrovie, non significa che
dobbiamo
esserlo anche noialtri”, disse e un mormorio
d’assenso si diffuse nel
padiglione, malgrado l’irrispettoso aggettivo rifilato al Re
dei Romani. Soltanto
i capitani tedeschi strinsero piccati la bocca, sennonché
neppure loro potevano
descrivere altrimenti il comportamento ambiguo dell’Habsburg,
né giustificarlo
all’infinito.
“La
maggior parte del campo verrà levato stanotte stessa per
trasferirlo
a Villorba. Non appena il capitano Bua si troverà nelle
condizioni adatte per
viaggiare, provvederà di occupare Nervesa così da
controllare più da vicino
ogni transito sul Piave e colà assicurarci il trasporto
fluviale
dell’artiglieria”, proseguì imperterrito
il de la Palice, tracciando il
percorso sulla cartina con la punta della ferula. “Nel
frattanto daremo ordini
di tagliare legna, in modo da costruire ponti per guadare il fiume.
Infine, invieremo
un trombetta a Padoue per annunciare un futuro assedio da parte nostra,
così da
confondere il nemico e guadagnare tempo; una piccola compagnia da 300
s’avvicinerà
invece quanto più vicino possibile a Trévise,
onde capire a che punto siano
nella costruzione delle cinta murarie, se non compiere addirittura
qualche
azione di disturbo.”
“Quest’ultima
meglio di no”, gli suggerì Mercurio, cui non
piacevano gli sprechi. “Per il resto, mi trovo
d’accordo. Voialtri?”
Du
Molard, de Boissy, Pallavicino, Sanseverino, de Gambara e gli
altri comandanti convennero, chi con maggior e chi con minor entusiasmo
ma
almeno non sorsero obiezioni.
Con
l’augurio all’albanese di pronta guarigione e di
tenerli
aggiornati sulle sue condizioni di salute, il maresciallo de la Palice
dichiarò
terminato il consiglio, congedando i presenti.
“Signor
conte!”, chiamò il Bua il nobile bresciano, mentre
questi s’apprestava
ad uscire dalla tenda assieme ai suoi commilitoni. “Volevo
ringraziarvi per il
supporto di oggi. Non me l’aspettavo, se posso esser
sincero.”
Gianfrancesco
di Gambara fece spallucce. “Dovere”,
replicò
laconico.
Mercurio
però non desistette, trattenendolo di nuovo.
“Posso
inquisire di questo vostro mutamento d’animo? Considerate le
nostre passate e
accese divergenze, voglio dire”, precisò,
studiando attentamente ogni singolo
rictus del volto del suo interlocutore, in cerca forse di una
contraddizione o
di una conferma della sua buonafede.
“Il
vostro appassionato discorso s’è rivelato assai
illuminante”,
gli sorrise ambiguo il conte, abbozzando ad un inchino.
Quand’ecco, che le
guance gli si gonfiarono ed egli coprì immediatamente la
bocca sull’incavo del
gomito, tossendo ferocemente.
“Pure
voi! Mi sembrate assai pallido, signor conte, vi sentire
bene?”, s’informò apprensivo il Bua, pur
tenendosi a debita distanza dal
bresciano che effettivamente sfoggiava un viso tirato e giallognolo.
“Un
piccolo raffreddamento, niente di cui preoccuparsi”,
liquidò in
fretta la questione di Gambara, respirando a lungo onde riprendere
fiato e
massaggiandosi il petto dolorante. Si schiarì la gola,
nettandosi l’angolo
della bocca con un fazzoletto. “Già sto
migliorando. Queste piogge e questo
umido … Piuttosto, perché dite Pure
voi?
Vi siete ammalato?”
“No,
non io …”, mormorò pensoso
l’albanese, fissando di striscio
dietro la tenda, ignaro di come Gianfrancesco di Gambara avesse subito
seguito
il suo sguardo, registrando mentalmente ogni dettaglio.
***
Al
Castello tra Porta Altinia e Porta Santi Quaranta, sier Marco
Miani deambulava lungo le mura come suo solito, insonne.
Nonostante
gli altri gentiluomini suoi commilitoni assegnati alla
ronda di quel tratto si fossero più volte offerti di
sostituirlo, il trentenne
patrizio rimaneva fermo nella sua decisione di non schiodarsi da
lì, neanche ne
fosse dipesa la sua vita. Si muoveva talmente inquieto e silenzioso da
scambiarlo per un fantasma, impressione esacerbata dal tremulo riflesso
delle
torce sul suo corsaletto in contrasto col nero della notte.
Montare
di guardia aiutava Marco a non pensare; il tarlo del senso
di colpa infatti rodeva con maggior gusto in presenza della moglie e
dell’amico
di suo fratello minore, imprigionandolo in un vortice senza di fine di
“E se
…?”, scenari dove egli riusciva ad appendere a
testa ingiù Mercurio Bua e a riprendersi
indietro Hironimo.
Helena lo
aveva rassicurato e più volte delucidato quanto la
cattura del solo condottiero poco avrebbe cangiato la situazione del
ragazzo;
malgrado ciò, il prurito di stringere le mani attorno al
collo dell’albanese
non s’era facilmente assopito. Di pari passo si nutriva la
sua frustrazione
dinanzi a quello stillicidio d’attesa caratterizzata da
informazioni tra di
loro contraddittorie, laddove un giorno i Collegati parevano voler
abbandonare
l’impresa di Treviso e un altro dove sarebbero giunti entro
la settimana.
Miani si
mordicchiò nervoso il labbro inferiore, sfilandosi i
fastidiosi guanti di cuoio e liberando le mani bendate, i palmi
rovinati da
calli e vesciche a causa dei frenetici ritmi di costruzione delle mura
e di
demolizione degli edifici ad esse adiacenti.
Quella
mattina era toccato ai monasteri di Santa Maddalena e di
Santa Chiara, bruciati e smantellati brutalmente; alla Madonna Granda,
invece,
si avanzava con maggior prudenza onde non rovinare la Cappella della
Devotissima e l’affresco miracoloso. Lavoravano tutti senza
sosta – militari e
civili – perfino i capitani Vitello Vitelli e Renzo di Ceri
erano stati scorti
per ben due ore trasportare pesanti carriole cariche di materiale
edile.
