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Autore: rose07    17/10/2020    0 recensioni
Due anni.
Erano passati due anni da quando Taichi aveva smarrito sé stesso. Da quando la vita a Kyoto gli stava stretta.
Due anni da quando Yamato aveva iniziato ad andare alla deriva. Da quando il silenzio lo aveva risucchiato.
Due anni.
Erano passati due anni da quando Mimi aveva lasciato la persona che amava. Da quando il suo sorriso era meno sincero.
Due anni da quando Sora aveva riscoperto una parte di sé tenuta nascosta. Da quando le cose avevano preso una piega differente.
Tratto dalla serie: "Stay together in the end".
Genere: Erotico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Mimi Tachikawa, Sora Takenouchi, Taichi Yagami/Tai Kamiya, Yamato Ishida/Matt
Note: Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stay together in the end ( ? )'
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Taichi amava la pioggia. Amava la sensazione di avere il viso e i capelli bagnati, mentre correva a perdifiato per il campo di calcio. Amava il fatto che arrivasse così, senza preavviso, scatenando una tempesta a cui era impossibile resistere.
Lui però era forte, si disse. Era così forte che avrebbe sfidato tutto e tutti pur di appropriarsi di quel pallone che adesso si trovava ai piedi dell’avversario e di portarlo con sé in un percorso ad ostacoli che precedeva la meta finale.
La vittoria.
Un po’ com’ era la sua vita, pensò, mentre correva, trascinandolo con sé. Un lungo percorso per arrivare ad unico obbiettivo, un obbiettivo da sempre desiderato, un obbiettivo che aveva rappresentato per tanto tempo il sogno della sua vita.
Sorpassò con facilità gli avversari, sentendo la pioggia intensificarsi di più. Lo avrebbe inzuppato, ma non l’avrebbe certo piegato al suo volere.
Perché lui era Taichi Yagami, e niente avrebbe potuto sottometterlo.
Sorrise tra sé, mentre si avvicinava alla difesa. Poteva scorgere i volti dei suoi rivali cambiare espressione, mentre si preparava a tirare.
Qualcuno pensò di fermarlo, provò a tirarlo dalla maglia, cercando di sottrargli il pallone con scarsi risultati. Troppo tardi.
Lui era Taichi Yagami e segnava sempre.
Ci furono dei secondi di silenzio in cui l’unico rumore che poteva udire oltre la pioggia era il battito accelerato del suo cuore. Si accasciò sulle ginocchia, che cedettero improvvisamente, e sentì i suoi compagni di squadra che urlavano e festeggiavano. Alcuni gli si lanciarono di sopra, stringendolo in degli abbracci calorosi, altri gli spettinarono i capelli bagnati, gridando il suo nome come se fosse un dio da osannare.
Guardò la porta d’innanzi a sé, notando il portiere avversario che imprecava e si dannava, chiedendosi cosa mai avesse sbagliato.
Tai pensò che anni fa tutto quello lo avrebbe portato alla felicità immediata. Tutto il clamore di aver vinto, la soddisfazione di ricevere complimenti, i cori dei tifosi che lo appoggiavano, la consapevolezza di aver raggiunto il suo obbiettivo. Volse lo sguardo al cielo grigio, mentre la pioggia picchiava sempre di più.
Cosa cercava adesso?
Era una domanda che si ripeteva costantemente. Tempo fa avrebbe risposto senza esitare. Ma adesso... Adesso per la prima volta metteva in discussione tutto.
Non era più sicuro che quella vita fosse ciò che realmente desiderava. Non era più sicuro che tutta quella felicità fosse autentica. Non era più sicuro di voler stare lontano dalla sua famiglia e dai suoi amici.
«Sei un campione!» gli urlò qualcuno.
Non era più sicuro di essere un campione, e forse non lo era stato mai. Sentì un tuono squarciare il cielo. Alcuni urlarono e corsero via. I suoi compagni finalmente lo mollarono e lui si mise di nuovo in piedi.
Aveva raggiunto la vittoria, ma non era niente in confronto a quel vuoto incolmabile che sentiva nel cuore.
Lentamente, si mise in cammino per raggiungere gli spogliatoi. Tirò un calcio al pallone, rimasto immobile al centro del campo.
Non era questa la vittoria che voleva.
 
 
 
 
 
