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Autore: Hoel    23/10/2020    5 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato l'08.10.2021

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Capitolo Diciottesimo

Confiteor

(Non uccidere)

 

A forza di sterminare animali, si capì che anche sopprimere l'uomo non richiedeva un grande sforzo.

(Erasmo da Rotterdam)

 

 

 

 

1500 – 1502

 

 

 

Il nuovo secolo chiudeva un’era e ne apriva un’altra, sostituendola con nuovi ordini e spazzando via quelli vecchi. Un’Italia bruciava e moriva; Dio solo avrebbe saputo dire quale creatura sarebbe nata dalle sue ceneri.

Perfino a Venezia, nel suo piccolo, quasi a sottolineare la fine di un’epoca, moriva Missier il Doge Agustin Barbarigo. Al suo funerale gli vennero resi tutti quegli onori di cui, per la natura del suo ufficio, mai in vita godette: steso su di un feretro imbalsamato e armato di tutto punto, il fu Barbarigo venne trasportato nella sala del Piovego, proceduto da stendardi, dal suo stemma, dai marinai dell’Arsenale, dai principali membri delle Scuole, tosto seguiti dai funzionari palatini e dignitari, da numerosi frati d’ogni ordine, dal clero laico e dagli orfanelli di Santa Maria della Pietà ciascun con una candela in mano. Per tre giorni il popolo veneziano aveva sfilato davanti al suo catafalco in apparenza per pregare per l'anima sua, in realtà per maledire Barbarigo e la sua rapacità, avarizia, tenacità e superbia. Per tre notti i consiglieri ducali del Minor Consiglio avevano scrupolosamente vegliato il corpo, così come avevano fatto quando Missier il Doge era stato ancora in vita, spiandone e registrandone costantemente ogni azione e parola. Dopodiché, al dì del funerale, tutta Venezia si radunò in Piazza San Marco e davanti alla porta principale della Basilica il corteo funebre si fermò bruscamente: per nove volte i portatori alzarono e abbassarono il feretro e per nove volte gridarono: Misericordia! Infine, a Messa terminata, il corteo si recò alla Chiesa di Santa Maria della Carità, l’ultima dimora terrena del Serenissimo Agustin Barbarigo, seppellendolo accanto all’odiato fratello, il fu Missier il Doge Marco Barbarigo.

Morto dunque un Doge, la Serenissima Signoria s’affrettò a nominarne presto un altro e la scelta cadde, inaspettatamente, sul procuratore sier Lunardo Loredan q. sier Hironimo “dal Barbaro” della parrocchia di San Vidal e, come si soleva dir in tali circostanze, mutato duce, mutabitur fortuna. I maligni, ovviamente, batterono le lingue: sier Piero Bembo di sier Bernardo infatti adombrò che il Loredan avesse vinto più per conoscenze personali, che per i propri meriti. Ed in effetti, i primi a brontolare per la malasorte furono i Trum: sier Phelipo procuratore, cugino di sier Antonio, piaceva assai come candidato, giacché onesto, amico del bene pubblico, nemico dello spreco e di rara modestia oltre che ricchezza. Sennonché, il figlio del fu Serenissimo sier Nicolò aveva avuto il cattivo gusto di morire proprio durante il processo d'elezione del nuovo Doge e tale fu la sciagurata coincidenza, che si vociferava come il Trum fosse stato avvelenato. Tale notizia, avendo messo l'intera Venezia in agitazione, aveva portato ad un concitato andirivieni di magistrati e patrizi a San Stae, dove sier Phelipo viveva con le sorelle, onde assicurarsi delle cause del decesso. Sier Antonio Trum s'era ben sfogato con la nipote Crestina, dichiarando assurdo l'intero teatrino: era ovvio che il suo germano fosse morto ad appena sessantasei anni per la sua notevole grassezza, che accidenti dovevano scomodare un medico e soprattutto le cugine per un'indagine? Avrà fatto piacere a sier Piero Trivixan, loro parente, ritrovarsi all'improvviso quel gineceo da ospitare.

In ogni modo, alla presenza di 50.000 persone accalcatesi a Piazza San Marco, sier Lunardo Loredan sbarcò al ponte della Paglia, scortato dai suoi sei consiglieri ducali e le bombarde e i campanili, che fino a quel momento avevano riempito l’aria di spari e di vivacissime melodie, tacquero improvvisamente, segno che Sua Serenità era giunto. Ecco il vostro Doge!, s’elevò solenne l’annuncio, mentre il Loredan procedeva con passo silenzioso dalla porta della Basilica fino all’altare, inginocchiandosi davanti al primocerio il quale dopo avergli fatto prestar giuramento lo benedisse, cosicché fosse ben chiaro come Dio approvasse dal Cielo ciò che gli uomini sceglievano in terra.

Salito sulla portantina detta “pulpito” trasportata da duecento marinai dell’Arsenale, il nuovo Doge attraversò la folla festante, elargendo ducati a destra e a manca, suo fratello sier Piero Loredan, i figli del Serenissimi sier Lorenzo, sier Hironimo, sier Alvixe, sier Bernardo, madona Donata, sposa di Jacomo Guxoni da S. Vidal, madona Maria, sposa di Zuam Venier; Paula, moglie di Zuam Alvixe Venier ed infine Ysabeta, sposa di Zacharia Priuli, immediatamente dietro di lui con tutta la Signoria al gran completo. Niente Dogaressa, essendo venuta a mancare ante l'elezione madona Morexina Zustignan da San Moixé. Passata la Porta della Carta, il corteo entrò nel cortile di Palazzo Ducale e pareva quasi ironico che le nuove facciate, appena terminate, fossero state commissionate proprio dal fu Serenissimo Missier Agustin Barbarigo, morto prima di potersene giovare. Lì i marinai deposero la portantina e Sua Serenità salì sulla monumentale scala circondata da allegorie della Fama e della Vittoria, opera degnissima di Antonio Rizzo [1]. Soltanto alla fine di essa, all’ultimo gradino, venne sier Lunardo Loredan incoronato ufficialmente Eccellentissimo Serenissimo Principe e Duca di Venezia, acciocché a nessuno sfuggisse il chiaro simbolismo, ossia che la sua ascensione alla carica più alta dello Stato non gli era dovuta per diritto di sangue, bensì per meriti graduali, carica dopo carica, ma soprattutto, standosene in alto la Signoria, come Venezia l’aveva creato Venezia lo distruggeva, avesse egli tentato qualsiasi stranezza a suo danno. 

Dal più giovane membro del Maggior Consiglio il Serenissimo ricevette la bereta delle cerimonie ordinarie, mentre dal più vecchio consigliere il corno ducale dei giorni di festa, una vera e propria “zoja”, sormontato da una croce di diamanti e scintillante di smeraldi, rubini e perle, per un valore totale di 194.092 ducati. Un altro consigliere gli pose sulle spalle il manto di broccato d’oro ed ermellino. Il Gran Cancelliere gli lesse le norme della Costituzione, su cui Loredan giurò solennemente di osservarle a costo della vita. Il Serenissimo ricevette infine lo stendardo di San Marco fra le acclamazioni del popolo, al quale egli promise justicia indifferenter, abondantia, et tenir la terra in paxe .

Impegno non indifferente se considerata la delicata situazione politica, con la guerra contro i Turchi che procedeva a fasi alterne, coi Francesi oramai padroni del Ducato di Milano e intenti a spartirsi il Regno di Napoli cogli Aragonesi di Spagna e naturalmente i Borgia impegnati ad eliminare dalla Romagna ogni signoria a loro scomoda.

Decisamente il Serenissimo Lunardo Loredan non poteva esser stato eletto in un periodo più tremendo.

In questo clima dunque di sconvolgimenti di una realtà che s’era sempre creduta eterna e immutabile, Hironimo aveva preso la decisione anch’egli di lasciarsi quanto più possibile alle spalle i perduti giorni dell’infanzia e con essa ogni sensibilità d’animo da lui coltivata, che, a quanto pareva, all’altrui giudizio corrispondeva a debolezza al limite dell’effeminatezza. Ciò lo infastidiva oltre ogni dire: per quanto il ragazzo adorasse trascorrere i pomeriggi in compagnia delle cugine, non si era mai sentito meno maschio né desideroso d’emulare quei loro atteggiamenti da donzella.

