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Autore: Giulia1098    21/09/2020    0 recensioni
Dodici giardini per dodici ragazzi, dodici mesi, ingranaggi di un sistema perfetto, ma limitante. Questa è la storia di Maggio, di come decise di voler assaggiare di più del mondo e delle sue storie e così scoprì grandi misteri nascosti, così scoprì l'amore
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Maggio riprese i sensi nel mezzo di un bosco tetro e scuro. Non capiva perché si fosse ritrovata proprio lì, solitamente quando viaggiava verso la terre le sue mete iniziali erano prati, spazi aperti, dove nell’aria aleggiava ancora un ultimo ricordo di Aprile, quella volta invece si era risvegliata immersa tra le foglie secche e putrescenti di un vecchio bosco.
Gli alberi erano alti, dai fusti magri e scuri, e le loro coltri coprivano il sole che faceva fatica a filtrare fin laggiù, lasciando spazio ad altri tipi di flora, come funghi che crescevano a ridosso delle grandi radici.
Si tirò su a sedere intontita. Non c’era infatti alcun motivo per il quale si sarebbe dovuta trovare lì, era molto strano, ma decise di non farci troppo caso, alla fine un bosco è sempre un bosco e lei era pur sempre Maggio il suo compito non cambiava sia che partisse da un prato sia che iniziasse da una selva scura.
Con grande fatica si mise in piedi. Si era dimenticata come sulla terra i loro corpi acquistassero più materia, più peso e sostanza, soprattutto con questi acciacchi e dolori vari.
Le sue gambe, già instabili, facevano fatica a reggerla in piedi e le fitte alla testa, che nel suo giardino le parevano così forti, ora erano vere e proprie scariche elettriche, unghiate che le si conficcavano nelle tempie. Che fosse questa la sofferenza che gli esseri umani dovevano patire ogni giorno? Voleva dire questo avere un corpo? Per una frazione di secondo ringraziò il destino di essere quello che era, non avrebbe sopportato una vita passata nel dolore della carne, ma mentre pensava a questo sentì qualcosa di caldo e liquido bagnarle le guance.
Spaventata guardò verso l’alto, ma dai rami niente le stava gocciolando addosso, titubante portò le dita affusolate della mano sulle gote e sorprese calde e salate lacrime rigarle il volto. Perché stava piangendo? Non ne aveva idea, ma sentiva un dolore apprensivo, un misto di preoccupazione e nostalgia, al pensiero di vivere una vita da mortale, eppure non riusciva a cogliere il perché di quel dolore e di quel pianto.
Non aveva motivo di essere triste, era vero che sulla terra il suo corpo acquisiva più presenza che nel suo giardino, ma tutto questo durava solo un mese, così come accadeva per i suoi fratelli, per cui perché quel dolore? Perché quell’apprensione? Verso chi erano rivolti?
Le sembrava di non aver più il controllo su nulla, a partire dalle sue emicranie invasive fino a queste emozioni misteriose. Che tutto questo fosse legato in un qualche modo con il comportamento di Aprile e di sua madre? Forse le era successo veramente qualche cosa di grave e loro non glielo volevano dire, forse era gravemente malata e la volevano tenere all’oscuro di tutto.
Sciocchezze, sciocchezze, pensò, se un tuo caro è malato ti presenti ad accoglierlo quando si reca da te, non scompari nel nulla ignorandolo e non lo tratti come se ne avessi paura quando lo vai a trovare. Sono stati solo meschini con me ed io non so ancora il perché.
Ancora amareggiata per gli avvenimenti di poco prima si portò a fatica avanti nel basco, rinvigorendo i fusti degli alberi e facendo nascere frutti rossi nei cespugli e negli arbusti, ma con sua grande sorpresa si accorse che più avanzava in quel luogo, più la temperatura si abbassava.