Tali
impegnative attività avrebbero dovuto fiaccare chiunque,
cullandolo la sera nel dolce sonno del giusto. Al contrario, Marco si
sentiva
doppiamente vispo e vigile e ogni picconata se l’immaginava
rispettivamente sulla
faccia del Bua, del Re dei Romani e del Re di Francia.
“Sier
Marco”, l’attirò una voce alle sue
spalle. L’uomo si voltò,
sorridendo al nuovo arrivato.
“Patron”,
salutò egli sier Alvixe da Canal di sier Lucha, il quale
incominciava il suo turno e curiosamente portava con sé due
boccali di
terracotta.
“No
ghe xé a sto mondo na pì mejo medesina per ste
fiebri et
pesti”, gli rivelò complice il patrizio,
cedendogli il caldo bicchiere dal cui
odore Miani intuì trattarsi di acqua calda, miele, zenzero e
qualche goccetto
di acquavite, abbastanza da riscaldare il sangue e disinfettare la gola
ma non
da ubriacare.
“Obligao,
grassie!”, levò il boccale a mo’ di
brindisi,
schioccando in approvazione le labbra. “Bona, al
zinepro?”
“Solum
al zinepro!”, ridacchiò sier Alvixe.
“Novità?”
“Nol
se move gnanca na foja” e prendendo un secondo sorso, Marco
domandò al concittadino: “Sta storia di la peste
… ea xé vera?”
Da Canal
aggrottò la fronte, la bocca ridotta ad una linea dura.
“48 casi a Veniexia ancuo, medici et spezieri xéli
tutti in arme, pronti al
besogno. Mi spero ch’i mii puteli i stagi ben, im
protetitione di la Madona”,
mormorò cupo, roteando in maniera circolare il caldo liquido
fumante, la mente
rivolta alla consorte e ai suoi figlioletti, l’ultima volta
che li aveva visti
tutti lì a circondare come pulcini la gonna della madre.
Miani
accolse in silenzio la notizia, limitandosi a vuotare d’un
tratto avido il boccale, lo stomaco stretto da una molesta fitta
d’ansia: da
parecchi giorni correvano dicerie di focolai di peste in tutta la
regione e
aveva ardentemente sperato ch’essa non raggiungesse mai
Venezia. A quanto
pareva, di nuovo le sue preghiere non erano degne d’esser
esaudite e altro non
gli restava se non augurarsi che nessuno della sua famiglia la
contraesse.
“El
sier Alvixe da Riva el va a ripatriar diman a Veniexia. Sòo
fradelo sier Vizenzo resta qui inveze.”
“Xélo
messo cussì mal?”, strabuzzò incredulo
Marco gli occhi,
incapace di concepire il rapido deterioramento della salute del
collega, con
cui aveva condiviso molte ronde notturne. Lo sapeva certo ammalato in
letto con
la febbre, ma non al punto da dover rientrare in sì gran
fretta a Venezia.
Sier
Alvixe da Canal aprì appena la bocca per meglio spiegargli
la
questione, quand’ecco che il concitato suono di una campana
lo interruppe,
ponendo ambedue i patrizi sull’attenti. “La vien
dai Santi 40!”, esclamò l’uomo,
mentre una seconda campana più vicina alla porta cittadina
veniva suonata,
presto seguita da una terza e da una quarta. “Xéla
ea compagnia dil Cypriam de
Forlì!”
Di
riflesso Marco scattò alla campana del loro camminamento,
agitando il batocchio quasi volesse spezzarlo ed ecco che nemmeno in un
battito
di ciglia l’intera Treviso diveniva una cacofonia di
scampanate, cui tosto
s’aggiunsero quelle di ciascun campanile della
città, svegliandola, nonché gli
echi sempre più incalzanti e netti dell’ordine:
“Arme!
Arme!”
Destatisi
di colpo dal rumore di pesanti passi correre giù per le
scale, madona Felicita e Donado Cimavin balzarono giù dal
letto, correndo alla
finestra, spalancandola apprensivi.
“Arme!
Arme!”
Da ogni
casa si riversavano sulle strade gruppi di soldati, tutti
miracolosamente armati quasi si fossero costì coricati.
Anche Marco Contarini,
per quanto scarmigliato e con la barba sfatta, saliva preparatissimo in
groppa
al suo cavallo.
“Coss’elo
sto strepitare? Che accade?”, urlò Cimavin al
giovane
patrizio, il quale tenendo a freno l’irrequieto animale gli
esplicò succinto:
“Franzosi
et todeschi!” e battuti i tacchi sui fianchi del
cavallo, sparì rapido alla sua postazione.
Manco
avesse il Contarini evocato il demonio, grida terrorizzate
si librarono una dietro l’altra nella notte e ogni finestra
della contrada
s’illuminò, mentre i suoi abitanti in maniche di
camicia s’armavano di un
qualsiasi oggetto contundente, sprangando le entrate.
Anche
Donado e suo padre Jacopo scattarono all’azione e presero
rispettivamente una vecchia spada e una picca; dopodiché si
posero dietro il
portone dopo averlo rinforzato con sedie e cassapanche. Felicita con in
braccio
un piangente Jacopino, madona Helena Spandolina in Miani, Luzia e
Malgari
correvano nell’angolo più remoto e riparato della
casa, brandendo la greca
l’ascia per la legna e le serve una mannaia e un lungo
coltello per affettare
il pane.
“Arme!
Arme!”
Il
nitrito degli irrequieti cavalli degli stradioti si confuse
alle loro colorite imprecazioni, mentre essi in gran fretta li
sellavano, cavalcando
poi verso la piazza in un uniforme e roboante clamore di zoccoli sui
sanpietrini, i loro comandati Teodoro Clada e Giovanni Paleologo in
testa.
“Animo!
Animo! Per Agios Georgios! Animo!”
La
fantesca di madona Malipiero spalancò folle di terrore la
porta
della camera della padrona, incespicando per poco ai suoi piedi, la
quale
assieme al valletto aiutava il marito sier Zuam Paulo Gradenigo ad
indossare gli
ultimi pezzi dell’armatura.
“Franzosi!
Todeschi! I xéli zonti qui a Trevixo!”,
singhiozzò
disperata, facendosi il segno della Croce. “Miserere
nobis!”