Anche perché, ultimamente non resisteva più all’infinità di melensaggini che avevano rincretinito le giovani Morexini. A dare il la era stata la loro cugina Catharina Corner: da quando s’era sposata in sier Zuanne Soranzo era divenuta insopportabile, cogliendo ogni occasione per sfoggiare la collana di perle della novizza, l’elaborata acconciatura e i vestiti all’ultimo biondo; non faceva che raccontare delle feste cui adesso poteva partecipare più agevolmente, di quanto fosse bello gestire una propria casa, dei cagnolini che s’era comprata e in generale di  ricordare alle sorelle minori e soprattutto alle cugine Morexini ancora nubili della sua ascensione dallo status di vergine a moglie.

Le tose lo desidera, le maridae lo prova, le vedove lo recorda sicché la presenza nefasta del Soranzo instillò in Maria e Querina una gran smania di sposarsi anch’elle, lavorando con doppia tenacia al proprio corredo nuziale e non cessando di ricordare subdolamente al padre sier Batista della loro età e di quanto sarebbe stato disdicevole sapersi o monache o zitelle, quando le cugine Corner sicuramente tutte si sarebbero maritate. E tanta fu il desiderio d’apparire e di comportarsi più adulte della loro effettiva età, da finire per rendersi, agli occhi di Hironimo, ridicole, noiose e irrimediabilmente rincitrullite, specie Maria la quale, raggiunti come lui i quindici anni, non faceva che tarmarlo con i suoi sospiri su questo o quel cavaliere di non so qual poema ch’aveva letto; oppure delle sue confidenze circa qualche giovanotto che aveva intravisto in chiesa a Messa o dal balcone, descrittogli e commentatogli l’aspetto con la spietata pignoleria da mercante tipica della loro famiglia. E tramite la medesima precisione ella gli descriveva il tessuto ch’avrebbe utilizzato per un nuovo abito o le pietre per una nuova collana o come si sarebbe acconciata i capelli alla prossima celebrazione della Sensa. Il povero Hironimo si sforzava di ascoltarla e mostrar interesse verso cose che manco lo tangevano, anzi, pure arcuava indispettito il sopracciglio all’udir cantar le lodi dei giovani patrizi adocchiati dalla cugina; però ahimè non riusciva a starle dietro e spesso dimenticava quanto dettogli, temendo assai il momento in cui Maria, crudele, gli chiedeva di ripetere onde verificarne il livello d’attenzione. E Querina, che in tutto emulava la più spigliata e volitiva sorella, rincarava la dose con doppio vigore, onde dimostrare che non era da meno. L’unica a salvarsi rimaneva a piccola Marina, quel benedetto angioletto che dall’alto dei suoi quattro anni non si preoccupava certo del futuro, trascorrendo le giornate a giocare in giardino o a palla coi fratellini o a vestire e ninnare le sue bambole.

Era un piacere vederla correre così allegra e spensierata, le sue risate un balsamo dopo ore e ore d’inconcludenti chiacchiere da parte delle sue sorelle maggiori.

“Sior Barba, come riuscite voi ad ascoltare la siora mia Amia vostra mojer, la Mariuccia e la Rina senza addormentarvi ad occhi aperti? Diamine, hanno più senso i discorsi della Marinella!”

“E chi ti dice che le ascolto?”

“Ma …!”

“Dai retta al tuo Barba: lasciale parlare, poi quando le si è seccata la lingua e finalmente tacciono, solo allora replichi: “Concordo appieno, meglio non potevate dire, vi auguro buona giornata.” E poi scappi via senza guardati indietro, prima che recepiscano il messaggio e ti assordino coi loro strilli e rimproveri. Hai ben compreso?”

“Le mie zermane ritorneranno mai normali?”

“Sì, è soltanto la novità d’aver scoperto d’esser “donne”. Poi quando si stuferanno, vedrai che riprenderanno ad usare il cervello. Solitamente questo accade dopo il primo figlio.”

“Spero d’arrivar vivo a quel momento.”

“Per fronteggiar una donna bisogna aver spalle larghe, nezzo mio. Il tuo sior Pare aveva ragione, quando affermava che come il vento, le femmine non si comandano mai. D’altronde, è il prezzo che paghiamo per il privilegio d’esser nati col pene.”

Neanche con Marina Morexini q. sier Orsato poteva Hironimo più parlare e non per via dell’età della giovinetta, bensì per le solite paranoie di sua madre madona Pellegrina Nani relicta Morexini, la quale, preoccupata dell’eccessiva intesa tra la figlia e il ragazzo, li aveva per vie indirette lentamente allontanati, incominciando dall’invitare sempre di meno al Paradiso madona Leonora e per associazione i suoi figli oppure declinava gli inviti di madona Alba Donado Contarini nel suo palazzo a San Trovaso, quando sapeva per certo come anche Hironimo si sarebbe trovato lì. La vedova temeva infatti che Hironimo, dall’alto della sua perfidia calcolatrice, potesse compromettere la virtù della figliola, dunque accaparrandosela, quando la donna avrebbe preferito mille martiri piuttosto di saperla maritata ad un tanghero senza né arte né parte quale il giovane Miani.

Sicché Hironimo aveva dovuto cercare altrove una sua collocazione, virando verso le amicizie virili dapprincipio da lui snobbante, all’inizio accodandosi ai fratelli e poi cercandole da sé.

Per facilitarle e al contempo obliare la perenne sensazione di vuoto nel petto, l’adolescente si gettò a capofitto in ogni disciplina marziale, accampandosi per poco nelle palestre e nelle scuole di scherma, frequentando assiduamente i corsi di tiro con l’arco a San Nicolò del Lido e di pallacorda a San Zaccaria. Rincasava tardi, stremato, coi muscoli tremanti e in fiamme, lividi dappertutto e gli avambracci rossi per via delle ustioni da frizione della corda dell’arco. Però almeno la notte dormiva senza sognare e più non pensava.

Nella lotta libera o grecoromana o negli incontri di pugilato Hironimo non si spaventava d’affrontare avversari il doppio della sua stazza, né si lagnava del vento sferzante contro il viso, dei vestiti umidi d’acqua e del bruciore delle vesciche, quando remava in laguna o per sfogare la rabbiosa sua energia o per competere contro i compagni in serrate gare da Mestre fino al Lido. Sprezzando la temperatura dell’acqua, o in canale o al mare o nei fiumi, niente e nessuno lo poteva trattenere dall’accettare una gara di nuoto.

“Hé, bravo, bravo! Anche io alla tua età mi dedicavo molto al nuoto, è il miglior esercizio per irrobustirti! Sapessi da giovane quante gare ho vinto!”

“Quando Anzolo non partecipava  …”

“Antonio, dovevate proprio ricordarmelo?”

Ad allenamenti terminati, la parte della giornata che più piaceva al giovane Miani era quella di recarsi alle stue (stufe, ndr.) pel bagno turco assieme al barba materno Batista e quello acquisito Antonio Trum. Non capiva il perché i due gli avessero proibito di andarci da solo, insistendo di accompagnarlo o lui di raggiungerli. In ogni modo, rilassarsi sulle panche e lasciarsi cullare dall’avvolgente tepore umido e profumato ora di rose, ora di arancia, cannella e spezie lontane equivalevano per lui ad un balsamo sia fisico per rilassare i muscoli tesi e doloranti sia spirituale, cullato dalla sospensione di quell’ambiente vaporoso d’eterna nebbia. Questo prima di scoprire tutti gli altri benefici offerti dalle stue, in particolare durante o dopo il massaggio: Marco e Carlo si erano retti la pancia dal tanto ridere, quando zio Batista, perfido pettegolo, aveva raccontato di come, al suo primo massaggio in assoluto, ciò che credevano morto in Hironimo s’era invece ben risvegliato e di come il ragazzo fosse scappato via col solo lenzuolo addosso quando la massaggiatrice, ineffabile, s’era offerta per un piccolo extra di “ammollire” quella svettante durezza.