Fatto strano, doveva forse trovarsi molto a nord nel mondo, sapeva di alcuni luoghi che rimangono freddi tutto l’anno, luoghi in cui il conte Inverno regnava sovrano ed era difficile che la primavera potesse veramente sopraggiungere, tanto meno l’estate, ma lei non si era mai spinta a tanto, si era sempre tenuta un poco lontana da quei posti, lasciando che le emanazioni di sé li raggiungessero e donassero anche agli uomini di lì dei benefici, ma sempre nel rispetto dei meccanismi del mondo. Non aveva certo mai portato fiori e frutti laddove esisteva un ghiaccio perenne.
Eppure lì in quel luogo non avrebbe dovuto far così tanto freddo, ma più avanzava più si scopriva a frizionarsi energicamente le braccia nella speranza di racimolare un poco di calore.
Ad un certo punto i suoi piedi calpestarono un terreno strano, morbido ed umido come se fosse stato troppo imbevuto di acqua e si accorse che qua e là, sparse per il sottobosco, si trovavano macchie di neve.
Neve! Come era possibile che ci fosse della neve?! E più avanzava più ne trovava, da macchiette sparse, erano diventati interi spazi bianchi, fino a che il manto candido non aveva coperto tutto il terreno ed infreddolito fino all’osso i piedi scalzi di Maggio.
Stranamente non era però spaventata da quel fenomeno, avrebbe dovuto esserlo, pensò, Dovrei averne paura, neve in piena primavera, come è possibile? Ma perché non ne ho paura? Ed infatti sentiva dentro di sé un sentimento di affinità con quella neve, come se le fosse amica.
Ci sono dei posti, su al nord, dove mi chiamano Morte, ma io non sono la Morte, è grazie a me se poi ci sarà la vita.
Chi aveva detto quelle parole? Perché ora le erano comparse nella memoria? Qualcuno di importante, sì, ma chi? Qual era il suo nome? Non fece in tempo a concentrarsi un po’ di più che subito una scarica elettrica le attraversò il cranio. Si portò una mano alla fronte, era proprio stanca di quelle emicranie.
Avanzò ancora un po’ nella neve, ormai le arrivava fin sopra le caviglie e le dita dei piedi erano diventate blu dal freddo.
Poco più avanti c’erano dei bambini. Giocavano spensierati a ridosso del bosco, tutti imbavagliati come se fosse inverno, anche se non lo era, ma il freddo ingannava facilmente. Si lanciavano palle di neve e ridevano a crepapelle quando riuscivano a colpire un compagno, mentre quello faceva finta di cadere a terra ferito a morte, per poi agitare braccia e gambe disegnando figure nella neve,  che loro chiamavano angeli.
-Miscia! Attento Vlad è dietro di te!- aveva urlato un bambino nascosta dietro ad un albero e Miscia in fretta si era voltato non riuscendo però ad evitare il colpo dell’altro bimbo nascosto a sua volta. Tutti e tre caddero a terra tra sonore risate -Che bello che la neve sia rimasta quest’anno! – stavano dicendo nel frattempo due bimbe in disparte occupate a costruire un bel pupazzo di neve.
-Hai proprio ragione Irina, certo che se ci fossero dei fiorellini potremmo decorare Anya, così sembra molto spoglia- disse la bambina dai capelli corvini.
Maggio, intenerita, si portò accanto a loro e soffiò un alito caldo sulla testa del pupazzo di neve. Da questo presero a sbucare piccoli fiorellini bianchi e blu che disegnarono una bella corona sul capo di Anya, ma che, dato il freddo, appassirono in fretta.
Le bambine rimaste a bocca aperta si guardavano stupefatte a vicenda -Sei stata tu Tamara?-
-No, no certo che no, io ti ho vista Irina che dicevi formule magiche- la bambina divenne paonazza -Ma cosa dici?! Io non ho aperto bocca?!- accanto a loro i tre ragazzini non avevano smesso di lanciarsi palle di neve e non si erano accorti di nulla -Dici che dovremmo dirlo alla mamma?-
-Io penso di no, alla fine erano solo fiori giusto? Non abbiamo fatto niente di male? Io non lo racconterei proprio a nessuno- ed incrociandosi i mignoli a vicenda suggellarono questo patto sacro tra di loro.
