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Autore: Hoel    01/09/2020    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Ecco qua il (vero) quattordicesimo capitolo!

Ulteriori note si trovavano a fine pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.

Avvertimenti: linguaggio scurrile, teorie del complotto e altre peculiarità.

Ricordiamo che le vicende narrate sono una ricostruzione romanzata, in mancanza di fonti specifiche sul protagonista in quel periodo e alcuni punti oscuri nelle cronache stesse dell’assedio.  

Chiedo venia se ogni tanto qualche parola di “terraferma” si mescola al veneziano “di Venessia”, per quanto risciacquiamo i panni in laguna non tutte le ciambelle riescono col buco.

Un ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94, Semperinfelix, Mrosaria e Sagitta72. Grazie a chi ha messo questa storia tra le seguite, preferite e ricordate.

Vi auguro una buona lettura,

H.

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Capitolo Quattordicesimo

11-12 settembre 1511

 

 

 

Ca’ Contarini dai Scrigni e da Corfù riluceva al sole e al riflesso ondulato e danzate dell’acqua, mescolando pietre rosa d’alba mattutina a bianche d’Istria, vivacizzate dalle calde fantasie degli arabeschi dei tappeti persiani e dai grandi vasi di fiori ai balconi, conferendo al palazzo un che di leggiadra civetteria femminile.

Sier Piero “Pinze d’Oro” Contarini l’aveva costruito alla fine del Trecento in stile gotico e il suo discendente e attuale proprietario, il cavaliere sier Zacharia dai Scrigni q. sier Francesco, ereditato quell’edificio nella contrada di San Trovaso, aveva deciso di ritorno dalla sua ultima missione in Alemagna nel 1496 di restaurarlo e di ampliarlo, inaugurandolo due anni dopo tramite suntuosissima festa.  Dei tre piani del palazzo i due nobili centrali erano stati decorati ciascuno tramite eleganti quadrifore a sesto acuto balaustrate al centro e due monofore ogivali per lato iscritte in una cornice rettangolare. La porta d’acqua era stata ingrandita e valorizzata con mezze colonne doriche e sopra un timpano a forma d’arco con decorazioni a raggiera a guisa di conchiglia, creando maggior impatto al visitatore giungente dal canale, il quale non poteva non ammirare il felice connubio tra la spinta ardita e fiorita del gotico e la placida armonia delle nuove forme classicheggianti degli Antichi.

Un luogo pieno d’aria, di luce, la casa della felicità ecco lo scopo ultimo di quel progetto.

Sier Zacharia in persona aveva seguito i lavori, tra una seduta e l’altra in Senato e la cura dell’educazione dei suoi figli minori. Dopo anni di missioni diplomatiche a Mantova, a Ferrara, a Milano, in Francia e in Alemagna, giustamente la Signoria gli aveva concesso un po’ di requie e dunque l’annoiato ambasciatore s’era dato alle gioie dell’edilizia, desideroso di infondere nella sua casa la sua ritrovata contentezza nella quotidiana domesticità. Non fosse stato chiamato nel giugno del 1499 a ricoprire il ruolo di podestà e capitano a Rovigo, il Contarini si sarebbe pure dedicato all’antico castello di famiglia a Piazzola sul Brenta, uno dei beni portati in dote da sua nonna domina Maria da Carrara q. domino Jacopo, ultimi esponenti dell’illustre famiglia signorile di Padova.

Tredici anni da allora e Ca’ Contarini seguitava a conservare quell’aria di coccola dolcezza, in fiero contrasto però coi cupi sentimenti dei suoi abitanti. Sull’intero palazzo gravava infatti una densa coltre di silenzio e tristezza, mai mitigata, malgrado i tentativi del figlio di sier Zacharia, Francesco, di tener alti gli spiriti acciocché il suo sfarzo seguitasse ad abbagliare i preziosi e  necessari ospiti da lui invitati onde accelerare le trattative per la liberazione del padre e del fratello minore Piero, catturati a Cremona nel 1509 e condotti in Francia prigionieri, il primo a Parigi e l’altro a Perpignan. Rifiutando di rassegnarsi al fato palesemente avverso, Francesco Contarini assieme ai fratelli rimastigli – Phelippo, Marco e Polo – e i cognati sier Andrea Guxoni e  sier Marin Trivixan seguitava ostinato a battere ogni strada a lui percorribile, intrattenendo fitte corrispondenze con diplomati e comandanti francesi per intercedere presso l’irremovibile Louis XII. Con buona licenzia della Signoria il patrizio aveva nel maggio scorso viaggiato fino a Bologna a casa di domino Franco degli Uberti per discutere personalmente del riscatto. Tale era la sua determinazione da riuscire egli  a convincere il Consiglio dei Dieci a rifiutare richieste di scambi di prigionieri da parte dei francesi, fintanto che il re di quest’ultimi s’incaponiva a non rilasciare sier Zacharia e Piero Contarini.

A costui dunque s’erano rivolti madona Leonora Morexini relicta Miani e suo figlio Lucha su suggerimento del consigliere ducale sier Batista Morexini, nella speranza che, grazie alle sue conoscenze, sier Francesco riuscisse ad agganciarli a qualcheduno dei comandanti nemici e iniziare il processo di riscatto di Hironimo. In particolare madona Leonora s’era parecchio raccomandata alla madre del Contarini e sua amica di vecchia data, madona Alba Donado dalle Rose, d’intercedere per la sua causa.

Ed evidentemente dovevano esserci delle novità, poiché quella mattina un loro servitore portò in ambasciata a Ca’ Miani un invito a pranzo, onde discutere di certe faccende a loro note. Madona Leonora non aveva fatto attendere troppo la sua risposta e la Nona [1] ancora non aveva battuto il diciottesimo tocco che la sua gondola attraccava alla porta d’acqua di Ca’ Contarini.

“Le siore patrone colendissime la N.D. Leonora Morexini relicta Miani, la N.D. Leonora da Molin dil Bragadin et domina Maria Morexini relicta Querini, comtessa de Stampalia et Amorgo.”

Non potendo accompagnarla né Lucha per via dei suoi impegni in Quarantia Criminal né suo fratello Batista per via del suo incarico che lo obbligava a rimanere super partes, madona Leonora aveva scelto come chaperon due sue nipoti, così da non apparire una supplice disperata e per dirottare altrove l’attenzione degli elementi in sovrappiù a Ca’ Contarini.  

Il maestro di casa a seguito dell’annuncio guidò le tre donne nel portego del piano nobile, là dove tra i muri tappezzati di ricchi arazzi, i pavimenti di seminato ricoperti di tappeti turcheschi, gli scranni in legno scolpiti e decorati a foglie d’oro e ottomane di cremisino l’attendevano madona Alba Donado in Contarini e sette dei suoi dieci figli – Francesco, Phelippo, Maria, Camilla, Lugrezia, Talesia e Contarina [2] -  tutti vestiti con tal eleganza da confondersi con la lussuosa stanza e parevano decorazioni anche loro. Madona Alba e le sue figlie vestivano di balzo di velluto e i fiori d’argento ed oro ricamati ad arte sul raso delle loro ampie e gonfie maniche rilucevano alla settembrina luce del meriggio, così come le scuffie di seta ricamate a filo d’oro con motivi geometrici e le due sottili collanine di perle intrecciate al collo. Sier Francesco, invece, indossava una casacca nera sciallata che lasciava intravedere la camicia bianca plissettata e le maniche di velluto scarlatto; quella del fratello Phelippo, invece, si presentava turchese e ambedue portavano i capelli a caschetto e la barba, secondo la nuova moda vigente.

A confronto di tal variopinta tavolozza, le tre ospiti corrispondevano ad un pugno nell’occhio: vestite sì di velluto, ma di un nero cupissimo da capo a piedi, ognuna col suo personale lutto, l’unica macchia di colore la fine camiciola di seta bianca che copriva la scollatura della sola madona Leonora, non giudicando le sue nipoti, entrambe nel fiore degli anni, necessario fustigare il naturale rosato del loro decolté. Levatesi il pesante paneselo nero che li arrivava fino a metà coscia, le donne rimasero con le loro scuffie sempre nere che coprivano in toto le loro trecce; niente gioielli, se non le vere nuziali al dito.

Sembravano uno stormo di corvi che s’imbatteva in uno di pavoni. Ciononostante, ironia della sorte aveva pur disposto un unico elemento in comune tra quegli astanti diversissimi tra di loro,  ossia espressioni serie e granitiche, nessuno incline al sorriso e non per cattiveria o maleducazione.

“El fio mio Lucha, el vu dimanda la perdonaça, s’el nol gh’ha podesto vegnir à disnar cum vui: ea Quarantia Criminal lo tegne occupà pì dil necessario”, si scusò madona Leonora con l’amica, dopo aver scambiato i dovuti convenevoli. “Staltro fio mio, Marco, el me scrive ch’el Marcolin vuostro se porta ben et che se fa honor, che no xélo mai stuffo d’agiudar i soi compari a l’opere a le mura di Trevixo”, aggiunse e il volto smunto di madona Alba si tinse brevemente di sollievo, inquieta a causa delle scarse notizie circa il fuggiasco suo figliolo che col suo silenzio aggiungeva insulto all’ingiuria, tutto il contrario di suo fratello Polo Contarini che pur imbarcato nell’Armata del Po scriveva regolarmente alla madre.

Attraversata la vasta stanza attigua al portego, adibita a lanziera d’armi, il gruppetto si stava nel frattanto portando nella sala ove desinare, anch’essa ricoperta di broccati e quadri dai soggetti ora sacri ora profani e sulle cui pareti s’appoggiavano credenze di legno di noce stracolme di scintillanti argenterie, di vivaci e variopinte maioliche di Faenza, di Cafaggiolo, di Urbino; di sottili vetri di Murano, di ninnoli e statuette delle più variegate forme e provenienza e perfino di pezzi d’antichità greche e romane, tutti raccolti in artificioso assetto. Il tavolo stesso, per un pranzo informale quasi en famille, era stato preparato con elegante dovizia di vasellame e decorazioni.

“Co’ ripatrieré a Stampalia, siora comtessa?”, s’informò sier Francesco, tallonando immediatamente la vedova figlia di sier Batista Morexini, la cui bellezza non si lasciava strapazzare né dal lutto né dalla nascita del figlio postumo del fu conte Zuanne Querini. Semmai, il nero dell’abito di velluto le slanciava la figura e risaltava il biancore alabastrino della sua pelle, così come gli occhi nerissimi e la bocca vermiglia e sensuale. Eppure, dietro a tal beltà si celava un dolore acutissimo, del quale Maria pareva quasi gelosa, custodendolo per sé senza mostrarlo al mondo. Che le pizzocchere la tartassassero pure scambiando il suo stoicismo per indifferenza, lei non doveva dimostrare niente a nessuno. Zuanne le mancava da morire, però la nobildonna doveva vivere per i suoi figli e per la sua famiglia.

“Nol sciò”, replicò la giovane contessa in un sussurro vellutato, le palpebre abbassate come il gatto che fingendo di dormire in realtà osserva attentissimo ogni movimento che lo circonda. “Gh’ho da star drio ai lavori a la nova Cha’ Querini; el mio missere Nicolò Querini tendaran optime a le tere anca sença de mi. De pì, el mio putelo Nicolò xélo massa picenin per inbacarse et la siora mia Mare et el sior mio Pare voleno ch’el staga qui a Veniexia cum eli. Chi songio mi par desobedir?” e soprattutto perché a Venezia Maria poteva tutelare l’eredità dei figli minorenni contro ogni pretesa della famiglia del marito, nonché evitare di sentire il costante fiato sul collo della minaccia turca alle isole greche infeudate ai Querini.