“Tasi,
a fifar no te xé d’ajuto!”, la
rimproverò invece aspramente
il provveditore, sortendo tuttavia l’effetto desiderato.
Afferrato l’elmo e
indossatolo, con delicatezza circondò il viso di sua moglie
Maria, fissandola
lungamente dritta negli occhi.
La donna
lo baciò forte.
“Dove
sono i balestrieri porco diavolo?”, inveì il
capitano
Vitello Vitelli, girandosi attorno e sbuffando sollevato alla vista di
Naldo di
Brisighella e la sua intera compagnia far capolino assieme agli
archibugieri
capitanati da Piero di Novelon.
“Pronti,
capitano!”
“Ai
vostri posti, non siamo qui per menarcela!”
“Ma
… ma cosa sta succedendo?”, gli chiese
disorientato il
collaterale Piero Antonio Bataja, giunto la mattina precedente a
Treviso da
Padova per far rapporto alla Signoria e come tutti letteralmente
sbrandato giù
dal letto, l’unico però a rimanere senza un
preciso compito nel vespaio in cui
s’era trasformata la città.
“Un
drappello di francesi e di tedeschi è stato avvistato a meno
di un miglio dalle mura e minaccia di venirci incontro.”
“E
questo quando?”
“Meno
di un’ora fa!”
Il
cremonese reclinò diffidente il capo: se non lo stesse
assistendo coi propri occhi, non avrebbe mai creduto possibile un
raduno di
soldati così rapido e preciso.
“Orsini!
Dove sono quei due dannati?”, sbraitò Vitelli alla
ricerca di Renzo di Ceri e di Troilo Orsini.
“Rispettivamente
al bastione di San Bartolomeo e di San Marco,
capitano!”, gli indicò Naldo.
“Chi
c’è a quello di Santa Sofia?”
“Vigo
da Perugia!”
Vitello
Vitelli grugnì in approvazione. “Signor
Provveditore!”, accolse
egli calorosamente l’arrivo di Gradenigo, accompagnato da
sier Lunardo
Zustignan e il podestà sier Andrea Donado.
“Quanti
avvistati?”
“All’incirca
300, difficile stabilire con questo buio.”
“I
bombardieri si trovano alle loro postazioni?”
“Già
con la polvere fumante, signor Provveditore!”
“Eccellente!”
“Attendono
tutti il segnale di Orlando da Bergamo.”
Il
sopracitato presidente delle artiglierie in quel momento stava
salendo gli scalini del campanile di San Nicolò a due a due,
manco una scimmia.
“Chigasang!”,
schiumava per la rabbia e per la fatica il
bergamasco. “I coparé tutti, cussì
imparan!”, giurò a se stesso, mentre caricava
celere il sacro da sei, il dente ognora avvelenato dalla morte del suo
maestro,
il conte Lattanzio da Bergamo, per mano dei Collegati sotto le mura di
Verona. Puntò
la bocca da fuoco nella direzione delle fiaccole intravedibili in
lontananza e
quando i suoi occhi di falco le focalizzarono, calcolata mentalmente la
traiettoria, il suo viso si piegò in una smorfia
perversamente compiaciuta.
Zuam
Paulo Gradenigo levò in alto il braccio, imponendo il
silenzio ai soldati più vicini e per imitazione
l’intera Treviso si chetò, con
l’eccezione del fruscio degli stendardi e dello sfrigolio del
fuoco delle
torce. Neppure i civili osavano più fiatare.
Dalla sua
postazione, il collaterale inviato da Venezia assisteva
in rapita estasi allo spiegamento dei battaglioni, gli occhi contesi
tra la
contemplazione di quello spettacolo e la compilazione del rapporto che
stava
scrivendo in gran velocità: quando il Campanón de
'l Cànpo ebbe terminato di
battere i suoi severi rintocchi, i balestrieri si trovavano a Piazza
del Duomo;
gli uomini d’arme a Piazza di San Martino; gli stradioti a
Piazza del Castello,
600 soldati a Piazza Maggiore e doppia guardia sui camminamenti.
Tutto in
un’ora secca dal primo allarme.
La
Signoria sarebbe stata invero lieta d’apprendere, quanto i
suoi
timori si fossero rivelati assai infondati: salvo problemi di mancate
paghe,
Treviso poteva benissimo opporre fiera resistenza ai Collegati.
“Schifosi
soreghi …” (sorci, ndr.), bofonchiò
Orlando da Bergamo, accendendo
la miccia e, tappatosi le orecchie, si spostò indietro onde
evitare il rinculo
del sacro.
Un secco
colpo di cannone rimbombò per il campanile, scuotendo un
poco il batacchio della campana, la quale cantò un breve
requiem al drappello
di franco-imperiali incautamente avvicinatisi alle mura.
Troppo
pochi per azzardare un attacco diretto alla città, ma
abbastanza per danneggiarli, forse per distruggere i loro mulini lungo
il Sile
e a Melma, complice l’oscurità notturna.
Immediatamente
da lontano giunsero agli assediati le grida
concitate e isteriche del nemico e i nitriti imbizzarriti dei loro
cavalli, seguite
dallo spegnersi delle fiaccole e dal suono ritmico dei tamburini, che
indicavano sia il raggruppamento che la ritirata, come se
ciò avesse potuto
salvarli da una seconda micidiale cannonata, che sortì
l’effetto di ucciderli e
disperderli ulteriormente.
“Me
cojoni!”, cadde a Renzo di Ceri la mascella, genuinamente
impressionato dalla precisione a dir poco chirurgica del bergamasco.
“Abbiamo
un artista tra noi … Archibugieri e balestrieri, pronti a
coprire i
cavalleggeri!”
Una
compatta squadra di cento stradioti stava infatti uscendo da
Porta Santi Quaranta per d’avventarsi su quella disordinata e
mutilata dei
nemici, terminando l’opera.
