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Autore: FrenzIsInfected    21/10/2020    2 recensioni
Sequel di "Sangue su Chernobyl".
L'UAZ di Feodor, Olga, Anatoli e Vassili è arrivato a Pripyat. Dell'Honker dove viaggiavano Svatok, Irina, Sergei e Boris, però, è scomparso. Un'esplosione fa presagire il peggio.
Genere: Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Primo capitolo

1

 

 

 

Pripyat, Ucraina.

8 Novembre 2009.

Checkpoint ‘Pripyat’.

11:02.

Anatoli Zelenko, Vassili Karavaev, Serg. Olga Petrova, Pvt. Feodor Kovalenko.

Parte del gruppo ha raggiunto Pripyat. La posizione e lo stato di Irina, Sergei, Boris e del soldato Svatok è ignota.

 

 

 

«SVATOK!»

Feodor corse fuori dall’UAZ, venendo rincorso e fermato da uno dei militari del checkpoint.

«Lasciami, Pyatov!» esclamò il soldato, lottando per liberarsi dalla presa del commilitone.

«Fermati, Feodor!» ordinò Olga.

Kovalenko smise di agitarsi, e, accasciatosi, sbatté un pungo a terra, iniziando a lacrimare e imprecare.

«Arrivano le provviste, ma anche guai, a quanto pare» fece l’altro soldato al checkpoint.

Olga si avvicinò a lui.

«Il tuo nome?»

«Soldato Andrei Sydorchuk, sergente.»

«Bene, Sydorchuk. Avvisa chiunque comandi a Pripyat che le provviste sono arrivate, e che abbiamo un commilitone con dei civili dispersi.»

«So dove vuole arrivare, sergente, ma non credo sarà possibile» rispose Sydorchuk. «Nessuno lascia Pripyat, che sia esso un civile, un militare o un membro della Militsiya. Ognuno deve restare nel posto dove è stato assegnato, salvo ordine diretto del maggiore Tsurikov.»

«È così che trattate i vostri commilitoni e i civili, qui? Negando loro aiuto se sono fuori dal perimetro della città? Ma che cosa avete in testa?» sbottò Anatoli.

«Andiamo, Sydorchuk» fece Pyatov, dopo aver aiutato Feodor a rialzarsi. «Il maggiore non negherà un aiuto del genere. È Svatok, uno dei pochi soldati che conoscono la Zona!»

«Il maggiore ci ha dato degli ordini, Pyatov, e dobbiamo rispettarli. Chi entra a Pripyat, resta a Pripyat! Chi lascia Pripyat, non può far ritorno!»

Ci fu qualche secondo di silenzio, prima che qualcuno dei presenti tornasse a parlare.

«Chi comanda la Militsiya qui?» chiese Vassili.

«Nessuno. Voi poliziotti siete subordinati a noi militari» rispose freddamente Sydorchuk.

I tre si guardarono.

«Se entriamo a Pripyat, non potremo più salvare Irina, Sergei, Boris e Svatok, se sono sopravvissuti» fece Anatoli.

Olga guardò il contadino.

«Conosci la zona, Anatoli?» chiese.

Il vecchio annuì.

«Da giovane spesso passavo a prendere mia moglie a Yanov, e insieme andavamo a spasso a Pripyat. La stazione ferroviaria è a tre chilometri da qui» disse.

«L’esplosione proveniva da sud-ovest. Magari i soldati in cima alla fabbrica Jupiter hanno visto qualcosa» fece Pyatov, rivolto al commilitone.

Sydorchuk sbuffò, prendendo la sua radio.

«“Checkpoint ‘Pripyat’” a “Punto d’osservazione ‘Jupiter’”, potreste dare un’occhiata in direzione della stazione di Yanov e riferirmi cosa vedete e sentite?»

«Affermativo, “Checkpoint ‘Pripyat’”. Dacci solo un secondo.»

Dopo qualche attimo di interminabile silenzio, arrivò il responso.

«“Checkpoint ‘Pripyat’”, vediamo del fumo alzarsi a sud-ovest della nostra posizione. Rilevamento sonoro e ulteriori riscontri visivi impossibile da attuare, la foresta è troppo fitta e il fumo troppo lontano. Ad occhio e croce, dovrebbero essere vicino al crocevia delle strade che conducono alla stazione di Yanov, alla fabbrica Jupiter e alla discarica di Buriyakivka.»

Il soldato stava per ringraziare e chiudere, quando un altro soldato parlò via radio.