Il giovane Miani non osò da allora farsi fare i massaggi, se non dagli uomini.

Nelle stue, che comunque continuava a frequentare volentieri, Hironimo pianificava i suoi obiettivi, in quale disciplina concentrarsi di più, come migliorare la sua postura nella scrima; pensava alla manutenzione del suo arco; s’immaginava qualche trucco per velocizzare la vogata … Osservava tanto e a lungo i suoi compagni, a seconda dell’abilità li prendeva a modello e si prefiggeva di eguagliarli, per poi passare al prossimo più bravo. Non gli importava quante volte stramazzasse al suolo dai colpi infertigli, o per un cedimento delle gambe ridotte a ricotte. L’adolescente ingoiava il dolore, l’umiliazione della sconfitta, le aspre critiche e gli sfottò, certissimo di poter ugualmente raggiungere lo scopo prefittosi e di trionfare su qualsiasi ostacolo ed avversario.

La sua determinazione e testardaggine vennero così incanalate in questo suo esercizio, trasformandosi da difetti da tutti rimproveratigli a qualità degne d’elogi. Pian pianino, la sua tenacia gli conquistò le lodi dei maestri e il rispetto dei suoi compagni, un giorno perfino si beccò i complimenti del suo parente Ferigo Contarini, provocandogli gioiose farfalle allo stomaco ché la sua opinione, tra tutte, era per Hironimo la più importante, avendolo infatti sempre ammirato (Ha-ha! Ferigo di qua, Ferigo di là …  se tu fossi femmina, Momolin, a quest’ora già saresti a dargli il primo figlio, da quanto gli sbavi dietro!, lo burlava maliziosa Maria, provocando feroci arrabbiature nel permaloso cugino). Le ragazze ripresero a guardarlo e stavolta con occhi ben diversi, non più come un’informe creatura di sesso maschile bensì come un vero e proprio uomo, garbando ai gusti loro le sue spalle larghe e le gambe dritte, snelle e muscolose. Anche a costo di soffocare, Hironimo si stringeva il farsetto quanto più possibile onde esaltare la vita stretta e il triangolo del busto. Sfidava gli amici e compagni di allentamenti a serrate gare di lancio della palla; cavalcava per ore e ore, montando talora senza staffe; d’estate partecipava a competizioni su chi riuscisse a rimanere penzoloni più a lungo sul ramo, senza cascar giù in acqua. Solo Maria continuava a sfotterlo per i suoi capelli lunghi fin quasi a metà schiena, dei quali il ragazzo aveva una cura pressoché maniacale. Che ne capiva lei? A vent’anni se li sarebbe comunque dovuti tagliare e poi avrebbe avuto tutta la vecchiaia per starsene pelato, che male c’era nel goderseli finché poteva? Inoltre, poteva negare alla Marinella il divertimento di pettinarglieli?

Pah, per le donne la Casa dei Contenti non era mai stata costruita e meglio era rimanere tra uomini, dove lì sì che Hironimo trovava comprensione e riconoscimento dei suoi meriti.

“Ma come? Stai già eseguendo l’esercizio?”

“Ho sbagliato, sior maestro? Non dovevo?”

“No, no … E’ che ieri non riuscivi a terminarlo senza finir per terra!”

“Mi dovevo soltanto abituare … Non è difficile alla fine!”

“Bravo, quest’è lo spirito. Finché s’ha fiato nei polmoni, mai arrendersi!”

Ogni vittoria l’esaltava, incoraggiandolo a migliorarsi ancora di più e a tastare i suoi limiti. Quei brevi atti di euforia gli azzeravano ogni percezione d’impossibilità, portandolo a credere d’esser onnipotente e di fatti Hironimo accettava ogni sfida per il solo gusto di sapersi superiore agli altri partecipanti. S’ingannava dichiarando come lo facesse per vanità e non per sfogare quella sua rabbia segreta che da sempre tentava di seppellire.

Inaspettatamente, una di queste discipline, la scrima, comportò un riavvicinamento tra Hironimo e suo fratello Carlo, sorpreso il primo di saperlo così abile nel maneggio della spada. Era avvenuto per caso, quando di notte, credendosi non visto, l’adolescente sgattaiolava nel portego e staccava dal rastrello la spada di Padre, la medesima ch’egli aveva adoprato nelle sue pattuglie in galea da Chioggia fino alla Romagna a caccia di pirati e contrabbandieri, durante la Guerra del Sale e la difesa di Feltre contro il Duca d’Austria e che Madre teneva sempre lucida e pulita, come se il marito potesse in un qualsiasi momento presentarsi a reclamare la sua arma. Alla luce della candela, Hironimo allora mulinava la spada, ripetendo le posizioni impartitegli dal maestro, il gioco di gambe, la forza nel fendere e nell’affondare. Nella sua fantasia egli ammazzava turchi, tedeschi, pirati saraceni, ungheresi, francesi, immaginando di trovarsi nelle grandi battaglie dei suoi avi, per mare o per terra, e sognando di divenire tanto famoso quanto il suo trisnonno Zuanne “il Vecchio”, valente capitano.

“Zò, ma che fai in giro a quest’ora? Con la spada di Padre? Vai forse a caccia di pantegane?”

“Stavo facendo attenzione, prometto di non danneggiarla!”

“Temo più per la tua sorte che per quella della spada: de diana, sembri un villano che falcia il grano!”

“Tzé, spiritoso … Che ci fai piuttosto tu in giro a quest’ora? Non dovevi essere in camera tua a piangere per la partenza a Roma di sier Antonio Zustignan?”

“Basta asinerie e dammi qua. Guarda bene e cerca di imitarmi, così forse non finisci infilzato al primo duello …”

Effettivamente fu una rivelazione per Hironimo osservare la naturalezza e fluidità dei movimenti del fratello maggiore, avendoli contemplati fino a quel momento solamente nel maestro e in Ferigo Contarini. L’aveva infatti sempre creduto un acido topo di biblioteca, similmente ai suoi amici, tra i quali spiccavano sier Hironimo Donado “dalle Rose” e sier Antonio Zustignan, quest’ultimo lettore di logica e filosofia al Gymnasium Rivoaltinum e di recente nominato nuovo ambasciatore a Roma in sostituzione di sier Polo Capello.

Carlo si rivelò dunque un buon maestro e un avversario tenace, riducendo certe volte Hironimo in un frustrato toro sbuffante.

“Non attaccare quando sei arrabbiato! Mi concedi solo un vantaggio! Su la difesa, vedi come ti disarmo al primo colpo? Dai, macaron de Puja!”

“Possiamo prenderci una pausa? Sono stanco!”

“Ha! Vallo a dire al tuo nemico in battaglia, sai che risata si fa?”

“Te ne stai approfittando, che non ti posso ammazzare!”

“Pfui! Prima d’imparare ad ammazzarmi, impara a non farti battere dal sottoscritto!”

“Posso almanco cambiar spada? Questa qui è troppo pesante, non riesco a muoverla bene!”

“Non c’è niente che non vada in essa, è il tuo braccio ch’è imbranato! Vedi che se le scambiamo, ti sconfiggo lo stesso? La spada è solo uno strumento che scompare se paragonato alla mano che l’impugna e alla volontà di chi la guida. Su, alza la guardia e ricominciamo.”

Molto probabilmente, l’ossessione ludica del ragazzo Miani equivaleva non solo ad una gratificazione personale ma anche ad un sentimento di rivalsa verso tutti coloro, che da fanciullo l’avevano dileggiato, specie a seguito della morte di Padre. Nelle sue vittorie egli immaginava di ripulire il nome suo e del genitore, ristabilendo l’onore della famiglia e affiancandovi la gloria personale.  