***
Il
cavaliere Dimitri Spandolin q. Teodoro da Costantinopoli non si
stupì, una volta giunto alla parrocchia di San Biagio a
Castello, delle furtive
occhiate lanciategli da gente apparentemente affaccendata o a lui
estranea: a
parole Caterina Boccali in Bua (Caterina Minore o "Cate" per distinguerla dall'omonima madre) soggiornava nella casa che fu di suo
padre
Nicolò, a fatti era un preziosissimo ostaggio della
Signoria, sorvegliata a
vista. L’inaspettato ritorno di Manoli e Costantino Boccali
in seno a San Marco
era stato accolto con grande benevolenza, non essendo quelli tempi da
rifiutare
il benché minimo aiuto; la fama poi del fu capitano
Nicolò Boccali, della sua
fedeltà e delle sue imprese a Sebenico, Spalato e nella
Patria del Friuli aveva
assicurato ai suoi figli il pronto perdono per quel loro voltafaccia.
Eppure,
l’occhio vigile dei Dieci li scrutava accorto, soprattutto la
sorella, giacché
ancora legata a quel marito alla Repubblica ufficialmente nemico.
Per
giorni il cavaliere aveva tentato di approcciarla in maniera
tale da non destare eccessivi sospetti sulla cagione della sua visita;
l’ultima
cosa che desiderava, specie adesso che s’avvicinava il suo
rientro per affari a
Costantinopoli, era di ritrovarsi a tu-per-tu dinanzi ai Dieci a
giustificarsi
del suo operato.
Da una
parte, il greco si ritrovava spinto da obblighi familiari a
quell’ambasciata; dall’altra, da genuina
curiosità ché quell’enigma di Caterina Boccali
tuttora intrigava l’anziano Spandolin, quel tarlo insinuatosi
che forse la
donna non fosse mai stata rapita dai suoi fratelli, come ufficialmente
narrato,
bensì che lei li avesse seguiti di sua spontanea iniziativa,
portandosi
appresso la figlia e il cognato Teodoro Bua. Da fonti attendibilissime
–
Venezia era piccola e il quartiere greco di San Biagio ancora
più piccolo – il
cavaliere aveva appreso come neanche per un istante aveva lei
dimostrato grande
dispiacere per quella separazione, recandosi al mercato e in chiesa
assieme
alla sua fantolina senza preoccuparsi della sorte del Bua.
“Kalimera,
keeria Aikaterini.”
“Kalos
ton, keerie Dimitrios Spandounes”
Spandolin
aveva atteso pazientemente fuori dall’edificio sacro,
sul sagrato, finché adocchiata la donna non le si era
avvicinato con
nonchalance, aggregandosi al compatto corteo. Cate stessa finse con
estrema
naturalezza, pur sorpresa da quella visita, e costì i due
camminarono
indisturbati fino alla casa della greca, dove ad accoglierli venne loro
incontro
la piccola Maria e sua nonna, Caterina Arianiti Topia Comnena,
sorella
del famoso condottiero Costantino Arianiti Topia Comneno e di
Andronica, moglie
di Giorgio Castriota Skanderbeg.
“Ci
perdonerete per la frugalità di casa nostra – noi
qui siamo
una famiglia semplice”, si giustificò con studiata
modestia l’anziana nobildonna
albanese, favellando in greco e invitando Spandolin a sedersi e
offrendogli una
calda bevanda d’erbe e dolci al miele e pistacchi.
Pur
esponenti di famiglie di mercenari, madre e figlia si
presentavano assai dignitose e aristocratiche nei loro abiti
tradizionali, un
curioso miscuglio di greco e albanese: sotto, una lunga tunica
celestrina dalle
maniche lunghe e aperte, chiusa fino al collo da una fila di vistosi
bottoni e
stretta ai fianchi da una molle cintura; sopra, una sorta di sbernia
vermiglia dai
bordi foderati in pelliccia. Ai piedi facevano capolino le opinga, le
calzature
dalla punta all’insù tipiche albanesi. Al collo
ambedue le donne indossavano
due ampie collane intrecciate in complessi nodi, abbellite da diversi
pendagli a
forma di palla, vuoti all’interno e formati da una sottile
ragnatela di
filigrana d’argento, arricchita da piccoli tasselli di
corallo e turchese. Al
centro del petto, pendeva invece il morčić, un ciondolo in smalto a
forma di
testa di moro col turbante, comprato durante il periodo di servizio di
Nicolò
Boccali in Croazia, un portafortuna locale (anche se un po’
macabro) e copia
dei più ricchi moretti veneziani, spille decorative in oro,
cammei e rubini di
cui appunto gli stessi veneziani amavano adornarsi i mantelli.
Similmente
alle due donne, anche la casa ostentava una certa malinconica
ricchezza nobiliare, piena zeppa infatti di tutti quei preziosi cimeli
salvati
dopo la caduta di Durazzo che ricordavano alla famiglia gli antichi
splendori
della prosperità e indipendenza, quando ancora erano
feudatari e padroni del
loro. L’abile spada dei maschi e le ricche doti delle figlie,
ecco cosa
rimaneva della morente aristocrazia dei Romei.
“Adesso
che Manouel e Konstantinos combattono di nuovo sotto il
vessillo di Agios Markos, possiamo finalmente riprendere fiato e
concederci
qualche piccolo lusso”, dichiarò domina Caterina
Arianiti, servendo di persona lo
Spandolin, massimo segno di considerazione. Adocchiando le serve
sull’attenti
dietro le padrone, il cavaliere greco ridacchiò scettico
dietro la coppa
finemente cesellata, gustandosi l’infuso di erbe amarognole. Qualche lusso, diceva lei. Certo, certo.
“Immagino
la cosa vi rallegri.”
“Oh,
immensamente”, replicò civettuola domina Caterina,
sorridendogli
però ambigua. “Vi pare?”
L’Arianiti non aveva mai fatto mistero delle sue simpatie filo-veneziane, forse ereditate da suo padre, il
principe albanese domino
Giorgio Arianiti Topia Comneno, dopo che questi aveva tagliato formalmente i rapporti col Regno di Napoli. Certamente, ciò aveva per
significato tagliare i
ponti coi suoi fratelli e perfino con la sua stessa matrigna, domina
Pietrina
Francone, figlia del barone aragonese Oliviero Francone da Lecce,
dov’ella era rimpatriata
coi figli una volta rimasta vedova del consorte. Contro il volere
della nuova madre e della sorella Andronica,
domina Caterina era rimasta invece a Durazzo e da lì a poco
aveva sposato il greco
domino Nicolò Boccali, capitano di ventura
e altro fedelissimo della Signoria.