 
Forse si sarebbe beccato un bel raffreddore, ma poco male. Si sciacquò accuratamente, godendosi l’acqua calda della doccia che scivolava lungo il suo corpo tonico. Era cambiato molto durante il corso degli anni. Il ragazzino adolescente, magro e poco sfilato, aveva lasciato spazio ad un uomo di venticinque anni alto e muscoloso. I capelli castani erano meno ribelli, avevano perso quella forma sbarazzina che lo aveva da sempre contraddistinto. Adesso si guardava allo specchio e quasi stentava a riconoscersi.
Era Tai, ma non era veramente lui. La voglia di ridere e scherzare lo aveva abbandonato lasciando posto ad un grigiume e ad un senso di mancanza che gli attanagliava il cuore. Tutti quegli anni lontani da Tokyo lo avevano segnato nel profondo. Gli mancava persino la più piccola cosa legata a quel luogo. Gli mancava alzarsi la mattina e inspirare quella leggera brezza, gli mancavano quelle lunghe passeggiate in centro, gli mancava quella caoticità calorosa che non lo faceva sentire così solo.
Sospirò, mentre finiva di risciacquarsi. Da cinque anni a quella parte si era sentito sempre solo. Solo in mezzo ad una folla di persone nelle quali lui non si riconosceva.
Gli mancava tanto la sua famiglia. Gli mancava la sua casa accogliente. Gli mancava andare in cucina e trovare sua madre che canticchiava allegramente, mentre preparava il pranzo e gli chiedeva se aveva dormito bene. Gli mancava andare a pesca con suo padre, sorbirsi i suoi pallosi discorsi sulla gioventù e finire sempre per battibeccare perché facevano scappare i pesci. Gli mancava la sua sorellina, Hikari, la luce dei suoi occhi, che lo accoglieva con un bacio sulla guancia e un sorriso... la sua sorellina che adesso era diventata una splendida donna, che frequentava l’università e che non stava vedendo crescere...
Gli mancavano i suoi amici. Gli mancava da morire Yamato, il suo migliore amico, il suo punto fermo, la sua ancora di salvezza... gli mancava ridere e scherzare con lui, gli mancavano i loro lunghi discorsi, gli mancavano i suoi rimproveri, gli mancavano perfino le loro liti... Gli mancava voltarsi e trovarlo sempre al suo fianco...
Gli mancava la sua piccola Sora, gli mancava abbracciarla, ascoltare i suoi consigli materni, bearsi del suo sorriso... lei, la sua migliore amica... Sora, verso la quale provava un affetto così profondo, un senso di protezione, un amore fraterno inossidabile... Lei che aveva sempre aperto gli occhi a lui e Matt... Loro due che erano così importanti...
E poi gli altri... Gli mancava quel cibernetico di Koushiro, sempre così attento e preciso, che con il suo pacifismo e la sua saggezza riusciva sempre a mettere in ordine i casini delle loro vite... Come avrebbero fatto senza quel rosso pignolo?
E il piccolo Takeru, che non era più così piccolo, che era cresciuto e che con il suo ottimismo aveva sempre acceso un lume di speranza in ognuno di loro... Quel biondino che amava divertirsi e godersi la vita, e si pentiva amaramente di aver dubitato di lui, perché non avrebbe visto altro ragazzo al fianco di Kari...
Perfino quel burino di Jyou, quell’impiastro spropositato che alimentava lunghe catene di guai... che con la sua voce acuta e con la sua irruenza, diceva le cose con sincerità senza farsi troppi problemi... che risultava goffo e idiota, ma che era senza dubbio di animo buono e viscerale...
E poi... c’era lei... Mimi...
Quanto tempo era passato? Uno, forse due anni da quando si erano detti addio... Due anni senza di lei, due anni senza sentire la sua voce, due anni senza bearsi della purezza dei suoi abbracci e dei suoi baci... Mimi... che aveva lasciato una ferita ancora aperta dentro di lui... E lui, che adesso si trovava inerme, senza saper bene cosa fare, senza avere la forza di ricominciare... Perso in quell’oblio, svuotato da ogni singola emozione...
Era questo a cui era destinato?
Per seguire il suo sogno, la sua passione aveva dovuto sacrificare tutto, il luogo in cui era nato e cresciuto, la sua casa, la sua famiglia, i suoi amici, l’amore...
L’amore...
Ripensò a lei, pensò a quanto erano felici insieme... Mano nella mano al parco... sorridendo alla vita... stretti nella vitalità della gioventù...
Perché doveva fare così male l’amore?
Quando chiuse il rubinetto della doccia si accorse di aver pianto. Rise amaramente e si asciugò il volto con l’asciugamano.
Era per questo che amava la pioggia, perché confondeva e nascondeva le lacrime.
Ma lui era Taichi Yagami e non piangeva.
Scosse la testa e si rivestì, perso ancora nei suoi pensieri.
Lui era Taichi Yagami e piangeva invece, era un essere umano, amava, soffriva come tutti... e non avrebbe permesso a nessuno di rovinargli l’esistenza, perché adesso aveva capito quale fosse il suo destino, e di certo non era lì, non era in quel luogo, non era con quelle persone.
Per anni aveva dovuto sacrificare le cose che più amava, aveva dovuto mettere al primo posto quella vita, senza poter ritagliare il più piccolo spazio per lui.
Aprì il phon e si guardò allo specchio. Quella persona riflessa non era più lui. Era qualcuno nel quale non si riconosceva, una macchina che obbediva a degli ordini senza avere il coraggio di opporsi.
Il coraggio...
Una volta era il suo simbolo, ma adesso aveva quasi dimenticato cosa fosse.
Eppure ne aveva tanto bisogno, aveva tanto bisogno di evadere da quell’incubo, aveva tanto bisogno di tornare in quella realtà, la sua realtà che per anni gli era stata sottratta.
Adesso sapeva bene che cosa fare.
Udì distrattamente la porta dello spogliatoio aprirsi, e con la coda dell’occhio notò il suo allenatore che si avvicinava verso di lui a gran passi. Posò il phon e si voltò a guardarlo.
«Yagami, devo parlare con te» proferì duro, in un tono che non ammetteva repliche.
Era così, Akira, severo ed esigente. Tentava di manipolare la vita di tutti loro, imponendo delle regole a cui nessuno poteva sottrarsi.
Ne aveva abbastanza dei suoi ordini che per tutti quegli anni aveva dovuto subire.
«Prego» disse Tai, distaccato. Non avrebbe mai più permesso che qualcuno intralciasse la sua vita, perché solo adesso aveva capito quanto era importante.
«Sono venuti a vederti da Osaka e gli sei piaciuto. Dicono che hai molto potenziale e vorrebbero allenarti»
L’uomo lo guardava fisso come se si aspettasse qualcosa, ma lui spostò lo sguardo. Perché tempo fa una notizia del genere lo avrebbe fatto saltare dalla gioia, mentre adesso...
«Hai capito, Yagami?» lo riscosse Akira, mentre il ragazzo annuiva debolmente
«Perciò il prossimo mese sarai trasferito e comincerai con loro»
Che cos’era il coraggio?, si chiese Tai, mentre l’allenatore si allontanava e faceva per uscire dalla porta.
Era qualcosa che aveva da sempre fatto parte di lui, che non lo aveva mai abbandonato, nemmeno adesso, nemmeno adesso che, con i pugni chiusi, fremeva per poter uscire.
«Aspetti» lo fermò, mentre quello si voltava interrogativo.
Sapeva adesso cosa doveva fare.
Lui era Taichi Yagami, e nessuno poteva decidere al suo posto.
«Io non ho ancora dato la mia risposta»
L’allenatore lo fissò basito, chiuse la porta dietro di sé e rientrò nello spogliatoio.
«Forse non hai capito, ragazzo» ripeté, come se fosse un malato mentale.
Il castano ebbe una gran voglia di urlargli in faccia, perché non riusciva più a sopportare che lo si trattasse così.
«Ti vogliono in prima divisione. Verrai allenato nel Gamba Osaka e sarà una buona occasione sia per te che per me, dato che mi pagheranno bene»
Taichi scosse la testa. Sarebbe stato un sogno che si avverava, una vittoria personale a cui aveva aspirato a lungo. Ridacchiò amaramente.
La notizia non gli faceva nessun effetto, adesso. Adesso che aveva capito di cosa aveva bisogno per star bene.
«Ho bisogno di andare a casa» disse lentamente.
Akira rise di cattivo gusto.
«Smettila con i capricci, Yagami, e fila ad allenarti! Devi essere pronto per la prima divisione o ti cacceranno subito»
Non aveva mai mancato di rispetto ad un suo superiore, tranne a scuola, a volte, quando lui e Matt facevano gli idioti con i professori. Non aveva mai risposto per le rime a quell’arrogante di Akira, ma adesso sentiva di scoppiare. Non ce la faceva più. Non riusciva più a reggere il peso di quella vita. Voleva andare via, scappare, e l’avrebbe fatto.
Strinse i pugni.
Nessuno l’avrebbe intralciato.
«Voglio andare a casa, ho detto!» ripeté, arrabbiato. L’allenatore lo guardò sbieco.
«Le partite sono concluse ed io ho il diritto di tornarmene a Tokyo!»
Akira strinse i denti per quell’affronto, mentre Tai sentiva la rabbia crescere a dismisura e tutto il risentimento di quegli anni uscire fuori.
Era per colpa di quel calcio se aveva mandato a puttane la sua vita.
«Io, invece, voglio i miei soldi» ringhiò l’uomo.
Ecco cos’ era diventato, una macchina che produceva denaro. Aveva perso i suoi diritti umani solo per compiacere ad un branco di orditori che non avevano il minimo rispetto per lui.
«E li avrà, ma mi lasci tornare a casa! Non sono il suo cazzo di burattino, mi ha capito? Ho una fottuta vita fuori di qui!»
Aveva urlato così forte da far rimbombare la sua voce per tutti gli spogliatoi.
Si era liberato. Finalmente aveva liberato la sua voglia di evadere. Poteva sentire il peso sciogliersi sotto di lui.
L’uomo lo guardò duro e strinse la mascella. Taichi era un ragazzo forte e determinato e sicuramente gli serviva più di quanto pensasse.
«Una settimana» proclamò, infine, mentre si voltava e raggiungeva la porta.
Tai sospirò, sentendo il cuore battere forte.
«Un giorno in più, Yagami, e sei fuori» aggiunse, poi, tagliente.
Lo lasciò così, con il fiato spezzato e le gambe che gli tremavano. Non poteva credere di averlo fatto.
Si coprì il volto con le mani, stritolato da un vortice di emozioni che non provava da tanto tempo.
Gioia.
Orgoglio.
Libertà.
Coraggio.
Il coraggio di cambiare, il coraggio di ricominciare.
 