Soltanto l’equitazione sfuggiva a quella sua triste logica. Eòo, anno dopo anno, era divenuto uno splendido esemplare di corsiero, bianco latte e talmente intelligente, che quando Hironimo gli accarezzava teneramente il muso, per qualche istante poteva leggere un tentativo di conversazione nei grandi e languidi occhioni dell’animale. Il cavallo era l’unico essere vivente col quale l’adolescente si sentisse completamente a suo agio, raccontandogli mentre lo strigliava quei crucci segreti dell’animo suo che a nessuno osava confessare e se Eòo avesse posseduto il dono della parola, sicuramente l’avrebbe capito e consolato meglio di molti cristiani.

Lanciarsi al galoppo senza una meta, ventre a terra, l’aria che gli scompigliava i lunghi capelli e gli gonfiava la camicia … l’ebbrezza del divertimento, d’assoluta libertà, quasi di poter volare … Hironimo non se ne saziava mai, assecondata la sua vivacità da quella di Eòo, il suo Pegaso, col quale sognava di poter fuggire via, lontano, lontano, verso nuovi mondi e lì compiervi imprese talmente mirabolanti, di cui se ne sarebbe parlato nei secoli a venire.  

Sicché non gli risultò difficile partecipare ai vari palii sia a Venezia che in Terraferma e se dapprincipio bruciarono fastidiose al suo ego le prime sconfitte, poi col tempo e la pratica il ragazzo incominciò a vincerle, gongolando dinanzi alle espressioni stupefatte dei suoi cugini, i quali non si capacitavano della qualità di un cavallo di razza assai incerta quale appunto Eòo.

Il suo massimo trionfo fu il palio di Santa Lucia a Treviso, svoltosi il 13 dicembre, giorno di doppia ricorrenza laddove si celebrava sia la Santa con grande processione e in presenza delle massime autorità civili e religiose, dalla Cattedrale lungo via Cornarotta passando il ponte di San Cristoforo fino a raggiungere a piazza delle Erbe [2] la chiesa dedicata alla Martire; sia si celebrava la liberazione di Treviso dal giogo dei Carraresi da parte della Serenissima Signoria, avvenuta il 13 dicembre 1388 ed era stato proprio il suo antenato, sier Zuanne Miani “il Vecchio” q. Francesco "lo S-ciavo" ad espugnare il Castello, dove Francesco Da Carrara s'era rifugiato.

Per tale doppia ricorrenza era stato istituito nel 1390 dal podestà sier Ludovico Morexini anche un palio, con una sfrenata corsa di cavalli a Piazza Maggiore del Carrubio per il bel Bravium di velluto consegnato al vincitore, drappo benedetto dinanzi agli altorilievi della Madonna del Paveio (farfalla, ndr.) e di Santa Lucia. Il primo era un dono del podestà sier Lorenzo Celsi, commissionato nel 1354 allo scultore veneziano Phelippo Calendario, altorilievo che aveva sempre affascinato d’un gusto quasi morboso Hironimo.

“Carlino, tu che sai tutto, perché la farfalla?”

“Sin dai tempi antichi, la farfalla rappresenta l’anima. Ti ricordi Psyché? Ecco, nella devozione popolare, la farfalla simboleggia l’anima che ottiene, attraverso la conversione redentrice per opera di Cristo e la mediazione di Maria, la vita eterna nel Paradiso. Questo perché la farfalla si libera dalla crisalide per poter volare via in cielo.”

“Per questo motivo, dunque, la mano del Bambino è tesa verso di essa? Come se la stesse accompagnando?”

“Suppongo di sì. Devi ricordare che questa chiesa ha inglobato quella di Santa Maria delle Carceri, dove i prigionieri e specialmente i condannati a morte venivano a pregare prima dell’esecuzione. Ladri, stupratori, sodomiti, falsari, traditori, assassini … un bel bozzolo da cui liberarsi! Quanta feccia s’è qui inginocchiata davanti a Lei!”

“E convertendosi, sarebbero ritornata la loro anima a volare leggera?”

“E’ la nostra fede e speranza.”

“Ecco perché questo luogo mi dà i brividi.”

“Non ci pensare. Che mali puoi aver commesso tu, razza di paperotto? Piuttosto, vedi di vincere questo palio o ti pigliamo a calci nel sedere da qua fino a San Vidal!”

Hironimo vinse il palio, sfilando in trionfo per la Piazza col Bravium in mano e, una volta tranquilli e in tutta privatezza, sua cugina Maria pure lo premiò per la sua bravura con un soddisfacente bacio sulla bocca, ad imitazione di tutti quegli (per Hironimo) stupidi poemi cavallereschi di cui s’ingozzava da mane a sera. Tuttavia, quella vittoria sapeva di amaro, incapace egli di scacciare l’immagine della Madonna del Paveio dagli occhi.

Che mali puoi aver commesso tu, razza di paperotto?

Non sapevano niente.

Non conoscevano il bozzolo creatosi attorno alla sua anima, quel marciume che la imprigionava abilmente celato dalla galanteria, cordialità, generosità, dalla sua bella presenza fisica. Invidia, rancore, superbia, avidità di gloria, prorompente sensualità, attrazione verso il sangue e la morte li facevano da oscuro contraltare.

Per liberarsi del passato, Hironimo s’era votato a Marte, il quale però era un dio crudele, inneggiante alla violenza più brutale. La medesima che il ragazzo tentava disperatamente di dominare, ma che, complice la rabbia tipica della sua età e il gusto per il sangue di Venezia ereditato dai Romei, troppo spesso veniva incoraggiata e con effetti a dir poco strazianti per la coscienza del giovane Miani.

 

 

***

 

Settembre 1503

 

 

Nel quartiere di San Barnaba si trovava un ponte senza parapetti, nomato il Ponte dei Pugni, l’arena favorita di una delle gare di pugilato più sanguinose di Venezia, tanto che ad alcuni forestieri si rivoltava lo stomaco all’assistere a quelle disfide, prontamente dileggiati dai Veneziani lì presenti per la loro poca sopportazione: quale diletto arrecavano giostre e tornei? Roba quasi da signorini effeminati, se si poteva assistere a ben altra battaglia più cruenta e veritiera.

Tutta la logistica attorno al Ponte dei Pugni si presentava d’altronde adatta al combattimento, le due rive d’uguale dimensione cosicché le squadre potevano sistemarsi comodamente e di pari numero. I balconi, le finestre, le altane e i luminàl degli edifici attorno si trasformavano in tribune degli spettatori, così come il canale per l’occasione ripulito pullulava di gondole e i ponti adiacenti rinforzati onde non cedere al peso della massa stipatasi, in una sorta di Colosseo improvvisato. Lì tutta Venezia v’accorreva eccitata, dividendosi i partigiani per simpatie e già scommettendo sulla squadra vincente, addirittura assegnando il favore degli stranieri, a seconda di dove fossero entrati, se ad ovest da Chioggia o ad est da Mestre.

Sul Ponte dei Pugni sfogavano la loro secolare rivalità i “Castellani” - Arsenalotti, squeraioli, calafati e pegolotti ad est del Canal Grande -  e i “Nicolotti” ad ovest, pescatori e barcaioli [3]. Alla Signoria tali scontri non dispiacevano e anzi li incoraggiava, sia per tener ben allenato lo spirito guerriero dei suoi figli sia per distrarli da un qualsivoglia malcontento e ribellione nei suoi confronti.

La regola era molto semplice: vinceva la squadra che, in una serie di incontri individuali o di gruppo, avrebbe superato il maggior numero di avversari. Un punto per ciascun vittoria, due punti se uno dei contendenti riusciva a gettar in acqua il rivale. Curiosamente, la Guerra dei Pugni non concerneva soltanto gli uomini, bensì anche le loro donne, che non disdegnavano certo dar manforte azzuffandosi con le mogli dei rivali.