Decedutole
il marito sei anni addietro e rimasta senza patria a
seguito della conquista ottomana di Durazzo, domina Caterina non
s’era scoraggiata
e grazie alle amicizie a Venezia pur nelle difficoltà
economiche aveva trovato
modo di barcamenarsi – non s’è mogli di
condottieri per vivere nella mollezza.
Fierissima, l’anziana nobildonna albanese aveva rifiutato
ogni ducato inviatole
dai figli, specie se questi introiti provenivano dai nemici della
Repubblica. Meglio
mangiare un piatto di polenta di miglio ma da uomo libero, che uno
d’arrosto ma
da schiavo, sosteneva.
“Mi
consola sapervi adesso in migliori condizioni e riconciliata
con la vostra famiglia. Anzi, mi dispiace non avervi potuto aiutare di
più.
Greci, albanesi, siamo tutti esuli, qui, dobbiamo soccorrerci a
vicenda”,
asserì generosamente Dimitri Spandolin.
Gli occhi
di domina Caterina si strinsero in penetrante osservazione,
sicché il greco comprese come mai s’andava
cianciando come perfino il terribile
Mercurio Bua provasse una certa soggezione nei confronti della suocera.
“Vi
ringraziamo, però suppongo voi abbiate dovuto anche badare
agli interessi della
vostra famiglia. In fin dei conti, i primi a perdere la patria foste
voi
Greci”, velenosetta frecciatina dinanzi alla poca resistenza
dei greci contro i
turchi, contrariamente al valore degli albanesi che pur erano
considerati dai romei
esponenti di una nobiltà minore.
Il
cavaliere allargò le mani, concedendole vittoria su
quell’argomento. In effetti, pur trasferendosi da
Costantinopoli, egli non
aveva tagliato completamente i ponti con la madrepatria,
tutt’altro, aveva
intessuto buoni rapporti commerciali anche col signor Turco, pur di
conservare
una certa ricchezza e conseguente dignità, ché a
Venezia egli non aveva intenzione
d’andarci mendicando come altri suoi connazionali.
“Si fa quel che si può per
sopravvivere. Non amo rimanere inerme in attesa dell’onda che
mi travolgerà”,
dichiarò bonario.
“Giusto”,
convenne lentamente domina Caterina. “Come state in
famiglia?”
“Ottimamente.
Mia moglie soffre un po’ di reumi per via
dell’umido
qui a Venetía; i miei figli vivono delle loro condotte e le
mie figliole felicemente
sistemate coi rispettivi mariti. Mio nipote Nikolaos [4], adesso che
non può
più proseguire gli studi di medicina a Padova, ha deciso di
seguirmi a Costantinopoli.
Un bravo ragazzo, molto volonteroso, grande lavoratore e pieno di
grinta”,
anche se povero in canna, avendo i Da Ponte perduto ingenti beni e
proprietà
dopo la caduta di Negroponte, da dove traevano le proprie ricchezze. Ma
ciò
aveva giovato comunque lo Spandolin, avendo avuto infatti egli in
progetto di
accasare le figlie con patrizi veneziani, acciocché non
fossero più considerate
delle straniere, finalmente tranquille e protette. Una famiglia
economicamente
disagiata non era una famiglia schizzinosa e non badava troppo da dove
provenissero i danari. E in fin dei conti i suoi generi non gli davano
grandi
grattacapi, tranne forse per quel pirata saraceno di Marco Miani, che
se il
greco non stava attento, quello sfacciato di suo genero sarebbe stato
capacissimo di portargli via perfino le mutande.
Per amor
di sua figlia il cavaliere aveva deciso di aiutare il
fratello di quel tanghero. Solo per lei.
“La
mia Eleni, invece, si trova a Trevizo col suo consorte”, la
buttò lì casualmente Dimitri, osservando attento
il rossore sparire dalle gote
di Cate e l’occhiata furtiva di domina Caterina in direzione
della figlia.
“Ah,
capisco …”, mormorò assente la giovane
donna, giocherellando
nervosamente col bordo della manica.
“Vostro
marito, fra poco potrebbe condurre lì il campo.”
“Lo
so”, ribatté seccamente la Boccali, alzandosi e
portandosi
alla finestra, là dove si mise a contemplare senza
particolar gusto la riva
sottostante e il viavai di gente sul ponte e delle gondole in canale.
La
figlioletta Maria, udito il nome del padre, prontamente la
seguì, cingendole il
fianco con un che di protettivo.
“Saprete
anche che il fratello di mio genero Markos Mianes,
Hieronymos, è suo prigioniero.”
Gli occhi
neri della donna guizzarono rapidi in direzione del
cavaliere Dimitri, per poi ritornare al suo inquieto studio del
paesaggio
urbano. “Sì, ne ho sentito parlare”,
ammise infine. “Mi dispiace per lui.”
“Stiamo
cercando di avvicinare vostro marito per avanzargli una
somma di danaro, onde riscattare il ragazzo. Purtroppo vicende varie ce
lo
impediscono. Voi, forse, potete aiutarci”, instette
Spandolin.
Cate
cacciò fuori un profondo sospiro, passandosi una mano
sulla fronte. “Da voi non accetterà neanche un
soldo”, gli confessò triste,
facendo cenno ad una fantesca di portar via seco la bambina, segno che
ci si
stava addentrando in acque non consone alle sue innocenti orecchie.
“Non è la
prima volta che mi manda simili ambasciate, ma è la prima
che ricorre a tali
stratagemmi. Dunque è ricorso adesso allo scambio di
prigionieri pur di
riavermi indietro?”
“Siete
sua moglie”, gli ricordò imperturbabile il
cavaliere,
“avete l’obbligo di seguire vostro marito, ovunque
egli vada.”
“Sua
moglie, certo. Ma non un cavallo né un suo sottoposto da
comandare. Né un oggetto di cui disporre a suo
capriccio”, lo contraddisse
feroce Cate, le iridi nere luccicanti di battagliero fuoco.
“Troppo spesso
Maurikos s’è scordato chi io sia, da quale
famiglia io provenga.”
“Nondimeno,
anche se costretta dai vostri fratelli, il vincolo del
matrimonio rimane sacro e inviolabile; nessuno vi si deve
intromettere.”