Lui era Taichi Yagami e adesso lo sapeva bene. Sapeva bene di cosa aveva bisogno.
 
 
 
 
 



 
*****




 

 
 
 
Aveva da sempre amato il suono che produceva la sua chitarra. Yamato accordò le ultime note, e si perse in quella melodia. La musica gli dava benessere, gli procurava una gioia interiore con cui niente poteva comparare.
Da anni era stata la sua vita, la sua forza, il senso di quell’esistenza malinconica e segnata da sofferenze.
Niente era andato come voleva.
Ma lui era Yamato Ishida e aveva sempre stretto i pugni per andare avanti.
Fin da piccolo, aveva desiderato con tutta la sua anima che sua madre e suo padre tornassero insieme, che fossero di nuovo una famiglia felice, che lui e suo fratello Takeru potessero stare di nuovo sotto lo stesso tetto.
Strinse gli occhi, al ricordo di alcune immagini dolorose. Quando suo fratello gli era stato portato via, gli era stata portata via anche la speranza, e aveva sentito un dolore al cuore, proprio lì.
Qualcosa a cui niente poteva essere paragonato.

 
My brother has always given me
the hope that I’ve ever needed”


 
Più tardi, era riuscito a farsene una ragione, era riuscito ad andare avanti perché aveva conosciuto delle persone speciali che gli avevano fatto riscoprire il senso dell’amicizia, un valore in cui prima di allora non aveva mai creduto.
Avvicinò il microfono e continuò a cantare quel pezzo di canzone.
 

“You’re so brave and so strong, my old friend,
you’re the one that I love”

 
Taichi era la persona che più gli mancava. Avrebbe dato di tutto per passare dei momenti con lui, ma erano mesi che non si vedevano. La sua vita da calciatore lo teneva occupato, lontano per kilometri da Tokyo.
Sospirò con tristezza. Gli mancava da morire Tai... lui era l’unica persona della quale si fidava, era l’unico per il quale nutriva del bene profondo... gli voleva così bene che mai nessuno poteva mettersi a confronto...
Sentì la voce roca incrinarsi. Adesso era da solo. Solo in mezzo a quella marea di gente con la quale non aveva voglia di parlare.
Perché lui era Yamato Ishida e aveva sempre avuto difficoltà ad esprimersi.
Vedeva gli altri raramente, ognuno era impegnato con la sua vita. Non aveva nessun’altro con cui parlare, perché era solo con lui che lo faceva.
Ogni tanto sentiva Koushiro, ma era impegnato con l’università ed era una persona troppo pacata con cui confrontarsi.
 




“A ginger boy so calm and wise,
is he so different from who am I?”

 
Di discutere con Jyou proprio non era il caso. Non era un ragazzo molto affidabile, anche se non aveva di certo freni inibitori nel dire la sua su qualsiasi argomento. E poi in quel periodo era troppo impegnato a laurearsi che sentire altro.
Gli venne da ridere pensando al burino che aveva quasi terminato i suoi studi.

 
“Sincerely, I did not believe
that he would come up here”

 
Provava anche a chiamare TK, ma lui non si mostrava mai troppo propenso ad ascoltarlo. Era sempre impegnato ad amoreggiare con la sua fidanzata storica, la sorella minore di Tai, Hikari.
Scosse la testa con un sorriso che velava un alone di malinconia. Come aveva fatto suo fratello a portare avanti una relazione senza aver avuto mai dubbi o incertezze?

 

“I want you to teach me how
 that girl brights your days”

 
 
Non era finita così male come tra Tai e Mimi, ma spesso credeva che fosse stato meglio prendere una posizione definitiva piuttosto che rimanere in bilico. Anche se l’amore faceva così male e lo poteva leggere negli occhi di chi soffriva...


The purity of her eyes
made ​​me realize”

 
E la cosa che più faceva male dell’amore era l’indifferenza. Faceva male quando c’era qualcosa che non andava da tempo, ma tutto ciò che ci si limitava a fare era stare in silenzio, senza avere il coraggio di affrontarsi.