Le due vennero però interrotte da un bambino che puntava il dito in lontananza poco più in là nel bosco
-Sono Aleksej e Sascia! Sono tornati dalla caccia!- Tamara prese la mano inguantata di Irina e la tirò su in piedi -Finalmente ero stufa dei cavoli, magari mamma questa sera cucinerà qualche arrosto, ho una fame!-  Irina si sistemò la gonna bagnata su cui erano rimasti dei fiocchi di neve che erano lì lì per sciogliersi -Davvero. La neve mi piace, ma si mangiano sempre cavoli- fece una linguaccia per esprimere tutto il suo amore per quella pietanza ed insieme agli altri ragazzini si lanciarono giù, verso il villaggio dove Aleksej e Sascia erano praticamente ormai arrivati.
Maggio guardò quel gruppo di bambini correre felici verso la loro cena. Sorrise di fronte alla loro spontaneità e felicità.
Si sentì improvvisamente stanca, infreddolita ed affamata. Se, come dicevano, i due uomini erano appena tornati dalla caccia, non avrebbe certo dato fastidio a nessuno se si fosse intrufolata in qualche casa a scaldarsi a fianco di un camino. Magari avrebbe preso qualche tozzo di pane caldo per sfamarsi, ma nulla di più, aveva intuito che quelle fossero terre povere e non voleva sottrarre loro più dello stretto necessario.
Scese a fatica il declivio in direzione di un villaggio che sorgeva a ridosso di un fiume ghiacciato. La vista la lasciò di stucco, non aveva mai osservato in vita sua spazi così ampi e tersi, il bianco del cielo, sintomo di una bufera imminente, si perdeva con la coltre candida che ricopriva il suolo. La terra amoreggiava con le nuvole, perdendosi in loro in un tutt’uno che le lasciava i brividi.
Ancora meravigliata per la vastità dello spazio arrivò al villaggio. Aveva qualche cosa di familiare: c’erano un gruppo di case di legno con i tetti spioventi, i camini sputacchiavano scie di fumo biancastro che si perdevano nel cielo, confondendosi con i nuvoloni, le finestre erano tutti occhietti vispi, gialli e luminosi, che regalavano scorci di vite familiari custodite al loro interno.
Al centro del villaggio sorgeva un edificio più grande degli altri, con un’alta torre. Le sue campane stavano suonando, Maggio contò otto rintocchi secchi.
E lì accanto a quello strano edificio, un albero maestoso attirò la sua attenzione. Era un grande melo, i cui pomi rossi svettavano dalla chioma, intatti, come se il gelo non li avesse nemmeno sfiorati una volta, le radici affondavano in una terra pulita, rorida e scura, su cui la neve non riusciva ad attecchire.
Strano, pensò, come è possibile? Qui in mezzo alla neve? Come hai fatto a non addormentarti come i tuoi fratelli? Ma in fondo pensò che fosse ancora più strano che in quel momento dell’anno ci fosse tutta quella neve, eppure, nonostante la vocina razionale della sua testa le continuasse a ripetere che qualcosa non andava, che forse avrebbe fatto bene ad avere paura, lei si sentiva a suo agio come se quel posto non le fosse poi così estraneo.
Posò una mano sul tronco scuro dell’albero, poteva sentire il cuore interno di quello battere vitale. Possibile che… ma il suo pensiero fu interrotto dalla corsa di un bambino -Aliocha! Aliocha! Tirami su! La mamma vuole le mele per il suo arrosto!- il bambino saltellava come un grillo cercando di raggiungerle con le sue manine, ma i rami erano visibilmente troppo alti per lui.
Un ragazzo allora si fece avanti e con le mani se lo caricò sul collo così che potesse cogliere con facilità i frutti rossi e maturi. Maggio non poteva vederlo in volto, perché le dava la schiena, ma sentì dentro l’ansia ribollirle.
Non aveva avuto paura fino a quel momento, non aveva temuto il comportamento di Aprile, né l’assenza della madre, non si era spaventata per il suo arrivo né per la neve, eppure ora quella massa di capelli così biondi da sembrarle bianchi, stava animando in lei il panico più puro e viscerale.