“Lui
per primo l’ha infranto!”, s’intromise
domina Caterina,
stringendo i pugni sulle ginocchia. Dopodiché,
ricomponendosi in fretta,
dichiarò solenne: “Noi restiamo agli ordini della
Signoria. Se vuole che ce ne
andiamo, obbediremo. Fino ad allora, però, non abbiamo
intenzione d’abbandonare
Venetía. Già in passato abbiamo perduto una
patria, se possibile vogliamo
evitare di ripetere una seconda volta tale atroce esperienza.”
Di fronte
a quell’ostinatezza, il sospetto che Caterina Boccali in
Bua avesse disertato di sua spontanea iniziativa il consorte
incominciava a
materializzarsi in certezza. Tuttavia, Spandolin necessitava della
prova
finale. “Ma se voi domandaste alla Signoria di lasciarvi
partire, sicuramente
non avrà nulla da obiettare. A meno che più che
di lei, voi non temiate la
reazione dei vostri fratelli”, gettò
l’amo, in attesa di quale risposta avrebbe
pescato.
L’inaspettata
risata di scherno da parte di Cate lo colse un
poco impreparato. “A chi credete debbano i miei fratelli e
mio cognato il
pronto perdono della Signoria nei loro confronti? Io non posso tornare
dai
Collegati, non dopo quello che ho fatto.”
Il
cavaliere Dimitri strabuzzò gli occhi, disorientato.
“Prego?”
“Contrariamente
a mio marito e ai miei fratelli” e la bocca della
donna si piegò manco avesse pronunciato un improperio,
“non ho mai dubitato,
io, della mia fede in Agios Markos”, gli spiegò,
ritornando a sedersi accanto
alla madre, la cui mano afferrò a mo’ di sostegno
per quanto stava per
rivelare. “Contrariamente a loro, non siamo delle ingrate. La
Signoria ci ha
sempre protette, ci ha offerto aiuto quando gli altri Stati lavandosi
le mani
di noi ci hanno lasciato in balia dei Turchi. Dov’era quel
vanaglorioso
francese, quel Re Cristianissimo quando Durazzo cadeva?
Dov’era quell’altrettanto
borioso Imperatore quando mio padre dovette fuggire dalla Morea?
Dov’era il
Papa? Se ne stettero tutti quanti al sicuro nel loro bel palazzo col
culo al
caldo, ecco dove! A contar soldi e ingrassare alla stregua di capponi!
Ed io
dovrei schierarmi con questi codardi, questi
“cristiani” per sentito dire? E
per cosa? Per denari ottenuti da ruberie? Per terre su cui loro ancora
non
comandano? Quando l’Imperatore nominò conte mio
marito, glielo dissi: cosa ti
può dare Maximilianos, quando nulla di quanto possiede
è in realtà suo? Ti dona
il fumo, per quest’ultimo stai sacrificando il tuo onore e la
tua vita?”
Spandolin
si ritrovò a convenire suo malgrado. Le sue simpatie
politiche
al massimo s’erano sbilanciate verso i napoletani, ai tempi
della Lega tra
Venezia, Napoli e il Papato nel lontano 1472, ma neanch’egli
tollerava
l’arroganza francese e tedesca, il loro concetto di difendere
la cristianità
esplicato nel turpe massacro di altri cristiani.
“Per
anni ho seguito fedelmente Maurikos, anche se ciò
m’ha
condotto lontano dalla mia famiglia. Come da voi affermato, il marito
è il
marito e va obbedito. Ma ci sono cose che …”,
Cate s’interruppe, portandosi
due dita alla bocca, il viso un’espressione d’acuto
dolore. Domina Caterina le
circondò le spalle col braccio.
“Seguendo
mio marito, mi sono imbattuta appieno nella brutalità
della guerra e ho sopportato tutto per amor suo: il degrado morale
degli
accampamenti, la fame, la miseria, la malattia. Ma questa guerra che si
protrae
da due anni … No! Per me fu troppo.
“Voi
ignorate che razza di bestie siano i francesi e i tedeschi.
Voi non avete visto come soffocarono col fumo quei vecchi, donne e
bambini
riparatisi nelle caverne a Vitséntsa, pur di farsi rivelare
l’ubicazione degli
ori e dei danari – neanche stessero sterminando degli
scarafaggi! O come trasformarono
Feltre in un mattatoio, macellando alla stregua di vacche la
popolazione inerme
- per quale
soddisfazione poi? O a
Verona, dove quel maledetto principe-arcivescovo di Trento addobbava la
città
impiccando civili indiscriminatamente a destra e a manca! Questa terra
mi ha
accolta, keerie Spandounes, mi ha ridato la vita, la amo e non potevo
tollerare
di vederla così martoriata! Né volevo essere
un’indiretta complice della sua
fine!
“Sicché,
quando giungemmo l’anno addietro da Soave a Verona
assieme alla compagnia del Principe di Anhalt, ne approfittai per
mettermi in
contatto con mia madre. Sapevo che lei poteva aiutarmi a rimpatriare.
Così come
sapevo delle spie veneziane in città.
“Mi
misi in contatto con loro; mi chiesero fin dove mi sarei
spinta per rientrare in grazia della Signoria, quale prova potevo
offrirle
della mia lealtà. A mia volta domandai loro, se stessero
alludendo ad una testa
in particolare. Mi risposero: la Signoria
vuole quella dell’Anhalt. Sappiamo che è malato,
quanto può durare?”
Spandolin
deglutì, incominciando a comprendere il macabro disegno.
“Il
principe austriaco risiedeva al palazzo pretorio. Il viaggio
da Soave l’aveva assai debilitato. Neanche noi,
d’altronde, ce la passavamo
meglio. I Veneziani tenevano il campo ad Agios Martínos,
pronti a dar assedio;
l’Imperatore non pagava né mio marito
né i miei fratelli, checché ci rabbonisse
il principe-arcivescovo di Trento e gli altri comandanti. Il generale
malcontento giocava a mio favore.
“Al
che, proposi all’Anhalt di trasferirsi da palazzo pretorio
alla
casa di Dominikos Marioni, come indicatomi dalle spie. Gli spiegai come
lì si
sarebbe trovato meglio, in un edificio più sano e
accogliente, lontano dal
continuo andirivieni di gente. Avete
bisogno di riposo assoluto, lo blandii, non
ne troverete certo a palazzo. L’Austriaco mi
credette e come non poteva? Il
Marioni, in apparenza, era filo-imperiale ed io ero la moglie di uno
dei
comandanti favoriti dall’Imperatore stesso. Una volta
lì, divenni
volontariamente cieca e sorda su quanto stesse accadendo in quella
casa.