“Chome steli i vuostri parenti, i lustrissimi sier Antonio Trum procurator et Lucha Trum savio a tera ferma?”, domandavano le Contarini a Dionora da Molin in Bragadin, la quale rispose lentamente e con diffidenza, mentre s’accarezzava i primi cenni del ventre rigonfio:

“Assa’ ben da l’ultima volta che mi gh’ho parlào cum eli.”

“Gh’ho sentio ch’el Procurator gh’ha da depositar 800 ducati de presenti a la Signoria per un anno. O geran 900?”

“Nol sciò, el sior barba di la siora mia Mare ancuo (oggi, ndr.) gh’ha da parlar en Colejo – s’avedarà.”

“Xélo vero, ch’el gh’ha refudà ea nomina a Capitan Zeneral?”

“El cognosse i soi limiti.”

“Raccomandatime à lhor siori riveriti, donca.”

“No falarò”, finse di promettere Dionora, cogliendo la frecciatina delle due donne sulla salute del suo prozio materno. Tuttavia, dissimulò ignoranza e non tanto per ingannare le sue interlocutrici, quanto coloro che rappresentavano, ovver i mariti ed i fratelli la cui linea politica non sempre coincideva con quelli dello zio e cugino della sua defunta madre madona Crestina Miani da Molin. Il recente rifiuto poi di sier Antonio Trum a sostituire il capitalo generale sier Anzolo Trivixan gli aveva guadagnato molti occhi puntanti contro e critiche borbottate a denti stretti. Il nipote del fu Serenissimo, imperturbabile, s’era giustificato sostenendo la sua poca dimestichezza nella marina militare, mancanza inaccettabile in tempi delicati come quelli: piuttosto, che tale compito venisse affidato ad un comandante d’esperienza, magari più giovane di lui, povero vegliardo settantunenne pieno di reumi qual era.

In aggiunta, alla giovane patrizia i Contarini dai Scrigni non erano mai andati tanto a genio (con l’unica eccezione del Marcolin e del Piero, gli amici del suo barba Momolo) e di conseguenza non li frequentava più del dovuto, avendo infatti ereditato quella nuova generazione la medesima aristocratica spocchia della loro bisnonna domina Maria da Carrara, credendosi alla pari di Dominiddio soltanto perché possedevano un fottio di terre, danari e potevano permettersi ospiti illustri e per di più foresti, senza che la Signoria avesse molto da ridire. Bah.

“Amiga mia, no me scolté? An, la perdonança!”

Madona Leonora strabuzzò gli occhi disorientata. “Per cossa, Alba?”, fece confusa.

La nobildonna scosse il capo, stringendo con imbarazzo il piròn che mulinava in aria a vuoto, indecisa se impirare la carne sul piatto o se appoggiarlo.

“Jo stago qui a lamentarme di le mie desgrassie, co’ anca vui gh’avé le vuostre.”

Stavolta arrossì Leonora, giacché a onor del vero non aveva prestato grande orecchio alla triste e lunga brentana che fu lo sfogo della sua amica, la quale trascorreva da ben due anni notti d’angoscia per la sorte del marito e del figlio, acuita adesso da quella per il fratello e gli altri suoi due figli al fronte. Da Parigi le giungevano lunghe lettere da parte di sier Zacharia, ma da Perpignan quasi niente, se non ciò che il cavaliere riusciva ad estrapolare da terzi sulle condizioni del suo ultimogenito. E il Marcolin con la sua recente fuga l’aveva assassinata e nonostante le sue veementi insistenze quell’inutile di suo fratello sier Andrea Donado non riusciva a persuaderlo ad alloggiare in casa sua, figurarsi ritornare a Venezia. E a proposito del podestà e capitano di Treviso … “Et saveu cossa gh’ha scrito en Consejo sier Lunardo Zustignan vuostro parente zerca mio fradelo Andrea?”

“No?”

“Ch’el podestà val puocho, et usa miseria in li danari di la Signoria.”

Al che la vedova Miani, piuttosto di commentare, giudicò più saggio bere una sorsata di vino rosso annacquato. Quanto riferito dal patrizio corrispondevano alle medesime lagnanze nelle lettere del Marchetto, laddove suo figlio si sfogava frustrato protestando quanto sier Andrea Donado centellinasse i soldi inviati a Treviso da Venezia per la costruzione delle mura difensive, neanche li cacciasse fuori di tasca propria e pertanto tra soldati, cittadini, popolani, gli stessi patrizi e comandanti si lavorava tutti alla stregua di formichine, notte e giorno, ad infernali ritmi d’Arsenale.  

“Xéle cosse che se disen”, nicchiò infine madona Leonora, appoggiando il bicchiere. “Pitosto, Alba, sora la question di staltro fio mio …”, introdusse discreta l’argomento che più le stava a cuore e per il quale aveva abbandonato la quiete di Ca’ Miani, arrivando a scomodare perfino le sue nipoti.

Similmente agli antichi pellegrini di Delfi, madona Leonora interrogava costantemente suo figlio Lucha, i suoi parenti e il fratello Batista onde reperire anche la più minuscola informazione sul suo Momolo, ricevendo ogni volta la medesima risposta, ossia ch’era in vita, sorvegliato a vista da Mercurio Bua e fine della storia. Ma in quali condizioni versasse, se in salute o in malattia; se sfamato o lasciato deperire d’inedia; se vestito o nudo, se torturato o ben trattato … lo ignorava. Con Lucha, invece, pur ricevendo notizie saltuarie le aveva comunque avute, anche per mano di altri prigionieri, nel periodo in cui il suo primogenito giaceva nella branda intontito dagli oppiacei dopo l’operazione chirurgica per salvargli il braccio destro. La nobildonna aveva sofferto orrendamente, sì, ma mai aveva dubitato della sua incolumità nonostante la prigionia, né del ritorno di Lucha malgrado i quattro mesi di attesa.

Momolo, al contrario … Mille tremende immagini sulla sua sorte si alternavano nella mente di Leonora, togliendole il sonno già scarso, prosciugandole gli occhi di lacrime e l’anima d’energie. E anche a te una spada trafiggerà l'anima, mai parole furono più veritiere.

Talora la nobildonna si svegliava  sussultando e madida di sudore, l’immagine del figlio talmente nitida dinanzi a sé che quasi le pareva di poterlo toccare e stringere al petto. In altre occasioni giurava d’udire l’eco della voce di Anzolo, che la spronava a continuare a pregare, a pregare ininterrottamente la Devotissima.  

Maria, afferrando al volo l’ansietà di sua zia, per la prima volta dal suo arrivo guardò dritto negli occhi sier Francesco, sorridendogli tra il supplice e il civettuolo: “Seti riussì a parlar cum qualchedun di comandanti franzosi o todeschi?”

La bocca del secondogenito di sier Zacharia si contrasse in una strana smorfia, in bilico tra il dispiaciuto e l’incoraggiante. “Sì ben …”, esordì curiosamente impacciato rispetto alla sua usuale parlantina assai sciolta. “Cognosséu la comtessa di Corejo, domina Veronica de Gàmbara?”

“La fiola dil traditor brexiano Zuan Francesco de Gambara?”

“La medesma. Saveu anca chome el sior sòo Pare se trovi horra à Monte Beluna agli hordeni di la Peliza, per l’impresa di Trevixo? Ecco, in nomine di l’amititia ante la guera, le gh’ho scrito et spiegà ea situazion …”

Madona Leonora trattenne il fiato, incalzando impietosa sier Francesco: “Gh’avela capiò l’importança …?”

L’uomo annuì. “La comtessa la me gh’ha riferio che l’intende et chome la gh’avea scrito al sòo sior Pare de zò unde agiudarci.”

“Perché el conte de Gàmbara vol horra ser d’ajuto?”, arcuò scettica Dionora il sopracciglio.

“El gh’ha scoperto a sòo danno che li franzosi non xéli cussì amizi chom’el credea. A Brexa i se gh’han petuffai de bruto coi gasconi dil cavalier Bayart; niun i vol pì vedar manco dipinti. Cussì el Gàmbara horra vorave tornar a san Marco, ma el Consejo dei X no se fida et chome podaria? El gh’ha canbià zò massa bandiera.”

“Perhò, vui credete a elo”, puntualizzò Leonora.

“Gh’avé da satre, madona, chom’el 6 di setembrio, ghe gera stà a Trevixo ‘na scaramuzza coi stratioti dil Mercurio Bua, el qual tegne prexom vuostro fio sier Hironimo. El Bua scampolò perhò s’amaloe et credutolo morto, el conte de Gambara gh’avea dato hordene de tuor Hironimo im soa protetitione, cussì che vuialtri podesse pagar ea taja …”

Dionora e Maria lanciarono un piccolo gridolino entusiasta, già figurandosi l’esito positivo di quel piano: accaparrandosi infatti il prigioniero per sé, il conte di Gambara poteva disporne a proprio piacimento, concludendo scambi o pagamenti di riscatto assai vantaggiosi e anche dimostrando quanto veritiere fossero le sue lettere inviate al Consiglio dei Dieci, nelle quali giurava e stragiurava la sua lealtà alla Serenissima pur proclamando a voce alta l’incontrario. Madona Leonora, al contrario, non giubilava, accortasi infatti dell’espressione sempre più mesta sul viso solitamente superbo del Contarini e non presagendone nulla di buono.

“Purtroppo desgrassia gh’ha volesto, ch’el Bua nol gh’avea niuna intençion de crepar, sicché el se gh’ha ciapà indrio cum la força vuostro fio, el qual tegne sconto im sòo pavion, niun pol vedarlo niun pol propinquarselo (avvicinarsigli, ndr.) A me spiase …”, mormorò genuinamente contrito sier Francesco, percependo quel rovescio d’eventi come l’ennesima personale sconfitta. Infatti, aveva creduto il salvataggio di un signor nessuno quale Hironimo Miani poca cosa, sottovalutando l’ostinazione dell’incognita impazzita, al secolo Mercurio Bua che se lo costudiva manco avesse catturato il Doge in persona.

La vedova Miani socchiuse per un istante gli occhi, incassando stoicamente quell’ennesima stilettata, la speranza di riabbracciare il suo ultimogenito di nuovo dispersasi come il caìgo invernale dal vento e dal sole. “Chome stelo el fio mio?”, s’aggrappò tenace a quell’ultima consolazione. “El Gambara, gh’avelo parlà cum elo? Gh’avelo visto?”, stridette la sua voce di tal angoscia, che sier Francesco sussultò lievemente, mentre sua madre sgranava gli occhi, pallidissima.

“Siorasì”, s’affrettò a rassicurarla madona Alba. “El Momolo l’gera ligà cum catene et en camisia, bianco puina et malmenao, perhò im boni spiriti et lengua prontissima.”

Dionora artigliò quasi la stoffa sopra il pancione, deglutendo; Maria cacciò un profondo sospiro, appoggiando la sua mano sopra il polso della zia a mo’ di conforto.