Hironimo, abitando nel sestiere di San Marco, aveva dunque sempre parteggiato per i Castellani, saltellando a momenti sul posto dalla foga dell’incitamento indiavolato e mulinando invasato braccia e pugni si sciorinava senza freni nella più prosaica sequela di incoraggiamenti misti ad imprecazioni, similmente a tutti gli altri spettatori, donne incluse, casomai queste più scatenate perfino degli uomini specie se erano le consorti dei partecipanti. Ovviamente, la Guerra dei Pugni corrispondeva all'ennesima occasione per Padre e lo zio Batista di litigare, giacché appartenenti i rispettivi sestieri alle due opposte fazioni. Le oscenità poetate dai maggiori della sua famiglia avrebbero fatto sanguinare le orecchie perfino al più sozzo dei soldati. Va' ad affogarti in rio con la tua ganza, ludro, onto d'un Cannaregio! San Cancian!, era infatti la cosa più gentile che Hironimo aveva sentito Padre urlare al cognato. Magnafasiòli d’on San Vidal, andé a lumàr che magari qualche danaro teo cati per pagarte la legna! rispondeva il barba Batista, in netto svantaggio rispetto a sier Anzolo, poiché mentre questi poteva insinuare sulle attività extraconiugali di madona Morexina, lo zio non poteva per non vituperare l’amatissima sorellastra Leonora. Ma questo non gli impediva di dar della puttana a suo cognato, tutt’altro.

Purtroppo, col trascorrere degli anni, sorse in Hironimo una grande smania di partecipare di persona a quel combattimento, invece di rimanere spettatore passivo. Ovviamente non ne aveva fatto parola con nessuno, sia per la pericolosità degli scontri (alla sera si raccoglievano i morti di ciascun partito) sia perché non era una competizione degna di un patrizio, partecipandovi esclusivamente il popolino e al massimo qualche cittadino.

Peccato che lo spirito ribelle della sua giovane età, il fascino verso l’ignoto e l’avventura nonché l’aggressivo spirito competitivo del suo sesso spinsero il giovane Miani a trasgredire quel divieto e una mattina del 30 settembre 1503 egli riuscì a sgattaiolare fuori casa (dopo esser rimasto indietro con la scusa di un grave mal di pancia) e di mescolarsi tra le squadre dei Castellani. All’occasione aveva rubato i vestiti di Dardi di Polo, il nipote di Orsolina, e la sua bereta di feltro rosso, sporcandosi con della cenere il viso e le mani acciocché non lo si riconoscesse e dal modo in cui i suoi nuovi compagni lo accolsero a gioviali pacche sulla schiena, lo stratagemma funzionò.

Era una giornata tiepida, soleggiata e San Barnaba affollatissimo, l’aria vibrante di grande aspettativa, ogni sguardo puntato sui trecento gareggianti per fazione che, salutando il loro pubblico, si vantavano alla stregua di galletti e insultavano pesantemente l’avversario, spaziando dal mestiere presunto delle loro madri alle personali porcherie, niente si salvava, neppure i rispettivi morti. Hironimo, dal canto suo, abbassava invece il capo e si portava un po’ di frangia sul viso, il cuore però impazzito dall’eccitazione.

Le donne “Castellane”, con i capelli raccolti in un fazzoletto rosso, fischiavano, mulinavano i pugni e riempivano di gesti e smorfie osceni le “Nicolotte”, dai fianchi cinti dalla fascia nera, le quali ricambiavano altrettanto bellicose.

“Maddalusse ingiandolìe!”

“Dorondòna!”

“Fùmia!”

“Gratapanza!”

“Gualta!”

E via così in un crescendo inarrestabile di prosaicità.

“Ti te sé fortunà”, confessò ad Hironimo un Castellano accanto a lui, “ancuò se fa la guera ordenà!”

Il giovane patrizio sorrise euforico: la guerra ordinata corrispondeva allo zenit della Guerra dei Pugni, laddove non ci si limitava più ad accumulare punti, bensì si doveva conquistare con qualunque mezzo il ponte stesso. Fortunatamente, a quello la Signoria sì che poneva freno, concedendo saltuariamente la guerra ordinata, altrimenti Venezia si sarebbe svuotata come durante i cupi anni di peste.

I due padrini dei Castellani e Nicolotti giunsero infine correndo al Ponte dei Pugni, uno da una parte e uno dall’altra. Questi arbitri, contrariamente al resto dei partecipanti, erano invece dei rispettabili cittadini la cui abilità nel pugilato li aveva concesso l’onore d’aprire la disfida. Appena saliti si levarono lo zipone e indossarono il guanto, rimanendo in manica di camicia onde evitar di ritornare a casa col prezioso indumento a brandelli.

“An, ti no te me gh’ha ancor dito chome te ciami!”, si sovvenne il giovane uomo accanto ad Hironimo, intanto che si levava anch’egli il farsetto di monachino. “Mi me ciamo Zane, e ti?” Dall’accento doveva provenire dal sestiere di Castello. [4]

“Anzolo”, rispose d’impulso il patrizio. Si tolse il farsetto e s’arrotolò a ciambella la camicia alla vita, rimanendo a torso nudo. Dopodiché, accommiatandosi dai sandali e rimasto scalzo, infilò un guanto sulla mano destra.

“Sistu de Sen Marcho?”

“Siorsì.”

“Stame vizin, va ben? Mi te vardarò le spàe! E gnente “sior” qua: ché parlemo moscheto horra?”, ridacchiò bonario.

Hironimo al contrario annuì attento: nella guerra ordinata ne succedevano di tutti i colori, rimanere compatti e guardarsi a vicenda le spalle era l’unico modo per arrivare incolumi a fine gara.

“Et arecordate di tegnir serrà le labra!”, s’intromise un ragazzotto assai robusto, forse uno squeraiolo, presentatosi col nome di Nico. “Cussì”, gli mostrò solerte, cacciando indietro le labbra che pareva quasi ingoiarsele.

Un altro, nomato Lio e anch’egli di San Marco, da dietro prese a raccogliere i lunghi capelli di Hironimo, cacciandoglieli dentro la bereta di feltro rosso e sistemandogli meglio la sciarpetta d'altrettanto colore. “Se no, i te ciapan pe i caveij e bondì sioria!”, rise, contagiando col suo buonumore anche il giovane Miani e i giovanotti accanto a lui.

“Speremo de vinzer st’anno”, sospirò falsamente tragico Nico, stiracchiando le braccia. “La mia fameja, par ea vargogna, a me gh’ha tegnuo el muso duro fin squasi a Nadal!”

“El mio vecio manco me gh’ha voluo vardar, me gh’ha lassà fora dea porta par tuta ea note, pèzo d’un can!”

“Pianzeu vuialtri per st’asinerie? Voleu satre cossa xélo capità a mi?”, schioccò scettico la lingua Zane alle lagnanze dei suoi compagni, “la mia femena no me gh’ha dato par tre” e mostro ben in alto le dita, “setimane la mona. Tre setimane, porc’eva, tanto la gera arabià!”

Perché la vergogna della sconfitta comportava, oltre ad arti doloranti, anche lo sdegno degli stessi famigliari e soprattutto delle loro risentite metà, tant’era vero che alcuni neppure osavano rincasare nell’immediato, temendo infatti d’incassare le ultime randellate della giornata. 

“E ti, Anzolo?”

“An, par mi xea prima volta.”

“Bia' ti!”

“Beh, se perdemo, sta seguro che te finisso mi a teghe en testa!”

“Pulito! Perhò se vinzemo, ti me favorissi ea mona di la toa femena!”

“A bea! Mi poxjo ea boca?”

“Ti te pol star lì a vardar, Zane, mica m’ofendo!”

“O femo le cosse en tre, che mi sun omo splendido (generoso, ndr.) de gran core!”

“Alor, splendidamente mi te dago tante di quee pèae (pedate, ndr.), che te desmenteghi de ser stà omo!”

“Eh! Ma almanco ‘na ciuciadina la me pol dar! Senpre te lagni ch’ea no stagi mai zitta!”

“Zò, ciucia sto pugnazo, folpo sporcaciòn!”   

Tuttavia si minacciavano piuttosto allegramente, a giudicare dalle alte risate sguaiate.

“Ohé, scomenzemo? O femo note?”, allungò il collo Lio, mettendosi in punta dei piedi.