«“Checkpoint ‘Pripyat’”, parla “Posto di blocco sud-ovest”. Confermo le parole del “Punto d’osservazione ‘Jupiter’”. Abbiamo udito un paio di spari, delle voci e dei ruggiti, ma non sentiamo più nulla da qualche minuto.»

Vassili, Olga e Anatoli si scambiarono uno sguardo.

«Vengo con te, Anatoli» fece il poliziotto. «Tu, Olga, vai pure. Ce la faremo.»

La soldatessa annuì, dando loro la sua radio.

«Portateli qui… e non fatevi ammazzare» disse, sospirando, per poi abbracciare il poliziotto.

«Siamo sopravvissuti finora. Cosa può ucciderci?» sorrise Anatoli.

Partiti i due, Olga si rivolse agli altri.

«Il capitano Yaremchuk alla stazione radar Duga mi ha ordinato di restare a Pripyat e unirmi alla vostra guarnigione. Dove posso essere utile?» chiese.

«Credo che al caporale Yakovenko possano far comodo un paio di braccia in più all’Hotel Polissya» rispose Pyatov.

«Continui lungo la Prospettiva Lenin, fino ad arrivare nella piazza principale. Davanti a lei vedrà il Palazzo della Cultura Energetyk. Alla sua destra, troverà l’hotel.»

Feodor si avvicinò. I suoi occhi erano ancora rossi dalle lacrime.

«Vuole un passaggio, sergente?»

«No, grazie. Non penso che capiti tutti i giorni camminare in mezzo a una città abbandonata. Quanto a te, piuttosto, sii ottimista. Faremo il possibile per riportare gli altri a Pripyat sani e salvi.»

«Lo spero anch’io.»

Il soldato si mise sull’attenti, facendo il saluto.

«È stato un onore, sergente Petrova.»

Olga ricambiò il saluto, accennando un sorriso. Nessuno le aveva mai espresso gratitudine per esser stato sotto il suo comando.

I due soldati alzarono la sbarra del checkpoint, lasciando entrare il mezzo e la soldatessa.

 

 

Così, questa è la città fantasma.

Olga camminava lungo la Prospettiva Lenin come Alice una volta arrivata nel paese delle meraviglie. Certo, l’atomo non aveva fatto meraviglie in quel luogo, ma quel macabro fascino che permeava l’area di Pripyat rendeva impossibile a chiunque non perdersi a guardare ciò che restava degli edifici dell’atomgrad abbandonata.

Volgeva lo sguardo oltre gli alberi spogli che avevano quasi ricoperto l’asfalto della strada, verso quegli appartamenti abbandonati che, con l’arrivo dell’apocalisse, erano stati nuovamente occupati dai cittadini ucraini della Zona o giunti all’interno di essa in fuga dai non morti. Affacciato al balcone del proprio alloggio, qualche neo-residente osservava con aria incuriosita la soldatessa procedere solitaria lungo il viale.

Chissà cosa direbbe Tetyana, se sapesse che sono qui.

Quando iniziò ad andare alle elementari a Kiev, nell’ottobre 1986, nella sua classe c’era anche una ragazzina del nord, Tetyana Ivanenko, figlia di una coppia sfollata da Pripyat. Gran parte dei bambini, dopo un primo momento di integrazione, iniziarono a rigettare la presenza di Tetyana all’interno della classe, spinti dall’odio e dal disprezzo inculcatigli dai genitori verso chi proveniva dall’area di Chernobyl. Solo Olga, che per natura era solidale verso il prossimo, le stette sempre vicino, diventando la sua migliore amica. Le raccontava spesso di quando viveva lì, di quanti fiori e bambini con cui giocare ci fossero. Desiderava tornarci come non mai. Da quando la soldatessa era entrata nell’esercito, però, le due si sentivano raramente. L’ultima cosa che ricordava di Tetyana era che stava cercando disperatamente un gruppo metal dove suonare.

E soprattutto, chissà cosa direbbero mamma e papà.