“Insistareu cum el conte, sier Francesco?”, esibì poi la giovane contessa la più sconsolata delle sue espressioni, le iridi nerissime da cerbiatta velate di accorte lacrime. La mano libera viaggiò molle e discreta verso quella più grande dell’uomo, sfiorandogli appena le nocche con la punta delle dita. Così sporgendosi offrì agli occhi del Contarini il motivo per cui non aveva indossato la camiciola bianca e non perché a Maria importasse un fico secco di lui, bensì della sorte del suo amatissimo cugino per la cui causa era disposta ad offrir il suo modesto contributo.  

“Fazzo el tutto che se pol far”, le promise a disagio sier Francesco, ansioso di ben figurare con lei pur non perdendo di vista la personale missione di riscattare i suoi di parenti, ché stando al saggio proverbio, ad una bea femena non se nega gnente soprattutto se s’era come lui ancora celibi. “Basta spetar l’occasion propitia.”

Maria lo trafisse impietosa con quel suo sorriso birichino pieno di fossette, annuendo soddisfatta mentre con la scusa di levargli la mano gli sfiorò il polso, dentro la manica.

“No v’indubité”, reiterò madona Alba, scoccando tuttavia un’occhiata obliqua di monito al suo primogenito maschio, che tossicchiando portò il braccio più da rente al bordo della tavola. E rivolgendosi benevola verso l’amica: “O prima o dopo el Bua gavarà pur da dimandar ea taja. No pol mica tegnirlo seco per sempre!”

Madona Leonora convenne rigidamente, poco persuasa da quelle incoraggianti parole, e riconcentrò lo sguardo sulla sua  porzione di ambroyno sul piatto, pollo cotto con cipolla, zenzero, chiodi di garofano, cannella, cardamomo e sopra salsa alle mandorle speziate allo zafferano. In altre circostanze quel piatto così ricco e gustoso l’avrebbe di molto gratificata; invece in quel momento la nauseava, specie al pensiero di sapersi lì, al sicuro e ben nutrita, mentre la carne della sua carne molto probabilmente stava patendo la fame, il freddo, forse perfino ammalato e lei non poteva fare alcunché onde alleviare quelle tremende condizioni, tranne pregare per una liberazione ch’ogni giorni si rimpiccioliva in un pallido miraggio.

“Ma mio fio insistarà, digo ben Francesco? El conte vol tornar in brazo a la Signoria: codesto ajuto pol zogar a sòo et vuostro vantajo.”

Leonora avrebbe ardentemente desiderato alzarsi e disertare la compagnia, sennonché desistette, indossando la sua giornaliera maschera di stoica imperturbabilità. Lo doveva al suo Momolo: dimostrandosi forse troppo sconvolta, avrebbe scoraggiato sier Francesco nella sua delicata missione di persuadere il conte Gianfrancesco di Gambara a non gettare la spugna al primo tentativo fallito, impresa non facile considerando la volubilità dell’uomo.    

“Gh’avé rason, Alba. Tentar et ritentar.”

 

 

***

 

 

Un altro magro meriggio si trascinava via al campo dei Collegati di Montebelluna, immobile in abulica attesa del maresciallo de La Palice, il tempo dilatato e scandito a malapena dal muoversi del pallido sole settembrino, appesantito da un’aria umidiccia e fastidiosa – el vento dil pizzegamorto, lo chiamavano i locali.

Vino e pane pressoché introvabili, al punto che i soldati avevano dovuto dar fondo alla preziosa carne essiccata e a mattare le bestie anche per il trasporto. Si vendeva a prezzo ignominioso del mosto ma la terra, marcia d’acqua, aveva prodotto uva scadente da rivoltare lo stomaco. La pancia non si riusciva a riempirla adeguatamente da montare la guardia, figurarsi marciare e combattere. Ogni tanto qualcuno tornava da qualche perlustrazione con del cibo, a malapena sufficiente per sé e pochi compagni. Se ritornavano, caduti in qualche dolina dell’insidioso Montello o scannati dai contadini nascostisi nelle grotte.

I litigi per il cibo erano all’ordine del giorno, specie tra francesi e tedeschi, quest’ultimi dalle mani ognora lunghe sulle misere scorte dei cisalpini.

Le incessanti piogge costringevano ad una costante manutenzione di armature e armi, inumidendo le polveri da sparo e il fango di quella terra sostanzialmente paludosa rubava letteralmente le loro calzature, alcuni rimanendo pertanto scalzi onde evitare di perderle o in attesa di un bottino migliore per sostituirle. L’apatia era tale, che neppure le puttane di campo interessavano più, preferendo ognuno restarsene o per i fatti suoi o coi suoi commilitoni, a domandarsi quale morte l’aspettasse, se o per malattia o in battaglia,  e un poco rimpiangendo la loro terra natale, abbandonata a causa dell’allettante promessa di facile bottino in quel Paese di Bengodi com’era stata loro da anni descritta l’Italia.

Ogni tanto, da qualche angolo non precisato del campo, s’elevava un fastidioso concerto di grasse tossi catarrose e raschi di gola seguiti da sputi e gemiti di chi non riusciva più a respirare col naso.

O il rumore della terra scavata per tumulare chi non respirava affatto.

Quand’ecco che l’inaspettato squillo di tromba ridestò l’accampamento dal malsano torpore in cui era da giorni sprofondato.

Una stanca eppure festante esclamazione di giubilo si levò all’ingresso del maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in testa ai rinforzi portati da Vicenza. Sia tedeschi che francesi, accantonando le loro divergenze, gli erano andati incontro, salutando il comandante e i nuovi compagni e ovviamente adocchiando famelici il carro dei viveri.

Eppure, chi aveva occhi per vedere non gioiva: da Vicenza era giunta una barzelletta di rinforzi, sia in termini di uomini che di munizioni.

Uguale sconforto lo stava assaporando in quell’esatto momento anche il de La Palice, guardandosi intorno smarrito e incredulo: aveva lasciato un campo abbastanza completo di soldati e invece gli si presentava il desolante spettacolo di un branco d’ammalati macilenti e di prostitute. Le barche per attraversare il Piave erano ridotte a moncherini carbonizzati. Le fosse coi cadaveri aumentate e i rami degli alberi ornati più di impiccati che di foglie. Il campo emanava ovunque un tanfo nauseabondo di carne putrescente, d’erbe marce, di terra bagnata e di feci.

Il francese allungò il collo verso il padiglione di Mercurio Bua e dove attorno stava la sua compagnia; deglutì malamente appurando quanto il fallito attacco di Treviso l’avesse quasi dimezzata. Aveva udito della debacle dell’albanese, soltanto che non si figurava un tal disastro.

Tutti, giurò tra sé e sé il furibondo l’uomo, tutti i suoi sottoposti gli avrebbero dovuto spiegare molte cose e dettagliatamente.

Lecha Busicchio irruppe nella tenda del collega, tallonato da Zilio Madalo. “Il maresciallo è tornato!”, annunciò tutto d’un fiato.

Puntellandosi al contrario pigramente sui gomiti, Mercurio si grattò la testa, sbadigliando sonoramente. “E dovevi proprio svegliarmi in sì malo modo per comunicarmelo?”, disse affatto compiaciuto di quell’eccesso di zelo. Il magro pranzo non l’aveva sfamato e si sa che ci dorme mangia, tanto era convalescente e aveva ogni sacrosanto diritto di poltrire.

Grugnendo il Bua si pose seduto, osservando soddisfatto l’eccellente processo di risanamento della sua coscia: invero quella sua lesta guarigione aveva un che di miracoloso, considerando come cinque giorni addietro il cerusico se lo fosse disputato alla morte a dadi e scalpello. L’animo superstizioso del condottiero ne dedusse che la fortuna stava pian piano ritornando ad arridergli e quisquiglie quali il de La Palice e le sue rogne non gli avrebbero di sicuro guastato il ritrovato buonumore. Neppure gli ultimi fastidiosi rimasugli di febbre. Alla faccia di chi gli diceva ch’aveva contratto il Male Innominabile e già gli cantava la Messa da Requiem.

L’albanese gioì un po’ di meno quando, postosi in piedi, la gamba ferita cedette al primo passo, sbilanciandolo rovinosamente e se Thomà gli sfuggì eseguendo una circense capriola, Hironimo si ritrovò a fungergli da materasso, assorbendo in totum l’urto della sua caduta, il fiato mozzato da quel massiccio corpo.

Perlomeno, Zilio e Lecha accorsero solerti a liberarlo di tal peso morto e il giovane Miani ritornò a respirare, la mano premuta all’addome, avendogli involontariamente dato Mercurio una gomitata proprio sull’antica ferita.

Sicché, non trovando modo di sciogliere la catena che l’aveva ingarbugliato al prigioniero, l’albanese si risolse d’aprire la manetta, anche perché l’arrivo degli altri comandanti significava per Hironimo ritornarsene nel suo angolino dietro la tenda. Se non fosse stato per i ceppi, le cavigliere e soprattutto il collare con la palla di cannone, che lo costringeva disteso sul pagliericcio, il giovane veneziano ne era quasi contento, rassicurato e protetto dall’intimità di quella mea. Nondimeno, ritornare a tu per tu col fetore della stuoia umida d’acqua e fango e l’innaturale posizione riversa gli sconquassarono ugualmente le budella, rischiando di fargli vomitare la poca colazione consumata, se non fosse stato per il provvidenziale intervento di Thomà che gli tappò la bocca, costringendolo a ricacciare tutto indietro.

Inoltre, da quella mattina Miani percepiva un acuto dolore alla gola, non dissimile a quello provocato da una spina di pesce e ogniqualvolta tentava di deglutire, gli sembrava d’avere un sasso ad ostruirgli l’esofago. Doveva aver dormito a bocca aperta oppure era disidratato, si disse giustificando quel nuovo e persistente malessere.

Hironimo tossicchiò di prova e gli parve d’aver due tenaglie ora, oltre al collare.

“Cos’era quella?”, udì il giovane la seccata domanda del condottiero da dietro la tenda. Senza neanche degnarlo di una risposta, il patrizio si rigirò sul fianco e si mise a richiamare quanta più saliva in bocca, così da inumidire la gola irritata.

“Bevete, patron”, gli offrì solerte Thomà la sua ciotola d’acqua, dopo essergli gattonato accanto. Gli offrì poi un pezzetto di pan nero, previamente salvato dall’ultimo pasto e che aveva tenuto nascosto sul fianco ossuto, dentro la mutanda.

Miani si voltò di scatto, gli occhi nerissimi spalancati. “Ripeti!”, gli ordinò perentorio, disdegnando le vivande, più interessato a squadrare fissamente il perplesso fantolino.

“Patron?”

“Che disestu?”

“Mi?”

“Parla de novo!”

“Mi no gh’ho dito gnente, mi!”

“Cossela sta voze da masorin?” (anatra selvatica, ndr.)

Il biondino decenne si grattò colpevole il collo, ingobbendosi contrito. “A me dole ea golla, patron”, ammise infelice.

“Da quanto?”

“D’eri.”

“Et ti, ebete, ti no te m’avverti?!”

“Cospetto, patron!”, esclamò di rimando Thomà tra l’incredulo e il deliziato. “Anca vui gh’avé la voze da galina! Semo compagni horra et podemo orar Sen Biasio tuti et do!”

“Cancaro d’un puto, te scortego la fazza a furia di s-ciafoni, altro che i peteni de Sen Biasio!” [3]

Poco incline a beccarsi lo scappellotto castigatore per la sua impertinenza, il bambino sbrodolò lesto un’intellegibile sequela di piagnucolosi miagolii e paternostri-avemarie, mulinando esagitato le braccia, finché il troppo parlare gli rubò il fiato e il patrizio si ritrovò il viso ventilato da una lunga e profonda tosse secca.