Terminato lo scontro tra i due cittadini – finito con la vittoria del padrino dei Nicolotti tra le urla di vittoria e i fischi dell’avversario – le Castellane e Nicolotte erano partite all’attacco, lasciandole per cavalleria sfogarsi per prime. Una donna con due braccia da marinaio cacciò un pugno che ci si dolse per il suo marito; un’altra perse copiosamente sangue dal naso; alcune sputarono i denti; altre si videro tirate i capelli e le camice strappate e una tal Altabella finì in canale non senza che le si fosse, durante la caduta, sollevato il gonnellone, mostrando all’universo mondo il pelliccione biondo tra le gambe, visione che pacificò per un attimo tutti i maschi lì presenti, i quali apprezzarono e si offrirono volontari di tirarla fuori dall’acqua.

Conclusasi la piccola parentesi e ripescata l’Altabella, si passò alla vera competizione. Essendo quella giornata di guerra ordinata, ciascun partito s’era ammassato sui due lati della riva e, fin dove si poteva vedere, esse brulicavano di lottatori. Il gruppetto di Hironimo si trovava per loro sommo smacco abbastanza indietro, rendendoli difficile la comprensione di quanto stesse avvenendo sul ponte.

“Ecco! Ecco!”

Ricordato a voce alta e intelligibile le “regole”, unico momento in cui il pubblico chetandosi ascoltava in rigoroso silenzio, i due arbitri si pararono di fronte agli angoli opposti dell’arena, abbastanza da vedere ma non dar esser coinvolti.

Un ultimo attimo di apnea …

“San Marco!”, gridarono i padrini, fuggendo via strategicamente e la folla ruggì in coro il suo sfrenato entusiasmo.

In un sol uomo le due fazioni si buttarono in avanti, spingendosi furiose mentre lanciavano a loro volta urla sempre più assordanti, tra bestemmie e insulti, finché le prime file, sotto l’effetto della pressione, e le ali della compatta colonna di lottatori non cedettero e di botto interi gruppi di quasi sessanta persone caddero rovinosamente in canale a un tempo, tra i lazzi ingiuriosi e le risate sgangherate degli spettatori e della parte avversaria.

I lottatori rimasti all’asciutto invece corsero forsennatamente fino al ponte nel tentativo d’attraversarlo e dunque dichiarare chiusa la partita, cozzando violentemente tra di loro come un’onda sullo scoglio: nell’impatto finirono o abbracciati o atterrati da una presa brutale; aggrovigliatisi in nodi di braccia e gambe, ci si spingeva di peso dalla parte opposta, o ricacciando via il nemico o avanzando sbuffando a guisa di toro. Un marcantonio di Castellano ghermì per il braccio e la gamba un Nicolotto e, sollevatolo di peso, lo lanciò giù dal ponte in acqua, tra gli applausi del pubblico in visibilio. Un Nicolotto invece saltò sulla schiena, da dietro, di un Castellano, che tentò di scrollarselo di dosso a guisa di cavallo imbizzarrito, intanto che quell’altro lo costringeva ad inginocchiarsi. Cogli avambracci si circondavano gole, ci si faceva vicendevolmente lo sgambetto.

E poi, ovviamente, volavano pugni come le dantesche schiere angeliche, in un dolce coro di diretti, ganci e montanti.

Un Castellano s’abbassò per schivare il gancio d’un Nicolotto, per poi bloccargli un montante di gomito. Un altro Nicolotto invece schivò un diretto in una piroetta ad U che provocò l’involontaria, ma vantaggiosa, caduta dal ponte di un Castellano (un letterale colpo di culo).

Laddove fallivano i pugni compensavano i calci, mirando soprattutto a stinchi e coglioni e chi aveva la miglior coordinazione gamba-diretto sapeva colpire la virilità avversaria e subito finirla tramite sonoro cazzotto, spendendola a far compagnia alle anatre.

Un Castellano intrecciò le mani per formar un solo pugno e lo calò tra le scapole d’un Nicolotto, tramortendolo e poi lo calciò fuori dal ponte; un altro Nicolotto si beccò un colpo alla tempia e non si rialzò più. Un Castellano invece si prese in testa un colpo che avrebbe ammazzato un bue e neanche quello diede più segni di vita; due contendenti si appiattirono contemporaneamente a gambe all’aria sulla pietra del ponte e un Castellano schiumante sangue dalla bocca attaccò in un balzo il Nicolotto che si preparava a dargli il colpo di grazia, stendendolo con un commuovente montante al mento.

Uno strano grappolo umano si formò ad un certo momento sul ponte: in una catena di prese per braccia, gambe, brache e capelli, alcuni contendenti penzolavano dalla struttura nel disperato tentativo di rimanere su, incitati dalle grida del pubblico scatenato e dall’esagitato svolazzare di fazzoletti dai balconi dei palazzi. I lottatori rimasti aggrappati sul ponte tiravano su tra fischi e sbuffi e sputi finché le vene del collo non li s’ingrossarono dallo sforzo; ahimè la forza del peso prevalse e tutto il gruppo cadde in un sonoro tuffo in acqua, bagnando anche i loro compagni sulla riva tra grasse sghignazzate di coloro che assistevano dalla gondola, divertiti sia dagli schizzi che dal piacevole moto ondoso provocato da quelle cadute.

I gruppi retrostanti, tra i quali si trovava anche Hironimo, incominciavano nel frattanto a scaldarsi, impazienti d’entrare in azione.

“Spenzare! Spenzare!”, si spronavano l’un l’altro e anche il giovane Miani spingeva il suo compagno davanti con ogni forza concessagli dalle braccia. Forti di quella nuova pressione, i Castellani guadagnarono qualche spanna al di là della metà del ponte, prontamente bloccati però dai Nicolotti che tenendoli fermi o intrecciando le mani o spalla contro spalla, facendo perno con le gambe assorbivano e ricambiavano tramite compatto muro l’impeto del loro assalto.

Ciò frustrava le retrovie, stufe di spingere soltanto.

“Zò, Anzolo, ti che te sé picinin, montame sora le spae!”, gli ordinò Zane, abbassandosi quel tanto acciocché Hironimo potesse salirgli sulle spalle e, issatolo, lo sbilanciò su quelle dell’uomo davanti a lui e, trapezio dopo trapezio, il ragazzo riuscì a portarsi più avanti. Non fu il solo: molti dei suoi compagni stavano salendo sui corpi dei loro compari, arrampicandovisi sopra e raggiungendo così le prime file che si trovarono il pronto ausilio di questo secondo piano di lottatori freschi e dalla mira eccellente.

“Toga qua, bestia d’un Nicoloto, buso descusio, magna-bifi!”, berciò un Castellano vicino ad Hironimo, lanciando con accurata precisione un sasso contro un Nicolotto lì sulla riva opposta, colpendolo alla spalla e per la sorpresa questi cadde in acqua.

Al che il patrizio, afferrata al volo l’antifona, senza saperlo si ritrovò tosto ad imitarlo, e un’interrotta lapidazione da far sembrare quella di Santo Stefano roba da imbranati amatori si rovesciò sulla parte avversaria, la quale si vide dapprincipio costretta a riparare alla bell’e meglio, ingobbendosi.

Magro vantaggio ché tali pratiche erano assai note: subito infatti comparvero le retrovie dei Nicolotti che risposero con bombardate altrettanto gagliarde. In più occasioni un sasso o un piatto o un coccio di ceramica sfiorarono il giovane Miani, traendo all’occasione sangue se questi era appuntito. Nondimeno, pur dondolando incerto sulle spalle del suo collega, era difficile colpirlo giacché i suoi riflessi prontissimi lo aiutavano, grazie agli allentamenti alla pallacorda. Così, abbassandosi e mostrando la lingua, impallinava feroce il temerario ch’aveva osato scambiarlo per un’anatra selvatica, divertendosi un mondo.

I poveri gondolieri dovettero intanto girare le imbarcazioni e spostarsi, prima che la loro testa e la felze dei padroni si trovasse nella traiettoria dei contendenti. Qualche proiettile di fortuna arrivava addirittura dentro in casa attraverso le finestre, tutte saggiamente lasciate spalancate.