 
Closed in my silence without saying that I love you
and I still want to be with you”
 
 
 
 
Finì di cantare e appuntò il titolo della canzone su un foglio.
Lui era Yamato Ishida e riusciva a comunicare cantando.
Anche se era molto difficile esprimersi quando non c’era molto da dire. Era molto difficile cercare di mettere apposto le cose quando tutto era in disordine.
Tra lui e Sora c’erano ormai delle barriere insormontabili, muri invalicabili che si erano innalzati negli anni e che nessuno dei due aveva cercato di abbattere.
Chiusi nei loro silenzi, avevano lasciato scorrere le loro vite senza realmente intrecciarle tra di loro, lasciando che tutto accadesse senza intervenire.
Si sentivano poco e le volte che si vedevano era contate. Lei era impegnata all’università, lui con le prove della band e con il lavoro di barman che faceva per racimolare qualche soldo.
Dopo il conservatorio, si era dedicato a far funzionare il suo gruppo, avevano inciso due dischi ed erano andati in giro nei quartieri di Tokyo a tenere concerti in locali e pub. Erano perfino usciti fuori città, sperando di farsi conoscere da qualcuno.
La musica lo aveva allontanato da Sora più di quanto credesse. Lo aveva fatto chiudere ancora di più in sé stesso, lo aveva imprigionato dentro gli abissi della sua interiorità senza curarsi di ciò che succedeva intorno.
La sua introversione aveva lasciato che Sora andasse via da lui lentamente come un’onda che si ritirava dalla spiaggia, e adesso era molto difficile tornare indietro.
Da circa due anni a quella parte, la loro relazione si era ridotta a piccoli incontri fugaci in cui la maggior parte delle volte finivano per discutere o per stare in silenzio, senza niente da raccontarsi.
La passione che li univa, la spontaneità, la fiducia reciproca erano gradualmente scemate, lasciando spazio ad una monotonia distruttiva dalla quale non riuscivano più a liberarsi.
Matt smise di suonare. L’inerzia che li caratterizzava aveva preso in loro il sopravvento. Li stritolava e non gli permetteva di fare un passo in avanti.
Più volte aveva cercato di rimettere in sesto i pezzi della loro storia, tentando di mettere da parte quel forte orgoglio che lo frenava; ma la verità era che non aveva né la forza né la determinazione di cucire quelle cicatrici.
Perché lui era Yamato Ishida e stava bene così.
Quando le prove terminarono, prese una bottiglia d’acqua e si rinfrescò la gola. Mentre gli altri si premuravano di posare gli strumenti, il batterista gli si avvicinò lentamente.
«Devo parlarti, Matt» gli disse, con un’espressione preoccupata.
Il biondo lasciò la sua chitarra e lo guardò interrogativo. Dopodiché gli fece cenno di seguirlo e si distaccarono dal resto del gruppo.
«Ci ho pensato molto in questo periodo e sono arrivato a una conclusione»
Il tono con cui Masaru aveva proferito quelle parole non portava niente di buono.
Incontrò lo sguardo dispiaciuto di questi, che si spettinava i capelli scuri.
«Sono mesi che siamo fermi. I soldi non bastano nemmeno per comprare un nuovo pedale per la batteria e Sen ha due corde rotte al basso»
Indicò il ragazzo che imprecava in direzione del suo strumento. Matt sospirò, voltando la testa e incrociando le braccia.
«Io sono indietro con l’università. Ho ventisette anni, non combinerò più niente di buono di questo passo!»
Il ragazzo aveva allargato le braccia, e poteva comprendere la sua disperazione. Da un po’ di tempo la band risentiva della mancanza di serate e di soldi, per questo i componenti non erano molto entusiasti di continuare a provare nonostante quella staticità. L’unico che ancora perseverava era lui.
Che poi non capiva nemmeno il motivo. Perché continuava ad inseguire qualcosa che gli sfuggiva dalle mani?
Sen e Yakamochi, l’altro chitarrista, si voltarono verso di loro nello stesso momento. Il batterista continuò, afferrando Matt dalle spalle.
«Io so che questa band è la cosa più preziosa che abbiamo, ma dobbiamo prendere una decisione»
Il biondo spostò lo sguardo verso il pavimento, sentendo i suoni ovattati, distanti. Notò vagamente gli altri due che si avvicinavano.
«Dobbiamo capire se tutto questo ci gioverà o ci farà crollare ancora di più»
Ciò che Masaru stava dicendo rifletteva il pensiero di tutti. Forse, in cuor suo, era quello che anche lui pensava, ma non aveva mai avuto il coraggio di ammetterlo.
Si guardò intorno. Come aveva fatto a non accorgersi prima delle condizioni in cui cercavano di tirare avanti? La buia e umida saletta dove si riunivano per provare, gli strumenti che avevano bisogno di essere cambiati, la sua fantasia che vacillava e che non gli permetteva più di scrivere buoni testi...
Era stato uno stupido, fino ad ora, perché si era illuso volutamente senza mai guardarsi intorno.
«Matt, è difficile da accettare, per tutti noi... Però è ora di chiudere questo capitolo, almeno per un po’, almeno fino a quando non ci sistemeremo tutti. Almeno fino a quando le nostre vite non si stabilizzeranno»
Sen era da sempre stato il più ragionevole del gruppo, e apprezzava quelle parole sincere. Anche se sentiva di sprofondare piano piano, perché era come se un pezzo di sé lo stesse abbandonando per sempre.
Yakamochi gli mise una mano sulla spalla in segno di conforto. Erano tutti d’accordo, quindi. Erano tutti d’accordo sull’idea di sciogliere la band ed andare avanti ognuno con la sua vita.
Ma qual era la sua direzione, adesso?
Che piega avrebbe assunto la sua vita, adesso che avrebbe detto addio a quello che, per anni, aveva rappresentato il suo mondo, la sua esistenza?
Forse era vero. Era vero che era egoista, che non riusciva a capacitarsi di ciò che accadeva intorno a lui, che badava solo a sé stesso, senza curarsi se le persone che gli stavano accanto stavano bene.
Un suo pensiero andò a Sora, e gli si strinse il cuore. Aveva sbagliato tutto, e lo stava facendo anche con lei.
Lei non gli avrebbe mai detto di mollare, lo avrebbe abbracciato e lo avrebbe spronato ad andare avanti.
Ma adesso che cosa avrebbe dovuto fare?
Adesso che lei era così lontana...
I ragazzi ancora lo fissavano e lui non aveva detto una parola. Si passò una mano tra i lunghi capelli biondi e si schiarì la voce.
«Avete ragione, è meglio così. Scusate se non me ne sono reso conto prima»
Era la miglior cosa da fare, arrivati a questo punto.
Recuperò la sua chitarra e si allontanò. Sentì la voce roca di Masaru che lo chiamava, ma non era il momento di tornare sui suoi passi.
Chiuse gli occhi e camminò lentamente, in direzione dell’uscita. Faceva male arrivare a certe consapevolezze. Faceva male rendersi conto come il sogno che aveva inseguito per così tanti anni fosse effimero, e mai avrebbe potuto raggiungerlo.
Si era racchiuso nelle sue convinzioni per un tempo infinito, senza aver dato uno sguardo alla realtà. E adesso che si ritrovava catapultato bruscamente al presente faceva male.
Faceva male rendersi conto di come tutto ciò che aveva fatto non era servito a niente, e che adesso si ritrovava da solo.
Solo, senza sapere cosa fare.
Solo, senza una via d’uscita.
Solo.
I corridoi di quella sala buia sembravano immensi e la luce in fondo al tunnel era debole e lontana.
Afferrò il cellulare e percorse la rubrica. Si fermò al suo nome, e il cuore sembrava impazzito.
Aveva bisogno di lei.
Sì, aveva tanto bisogno di lei.
Faceva male arrivare a certe consapevolezze.
Posò il telefono in tasca, nuovamente, senza fare nulla. Uscì finalmente da quel luogo e inspirò aria pura.
Lui era Yamato Ishida e faceva sempre a modo suo.
Nonostante fosse sbagliato, nonostante facesse male, nessuno lo avrebbe cambiato.
 