La tenda si scostò bruscamente.

“Cos’è questa cagnara?”, ringhiò Mercurio Bua, sostenendosi su di una sorta di gruccia sotto l’ascella e vestito di tutto punto col corsaletto già indosso, presagendo infatti un’eventuale visita da parte del maresciallo de La Palice alla sua tenda. Gli occhi dell’uomo scandagliarono ogni minimo dettaglio della “cella” del suo prigioniero, dalla ciotola vuota appoggiata sul pagliericcio al veneziano che si premeva il viso del moccioso contro il petto. “Ebbene?”

“Parlavamo, o ci è proibito anche questo?”, sibilò astioso Hironimo con tono di voce sospettosamente basso e roco, neanche fosse ubriaco.

Mercurio avanzò piano verso di lui. “Chi dei due tossiva?”, inquisì aspro.

Il giovane Miani si scorticò petto, esofago e gola fino alle lacrime in un roboante colpo di tosse. “Io”, mentì, peccato che poi gli venne da tossire sul serio, rimanendo per un istante senza fiato e pure gli venne da sputare, cosa che fece senza rimpianti e per di più ai piedi di uno schifato Mercurio.

Un’espressione sgomenta impallidiva tuttavia il volto da convalescente del condottiero, che per una volta non seppe cosa ribattere, specie dinanzi al biancastro grumo per terra. Imprecando stizzito, si voltò per andarsene ma ecco che uno starnuto lo bloccò.

“Di nuovo io?”, si strofinò Hironimo il naso, sforzandosi con ogni fibra della sua persona d’ignorare il muco e la saliva sulla sua camicia, cortesia di Thomà che ci aveva starnutito sopra.

Gamo ti poutana mou!”, inveì ruggendo Mercurio, zoppicando rapido verso uno dei suoi cassoni e in un battibaleno Miani si ritrovò ad acchiappare più o meno al volo una pesante coperta di lana. “Vedi di un creparmi!”, gli intimò snervato il capitano di ventura, chiudendo malamente la tenda, nel frattempo che abbaiava ordini ai suoi sottoposti, il suo umore decisamente guastato.

“Faccio quel che posso, ma non t’assicuro un bel niente!”, lo sfotté poco convinto Hironimo, intento al contrario nella difficile operazione di avviluppare con la coperta sia lui che Thomà, ostacolatagli infatti dalle catene e la palla al collo. Sicché il piccino, pigliando in mano la situazione, afferrò il panno e fatto cenno al più grande di stendersi, lo sistemò sopra di loro.

Quel ritrovato tepore sarebbe stato pure una bella sensazione, se il giovane patrizio non si fosse ritrovato a contemplare le smorfie del bambino mentre deglutiva a fatica, all’occasione interrotto da timorosi colpetti di tosse, che Thomà soffocava sotto la coperta, sulla paglia. Non avendo nulla da fare, il fantolino d’un tratto incominciò a sbadigliare, si stropicciò gli occhi e serrando la mano contro lo scollo della camicia del Miani, si addormentò così da ignorare i crampi della fame e del mal di gola.

Vegliando accorto sul dormiente piccino, Hironimo gli massaggiava intanto dietro la schiena, tra i capelli, tentando di dargli un poco si sollievo. Espirò a lungo, più che altro per impedire di tossire anche lui, emettendo così un penoso ibrido tra un gemito e un ansimo e gli sembrò d’esser pure lui scorticato dai pettini di ferro di San Biagio.

 

 

***

 

 

“Ponti?”

“Esatto: se non possiamo scendere con le zattere, lo faremo costruendo dei ponti man mano che procediamo verso Treviso. Legna, come potete vedere, qui non manca.”

“In questo modo terremo anche occupati i soldati, così da evitare eventuali diserzioni o, Dio non voglia, sollevazioni. È inutile rimanere qui a marcire a Montebelluna: bisogna muovere il campo, adesso o mai più.”

Mercurio Bua arcuò un sopracciglio in direzione del conte Gianfrancesco di Gambara, sorpreso da quell’inusuale supporto da parte sua.

“Esatto”, reiterò  l’albanese, “avete sicuramente sentito della spedizione di Giovanni Forti da Orte? Di come abbia distrutto a Noale dei mulini? O, come da me previsto, della distruzione del ponte di Bassano per opera di Giampaolo Manfrone di Schio?” e alla risposta positiva degli astanti proseguì: “Ci stanno sia affamando, sia creando terra bruciata attorno. Non possiamo tergiversare, maresciallo, una decisione deve esser presa, anche a costo di disobbedire all’Imperatore!”

Riunitisi per comodità il de la Palice e il resto dei comandanti nel suo padiglione e ascoltato il predicozzo del francese con la medesima svogliatezza dello scolaro impenitente, Mercurio Bua non aveva perso tempo e subito dirottava l’argomento su questioni più urgenti, ossia decidere se continuare l’impresa di Treviso o di tornarsene a Verona a svernare, ritentando in primavera. Ormai l’estate volgeva al termine e considerate le premesse, si prospettava un autunno infame e un inverno da lupi, fattori non ideali per cingere d’assedio una città così ben fortificata.

“Cesare Borgia conquistò la rocca di Ravaldino in gennaio”, ricordò Giulio Sanseverino al Bua. “E anche quella era considerata imprendibile.”

Du Molard e de Boissy convennero, memori di quel famoso assedio che aveva tenuto in scacco per quasi un mese il Valentino e tutta Italia col fiato sospeso. “Saint-Séverin ha ragione: perché dovrebbe Trévise sottrarsi da un destino analogo?”

“Perché, monseigneurs? Perché da allora son trascorsi ben undici anni”, fu la semplice e disarmante replica di Mercurio Bua. “I tempi sono cambiati. Gli ingegneri militari sono cambiati. Il nemico stesso è cambiato. Se pensate d’assediare Treviso alla stessa maniera di Ravaldino, allora è meglio che ce ne torniamo tutti a Verona a farci un bell’esame di coscienza e magari testamento!”    

Treviso sarà anche stata una città-fortezza in via di perfezionamento, aveva concluso l’albanese, ciononostante rimaneva comunque una fortezza alla moderna, progettata e costruita ad hoc per respingere gli attacchi della medesima artiglieria che tanto aveva sconvolto le sorti d’Italia. I comandanti francesi lì presenti stavano inoltre sottovalutando un altro fattore importantissimo, ovvero che il provveditore Zuam Paulo Gradenigo poteva contare non soltanto sul supporto militare di compagnie di ventura ormai avvezze a combattere contro cisalpini ed imperiali, ma anche sul pronto e fedele sostegno della popolazione locale, vantaggio di cui l’irriducibile Contessa di Forlì non aveva potuto giovarsene ai tempi di quel lontano assedio.

Galeazzo Pallavicino ci tenne però a puntualizzare: “Verissimo, il vostro previo scontro sotto le mura di Treviso ha confermato la preparazione bellica della città. Tuttavia, bisogna anche considerare che i nostri numeri appaiono di gran lunga superiori rispetto ai loro. Possiamo infatti contare sulle truppe ausiliari del Duca di Brunswick, di quelle stanziate a Castelfranco e a Soave. Lo stesso Giovanni Gonzaga è disposto ad unirsi a quest’impresa. Perché rinunciare proprio ora, quando siamo ad un passo dalla meta finale?”

Tutte le teste si voltarono in direzione di Mercurio, il quale a onor del vero non possedeva alcuna risposta precisa a riguardo, soltanto l’eco di una brutta sensazione che non l’aveva più abbandonato, dopo la cocente sconfitta sotto le mura di Treviso.

Le prime ombre vespertine e il conseguente consiglio di guerra l’avevano infatti sorpreso ancora intento a terminare gli ultimi dispacci, nello specifico al contino di Melzo Galeazzo Sforza e a Sebastiano d’Este, ambedue stanziati a Soave assieme a buona parte della compagnia di Federico Gonzaga da Bozzolo. Li aveva avvertiti di non abbassare la guardia, insospettito dalle continue e serrate sortite da Padova delle bande di Ferigo Contarini, di Zuam Paulo Manfron, del conte Guido Rangoni, di Giano di Campofregoso e ovviamente dei parenti di Lecha, i Busicchio al gran completo. Pareva che i provveditori di Padova Christofal Moro e Polo Capello e il vicegovernatore Fortebracci di Montone avessero dato ordine ad ogni capitano di ventura di sbizzarrirsi in incursioni a loro piacere, colpissero dove volessero. All’apparenza a caso, eppure il Bua intuiva uno schema di fondo. Quale però?

“Evidentemente, questa serie di continue sconfitte incomincia a pesare sul vostro giudizio tattico, o mi sbaglio?”, lo stuzzicò Teodoro Trivulzio.

“Pah, a Garigliano c’eravate anche voi!”, lo rimbeccò astioso l’albanese. “Così come tra i vincitori c’era l’Orsini degli Anguillara cui stiamo per andare incontro! Scommetto che gli farà piacere rivedervi!”

Anticipando un probabile battibecco tra i due offesissimi condottieri, il conte di Gambara s’intromise, tagliando la testa al toro: “Non è il numero, bensì la qualità. Ora come ora, non possediamo sufficiente artiglieria né polvere da sparo per sostenere un lungo assedio. Per questo concordo col capitano Bua: prima attacchiamo, prima toglieremo a Treviso ogni possibilità di terminare il rafforzamento delle mura. Prima attacchiamo, prima evitiamo di finire sbranati dai nostri stessi soldati.”

“Maresciallo, a voi l’ultima parola.”

Eletto a Salomone in quella contesa, Jacques de Chabannes de la Palice si ritrovò dunque inguaiato nell’ingrato compito di mettere d’accordo ciascuno senza scontentare chicchessia. Una bella gatta da pelare e tutto perché Maximilian ancora tergiversava nel raggiungerli di persona, le sue promesse solide quanto il vento di burrasca.

Soit”, sentenziò grave il francese, “l’impresa di Trévise continuerà e non per obbedienza nei confronti dell’Empereur, bensì per non venir meno alla parola data: ne va del nostro onore. Se Maximilien è un codardo e preferisce vincere dalla sicurezza delle retrovie, non significa che dobbiamo esserlo anche noialtri”, disse e un mormorio d’assenso si diffuse nel padiglione, malgrado l’irrispettoso aggettivo rifilato al Re dei Romani. Soltanto i capitani tedeschi strinsero piccati la bocca, sennonché neppure loro potevano descrivere altrimenti il comportamento ambiguo dell’Habsburg, né giustificarlo all’infinito. 

“La maggior parte del campo verrà levato stanotte stessa per trasferirlo a Villorba. Non appena il capitano Bua si troverà nelle condizioni adatte per viaggiare, provvederà di occupare Nervesa così da controllare più da vicino ogni transito sul Piave e colà assicurarci il trasporto fluviale dell’artiglieria”, proseguì imperterrito il de la Palice, tracciando il percorso sulla cartina con la punta della ferula. “Nel frattanto daremo ordini di tagliare legna, in modo da costruire ponti per guadare il fiume. Infine, invieremo un trombetta a Padoue per annunciare un futuro assedio da parte nostra, così da confondere il nemico e guadagnare tempo; una piccola compagnia da 300 s’avvicinerà invece quanto più vicino possibile a Trévise, onde capire a che punto siano nella costruzione delle cinta murarie, se non compiere addirittura qualche azione di disturbo.”