L’Anhalt v’entrò vivo, ne
uscì cinque giorni dopo morto. Inutilmente cercarono
di occultarne la morte; i provveditori veneziani già ne
erano a conoscenza.”
Cate
chiuse gli occhi, la mente volata a quella lontana
settimana, in cui giorno dopo giorno osservava l’effetto
della polvere di
diamante mischiata al cibo dell’Anhalt, la quale,
straziandogli le viscere, lo
torturava con una lenta e dolorosa agonia, contorcendosi esso nel
letto,
consumato sia dalla malattia contratta a Soave sia dal veneficio
somministratogli
ad arte. Che il principe fosse già ammalato era un segno di
Dio, s’era detta, e
la Sua mano colpisce forte quando l’uomo la guida. Loro
s’erano soltanto
limitati ad affrettargli il trapasso.
La donna
si sovvenne dei visi preoccupati del principe-arcivescovo
di Trento Georg von Neideck e di Monsignor Ru, delle lacrime del
valletto e
dello scudiero dell’austriaco e dell’espressione
cupissima di suo marito
Mercurio Bua, tanto che la donna all’epoca aveva temuto se
stesse sospettato
qualcosa.
Si
ricordò dell’immobile volto di cera di Rudolf von
Anhalt-Dessau
aus dem Haus der Askanier illuminato grottescamente da quattro ceri,
domandandosi a quale giudizio fosse andato incontro ora che si trovava
dinanzi
a San Pietro. Per via delle orride brutalità commesse contro
chi non poteva
difendersi, Cate aveva sperato nel budello più profondo
dell’inferno.
“Con
la scusa di spedire il feretro dell’Anhalt in Austria da suo
fratello ed erede, mio marito ne aveva approfittato per recarsi da
Maximilianos
e lì reclamare la paga arretrata. Così, senza la
sua ingerenza, andai dai miei
fratelli ed esposi loro la situazione. L’Imperatore e il Re
di Francia
combattevano una guerra perduta in partenza, cosa speravano
d’ottenere?
Promettevano tanto, ma cosa di concreto li avevano offerto? Fu un
rischio da
parte mia, lo confesso, però fuggire e lasciare indietro
Manouel e Konstantinos
… Ironia della sorte, quando andai da loro già
stavano progettando di disertare
assieme a mio cognato Theodoros, solo che temevano
nell’inflessibilità della Signoria
…”, ridacchiò amaramente la donna,
mordicchiandosi il mignolo. “I miei fratelli
mi proteggono sostenendo d’avermi rapita, però
… Non posso tornare da Maurikos.
Non così, una traditrice ai suoi occhi.”
Sporgendosi
verso di lei, Dimitri Spandolin tentò un nuovo
approccio: “Comprendo il vostro motivo e il vostro sacrificio
per aiutare la
Signoria. Siete stata coraggiosa e leale. Siatelo di nuovo, ora.
Permettete che
le venga restituito questo suo figlio. E magari, come a suo tempo avete
persuaso i vostri fratelli e vostro cognato, forse riuscirete a
convincere
anche vostro marito a ritornare a servire sotto il vessillo di Agios
Markos.”
Cate
levò gli occhi neri, asciugatisi all’improvviso
dalla
patina di lacrime e induritisi in due pietre d’onice.
“Impossibile”, sentenziò
brutale. “Vi giuro che il mio cuore piange la sorte di quel
ragazzo e pregherò
l’Agia Parthena Maria giorno e notte per la sua liberazione,
ma per nessun
motivo al mondo ritornerò da Maurikos.”
“E’
un capitano di ventura, servire il migliore offerente è
insito
nel suo mestiere, non potete più di tanto biasimarlo per le
sue scelte”, non
demorse il cavaliere Dimitri. Ben celato dallo scudo del patriottismo,
egli percepiva
un altro motivo dietro la granitica testardaggine della Boccali.
Qualcosa di
più oscuro. Di più personale. “I vostri
stessi fratelli …”
“Mio
marito”, l’interruppe bruscamente Cate, il
volto torvo di
collera “cambiando bandiera, mi ha allontanata dalla Patria
del Friuli, da mio
padre. Mi ha impedito di raggiungerlo al suo capezzale, mi ha negato la
sua
ultima benedizione per quanto l’avessi supplicato di
lasciarmi partire! Niente,
neppure dinanzi al mio strazio quel cuore di diavolo si
lasciò commuovere! E
questo, Agios Georgios mi è testimone, finché
vivrò non glielo perdonerò mai. A
meno che …”
“Che?”,
l’incalzò speranzoso Spandolin, lo stomaco in
subbuglio a
quella confessione.
“Rivuole
mio marito indietro sua moglie e sua figlia? Soltanto
quando avrà giurato fedeltà ad Agios Markos e
strisciando, in ginocchio, egli
avrà supplicato il mio perdono!”
Iddio
invero protegga l’uomo dalla ferocia di una donna furibonda
e chi ride dinanzi a tale massima si consideri solo uno stolto
fortunato.
***
Sier
Francesco Contarini figlio del provveditor d'armata sier
Hironimo detto “Il Grillo” corse a perdifiato in
direzione a Palazzo della
Ragione, là dove i due provveditore e cognati sier Christofal Moro e
sier Polo Capello
stavano discutendo assieme al vicegovernatore il conte Bernardino
Fortebracci
da Montone circa la recente ambasciata da parte di un emissario del
maresciallo
de la Palice, il quale annunciava la decisione dei Collegati
d’attaccare Padova
al posto di Treviso.
“Se
questa nuova fosse vera, sarebbe stato davvero imprudente da
parte nostra sbilanciarci così!”, lamentava il
Fortebracci. “Specie dopo aver
inviato a Treviso i nostri migliori bombardieri!”
“La
Palisse ne racconta talmente tante da non risultare più
credibile”, ragionava sier Christofal Moro, appoggiandosi sul bastone, dandogli noia la gamba ammalata. “Inoltre,
la strada è troppo lunga per
arrivare fin da noi senza incappare nelle nostre bande. Non
correrà il rischio
di ripetere la rotta di Marostica.”