 
 




 
******
 
 
 



 
Posò la matita sul foglio dove aveva disegnato un insoddisfacente kimono dalla fantasia floreale e si stiracchiò le braccia. Era stanchissima, e aveva passato l’ennesima giornata senza aver concluso niente. Mimi sospirò, spostando gli occhi castani verso il balcone. Fuori era una bella giornata e avrebbe volentieri gradito una passeggiata al parco piuttosto che rimanere seduta a spremersi il cervello per metter su qualcosa di decente da presentare al corso di collezione.
Le rimanevano pochi esami da dare e poi avrebbe potuto laurearsi anche lei.
Spostò lo sguardo verso la pila di piatti sporchi che avrebbe dovuto lavare quello scansafatiche di Jyou, con il quale lei e Sora condividevano un appartamento nel quartiere di Tokyo più vicino all’università.
Scosse la testa, pensando che ultimamente quell’impiastro era così impegnato a laurearsi tanto da essere diventato più insopportabile di prima. La data era fissata due giorni dopo e la ragazza continuava a stupirsi di come avesse fatto quel burino a terminare i suoi studi in medicina. Non era una facoltà da poco e, ad essere sinceri, lei e Sora non avevano mai visto Joe studiare seriamente. Stava per la maggior parte del tempo fuori, anche dopo aver finito i corsi, e quando gli chiedevano a che punto fosse arrivato con gli esami, si arrabbiava e rispondeva sgarbatamente.
Afferrò un altro foglio e abbozzò qualcosa. Joe aveva ventisette anni e non era cambiato di una virgola. L’annuncio della sua laurea aveva lasciato tutti a bocca aperta. Aveva agito all’insaputa di tutti e quando aveva comunicato loro la notizia, Mimi aveva pensato che c’era speranza per tutti in quel mondo ingiusto.
I piatti giacevano ancora sul lavello, e la cosa migliore da fare sarebbe stata alzarsi e lavarli, dato che Joe non era ancora tornato. Storse il naso e decise di non farlo.
Era pur sempre Mimi Tachikawa e neppure lei era così cambiata.
Non avrebbe fatto qualcosa al posto di qualcun altro, specie senza ricevere niente in cambio. Era sempre stata un poco opportunista, lo ammetteva, ma doveva dare una bella lezione a quel burino vagabondo. Ridacchiò, e continuò a disegnare.
Era cresciuta molto rispetto a tanti anni fa. Adesso aveva ventiquattro anni, frequentava l’università di Tokyo al corso di Design della Moda, si era trasferita di casa insieme ai suoi amici e puntava a trovare il lavoro perfetto. Si spostò dal volto una ciocca dei suoi lunghi capelli castano chiaro. Da quando si era iscritta all’università, la sua vita aveva subito una piega diversa e aveva preso decisioni delle quali ancora portava le cicatrici.
Si morse le labbra rosee e tentò di scacciare dalla testa quei pensieri tristi ed insistenti, ma da un po’ di tempo a quella parte erano tornati a destabilizzarla, anzi forse non l’avevano mai abbandonata del tutto.
Sospirò profondamente e con tutte le sue forze tentò di non lasciarsi andare, cercò di non perdersi dentro le immagini del passato che puntualmente tornavano a travolgerla.
Lei era Mimi Tachikawa e ci voleva ben altro per trascinarla giù.
La compagnia di Sora le incuteva forza e le trasmetteva così tanto amore fraterno da non sentirsi mai da sola. L’aveva aiutata molto da due anni a quella parte, nonostante anche lei avesse dei problemi, e l’aveva aiutata a crescere e a fortificarsi.
Solo che adesso lei non c’era, e quando i pensieri bussavano insistenti non riusciva a resistere così a lungo.
Continuò a disegnare per il suo esame, tentando con tutte le sue forze di non cedere. Era difficile trattenersi quando si era pronti a scoppiare. La solitudine in quegli ultimi mesi non l’aiutava affatto. Odiava rimanere a casa da sola, perché erano quelli i momenti in cui faceva i conti con sé stessa.
Joe era irrintracciabile, sperduto in chissà quale recondito luogo; la sua amica da un po’ di tempo frequentava una scuola di balli caraibici, altrimenti andava in biblioteca o si barricava in camera a studiare.
Lei si ritrovava seduta in cucina a perdersi tra le righe dei suoi libri o tra le linee della sua matita.
Ogni tanto telefonava a Koushiro, poteva considerarlo quasi come un migliore amico. Era l’esatto opposto di lei, perciò quando aveva bisogno di un parere saggio e razionale lo chiamava. Purtroppo il rosso era impegnato anche lui a portare a termine i suoi studi da ingegnere, quindi Mimi si ritrovava più volte da sola con i suoi dubbi e le sue incertezze.
Cancellò qualcosa, dopo decise di alzarsi e prepararsi un the verde. Era una bevanda che l’aiutava a rilassarsi, a differenza della camomilla che la faceva addormentare subito.
Forse aveva bisogno di uscire; sì, forse era in quel modo. Era da così tanto tempo che non organizzava qualcosa con Sora e gli altri. Magari una pausa da tutto quello studio e da quei pensieri stremanti l’avrebbe aiutata a star meglio.
Non sentiva i ragazzi da tempo. Tutti erano impegnati con le loro cose; chi studiava all’università, chi lavorava e chi era lontano circa cinquecento kilometri da Tokyo... Calcò con la matita, spezzando la punta.
Per sciogliere quel groppo in gola che le si era appena formato, bevve un sorso del suo the. L'aiutava a sviare i tristi pensieri.
Ma lei era Mimi Tachikawa e pensava tanto.
Era la numero uno dei pensieri tristi e dei desideri infranti.
Aveva bisogno di staccare. Aveva bisogno di rivedere i suoi amici, parlare con loro, divertirsi come i vecchi tempi. Perché insieme stavano bene, avevano superato tante difficoltà e c’erano sempre stati l’uno per l’altro.
L’amicizia era per lei un bene prezioso e incomparabile.
Ripensò all’amicizia tra lei e Sora, un' amicizia salda e profonda, un rapporto stretto che avevano mantenuto con il tempo tanto da aver deciso di andare a vivere insieme. Quel burino di Joe si era poi aggiunto in seguito.