“Quest’ultima meglio di no”, gli suggerì Mercurio, cui non piacevano gli sprechi. “Per il resto, mi trovo d’accordo. Voialtri?”

Du Molard, de Boissy, Pallavicino, Sanseverino, de Gambara e gli altri comandanti convennero, chi con maggior e chi con minor entusiasmo ma almeno non sorsero obiezioni.

Con l’augurio all’albanese di pronta guarigione e di tenerli aggiornati sulle sue condizioni di salute, il maresciallo de la Palice dichiarò terminato il consiglio, congedando i presenti.

“Signor conte!”, chiamò il Bua il nobile bresciano, mentre questi s’apprestava ad uscire dalla tenda assieme ai suoi commilitoni. “Volevo ringraziarvi per il supporto di oggi. Non me l’aspettavo, se posso esser sincero.”

Gianfrancesco di Gambara fece spallucce. “Dovere”, replicò laconico.

Mercurio però non desistette, trattenendolo di nuovo. “Posso inquisire di questo vostro mutamento d’animo? Considerate le nostre passate e accese divergenze, voglio dire”, precisò, studiando attentamente ogni singolo rictus del volto del suo interlocutore, in cerca forse di una contraddizione o di una conferma della sua buonafede.

“Il vostro appassionato discorso s’è rivelato assai illuminante”, gli sorrise ambiguo il conte, abbozzando ad un inchino. Quand’ecco, che le guance gli si gonfiarono ed egli coprì immediatamente la bocca sull’incavo del gomito, tossendo ferocemente.

“Pure voi! Mi sembrate assai pallido, signor conte, vi sentire bene?”, s’informò apprensivo il Bua, pur tenendosi a debita distanza dal bresciano che effettivamente sfoggiava un viso tirato e giallognolo.

“Un piccolo raffreddamento, niente di cui preoccuparsi”, liquidò in fretta la questione di Gambara, respirando a lungo onde riprendere fiato e massaggiandosi il petto dolorante. Si schiarì la gola, nettandosi l’angolo della bocca con un fazzoletto. “Già sto migliorando. Queste piogge e questo umido … Piuttosto, perché dite Pure voi? Vi siete ammalato?”

“No, non io …”, mormorò pensoso l’albanese, fissando di striscio dietro la tenda, ignaro di come Gianfrancesco di Gambara avesse subito seguito il suo sguardo, registrando mentalmente ogni dettaglio.

 

 

 

***

 

 

Al Castello tra Porta Altinia e Porta Santi Quaranta, sier Marco Miani deambulava lungo le mura come suo solito, insonne.

Nonostante gli altri gentiluomini suoi commilitoni assegnati alla ronda di quel tratto si fossero più volte offerti di sostituirlo, il trentenne patrizio rimaneva fermo nella sua decisione di non schiodarsi da lì, neanche ne fosse dipesa la sua vita. Si muoveva talmente inquieto e silenzioso da scambiarlo per un fantasma, impressione esacerbata dal tremulo riflesso delle torce sul suo corsaletto in contrasto col nero della notte.

Montare di guardia aiutava Marco a non pensare; il tarlo del senso di colpa infatti rodeva con maggior gusto in presenza della moglie e dell’amico di suo fratello minore, imprigionandolo in un vortice senza di fine di “E se …?”, scenari dove egli riusciva ad appendere a testa ingiù Mercurio Bua e a riprendersi indietro Hironimo.

Helena lo aveva rassicurato e più volte delucidato quanto la cattura del solo condottiero poco avrebbe cangiato la situazione del ragazzo; malgrado ciò, il prurito di stringere le mani attorno al collo dell’albanese non s’era facilmente assopito. Di pari passo si nutriva la sua frustrazione dinanzi a quello stillicidio d’attesa caratterizzata da informazioni tra di loro contraddittorie, laddove un giorno i Collegati parevano voler abbandonare l’impresa di Treviso e un altro dove sarebbero giunti entro la settimana.

Miani si mordicchiò nervoso il labbro inferiore, sfilandosi i fastidiosi guanti di cuoio e liberando le mani bendate, i palmi rovinati da calli e vesciche a causa dei frenetici ritmi di costruzione delle mura e di demolizione degli edifici ad esse adiacenti.

Quella mattina era toccato ai monasteri di Santa Maddalena e di Santa Chiara, bruciati e smantellati brutalmente; alla Madonna Granda, invece, si avanzava con maggior prudenza onde non rovinare la Cappella della Devotissima e l’affresco miracoloso. Lavoravano tutti senza sosta – militari e civili – perfino i capitani Vitello Vitelli e Renzo di Ceri erano stati scorti per ben due ore trasportare pesanti carriole cariche di materiale edile.

Tali impegnative attività avrebbero dovuto fiaccare chiunque, cullandolo la sera nel dolce sonno del giusto. Al contrario, Marco si sentiva doppiamente vispo e vigile e ogni picconata se l’immaginava rispettivamente sulla faccia del Bua, del Re dei Romani e del Re di Francia.

“Sier Marco”, l’attirò una voce alle sue spalle. L’uomo si voltò, sorridendo al nuovo arrivato.

“Patron”, salutò egli sier Alvixe da Canal di sier Lucha, il quale incominciava il suo turno e curiosamente portava con sé due boccali di terracotta.

“No ghe xé a sto mondo na pì mejo medesina per ste fiebri et pesti”, gli rivelò complice il patrizio, cedendogli il caldo bicchiere dal cui odore Miani intuì trattarsi di acqua calda, miele, zenzero e qualche goccetto di acquavite, abbastanza da riscaldare il sangue e disinfettare la gola ma non da ubriacare.

“Obligao, grassie!”, levò il boccale a mo’ di brindisi, schioccando in approvazione le labbra. “Bona, al zinepro?”

“Solum al zinepro!”, ridacchiò sier Alvixe. “Novità?”

“Nol se move gnanca na foja” e prendendo un secondo sorso, Marco domandò al concittadino: “Sta storia di la peste … ea xé vera?”

Da Canal aggrottò la fronte, la bocca ridotta ad una linea dura. “48 casi a Veniexia ancuo, medici et spezieri xéli tutti in arme, pronti al besogno. Mi spero ch’i mii puteli i stagi ben, im protetitione di la Madona”, mormorò cupo, roteando in maniera circolare il caldo liquido fumante, la mente rivolta alla consorte e ai suoi figlioletti, l’ultima volta che li aveva visti tutti lì a circondare come pulcini la gonna della madre.

Miani accolse in silenzio la notizia, limitandosi a vuotare d’un tratto avido il boccale, lo stomaco stretto da una molesta fitta d’ansia: da parecchi giorni correvano dicerie di focolai di peste in tutta la regione e aveva ardentemente sperato ch’essa non raggiungesse mai Venezia. A quanto pareva, di nuovo le sue preghiere non erano degne d’esser esaudite e altro non gli restava se non augurarsi che nessuno della sua famiglia la contraesse.   

“El sier Alvixe da Riva el va a ripatriar diman a Veniexia. Sòo fradelo sier Vizenzo resta qui inveze.”

“Xélo messo cussì mal?”, strabuzzò incredulo Marco gli occhi, incapace di concepire il rapido deterioramento della salute del collega, con cui aveva condiviso molte ronde notturne. Lo sapeva certo ammalato in letto con la febbre, ma non al punto da dover rientrare in sì gran fretta a Venezia.

Sier Alvixe da Canal aprì appena la bocca per meglio spiegargli la questione, quand’ecco che il concitato suono di una campana lo interruppe, ponendo ambedue i patrizi sull’attenti. “La vien dai Santi 40!”, esclamò l’uomo, mentre una seconda campana più vicina alla porta cittadina veniva suonata, presto seguita da una terza e da una quarta. “Xéla ea compagnia dil Cypriam de Forlì!”

Di riflesso Marco scattò alla campana del loro camminamento, agitando il batocchio quasi volesse spezzarlo ed ecco che nemmeno in un battito di ciglia l’intera Treviso diveniva una cacofonia di scampanate, cui tosto s’aggiunsero quelle di ciascun campanile della città, svegliandola, nonché gli echi sempre più incalzanti e netti dell’ordine:

“Arme! Arme!”

Destatisi di colpo dal rumore di pesanti passi correre giù per le scale, madona Felicita e Donado Cimavin balzarono giù dal letto, correndo alla finestra, spalancandola apprensivi.

“Arme! Arme!”

Da ogni casa si riversavano sulle strade gruppi di soldati, tutti miracolosamente armati quasi si fossero costì coricati. Anche Marco Contarini, per quanto scarmigliato e con la barba sfatta, saliva preparatissimo in groppa al suo cavallo.

“Coss’elo sto strepitare? Che accade?”, urlò Cimavin al giovane patrizio, il quale tenendo a freno l’irrequieto animale gli esplicò succinto:

“Franzosi et todeschi!” e battuti i tacchi sui fianchi del cavallo, sparì rapido alla sua postazione.

Manco avesse il Contarini evocato il demonio, grida terrorizzate si librarono una dietro l’altra nella notte e ogni finestra della contrada s’illuminò, mentre i suoi abitanti in maniche di camicia s’armavano di un qualsiasi oggetto contundente, sprangando le entrate.  

Anche Donado e suo padre Jacopo scattarono all’azione e presero rispettivamente una vecchia spada e una picca; dopodiché si posero dietro il portone dopo averlo rinforzato con sedie e cassapanche. Felicita con in braccio un piangente Jacopino, madona Helena Spandolina in Miani, Luzia e Malgari correvano nell’angolo più remoto e riparato della casa, brandendo la greca l’ascia per la legna e le serve una mannaia e un lungo coltello per affettare il pane.

“Arme! Arme!”

Il nitrito degli irrequieti cavalli degli stradioti si confuse alle loro colorite imprecazioni, mentre essi in gran fretta li sellavano, cavalcando poi verso la piazza in un uniforme e roboante clamore di zoccoli sui sanpietrini, i loro comandati Teodoro Clada e Giovanni Paleologo in testa.

“Animo! Animo! Per Agios Georgios! Animo!”

La fantesca di madona Malipiero spalancò folle di terrore la porta della camera della padrona, incespicando per poco ai suoi piedi, la quale assieme al valletto aiutava il marito sier Zuam Paulo Gradenigo ad indossare gli ultimi pezzi dell’armatura.

“Franzosi! Todeschi! I xéli zonti qui a Trevixo!”, singhiozzò disperata, facendosi il segno della Croce. “Miserere nobis!”

“Tasi, a fifar no te xé d’ajuto!”, la rimproverò invece aspramente il provveditore, sortendo tuttavia l’effetto desiderato. Afferrato l’elmo e indossatolo, con delicatezza circondò il viso di sua moglie Maria, fissandola lungamente dritta negli occhi.

La donna lo baciò forte.

“Dove sono i balestrieri porco diavolo?”, inveì il capitano Vitello Vitelli, girandosi attorno e sbuffando sollevato alla vista di Naldo di Brisighella e la sua intera compagnia far capolino assieme agli archibugieri capitanati da Piero di Novelon.   

“Pronti, capitano!”

“Ai vostri posti, non siamo qui per menarcela!”

“Ma … ma cosa sta succedendo?”, gli chiese disorientato il collaterale Piero Antonio Bataja, giunto la mattina precedente a Treviso da Padova per far rapporto alla Signoria e come tutti letteralmente sbrandato giù dal letto, l’unico però a rimanere senza un preciso compito nel vespaio in cui s’era trasformata la città.