-Sai Aliocha- diceva intanto il bimbo mentre si riempiva la camicia di frutti -tu non eri ancora arrivato, ma poco più di un anno fa, Dio qui ha fatto un miracolo! E’ per questo che anche se fa freddo abbiamo sempre tante belle mele-
-Lo vedo proprio che è un miracolo- rispose di rimando il ragazzo. Quella voce, quella voce era così familiare e la scosse nel profondo.
-Tu proprio non ricordi nulla Aliocha? Non è che ti è tornato qualche ricordo?- il ragazzo mise giù il bambino fin troppo carico di frutti -No, Miscia, te l’ho già detto, nulla- si voltò.
Il mondo di Maggio in quel momento smise di esistere. Il vento, la notte, il freddo, nulla rimase davanti ai suoi occhi, sulla sua pelle, nulla che potesse sentire o odorare, vedere o toccare, al di là di quel ragazzo, al di là di quei capelli bianchi, non biondi, di quella bocca affilata, di quegli occhi gelidi.
Come aveva potuto dimenticarlo? Come aveva potuto scordarsi di lui? Come aveva potuto cancellare Dicembre?!
Sconvolta, tremante e confusa seguiva passo per passo le due figure che si allontanavano verso la loro casa, senza accorgersene stava mettendo i piedi sopra le esatte impronte che Dicembre lasciava sulla neve.
E pian piano, passo dopo passo, i ricordi che non era mai riuscita a ricordare affioravano lenti alla sua memoria, senza più mal di testa a frenarli. Il suo soggiorno sulla terra, la casa abbandonata, i viaggi, Core, il processo, la paura e l’amore.
Tutto riprese senso nella sua mente e la lasciò sconvolta allo stesso tempo, come aveva potuto dimenticarsi di lui?! Si sentì terribilmente in colpa per averlo fatto.
I due erano arrivati alla soglia di casa. Miscia era già entrato lasciando i suoi stivali zuppi sull’uscio, Dicembre stava levandosi i suoi.
-Dicembre- sussurrò lei in lacrime. Era felice di averlo trovato, felice di averlo ricordato, ma si odiava per averlo anche solo dimenticato, per aver lasciato che capitasse. Aleksej si voltò, aveva sentito qualcosa nel buio della strada, un soffio caldo che sapeva di fiori e frutti, un richiamo antico a qualcosa che un tempo gli era appartenuto.
-Dicembre sono io, sono la tua Maggio. Non mi riconosci? - la voce le si era incrinata, prossima alla disperazione più totale, si rendeva conto che quello che era stato Dicembre e che ora era Aleksej poteva percepire che qualcosa c’era, che lei era lì da qualche parte, ma non riusciva a vederla, non la poteva né sentire né vedere perché ormai era un uomo come gli altri. Ma non era uno come gli altri per lei.
Avrebbe voluto abbracciarlo, avrebbe voluto stringerlo a sé e farsi stringere da lui, avrebbe voluto dirgli che sarebbe andato tutto bene, avrebbe voluto urlagli quanto gli era mancato senza che neppure lei se ne accorgesse, in quell’amnesia impostagli, avrebbe voluto chiedergli scusa per aver lasciato che capitasse, eppure tutto quello che disse fu -Sono qui- un’ultima volta, la voce ormai un sibilo di dolore e tristezza, ma in quel momento un’altra donna si fece spazio tra loro due.
Era bella e florida, dai capelli color dell’oro e dalle labbra carnose, Maggio provò istintivamente invidia ed antipatia per lei.
-Aliocha, che ci fai qui fuori ti prenderai un raffreddore! Non ti ho certo curato per farti morire poi di polmonite no?- lui si voltò sorridendole ed il fantasma dei fiori che stava lì davanti a loro odiò con tutto se stesso quel sorriso che non era per lui -No certo, scusami mi era sembrato di sentire qualcosa, ma forse era solo il vento-. Chiuse la porta.
Maggio rimase lì, davanti all’uscio, incapace di piangere e muoversi, sconvolta ed addolorata. Lei per lui era diventata solo vento.
 
 
 
   
 
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