“Lio! Zò cossa fastu?”, gridò Hironimo al suo compare, il quale si stava scimmiescamente arrampicando su per il muro di un palazzo.

“A catar copi!” (tegole, ndr.), gli rispose quegli, puntando al tetto assieme ad altri compari. Una volta lì, il giovanotto incominciò a staccar le tegole e a lanciarle giù alla sua squadra, accogliendole questi simili ai rondinini col verme di mamma rondine. “Ciapa qua, Anzolo!”, urlò Lio e Hironimo si spostò cauto alla sua sinistra, affinché le preziose munizioni non cadessero per terra, frantumandosi e andando così sprecate.

Sfortunatamente, quella sua iniziativa lo distrasse, rendendolo meno vigile alla mira nemica e una stoviglia di terracotta lo colpì alla coscia, sbilanciandolo in avanti. Se non fosse stato per un Castellano dai riflessi ben vispi, che lo catturò per il bordo delle braghe e lo gettò indietro, di certo Hironimo sarebbe cascato in acqua, coprendosi conseguentemente di ridicolo.

Inaccettabile.

Rabbioso, il diciassettenne patrizio s’accucciò per terra e incominciò a diselciare a mani nude la riva, onde procurarsi le mattonelle necessarie al bombardamento di quegli sfrontati scalzacani. Poco gli importava del sangue proveniente dalle unghie rotte, né del sudore e degli schizzi d’acqua salata che gli annebbiavano la vista. Munitosi finalmente, Hironimo sgomitò per portarsi più presso al ponte e da lì riprese a lapidare i Nicolotti ai lati della struttura, permettendo così ai Castellani in prima fila di avanzare di qualche passo.

La piccola vittoria diede nuovo impulso alla squadra e il Miani venne spinto anch’egli in avanti, finalmente mettendo piede sul primo gradino del ponte. Un passo e un passo ancora e senza neanche rendersene conto, eccolo faccia a faccia coi Nicolotti.

Una folle euforia invase il ragazzo, che di riflesso alzò gli avambracci pronto a parare i colpi e di fatti la sua preparazione ginnica gli fornì un pronto vantaggio contro la tecnica assai raffazzonata dei suoi avversari, i quali sì possedevano una forza notevole, ma lasciavano moltissimi punti scoperti e lì Hironimo colpiva spietato, fosse all’addome, al fianco, sul volto.

Colpiva, indietreggiava, colpiva e indietreggiava, un diretto, poi abbassamento, parata, schivata, gancio, flessione laterale, gancio, rotazione, bloccaggio e infine un bel montante sotto il mento che mai faceva male (per lui). Se non si fosse trovato in uno spazio sì ridotto e asfissiante, stritolato infatti dai robusti corpi dei suoi compari e avversari, di sicuro avrebbe anche potuto divertirsi di più tramite un grazioso gioco di gambe, sebbene tali raffinatezze, ragionò, erano sprecate in quella grande zuffa plebea. Ma oh! come se la sarebbe spassata alla prossima lezione di pugilato nella sala ginnica! I suoi amici, a parte qualche tafferuglio al Carlevar, non avevano mai fronteggiato veri avversari che menavano sul serio e non per futile gioco, o per guadagnar tempo e scappar via dagli Zaffi. Questo era il suo battesimo di fuoco e, superatolo, nessuno l’avrebbe mai più sconfitto nelle risse!

Tra i Nicolotti, intanto, serpeggiavano occhiatacce malevoli e lo sdegno misto al sospetto li portò alla conclusione che i Castellani stessero barando, avendo arruolato tra le loro fila un professionista, anche se giovanissimo, forse figlio di qualche condottiero che sperava di attirare l’attenzione della Signoria in vista d’un futuro ingaggio. Beh, anche no!

Hironimo aveva appena steso l’ultimo suo avversario che un altro subito lo sostituì e con esso il luccichio di qualcosa di metallico, un pugnale che teneva attaccato dietro alla cintura nera. Panicando, il ragazzo lo afferrò in tempo per il polso, bloccando la punta della lama a qualche dito dal suo viso; un suo compare da dietro tentò di spinger via il contendente, ottenendo però come risultato che sia lui che Hironimo si sbilanciarono e caddero per terra, a qualche spanna dal lato esterno del ponte.

“Corteli! Pugnai! Arme! Arme!”, corse veloce l’avviso tra i Castellani di sfoderare le loro di armi e di gettarsi nella pugna o, per chi era troppo lontano, di lanciare direttamente i pugnali e stiletti contro i Nicolotti, infilzandoli.

Il sangue schizzava dappertutto, tingendo l’acqua e il selciato e i bordi (o ciò ch’era rimasto) delle rive, in un gran mattatoio che ricordava quei sacrifici umani ai tempi degli Antichi o gli spettacoli gladiatori negli anfiteatri romani; grida, ringhi e gemiti cozzarono tra di loro così come i metalli nemici sfrigolavano avidi, alterandosi a pugni, morsi e stramusoni conditi di mattonelle. Qualcuno perse un dito, chi un pezzo d’orecchio, chi un occhio, chi qualche dente (o una fila di essi), chi la punta del naso, chi rimase sfregiato sulla guancia, chi si morse a sangue la lingua, chi si trovò strisci più o meno profondi sul petto, sulla coscia, sulla braccia, chi per poco rimase castrato e chi se ne andò direttamente al Creatore.

La disfida degenerò presto in una carneficina per il sommo gaudio degli spettatori, i quali giubilavano in estatica frenesia, battendo le mani e ridendo senza manco saper perché, gridando, contorcendosi più dei posseduti dai demòni, i capelli e gli ambiti scomposti, le lingue fuori e penzoloni, i denti ben in mostra, qualche filo di saliva che li scivolava dal tanto strepitare, i petti ansanti, gli occhi spalancati, convulsi, spirati e non ragionavano più, dimentichi di ogni pietà umana e colmi di perversa esaltazione e furore, arrivando ad abbracciare o a strusciarsi non visti con bestiale foga sulla compagna accanto, scene da baccanali dei più tremendi.

La catarsi tramite la mattanza.

Tale furia, figlia della vergogna e della paura, aveva contagiato anche Hironimo, steso supino sul bordo del ponte, intrappolato dal pesante corpo del suo avversario che ancora tentava d’infilzarlo con pugnale. Il Nicolotto era riuscito a graffiagli ambedue gli avambracci, tuttavia il piede del patrizio sul suo addome gli impediva di calare oltre la lama, la quale da degna emula di quella di Damocle seguitava a penzolare minacciosa all’altezza  della gola. La presa stessa del Miani, perfezionata tramite l’apprendimento preciso e raffinato da un maestro, aveva bloccato i polsi dell’uomo e il diciassettenne ogni tanto premeva coi pollici sui legamenti o li storceva appena, provocandogli notevole dolore.

I due rimasero bloccati in una vera prova di forza, laddove avrebbe vinto chi dei due sarebbe resistito più a lungo, trovando magari una debolezza nell’altro e sfruttandola per ribaltare la situazione.

In questo, per quanto allenato, la giovane età non venne in soccorso ad Hironimo, né la sua vita relativamente comoda di patrizio, giacché al contrario il Nicolotto sopra di lui doveva di certo lavorar come facchino o comunque un lavoro di elevata forza fisica ché la gamba del ragazzo si piegò sotto il suo peso e il viso furente di questi s’avvicinò ulteriormente a quello di Hironimo, tanto che poté sentirne l’alito caldo e qualche goccia di sudore e saliva bagnargli la faccia. Pur bruciandogli i muscoli delle braccia, il giovane Miani digrignò i denti e s’impose di non cedere alla pressione esercitata dal Nicolotto, il quale lo fissava con una tale espressione, che nulla più possedeva di umano, una maschera da incubo rubata a qualche demone nei dipinti fiamminghi. Lo voleva ammazzare e ammazzato lo avrebbe, inutile appellarsi alla ragione. Al diciassettenne sfuggì una risata isterica: se soltanto quel folle avesse saputo chi s’apprestava a pugnalare! Si sarebbe degolato da sé, prima di levar la mano contro un patrizio!