“Un drappello di francesi e di tedeschi è stato avvistato a meno di un miglio dalle mura e minaccia di venirci incontro.”

“E questo quando?”

“Meno di un’ora fa!”

Il cremonese reclinò diffidente il capo: se non lo stesse assistendo coi propri occhi, non avrebbe mai creduto possibile un raduno di soldati così rapido e preciso.

“Orsini! Dove sono quei due dannati?”, sbraitò Vitelli alla ricerca di Renzo di Ceri e di Troilo Orsini.

“Rispettivamente al bastione di San Bartolomeo e di San Marco, capitano!”, gli indicò Naldo.

“Chi c’è a quello di Santa Sofia?”

“Vigo da Perugia!”

Vitello Vitelli grugnì in approvazione. “Signor Provveditore!”, accolse egli calorosamente l’arrivo di Gradenigo, accompagnato da sier Lunardo Zustignan e il podestà sier Andrea Donado.

“Quanti avvistati?”

“All’incirca 300, difficile stabilire con questo buio.”

“I bombardieri si trovano alle loro postazioni?”

“Già con la polvere fumante, signor Provveditore!”

“Eccellente!”

“Attendono tutti il segnale di Orlando da Bergamo.”

Il sopracitato presidente delle artiglierie in quel momento stava salendo gli scalini del campanile di San Nicolò a due a due, manco una scimmia.

“Chigasang!”, schiumava per la rabbia e per la fatica il bergamasco. “I coparé tutti, cussì imparan!”, giurò a se stesso, mentre caricava celere il sacro da sei, il dente ognora avvelenato dalla morte del suo maestro, il conte Lattanzio da Bergamo, per mano dei Collegati sotto le mura di Verona. Puntò la bocca da fuoco nella direzione delle fiaccole intravedibili in lontananza e quando i suoi occhi di falco le focalizzarono, calcolata mentalmente la traiettoria, il suo viso si piegò in una smorfia perversamente compiaciuta.

Zuam Paulo Gradenigo levò in alto il braccio, imponendo il silenzio ai soldati più vicini e per imitazione l’intera Treviso si chetò, con l’eccezione del fruscio degli stendardi e dello sfrigolio del fuoco delle torce. Neppure i civili osavano più fiatare.

Dalla sua postazione, il collaterale inviato da Venezia assisteva in rapita estasi allo spiegamento dei battaglioni, gli occhi contesi tra la contemplazione di quello spettacolo e la compilazione del rapporto che stava scrivendo in gran velocità: quando il Campanón de 'l Cànpo ebbe terminato di battere i suoi severi rintocchi, i balestrieri si trovavano a Piazza del Duomo; gli uomini d’arme a Piazza di San Martino; gli stradioti a Piazza del Castello, 600 soldati a Piazza Maggiore e doppia guardia sui camminamenti.

Tutto in un’ora secca dal primo allarme.

La Signoria sarebbe stata invero lieta d’apprendere, quanto i suoi timori si fossero rivelati assai infondati: salvo problemi di mancate paghe, Treviso poteva benissimo opporre fiera resistenza ai Collegati.

“Schifosi soreghi …” (sorci, ndr.), bofonchiò Orlando da Bergamo, accendendo la miccia e, tappatosi le orecchie, si spostò indietro onde evitare il rinculo del sacro.

Un secco colpo di cannone rimbombò per il campanile, scuotendo un poco il batacchio della campana, la quale cantò un breve requiem al drappello di franco-imperiali incautamente avvicinatisi alle mura.

Troppo pochi per azzardare un attacco diretto alla città, ma abbastanza per danneggiarli, forse per distruggere i loro mulini lungo il Sile e a Melma, complice l’oscurità notturna.

Immediatamente da lontano giunsero agli assediati le grida concitate e isteriche del nemico e i nitriti imbizzarriti dei loro cavalli, seguite dallo spegnersi delle fiaccole e dal suono ritmico dei tamburini, che indicavano sia il raggruppamento che la ritirata, come se ciò avesse potuto salvarli da una seconda micidiale cannonata, che sortì l’effetto di ucciderli e disperderli ulteriormente.

“Me cojoni!”, cadde a Renzo di Ceri la mascella, genuinamente impressionato dalla precisione a dir poco chirurgica del bergamasco. “Abbiamo un artista tra noi … Archibugieri e balestrieri, pronti a coprire i cavalleggeri!”

Una compatta squadra di cento stradioti stava infatti uscendo da Porta Santi Quaranta per d’avventarsi su quella disordinata e mutilata dei nemici, terminando l’opera.

 

 

 

 

***

 

 

Il cavaliere Dimitri Spandolin q. Teodoro da Costantinopoli non si stupì, una volta giunto alla parrocchia di San Biagio a Castello, delle furtive occhiate lanciategli da gente apparentemente affaccendata o a lui estranea: a parole Caterina Boccali in Bua (Caterina Minore o "Cate" per distinguerla dall'omonima madre) soggiornava nella casa che fu di suo padre Nicolò, a fatti era un preziosissimo ostaggio della Signoria, sorvegliata a vista. L’inaspettato ritorno di Manoli e Costantino Boccali in seno a San Marco era stato accolto con grande benevolenza, non essendo quelli tempi da rifiutare il benché minimo aiuto; la fama poi del fu capitano Nicolò Boccali, della sua fedeltà e delle sue imprese a Sebenico, Spalato e nella Patria del Friuli aveva assicurato ai suoi figli il pronto perdono per quel loro voltafaccia. Eppure, l’occhio vigile dei Dieci li scrutava accorto, soprattutto la sorella, giacché ancora legata a quel marito alla Repubblica ufficialmente nemico.

Per giorni il cavaliere aveva tentato di approcciarla in maniera tale da non destare eccessivi sospetti sulla cagione della sua visita; l’ultima cosa che desiderava, specie adesso che s’avvicinava il suo rientro per affari a Costantinopoli, era di ritrovarsi a tu-per-tu dinanzi ai Dieci a giustificarsi del suo operato.

Da una parte, il greco si ritrovava spinto da obblighi familiari a quell’ambasciata; dall’altra, da genuina curiosità ché quell’enigma di Caterina Boccali tuttora intrigava l’anziano Spandolin, quel tarlo insinuatosi che forse la donna non fosse mai stata rapita dai suoi fratelli, come ufficialmente narrato, bensì che lei li avesse seguiti di sua spontanea iniziativa, portandosi appresso la figlia e il cognato Teodoro Bua. Da fonti attendibilissime – Venezia era piccola e il quartiere greco di San Biagio ancora più piccolo – il cavaliere aveva appreso come neanche per un istante aveva lei dimostrato grande dispiacere per quella separazione, recandosi al mercato e in chiesa assieme alla sua fantolina senza preoccuparsi della sorte del Bua.

“Kalimera, keeria Aikaterini.”

“Kalos ton, keerie Dimitrios Spandounes”

Spandolin aveva atteso pazientemente fuori dall’edificio sacro, sul sagrato, finché adocchiata la donna non le si era avvicinato con nonchalance, aggregandosi al compatto corteo. Cate stessa finse con estrema naturalezza, pur sorpresa da quella visita, e costì i due camminarono indisturbati fino alla casa della greca, dove ad accoglierli venne loro incontro la piccola Maria e sua nonna, Caterina Arianiti Topia Comnena, sorella del famoso condottiero Costantino Arianiti Topia Comneno e di Andronica, moglie di Giorgio Castriota Skanderbeg.

“Ci perdonerete per la frugalità di casa nostra – noi qui siamo una famiglia semplice”, si giustificò con studiata modestia l’anziana nobildonna albanese, favellando in greco e invitando Spandolin a sedersi e offrendogli una calda bevanda d’erbe e dolci al miele e pistacchi.

Pur esponenti di famiglie di mercenari, madre e figlia si presentavano assai dignitose e aristocratiche nei loro abiti tradizionali, un curioso miscuglio di greco e albanese: sotto, una lunga tunica celestrina dalle maniche lunghe e aperte, chiusa fino al collo da una fila di vistosi bottoni e stretta ai fianchi da una molle cintura; sopra, una sorta di sbernia vermiglia dai bordi foderati in pelliccia. Ai piedi facevano capolino le opinga, le calzature dalla punta all’insù tipiche albanesi. Al collo ambedue le donne indossavano due ampie collane intrecciate in complessi nodi, abbellite da diversi pendagli a forma di palla, vuoti all’interno e formati da una sottile ragnatela di filigrana d’argento, arricchita da piccoli tasselli di corallo e turchese. Al centro del petto, pendeva invece il morčić, un ciondolo in smalto a forma di testa di moro col turbante, comprato durante il periodo di servizio di Nicolò Boccali in Croazia, un portafortuna locale (anche se un po’ macabro) e copia dei più ricchi moretti veneziani, spille decorative in oro, cammei e rubini di cui appunto gli stessi veneziani amavano adornarsi i mantelli.

Similmente alle due donne, anche la casa ostentava una certa malinconica ricchezza nobiliare, piena zeppa infatti di tutti quei preziosi cimeli salvati dopo la caduta di Durazzo che ricordavano alla famiglia gli antichi splendori della prosperità e indipendenza, quando ancora erano feudatari e padroni del loro. L’abile spada dei maschi e le ricche doti delle figlie, ecco cosa rimaneva della morente aristocrazia dei Romei.

“Adesso che Manouel e Konstantinos combattono di nuovo sotto il vessillo di Agios Markos, possiamo finalmente riprendere fiato e concederci qualche piccolo lusso”, dichiarò domina Caterina Arianiti, servendo di persona lo Spandolin, massimo segno di considerazione. Adocchiando le serve sull’attenti dietro le padrone, il cavaliere greco ridacchiò scettico dietro la coppa finemente cesellata, gustandosi l’infuso di erbe amarognole. Qualche lusso, diceva lei. Certo, certo.

“Immagino la cosa vi rallegri.”

“Oh, immensamente”, replicò civettuola domina Caterina, sorridendogli però ambigua. “Vi pare?”

L’Arianiti non aveva mai fatto mistero delle sue simpatie filo-veneziane, forse ereditate da suo padre, il principe albanese domino Giorgio Arianiti Topia Comneno, dopo che questi aveva tagliato formalmente i rapporti col Regno di Napoli. Certamente, ciò aveva per significato tagliare i ponti coi suoi fratelli e perfino con la sua stessa matrigna, domina Pietrina Francone, figlia del barone aragonese Oliviero Francone da Lecce, dov’ella era rimpatriata coi figli una volta rimasta vedova del consorte. Contro il volere della nuova madre e della sorella Andronica, domina Caterina era rimasta invece a Durazzo e da lì a poco aveva sposato il greco domino Nicolò Boccali, capitano di ventura  e altro fedelissimo della Signoria.

Decedutole il marito sei anni addietro e rimasta senza patria a seguito della conquista ottomana di Durazzo, domina Caterina non s’era scoraggiata e grazie alle amicizie a Venezia pur nelle difficoltà economiche aveva trovato modo di barcamenarsi – non s’è mogli di condottieri per vivere nella mollezza. Fierissima, l’anziana nobildonna albanese aveva rifiutato ogni ducato inviatole dai figli, specie se questi introiti provenivano dai nemici della Repubblica. Meglio mangiare un piatto di polenta di miglio ma da uomo libero, che uno d’arrosto ma da schiavo, sosteneva.