“A
meno che La Palisse non abbia intenzione d’assediare Padova dopo Treviso; questo significherebbe che
la città non si trova sufficientemente fortificata
…”, presagì il peggio il
provveditore Capello.
Avvicinatosi
al suo conterraneo sier Ferigo Contarini, il quale
ascoltava in disparte e in religioso silenzio assieme a Giano di
Campofregoso,
sier Francesco gli porse la missiva appena giunta da una staffetta.
“Signori”,
attirò su di sé l’attenzione il
provveditore degli
stradioti, sventolando teatralmente le carte. “Un messaggio
da Treviso. Forse
questo dipanerà gli ultimi nostri dubbi.
[…] zonse ancuo
domino Constantin Paleologo, capo di stratioti, e disse, i nimici ser
levati et
venuti mia 5 lontan di Trevixo, e li soi cavali lizieri venuti mia 2
lontan di qui
per botinizar.
Dize che
franzosi et todeschi xéli 10-12
milia
fanti et homeni d’arme 1200, et cavali lizieri 5000 tra
stratioti, corvati e taliani;
artelaria grossa boche 16, canoni, falconeti e altre artelarie menude,
et xeli per
vegnir a questa impresa cum animo di far cosse assai, et Trevixo li
speta cum
lo ajuto de Dio, cum bon animo et cuor, perché lì
temeno di cossa alcuna.
Un terzo dei
niminici xélo fato di amalati et femene, et ogni
dì ne moreno assa’, anca di
fame. Item, per uno altro
venuto dil campo, avisa di l’artellarie venute, et sono boche
6 et 5 fra
falconeti et sacri, et che in campo di todeschi xéli zonto solum cavali 3000 di
l’imperador, et
no si aspeta più.
I nimici
alozerano a Villa Orba, perché ancuo gh’han spento
un squadron di cavali
lizieri,
et, per
quello si judicha, domenega si ianteranno le sue artelarie soto questa
terra.
Nostri stanno con bon cuor et animo, et spera, i nimici si partirano
cum
vergogna etc.
Sier Zuam
Vituri zonse. Etiam Antonio
di
Castello cum li soi provisionati et alcuni xéli rimasti a
Mestre. Etiam è
zonto Maphio Cagnolim, qual à
posto in castello. Item,
gionseno
li X contestabeli mandati, cum uno fameio per uno; zà messi
in exercitio. […]
“Allora,
che vi pare? Dobbiamo ancora credere a questa
provocazione del La Palisse?”, cedette la lettera sier Ferigo
ai due
provveditori, acciocché se la passassero, leggendola con calma.
“E’ palese che
stesse mentendo: l’impresa rimane a Treviso, dove mi sembrano
più che pronti a
dar il benservito ai Collegati. La Palisse voleva confonderci e nel
panico
dividerci. Invece, adesso noi gli dimostreremo il contrario!”
“Che
cosa proponete, signor Contarini?”, inquisì
intrigato il
vicegovernatore.
Il
giovane provveditore ghignò sinistramente. “Con vostra buona licenza, avrei bisogno almeno di cinquecento tra balestrieri e
cavalleggeri, tutti insonni e ben motivati!”
“A
qual fine?”
“Cospetto!
Per rispondere all’ambasciata del La Palisse”,
spiegò
dolcemente sier Ferigo. Quand’ecco che i suoi occhi
s’illuminarono di gioia
assassina. “A Castelfranco.”
Continua
…
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Ovviamente,
circa la morte dell’Anhalt rimangono supposizioni, non
essendoci prove concrete che sia stato effettivamente assassinato.
Ciononostante, le dinamiche della sua improvvisa morte rimangono
tuttora assai misteriose
e troppo ghiotte per non ricamarci sopra.
Questo
capitolo è un po’ il punto di svolta della storia,
nel
senso che finalmente il la Palisse ha deciso di muovere le chiappe e di
procedere con questo benedetto assedio! Povero Mercurio, impiegato
sottopagato
e pure incompreso!
Quanto
alla natura banderuola del conte di Gambara è assolutamente
vera, sebbene il suo coinvolgimento nel piano circa liberare il Nostro
rimane una
nostra invenzione.
Orlando
da Bergamo aveva sul serio una mira pazzesca, colpendo
chiunque sia di notte che di giorno, Sanudo conferma.
Spero che
il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] La Nona era la
campana del Campanile di San Marco che indicava mezzogiorno.
[2]
Purtroppo non siamo riusciti a reperire tutti i nomi delle figlie di
Zaccaria Contarini. Tuttavia, considerando il nome delle sue nipoti
(figlie di
Paolo/Polo), delle altre donne di famiglia (i.e. suocera) e tenendo presente come certi nomi ritornassero frequenti
in
famiglia, abbiamo supposto le Contarini mancanti potersi appellare "Maria" e "Camilla".
[3] orar Sen Biasio / peteni
de Sen Biasio = San Biagio di
Sebaste fu un vescovo e santo armeno vissuto e martirizzato nel IV
secolo. Suo
simbolo iconografico sono i pettini di ferro con cui si
dilaniò il suo corpo.
San Biagio è invocato come protettore contro il mal di gola
e i raffreddori, in
quanto il più famoso dei suoi miracoli attribuitigli fu il
salvataggio di un
bambino che stava soffocando dopo aver ingerito una lisca di pesce. Il
3
febbraio in alcune chiese ancora si celebra la benedizione delle gole,
di
solito appoggiando due ceri uniti a croce di Sant’Andrea sul
collo del fedele
(o circondando il collo coi ceri, a seconda delle varianti).
[4] nipote Nikolaos =
ossia Nicolò Da Ponte, figlio di Antonio Da Ponte e di
Regina Spandolin,
diverrà nel 1578 Doge di Venezia. Siccome poco si sa di lui
dal 1511 fin quasi
al 1532, è probabile che si diede alla mercatura anche per
risollevare la
situazione economica della famiglia, forse seguendo il nonno materno
negli
affari. Nel 1520 si sposerà con Arcangela da Canal figlia di
Alvise da Canal di
Luca, che in questo racconto si trova assieme a Marco Emiliani alla
custodia di
Treviso.