Ripensò alla piccola Hikari, che si era iscritta a Scienze della Formazione Primaria ed era già al terzo anno per poter diventare maestra. La sua dolcezza e la sua comprensione la facevano brillare di luce propria.
Insieme a Takeru avevano da sempre rappresentato il modello di coppia perfetta e tuttora andavano alla grande. Il biondino non aveva perso tempo a godersi la vita, frequentando locali e facendo il PR in varie discoteche. Forse Yamato non era felice dello stile di vita adottato dal fratello, ma per lui c’era ancora una speranza.
La storia tra il maggiore e Sora continuava, ma non era delle migliori. Anche se la ramata non amava parlarne, lei aveva capito che c’era qualcosa che non andava tra di loro, e non riusciva a capacitarsi di come non si fossero ancora affrontati per sistemare le cose.
Se solo loro due l’avessero fatto bene, allora...
La sua mano continuava a muoversi, ispirata.
Matt non era il tipo di ragazzo che si apriva facilmente agli altri, era per questo che Sora si era rintanata in un guscio ad aspettare che facesse un passo verso di lei. Il fatto era che così avevano sprecato del tempo prezioso a entrambi.
Sospirò, malinconica.
Matt riusciva a parlare con una sola persona. Era con quella persona che riusciva ad aprirsi completamente e ad esporre i suoi dubbi e le sue paure. Quella persona era Taichi, il suo migliore amico.
Non era riuscita a sviare quei pensieri del tutto, perché la sua mente era tornata lì, imperterrita, senza che lei riuscisse a fermarla.
Le vennero le lacrime agli occhi.
Quasi due anni per cercare di dimenticare la persona più importante delle sua vita, ma era come tentare di eliminare una parte di sé, del proprio vissuto...
E lei era Mimi Tachikawa e non era abituata a dimenticare ciò che era stato.
Perché tutto quello era stato la sua vita, il suo amore, la sua forza.
Lui era stato così coraggioso ad andare avanti per la sua strada senza mai voltarsi indietro, ma lei non ci era riuscita.
La cicatrice nel suo cuore bruciava ancora, pulsava e sembrava voler esplodere da un momento all’altro.
Tai le mancava da morire, aveva lasciato dentro di lei un vuoto inestimabile, una mancanza insanabile che nessun’altro avrebbe mai potuto sostituire.
La sua mente, il suo cuore, tutto la riconduceva a Tai.
Tai, che aveva preferito un’altra vita a quella insieme a lei.
Tai, che non l’aveva fermata quando aveva deciso di rinunciare a lui.
Tai, che era stato il suo unico e vero amore.
Si accorse di star piangendo, una lacrima bagnò il foglio del suo album da disegno e si apprestò ad asciugarla.
Pensi mai a me, Tai?
Perché io non riesco a non farlo.
Fu distratta dal suono del suo cellulare che, prepotentemente, la riportò alla realtà. Si asciugò il naso con un fazzoletto e lesse lo schermo del telefono.
Scosse la testa con un’espressione amara, poi portò l’aggeggio all’orecchio.
«Pronto?» tirò su col naso, tentando di assumere un tono adeguato.
Il ragazzo dall’altro filo si schiarì la voce.
«Come va, Mimi?» le chiese.
La castana si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e puntò lo sguardo per terra.
Era Shinichi, un ragazzo che aveva conosciuto ad una festa a casa di alcuni colleghi universitari. Era da circa due mesi che uscivano insieme, lui le dava attenzioni, la chiamava spesso ed era presente. Troppo presente.
Mimi non sapeva se era quello di cui aveva bisogno.
«Bene, grazie» La sua testa cercava di spingerla tra le braccia di quel tipo, ma il suo cuore era fermo.
«Ti va se ci vediamo stasera?» Il tono di Shinichi si sforzava di essere allegro, e apprezzava il tentativo, ma era inutile.
«Devo studiare, mi dispiace»
Il ragazzo non demorse.
«Facciamo domani, allora»
Le dispiaceva che si fosse preso una cotta per lei, in fondo era un bravo ragazzo ed era pure carino. Il fatto era che non si sentiva pronta. Era passato tanto tempo e ancora non si sentiva pronta a lasciarsi andare, a viversi qualcosa con qualcuno che non fosse lui.
«D’accordo»
Però doveva sforzarsi, si disse, doveva sforzarsi di andare avanti e lasciarsi il passato alle spalle. Anche se era estremamente difficile, doveva tentare di prendere in mano le redini della sua vita.
Quando riattaccò, fu assalita da un brutto senso di vuoto e solitudine. Non era brava a mentire, il suo animo era puro.
Il the si era ormai freddato. Si portò le mani sul capo.
Tai non l’aveva chiamata, né lo aveva chiamato lei. Si erano solo visti di sfuggita le poche volte che avevano organizzato un’uscita tutti insieme.
Cosa pretendeva adesso?
Lui non sarebbe mai tornato sulla sua decisione, e lei non poteva mostrarsi così debole.
Aveva senso aspettare qualcosa che non sarebbe mai successa?
Un senso di sconforto la pervase, si sentì sola ed abbattuta. Si diede della stupida, si diede la colpa per averci messo così tanto a terminare gli studi, si incolpò per aver iniziato quella frequentazione con Shinichi che non meritava di essere illuso.
Ma soprattutto, si sentì responsabile di tutto quello che era accaduto in quegli ultimi due anni. Era stata colpa sua se Tai aveva deciso di non vederla più.
Il cuore le batteva forte e per dei minuti che sembrarono un’eternità rimase con la testa appoggiata sul tavolo.
D’un tratto qualcosa catturò la sua attenzione, qualcosa di cui si era dimenticata. Erano i suoi disegni. Prese in mano i fogli dove aveva abbozzato alcuni modelli di kimono e si rese conto di essersi ispirata a loro, i suoi amici.
Rise di cuore e volse gli occhi al balcone, dove il sole stava tramontando.
Anche se faceva male, doveva rimettersi in piedi e lottare.
Avrebbe dato quell’esame che per anni la bloccava. Scacciò le lacrime, e si accinse a fornire descrizioni e misure.
Lei era Mimi Tachikawa e il buio non l’avrebbe inghiottita.
Perché la purezza del suo spirito vinceva il dolore.
 