“Mi consola sapervi adesso in migliori condizioni e riconciliata con la vostra famiglia. Anzi, mi dispiace non avervi potuto aiutare di più. Greci, albanesi, siamo tutti esuli, qui, dobbiamo soccorrerci a vicenda”, asserì generosamente Dimitri Spandolin.

Gli occhi di domina Caterina si strinsero in penetrante osservazione, sicché il greco comprese come mai s’andava cianciando come perfino il terribile Mercurio Bua provasse una certa soggezione nei confronti della suocera. “Vi ringraziamo, però suppongo voi abbiate dovuto anche badare agli interessi della vostra famiglia. In fin dei conti, i primi a perdere la patria foste voi Greci”, velenosetta frecciatina dinanzi alla poca resistenza dei greci contro i turchi, contrariamente al valore degli albanesi che pur erano considerati dai romei esponenti di una nobiltà minore.

Il cavaliere allargò le mani, concedendole vittoria su quell’argomento. In effetti, pur trasferendosi da Costantinopoli, egli non aveva tagliato completamente i ponti con la madrepatria, tutt’altro, aveva intessuto buoni rapporti commerciali anche col signor Turco, pur di conservare una certa ricchezza e conseguente dignità, ché a Venezia egli non aveva intenzione d’andarci mendicando come altri suoi connazionali. “Si fa quel che si può per sopravvivere. Non amo rimanere inerme in attesa dell’onda che mi travolgerà”, dichiarò bonario.

“Giusto”, convenne lentamente domina Caterina. “Come state in famiglia?”

“Ottimamente. Mia moglie soffre un po’ di reumi per via dell’umido qui a Venetía; i miei figli vivono delle loro condotte e le mie figliole felicemente sistemate coi rispettivi mariti. Mio nipote Nikolaos [4], adesso che non può più proseguire gli studi di medicina a Padova, ha deciso di seguirmi a Costantinopoli. Un bravo ragazzo, molto volonteroso, grande lavoratore e pieno di grinta”, anche se povero in canna, avendo i Da Ponte perduto ingenti beni e proprietà dopo la caduta di Negroponte, da dove traevano le proprie ricchezze. Ma ciò aveva giovato comunque lo Spandolin, avendo avuto infatti egli in progetto di accasare le figlie con patrizi veneziani, acciocché non fossero più considerate delle straniere, finalmente tranquille e protette. Una famiglia economicamente disagiata non era una famiglia schizzinosa e non badava troppo da dove provenissero i danari. E in fin dei conti i suoi generi non gli davano grandi grattacapi, tranne forse per quel pirata saraceno di Marco Miani, che se il greco non stava attento, quello sfacciato di suo genero sarebbe stato capacissimo di portargli via perfino le mutande.

Per amor di sua figlia il cavaliere aveva deciso di aiutare il fratello di quel tanghero. Solo per lei.

“La mia Eleni, invece, si trova a Trevizo col suo consorte”, la buttò lì casualmente Dimitri, osservando attento il rossore sparire dalle gote di Cate e l’occhiata furtiva di domina Caterina in direzione della figlia.

“Ah, capisco …”, mormorò assente la giovane donna, giocherellando nervosamente col bordo della manica.

“Vostro marito, fra poco potrebbe condurre lì il campo.”

“Lo so”, ribatté seccamente la Boccali, alzandosi e portandosi alla finestra, là dove si mise a contemplare senza particolar gusto la riva sottostante e il viavai di gente sul ponte e delle gondole in canale. La figlioletta Maria, udito il nome del padre, prontamente la seguì, cingendole il fianco con un che di protettivo.

“Saprete anche che il fratello di mio genero Markos Mianes, Hieronymos, è suo prigioniero.”

Gli occhi neri della donna guizzarono rapidi in direzione del cavaliere Dimitri, per poi ritornare al suo inquieto studio del paesaggio urbano. “Sì, ne ho sentito parlare”, ammise infine. “Mi dispiace per lui.”

“Stiamo cercando di avvicinare vostro marito per avanzargli una somma di danaro, onde riscattare il ragazzo. Purtroppo vicende varie ce lo impediscono. Voi, forse, potete aiutarci”, instette Spandolin.

Cate cacciò fuori un profondo sospiro, passandosi una mano sulla fronte. “Da voi non accetterà neanche un soldo”, gli confessò triste, facendo cenno ad una fantesca di portar via seco la bambina, segno che ci si stava addentrando in acque non consone alle sue innocenti orecchie. “Non è la prima volta che mi manda simili ambasciate, ma è la prima che ricorre a tali stratagemmi. Dunque è ricorso adesso allo scambio di prigionieri pur di riavermi indietro?”

“Siete sua moglie”, gli ricordò imperturbabile il cavaliere, “avete l’obbligo di seguire vostro marito, ovunque egli vada.”

“Sua moglie, certo. Ma non un cavallo né un suo sottoposto da comandare. Né un oggetto di cui disporre a suo capriccio”, lo contraddisse feroce Cate, le iridi nere luccicanti di battagliero fuoco. “Troppo spesso Maurikos s’è scordato chi io sia, da quale famiglia io provenga.”

“Nondimeno, anche se costretta dai vostri fratelli, il vincolo del matrimonio rimane sacro e inviolabile; nessuno vi si deve intromettere.”

“Lui per primo l’ha infranto!”, s’intromise domina Caterina, stringendo i pugni sulle ginocchia. Dopodiché, ricomponendosi in fretta, dichiarò solenne: “Noi restiamo agli ordini della Signoria. Se vuole che ce ne andiamo, obbediremo. Fino ad allora, però, non abbiamo intenzione d’abbandonare Venetía. Già in passato abbiamo perduto una patria, se possibile vogliamo evitare di ripetere una seconda volta tale atroce esperienza.”

Di fronte a quell’ostinatezza, il sospetto che Caterina Boccali in Bua avesse disertato di sua spontanea iniziativa il consorte incominciava a materializzarsi in certezza. Tuttavia, Spandolin necessitava della prova finale. “Ma se voi domandaste alla Signoria di lasciarvi partire, sicuramente non avrà nulla da obiettare. A meno che più che di lei, voi non temiate la reazione dei vostri fratelli”, gettò l’amo, in attesa di quale risposta avrebbe pescato.

L’inaspettata risata di scherno da parte di Cate lo colse un poco impreparato. “A chi credete debbano i miei fratelli e mio cognato il pronto perdono della Signoria nei loro confronti? Io non posso tornare dai Collegati, non dopo quello che ho fatto.”

Il cavaliere Dimitri strabuzzò gli occhi, disorientato. “Prego?”

“Contrariamente a mio marito e ai miei fratelli” e la bocca della donna si piegò manco avesse pronunciato un improperio, “non ho mai dubitato, io, della mia fede in Agios Markos”, gli spiegò, ritornando a sedersi accanto alla madre, la cui mano afferrò a mo’ di sostegno per quanto stava per rivelare. “Contrariamente a loro, non siamo delle ingrate. La Signoria ci ha sempre protette, ci ha offerto aiuto quando gli altri Stati lavandosi le mani di noi ci hanno lasciato in balia dei Turchi. Dov’era quel vanaglorioso francese, quel Re Cristianissimo quando Durazzo cadeva? Dov’era quell’altrettanto borioso Imperatore quando mio padre dovette fuggire dalla Morea? Dov’era il Papa? Se ne stettero tutti quanti al sicuro nel loro bel palazzo col culo al caldo, ecco dove! A contar soldi e ingrassare alla stregua di capponi! Ed io dovrei schierarmi con questi codardi, questi “cristiani” per sentito dire? E per cosa? Per denari ottenuti da ruberie? Per terre su cui loro ancora non comandano? Quando l’Imperatore nominò conte mio marito, glielo dissi: cosa ti può dare Maximilianos, quando nulla di quanto possiede è in realtà suo? Ti dona il fumo, per quest’ultimo stai sacrificando il tuo onore e la tua vita?”

Spandolin si ritrovò a convenire suo malgrado. Le sue simpatie politiche al massimo s’erano sbilanciate verso i napoletani, ai tempi della Lega tra Venezia, Napoli e il Papato nel lontano 1472, ma neanch’egli tollerava l’arroganza francese e tedesca, il loro concetto di difendere la cristianità esplicato nel turpe massacro di altri cristiani.

“Per anni ho seguito fedelmente Maurikos, anche se ciò m’ha condotto lontano dalla mia famiglia. Come da voi affermato, il marito è il marito e va obbedito. Ma ci sono cose che …”, Cate s’interruppe, portandosi due dita alla bocca, il viso un’espressione d’acuto dolore. Domina Caterina le circondò le spalle col braccio.

“Seguendo mio marito, mi sono imbattuta appieno nella brutalità della guerra e ho sopportato tutto per amor suo: il degrado morale degli accampamenti, la fame, la miseria, la malattia. Ma questa guerra che si protrae da due anni … No! Per me fu troppo.

“Voi ignorate che razza di bestie siano i francesi e i tedeschi. Voi non avete visto come soffocarono col fumo quei vecchi, donne e bambini riparatisi nelle caverne a Vitséntsa, pur di farsi rivelare l’ubicazione degli ori e dei danari – neanche stessero sterminando degli scarafaggi! O come trasformarono Feltre in un mattatoio, macellando alla stregua di vacche la popolazione inerme -  per quale soddisfazione poi? O a Verona, dove quel maledetto principe-arcivescovo di Trento addobbava la città impiccando civili indiscriminatamente a destra e a manca! Questa terra mi ha accolta, keerie Spandounes, mi ha ridato la vita, la amo e non potevo tollerare di vederla così martoriata! Né volevo essere un’indiretta complice della sua fine!

“Sicché, quando giungemmo l’anno addietro da Soave a Verona assieme alla compagnia del Principe di Anhalt, ne approfittai per mettermi in contatto con mia madre. Sapevo che lei poteva aiutarmi a rimpatriare. Così come sapevo delle spie veneziane in città.

“Mi misi in contatto con loro; mi chiesero fin dove mi sarei spinta per rientrare in grazia della Signoria, quale prova potevo offrirle della mia lealtà. A mia volta domandai loro, se stessero alludendo ad una testa in particolare. Mi risposero: la Signoria vuole quella dell’Anhalt. Sappiamo che è malato, quanto può durare?”

Spandolin deglutì, incominciando a comprendere il macabro disegno.

“Il principe austriaco risiedeva al palazzo pretorio. Il viaggio da Soave l’aveva assai debilitato. Neanche noi, d’altronde, ce la passavamo meglio. I Veneziani tenevano il campo ad Agios Martínos, pronti a dar assedio; l’Imperatore non pagava né mio marito né i miei fratelli, checché ci rabbonisse il principe-arcivescovo di Trento e gli altri comandanti. Il generale malcontento giocava a mio favore.

“Al che, proposi all’Anhalt di trasferirsi da palazzo pretorio alla casa di Dominikos Marioni, come indicatomi dalle spie. Gli spiegai come lì si sarebbe trovato meglio, in un edificio più sano e accogliente, lontano dal continuo andirivieni di gente. Avete bisogno di riposo assoluto, lo blandii, non ne troverete certo a palazzo. L’Austriaco mi credette e come non poteva? Il Marioni, in apparenza, era filo-imperiale ed io ero la moglie di uno dei comandanti favoriti dall’Imperatore stesso. Una volta lì, divenni volontariamente cieca e sorda su quanto stesse accadendo in quella casa. L’Anhalt v’entrò vivo, ne uscì cinque giorni dopo morto. Inutilmente cercarono di occultarne la morte; i provveditori veneziani già ne erano a conoscenza.”