Oleg Petrov, nato a Kursk, nella Repubblica Socialista Sovietica Russa, negli anni Cinquanta, si era trasferito a Kiev per lavoro. Lì, aveva conosciuto e successivamente sposato Oksana Pavlyuk, una barista che lavorava in un locale non distante dall'appartamento dove si era stabilito l'uomo. Nel 1980, i due diedero alla luce la loro unica figlia, Olga. Gli anni passavano, e Oleg, rimasto disoccupato dopo esser rimasto coinvolto in una rissa con un suo collega, vide nel disastro di Chernobyl un’opportunità per redimersi e render fiera sua moglie e sua figlia. Si unì ai liquidatori, e tra i tanti lavori disponibili, scelse anche quello più pericoloso. Oltre ai vari lavori di rilevazione dei valori delle radiazioni, salì sul tetto della centrale, e per novanta secondi fece il bio-robot, facendo ciò che le macchine non erano riuscite a fare a causa delle troppe radiazioni: rimuovere i detriti e i blocchi di grafite dal tetto del vicino reattore numero 3. Per prendere più soldi ed essere riabilitato agli occhi dell’Unione Sovietica, salì altre tre volte, spalando per un minuto e mezzo all’ombra del camino d’aerazione dei blocchi 3 e 4.

Alla piccola Olga, il padre raccontava di quando passeggiava per le strade buie di Pripyat, illuminate solo dalla luna, o di quando andava a nuotare con i suoi colleghi alla piscina Lazurny, l’unico luogo della città a restare attivo fino al 1998.

Il coraggio (o l’incoscienza) di Oleg fece migliorare leggermente le condizioni economiche della famiglia, ma non la sua salute, che peggiorò con l’avvicinarsi del nuovo millennio. Olga disse addio al padre nel 1997, vittima di un tumore al cervello. Il suo corpo era stato minato troppo dalle radiazioni.

Oksana, da allora, aveva fatto promettere alla figlia che non sarebbe mai andata a Chernobyl.

Eppure, eccola lì, in procinto di arrivare nella piazza centrale della città.

Quando vi arrivò, Olga si sentì quasi una formica. L’immensa area antistante, un tempo piena di vita, gioia e fermento, ora marciva in uno stato di abbandono. L’enorme Palazzo della Cultura, l’Energetyk, si ergeva in condizioni fatiscenti a qualche centinaio di metri da lei. Le immense vetrate che davano sulla piazza erano state distrutte per far disperdere le radiazioni, così come le finestre degli appartamenti di gran parte della città. Le insegne al neon erano state divorate dalla ruggine, e ora i tubi giacevano allo scoperto. Sul tetto, e all’interno dell’edificio, Olga riuscì ad intravedere dei soldati sorvegliare l’area circostante.

La ragazza, poi, volse lo sguardo a destra. L’hotel Polissya era in condizioni simili al Palazzo della Cultura, collegato ad esso da un arco di colonne. Anche qui, le finestre erano state distrutte, e le insegne al neon avevano fatto la stessa fine di quelle dell’Energetyk. Un tempo bianchissimo, ora la struttura tendeva al bianco sporco, con sfumature verdognole causate dalla crescita di muffe o muschi. Notò con stupore delle piante crescere sul tetto.

Dalla terrazza, un soldato la salutò.

«Quassù, sergente!» esclamò, facendole cenno di salire.

Olga quasi lo maledisse per aver interrotto la quiete che aleggiava nella città, nonostante, in lontananza, si sentisse il rumore dell’UAZ di Feodor.

Entrò nell’edificio, restando impressionata dalla pressoché totale devastazione. Gli stalker e i vandali avevano fatto razzia di ogni cosa possibile, non curanti di star distruggendo un potenziale patrimonio storico. Salì le scale, dove fu accolta dal caporale Yakovenko, un ometto barbuto che impugnava un fucile da cecchino Dragunov.

«Benvenuta all’hotel Polyssia, sergente. Si goda la vista.»

Olga rimase a bocca aperta. Da lassù, riusciva a vedere tutta la città. I palazzi-dormitorio, arrugginite insegne luminose recitanti slogan comunisti, l’infinita distesa di alberi… e, in lontananza, come un gigantesco mostro, la centrale nucleare.

La soldatessa rivolse il suo sguardo verso sud-ovest, dove il fumo continuava a salire. E, in silenzio, iniziò a pregare qualunque Dio che non li avesse ancora abbandonati, di far tornare i dispersi sani e salvi.


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Salve, gente!

Vi avevo promesso l'arrivo del sequel di "Sangue su Chernobyl" in questo periodo, e intendo mantenere la promessa data. A causa dei miei impegni con la tesi, sarò però costretto ad aggiornare la storia solo mensilmente. Il prossimo capitolo è in fase di revisione, e il terzo deve essere ancora completato. Spero di riuscire nell'intento di proporvi la storia come piace a me.

Alla prossima,


Frenz
  
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