 
 


 

 
*****
 
 




 
Si era fatta crescere i capelli che adesso superavano le spalle. Quel ramato acceso si era scurito con il passare del tempo, era diventato un colore più tenue, ma brillante. Nonostante tutto era sempre lei, Sora, non molto alta, un corpo discreto e un sorriso rassicurante. Si guardò allo specchio dello spogliatoio, e tentò di appuntarsi i capelli in una coda di cavallo. Si trovava all’interno di una scuola di balli caraibici che da un po’ di tempo frequentava. Ballare era diventata ormai una valvola di sfogo che la distraeva dallo studio e dai pensieri. Era perfino diventata abbastanza brava, lei che in venticinque anni di vita non aveva mai imparato un passo, nemmeno quando aveva partecipato alla recita del liceo.
Adesso si muoveva sensualmente al ritmo di quella musica straniera senza sbagliarne uno.
Era Sora Takenouchi, lei, ed imparava sempre tutto.
Studiava all’università, si stava specializzando in Psicologia Clinica e della Salute e adesso aveva da scontare le ultime quarantadue ore di tirocinio in una struttura apposita. Amava mettersi a lavoro, prendere appunti sul metodo utilizzato, sedersi accanto a dei professionisti e imparare da loro.
Inoltre, il fine settimana impartiva delle lezioni di inglese -si occupava della didattica ludica- ad un gruppo di bambini di una scuola privata, dove era diventata assistente temporanea grazie al suo attestato di lingua. Questo impiego part-time le permetteva, così, di guadagnare qualche soldo in più per potersi mantenere.
Aveva una mente aperta e brillante, era altruista, schietta e sincera. Non era poi così cambiata dalla ragazza che era anni fa. Era diventata più adulta, aveva acquisito maggiori consapevolezze e fatto nuove esperienze, ma era pur sempre lei.
Perché a Sora Takenouchi non piacevano i cambiamenti.
Anche se aveva dovuto imparare ad adeguarsi, aveva dovuto imparare a frenare la sua impulsività e a chiudersi forzatamente in sé stessa.
Si sistemò la maglietta aderente che le metteva in evidenza il seno.
Da qualche tempo le cose non andavano più bene come una volta. E nonostante odiasse i cambiamenti, non riusciva a fare niente per evitarli.
Sospirò, un po’ rassegnata. Era strano tutto quello, era strano non poter condividere tutto quello che le stava succedendo con la persona più importante, era strano dover stare seduta ad aspettare che le cose si sistemassero.
Ma niente poteva aggiustarsi da solo, senza che qualcuno non gli desse una spinta. Era un po’ come il primo principio d'inerzia.
Forse lo studio la stava facendo delirare, se pensava a leggi fisiche in quel momento. Ad interrompere i suoi pensieri arrivò lui, che spalancò la porta con un sorriso gigante e la guardò con una luce negli occhi.
Sora si sentì avvampare e deglutì lentamente.
Per quanto si sforzasse a controllare le sue emozioni, queste la vincevano sempre.
Victor era un ragazzo di origini americane che si era iscritto nella sua stessa facoltà. Si erano conosciuti il primo anno e da allora erano diventati amici. Ogni tanto uscivano insieme, si passavano gli appunti, si sentivano al cellulare. Ultimamente si vedevano quasi ogni giorno, perché lui era il nipote del proprietario della scuola di ballo e l’aveva convinta ad iscriversi.
Era davvero bravo a ballare, e quando le faceva da partner, Sora si sentiva in completo imbarazzo.
Come sempre quando si trovava con lui.
«Take, sei pronta?» le chiese, rivolgendosi a lei con il nomignolo con cui la chiamava abitualmente. Era l’abbreviatura del suo cognome.
«Sei troppo lenta»
Ridevano e si prendevano in giro sempre. Lei si avvicinò cercando di colpirlo scherzosamente, ma lui l’aveva già afferrata.
Sora guardò i suoi occhi grigi, e si perse dentro.
Erano come le onde di un mare in tempesta, una tempesta che infuriava dentro di lei.
Victor la scosse dalle braccia, senza mollarla.
«Non potresti essere più bella di così» alluse al fatto che ci stesse mettendo un sacco di tempo a prepararsi, e in effetti Sora non capiva nemmeno il perché.
Lo guardò con gli occhi spalancati, mentre lui continuava a sorridere, impacciato.
«Però adesso è ora di andare»
Avrebbe passato tutto il tempo a guardarlo e a sentire i battiti del suo cuore riecheggiare nelle sue orecchie.
Ma lei era Sora Takenouchi e non si faceva trascinare da quelle onde.
Si staccò da lui e gli diede una spinta.
«Stupido!» lo apostrofò, sentendosi impacciata.
Victor scoppiò a ridere e insieme lasciarono lo spogliatoio.
Entrarono in sala da ballo dove c’erano altre persone che aspettavano l’inizio della lezione. La ragazza si mise al suo posto e alzò gli occhi su di lui che con un braccio le cingeva la schiena, mentre con la mano libera aveva afferrato la sua.
«Ti guido io» le sussurrò all’orecchio, e Sora sentì dei brividi.
Era così ogni volta che ballavano insieme. Quel ballo era iniziato per gioco, ma era pian piano diventato sempre più intimo.
«Potrei abituarmici troppo» ridacchiò per smorzare l’imbarazzo «Magari poi capito con qualcuno meno bravo di te»
Il ragazzo la strinse di più al suo petto, mentre lei abbassava lo sguardo. La sua mente, il suo cuore, tutto era rivolto verso di lui.
«Faremo in modo di ballare sempre insieme, allora»
La musica partì e Victor le diede una leggera spinta per guidarla. Cominciarono a muoversi, seguendo dei passi già memorizzati, e con loro tutto il resto della sala.
Sora si lasciò accompagnare, muovendosi a tempo. Socchiuse gli occhi, pensando a quando stava bene, lì, così.
Era da tempo che non si sentiva così serena, così libera, così sé stessa.
E tutto questo lo doveva a lui.
Lo guardò. Era così bello mentre ballava, così concentrato, mentre la faceva volteggiare.
Si sentiva come una farfalla pronta a spiccare il volo.
Che cosa le stava succedendo?
Si guardarono fisso e ripresero a muoversi.
Era da un po’ di tempo a quella parte che sentiva qualcosa per Victor. Era stato tutto un crescendo, un rapporto che si era alimentato con lo scorrere degli anni, e piano piano, lui era diventato sempre più presente, sempre più vivido.
Era di questo che aveva bisogno.
Perché lei era Sora Takenouchi e voleva sentirsi amata.
Pensò ai suoi amici. Cosa avrebbero detto se l’avessero vista proprio ora? Agghindata in quel modo che ballava quelle musiche.