Cate chiuse gli occhi, la mente volata a quella lontana settimana, in cui giorno dopo giorno osservava l’effetto della polvere di diamante mischiata al cibo dell’Anhalt, la quale, straziandogli le viscere, lo torturava con una lenta e dolorosa agonia, contorcendosi esso nel letto, consumato sia dalla malattia contratta a Soave sia dal veneficio somministratogli ad arte. Che il principe fosse già ammalato era un segno di Dio, s’era detta, e la Sua mano colpisce forte quando l’uomo la guida. Loro s’erano soltanto limitati ad affrettargli il trapasso.

La donna si sovvenne dei visi preoccupati del principe-arcivescovo di Trento Georg von Neideck e di Monsignor Ru, delle lacrime del valletto e dello scudiero dell’austriaco e dell’espressione cupissima di suo marito Mercurio Bua, tanto che la donna all’epoca aveva temuto se stesse sospettato qualcosa.

Si ricordò dell’immobile volto di cera di Rudolf von Anhalt-Dessau aus dem Haus der Askanier illuminato grottescamente da quattro ceri, domandandosi a quale giudizio fosse andato incontro ora che si trovava dinanzi a San Pietro. Per via delle orride brutalità commesse contro chi non poteva difendersi, Cate aveva sperato nel budello più profondo dell’inferno.

“Con la scusa di spedire il feretro dell’Anhalt in Austria da suo fratello ed erede, mio marito ne aveva approfittato per recarsi da Maximilianos e lì reclamare la paga arretrata. Così, senza la sua ingerenza, andai dai miei fratelli ed esposi loro la situazione. L’Imperatore e il Re di Francia combattevano una guerra perduta in partenza, cosa speravano d’ottenere? Promettevano tanto, ma cosa di concreto li avevano offerto? Fu un rischio da parte mia, lo confesso, però fuggire e lasciare indietro Manouel e Konstantinos … Ironia della sorte, quando andai da loro già stavano progettando di disertare assieme a mio cognato Theodoros, solo che temevano nell’inflessibilità della Signoria …”, ridacchiò amaramente la donna, mordicchiandosi il mignolo. “I miei fratelli mi proteggono sostenendo d’avermi rapita, però … Non posso tornare da Maurikos. Non così, una traditrice ai suoi occhi.”

Sporgendosi verso di lei, Dimitri Spandolin tentò un nuovo approccio: “Comprendo il vostro motivo e il vostro sacrificio per aiutare la Signoria. Siete stata coraggiosa e leale. Siatelo di nuovo, ora. Permettete che le venga restituito questo suo figlio. E magari, come a suo tempo avete persuaso i vostri fratelli e vostro cognato, forse riuscirete a convincere anche vostro marito a ritornare a servire sotto il vessillo di Agios Markos.”

Cate levò gli occhi neri, asciugatisi all’improvviso dalla patina di lacrime e induritisi in due pietre d’onice. “Impossibile”, sentenziò brutale. “Vi giuro che il mio cuore piange la sorte di quel ragazzo e pregherò l’Agia Parthena Maria giorno e notte per la sua liberazione, ma per nessun motivo al mondo ritornerò da Maurikos.”

“E’ un capitano di ventura, servire il migliore offerente è insito nel suo mestiere, non potete più di tanto biasimarlo per le sue scelte”, non demorse il cavaliere Dimitri. Ben celato dallo scudo del patriottismo, egli percepiva un altro motivo dietro la granitica testardaggine della Boccali. Qualcosa di più oscuro. Di più personale. “I vostri stessi fratelli …”

“Mio marito”, l’interruppe bruscamente Cate, il volto torvo di collera “cambiando bandiera, mi ha allontanata dalla Patria del Friuli, da mio padre. Mi ha impedito di raggiungerlo al suo capezzale, mi ha negato la sua ultima benedizione per quanto l’avessi supplicato di lasciarmi partire! Niente, neppure dinanzi al mio strazio quel cuore di diavolo si lasciò commuovere! E questo, Agios Georgios mi è testimone, finché vivrò non glielo perdonerò mai. A meno che …”

“Che?”, l’incalzò speranzoso Spandolin, lo stomaco in subbuglio a quella confessione. 

“Rivuole mio marito indietro sua moglie e sua figlia? Soltanto quando avrà giurato fedeltà ad Agios Markos e strisciando, in ginocchio, egli avrà supplicato il mio perdono!”

Iddio invero protegga l’uomo dalla ferocia di una donna furibonda e chi ride dinanzi a tale massima si consideri solo uno stolto fortunato.

 

 

***

 

Sier Francesco Contarini figlio del provveditor d'armata sier Hironimo detto “Il Grillo” corse a perdifiato in direzione a Palazzo della Ragione, là dove i due provveditore e cognati sier Christofal Moro e sier Polo Capello stavano discutendo assieme al vicegovernatore il conte Bernardino Fortebracci da Montone circa la recente ambasciata da parte di un emissario del maresciallo de la Palice, il quale annunciava la decisione dei Collegati d’attaccare Padova al posto di Treviso.

“Se questa nuova fosse vera, sarebbe stato davvero imprudente da parte nostra sbilanciarci così!”, lamentava il Fortebracci. “Specie dopo aver inviato a Treviso i nostri migliori bombardieri!”

“La Palisse ne racconta talmente tante da non risultare più credibile”, ragionava sier Christofal Moro, appoggiandosi sul bastone, dandogli noia la gamba ammalata. “Inoltre, la strada è troppo lunga per arrivare fin da noi senza incappare nelle nostre bande. Non correrà il rischio di ripetere la rotta di Marostica.”

“A meno che La Palisse non abbia intenzione d’assediare Padova dopo Treviso; questo significherebbe che la città non si trova sufficientemente fortificata …”, presagì il peggio il provveditore Capello.

Avvicinatosi al suo conterraneo sier Ferigo Contarini, il quale ascoltava in disparte e in religioso silenzio assieme a Giano di Campofregoso, sier Francesco gli porse la missiva appena giunta da una staffetta.

“Signori”, attirò su di sé l’attenzione il provveditore degli stradioti, sventolando teatralmente le carte. “Un messaggio da Treviso. Forse questo dipanerà gli ultimi nostri dubbi.

[…] zonse ancuo domino Constantin Paleologo, capo di stratioti, e disse, i nimici ser levati et venuti mia 5 lontan di Trevixo, e li soi cavali lizieri venuti mia 2 lontan di qui per botinizar.

 

Dize che franzosi et todeschi xéli  10-12 milia fanti et homeni d’arme 1200, et cavali lizieri 5000 tra stratioti, corvati e taliani; artelaria grossa boche 16, canoni, falconeti e altre artelarie menude, et xeli per vegnir a questa impresa cum animo di far cosse assai, et Trevixo li speta cum lo ajuto de Dio, cum bon animo et cuor, perché lì temeno di cossa alcuna.

 

Un terzo dei niminici xélo fato di amalati et femene, et ogni dì ne moreno assa’, anca di fame. Item, per uno altro venuto dil campo, avisa di l’artellarie venute, et sono boche 6 et 5 fra falconeti et sacri, et che in campo di todeschi xéli zonto solum cavali 3000 di l’imperador, et no si aspeta più.

 

I nimici alozerano a Villa Orba, perché ancuo gh’han spento un squadron di cavali lizieri,

et, per quello si judicha, domenega si ianteranno le sue artelarie soto questa terra. Nostri stanno con bon cuor et animo, et spera, i nimici si partirano cum vergogna etc.

 

Sier Zuam Vituri zonse. Etiam Antonio di Castello cum li soi provisionati et alcuni xéli rimasti a Mestre. Etiam è zonto Maphio Cagnolim, qual à posto in castello. Item, gionseno li X contestabeli mandati, cum uno fameio per uno; zà messi in exercitio. […]

 

“Allora, che vi pare? Dobbiamo ancora credere a questa provocazione del La Palisse?”, cedette la lettera sier Ferigo ai due provveditori, acciocché se la passassero, leggendola con calma. “E’ palese che stesse mentendo: l’impresa rimane a Treviso, dove mi sembrano più che pronti a dar il benservito ai Collegati. La Palisse voleva confonderci e nel panico dividerci. Invece, adesso noi gli dimostreremo il contrario!”

“Che cosa proponete, signor Contarini?”, inquisì intrigato il vicegovernatore.

Il giovane provveditore ghignò sinistramente. “Con vostra buona licenza, avrei bisogno almeno di cinquecento tra balestrieri e cavalleggeri, tutti insonni e ben motivati!”

“A qual fine?”

“Cospetto! Per rispondere all’ambasciata del La Palisse”, spiegò dolcemente sier Ferigo. Quand’ecco che i suoi occhi s’illuminarono di gioia assassina. “A Castelfranco.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

***************************************************************************************************

 

Ovviamente, circa la morte dell’Anhalt rimangono supposizioni, non essendoci prove concrete che sia stato effettivamente assassinato. Ciononostante, le dinamiche della sua improvvisa morte rimangono tuttora assai misteriose e troppo ghiotte per non ricamarci sopra.

Questo capitolo è un po’ il punto di svolta della storia, nel senso che finalmente il la Palisse ha deciso di muovere le chiappe e di procedere con questo benedetto assedio! Povero Mercurio, impiegato sottopagato e pure incompreso!

Quanto alla natura banderuola del conte di Gambara è assolutamente vera, sebbene il suo coinvolgimento nel piano circa liberare il Nostro rimane una nostra invenzione.

Orlando da Bergamo aveva sul serio una mira pazzesca, colpendo chiunque sia di notte che di giorno, Sanudo conferma.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

 

Un po’ di noticine:

 

[1] La Nona era la campana del Campanile di San Marco che indicava mezzogiorno.

[2] Purtroppo non siamo riusciti a reperire tutti i nomi delle figlie di Zaccaria Contarini. Tuttavia, considerando il nome delle sue nipoti (figlie di Paolo/Polo), delle altre donne di famiglia (i.e. suocera) e tenendo presente come certi nomi ritornassero frequenti in famiglia, abbiamo supposto le Contarini mancanti potersi appellare "Maria" e "Camilla".

[3] orar Sen Biasio / peteni de Sen Biasio = San Biagio di Sebaste fu un vescovo e santo armeno vissuto e martirizzato nel IV secolo. Suo simbolo iconografico sono i pettini di ferro con cui si dilaniò il suo corpo. San Biagio è invocato come protettore contro il mal di gola e i raffreddori, in quanto il più famoso dei suoi miracoli attribuitigli fu il salvataggio di un bambino che stava soffocando dopo aver ingerito una lisca di pesce. Il 3 febbraio in alcune chiese ancora si celebra la benedizione delle gole, di solito appoggiando due ceri uniti a croce di Sant’Andrea sul collo del fedele (o circondando il collo coi ceri, a seconda delle varianti).

[4] nipote Nikolaos = ossia Nicolò Da Ponte, figlio di Antonio Da Ponte e di Regina Spandolin, diverrà nel 1578 Doge di Venezia. Siccome poco si sa di lui dal 1511 fin quasi al 1532, è probabile che si diede alla mercatura anche per risollevare la situazione economica della famiglia, forse seguendo il nonno materno negli affari. Nel 1520 si sposerà con Arcangela da Canal figlia di Alvise da Canal di Luca, che in questo racconto si trova assieme a Marco Emiliani alla custodia di Treviso.

 

  
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