Le mancavano così tanto, tutti... Avrebbe fatto qualunque cosa per poterli vedere anche solo un’ora, perché con loro aveva condiviso tutto.
Avrebbe condiviso perfino il ballo. Avrebbe assegnato ad ognuno di loro il tipo di danza che più li rappresentava.
Per prima cosa Taichi, il suo migliore amico, la sua forza... Avrebbe volentieri ballato con lui una bachata, degna del tipo di uomo che era diventato. Lo poteva quasi vedere mentre si muoveva a tempo di musica, volteggiando con i fianchi e seguendo i passi con le gambe. Era il tipo di ballo per lui, lui che era così coraggioso e riusciva a portare a termine ciò che desiderava... Le mancava tantissimo, avrebbe tanto voluto vederlo...
La musica terminò e ne partì un’altra. Si creò un po’ di baccano e lei si sentì stringere ancora di più da Victor.
Chiuse gli occhi e continuò a pensare.
Mimi l’avrebbe vista con addosso un lungo vestito con le balze, i capelli appuntati in uno chignon ed un rossetto rosso sulle labbra a ballare il flamenco. La sua migliore amica con quell’animo così ingenuo e puro, mentre si muoveva in quella danza straniera, pestando i piedi e battendo le mani, volteggiando di qua e di là, un po’ come faceva nella vita.
E Koushiro, quel rosso cervellone a cui era tanto legata, che per la sua saggezza gli ricordava tanto un uomo di altri tempi, un uomo vissuto con tante cose da insegnare agli altri. Lo avrebbe visto mentre ballava un twist morbido, sciogliendosi dai pensieri e dagli affanni.
Le vennero le lacrime agli occhi. Erano così cresciuti, ognuno di loro era andato avanti con le loro vite, ma nessuno di loro aveva dimenticato. Nessuno di loro si era dimenticato di ciò che era stato, di ciò che avevano vissuto insieme, solo loro.
Anche se le cose non erano andate come volevano. Pensò a Tai e Mimi che si erano lasciati da tanto tempo, e ripensò a tutte le volte che aveva visto la sua amica piangere di nascosto, alle poche volte che aveva potuto incontrare il suo amico quando gli era concessa una pausa, al suo volto triste, infelice.
Era Sora Takenouchi e riusciva a vederle certe cose.
Anche se quando si trattava di lei diventava d’un tratto cieca.
Ma per fortuna c’erano loro due, i più piccoli, ma non così tanto piccoli, che la facevano ancora credere nell’amore.
La giovane Hikari che aveva sempre un sorriso smagliante, uno sguardo benevolo, una parola di conforto per tutti. Lei sarebbe stata così lucente fasciata in un vestito dorato mentre si muoveva in un leggero valzer. E il suo partner, Takeru, così diverso da lei, la sua perfetta metà, avrebbe ballato un mambo, per mettere in evidenza il suo essere forte e libero, per urlare in faccia a tutti loro che c’era una speranza per ognuno.
Victor le sorrideva e lei ricambiò, mentre si muoveva sensualmente.
Il pensiero della laurea di quel matto di Jyou le fece desiderare di incontrarli tutti. Poteva essere un buon pretesto e Joe era pure il coinquilino suo e di Mimi, pensò, anche se non faceva mai le faccende domestiche. La sua sincerità disarmante la investiva ogni volta sorprendendola sempre di più, per questo gli avrebbe affidato un tip tap, che rispecchiava al meglio la personalità dell’amico, goffa ed esibizionista.
Si mise a ridere da sola, facendo voltare alcune persone verso di sé. Tentò di smettere mordendosi le labbra, ma il solo pensiero di Joe che ballava in quel modo la faceva divertire troppo.
Quando Victor le fece fare un casquè dove la distanza dei loro volti si minimizzò di molto, Sora ebbe un tuffo al cuore.
Per tutto quel tempo aveva pensato a quanto era stata bene con altre persone che non fossero lui, dimenticando di quanto loro due fossero stati bene insieme.
Erano passati tanti anni, e loro erano lontani più che mai e non solo fisicamente.
Le cose avevano incominciato ad incrinarsi da quando lui aveva iniziato a frequentare le lezioni al conservatorio. Non aveva più tempo per stare con lei, si vedevano pochissimo e Sora ne soffriva terribilmente. Gli scontri avevano lasciato pian piano spazio a dei silenzi pesanti, dove non riuscivano più a parlarsi, a raccontarsi... erano rimasti così, insieme forse per paura di restare da soli, ma senza il coraggio di affrontarsi. Avrebbe tanto avuto bisogno di qualcuno con cui parlare, avrebbe tanto avuto bisogno di Tai che l’aiutava sempre quando era in difficoltà, nonostante fosse anche il suo migliore amico.
Guardò il ragazzo con cui stava ballando e i sensi di colpa la catturarono.
Lui non era la persona giusta, perché quegli sguardi, quei sorrisi, quegli abbracci appartenevano a Yamato, e solo a lui.
E allora perché continuava a chiudersi circondata dalla sua inerzia?
Sentì nuovamente le lacrime agli occhi e i suoni scomparvero d’un tratto.
Immaginò di essere presa da lui, con vigore, di essere stretta al suo petto come non lo faceva da tanto. Lo avrebbe guardato negli occhi e lui avrebbe fatto lo stesso, persi l’uno dentro l’altra, e  poi avrebbero danzato un sensuale tango, senza smettere mai di toccarsi, complici di un ballo che rappresentava la loro storia, passionale e burrascosa.
Matt, perché hai lasciato che andassi via dalle tue braccia?
Perché non hai fatto niente per potermi trattenere a te?
Perché hai dovuto fare in modo che io guardassi qualcun altro che non fossi tu?
Si morse il labbro, colpevole di quelle mani e quegli occhi che la toccavano, la cercavano.
La lezione terminò e si ritrovò stretta tra le braccia di Victor. Il cuore le batteva forte, sia per l’affanno che per tutto quello che provava.
Sentimenti contrastanti, emozioni forti che credeva di non provare più.
Si era sentita così spenta per tutti quegli anni, mentre adesso splendeva di vita.
«Ti chiamo domani» mormorò quello al suo orecchio, e la pelle divenne più sensibile, lo stomaco si chiuse, e la testa le girò.
Sentiva le gambe molli.
Lo guardò e annuì con un sorriso timido, dopodiché, lentamente, si accinse a tornare negli spogliatoi.
Perché hai dovuto lasciarmi sola in balia di tutto questo, Matt?
Non era forse così forte il nostro amore come pensavamo?
Si sentiva debole e distrutta. Si sciacquò il viso, si sciolse i capelli e si guardò allo specchio.
Aveva tanto bisogno di crederci ancora.
Aveva tanto bisogno di sentirselo dire.
Lei era Sora Takenouchi e aveva bisogno di essere amata con tutto il cuore.






   
 
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