La risatina offese a morte il Nicolotto, ignaro dei pensieri del ragazzo sotto di sé; premendogli le ginocchia sotto i glutei, prese a spingerlo oltre il bordo del ponte ed ecco che il giovane Miani si ritrovava mezzo sospeso nel vuoto a contemplare San Barnaba a testa ingiù. In questo modo non riusciva a coordinare i suoi movimenti, né a prevedere quelli dell’avversario, il sangue gli fluì alla testa e la sua difesa cedette di conseguenza.

Sicché, abbandonandosi all’istinto, il patrizio strinse gli addominali e issandosi come durante gli esercizi puntò al setto nasale dell’uomo, elargendogli una poderosa testata che lo sbilanciò all’indietro, le mani corse all’osso rotto.

Hironimo avrebbe allora potuto rifilare un dritto o un gancio all’addome del Nicolotto. Oppure spingerlo o lontano da sé o direttamente in acqua. Avrebbe potuto approfittarne per gattonare via. Avrebbe potuto tramortirlo tramite una tallonata sulle palle e passare al prossimo.

Ma non lo fece. O non poté farlo. Non lo sapeva, non capiva più niente, quanto accadde lo osservò con tale distacco che quasi gli parve esser un’altra persona, uno dei tanti spettatori di quella macabra disfida.

Vide la sua mano correre autonomamente verso il pugnale, disarmando il gemente avversario.

Vide il suo braccio levarsi, rapido e letale come insegnatogli dal maestro di scrima.

Vide la punta affondare precisa nella carne tenera della gola.

Vide il sangue sprizzare e lordargli il volto quando la ritrasse.

Vide l’espressione sconvolta, tradita, terrorizzata dell’uomo.

Vide il corpo del Nicolotto tremare convulso e rimbalzare nella sua caduta prima per terra e poi in una grassa scia di sangue scivolare in acqua.

Rigiratosi prono e aggrappatosi incredulo al bordo del ponte pregno di sangue, Hironimo seguì ipnotizzato l’affioramento del cadavere del suo avversario in superficie, il rosso sulla pelle lavato via dall’acqua, la quale dondolava il morto assai dolcemente, quasi lo ninnasse materna verso il sonno eterno.

Ho ucciso un uomo?, si chiese disorientato il ragazzo, scoprendosi ancora stretto il pugnale tra le dita insanguinate, il viso gocciolante di sangue e sudore.  

Era stato dunque così facile? Recidere una vita, scendere nell’Ade era dunque così semplice, questione di qualche istante? Giorni, mesi, anni per formare un essere umano e un battito di ciglia per annullarlo? Come se non fosse mai esistito?

Ho ucciso un uomo.

Anche Padre era morto così, in un battibaleno, la sua esistenza cancellata tramite gesti così banali? Neanche i suoi carnefici stessero sopprimendo una bestia?

Ho ucciso un uomo.

Così poco valeva la vita umana, così fragile da non metterci niente per distruggerla?

Ho ucciso un uomo.

Perché quel Nicolotto voleva ucciderlo? Che gli aveva fatto Hironimo di male?

Perché quegli ignoti avevano ucciso Padre? Che li aveva fatto lui di male?

La lama tremò.

Ho ucciso un uomo.

In un balzo felino, Hironimo si ritrovò in piedi e cacciando un urlo spaventoso si gettò su di un avversario a caso, mulinando il pugnale a destra e a manca, colpendo dove colpiva, senza tecnica né scopo, tranne quello di trarre sangue.

Ho ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo.

Non c’era niente di eroico nella morte. Niente. Un animale che uccide un altro animale. Semplice. E poi il nulla.

Molto probabilmente, il ragazzo aveva osato spingersi troppo in là, mancandogli di conseguenza il sostegno della sua squadra. La stanchezza poi di ore di combattimento gli avevano appesantito le braccia, rendendolo goffo e pesante nei movimenti e nelle sue reazioni. Sicché un pugno allo zigomo gli fece ruotare la testa, annebbiandogli la vista e un altro all’addome gli mozzò il fiato in gola, togliendogli l’equilibrio. Il mondo prese a vorticare in una sequela di sferzanti luci, di colori mischiati selvaggiamente tra di loro e lo stridulo rimbombo delle grida concitate dei lottatori e in questa fantasmagorica gagliarda Hironimo sgambettò e roteò sconclusionatamente, ogni appiglio perduto così come il dominio sul proprio corpo, ridotto ad instabile marionetta.

Un paio di mani (o tenaglie a forma di mani) non tardarono ad agguantarlo e, in una buffa capriola, il diciassettenne patrizio volò letteralmente giù dal ponte, e trovò curioso il modo in cui il mondo si rovesciava e roteava fino a terminare inghiottito nel verde-bluastro delle acque del canale. 

L’impatto dell’acqua sulla schiena non si rivelò tanto atroce quanto temuto dal Miani, il quale affondava rotolando in una grande scia di bolle. Né l’acqua fredda gli dispiacque, semmai l’aiutò a ritrovare la calma, sentendosi dopo tanto tempo in pace con se stesso, sensazione provata soltanto in sella ad Eòo. Neanche s’avvide di come non riuscisse più a muovere un sol dito, la mente intorpidita dal cazzotto ricevuto da rendergli impossibile ogni azione e confuso ogni pensiero.

Lì, sottacqua, le grida, i tonfi, ogni suono gli giungevano ovattati, sgradevoli echi lontani da cui desiderava alienarsi. I raggi della luce filtrati dall’acqua creavano piacevoli veli da cui lasciarsi accarezzare, mentre il suo corpo, pesante, scendeva, scendeva … le sue braccia immobili tese verso l’alto come in preghiera e i capelli fluenti a guisa d’alghe lo incoronavano di scapigliata leggerezza …  accompagnato dal profondo sospiro del mare, quella voce greve e costante che cullava i marinai caduti nell’abbraccio della capricciosa Thalassa, addormentandoli per sempre tra le sue cupide braccia … quella voce che soltanto i delfini e gli altri animali marittimi conoscevano … quella voce antica come il mondo e che non poteva offendere, che tutto azzerava …

Il mondo finalmente distante, sigillato dalla superficie dell’acqua, e con lui ogni suo dolore. Il sangue più non macchiava né le sue mani né il suo corpo; si sentiva libero e leggero, come le farfalle. E forse anche la sua anima sarebbe volata via, ricongiungendosi al Nicolotto della cui vita egli aveva così crudelmente disposto, ricongiungendosi magari anche a quella di Padre …

Libero, libero da quell’odiosa crisalide!

Hironimo chiuse gli occhi, soffocato dall’ultima vertigine provocatagli dal cervello concusso, ma ecco che questi gli proiettò dinanzi al posto del buio sempiterno l’altorilievo della Madonna del Paveio di Treviso, i cui occhi di pietra dalla farfalla si spostarono sul ragazzo, infelici, quasi stesse per piangere.

Figlio mio, Momolo mio, cosa fai?, udì egli la Sua voce dolente, curiosamente assai simile a quella di Madre.

Due enormi bolle fuoriuscirono dalle narici del giovane e una dalla bocca l’avrebbero presto seguite, se egli, ripresosi dal suo incantamento, non avesse saggiamente serrato le labbra e trattenuto in gola quel poco preziosissimo fiato rimastogli. Dominando l’istintiva reazione di dimenarsi scoordinatamente e così sprecare energie e ossigeno, Hironimo sciolse il nodo della camicia e come di lei si sbarazzò anche delle braghe, i vestiti pregni d’acqua trasformatisi infatti in ulteriori pesi che lo trascinavano in basso.

Stese le braccia in avanti a forma di cuore, ma stavolta per darsi propulsione in avanti, sostenuta dalla spinta della gambata che lo avvicinò alla superficie.

Bracciata, gambata – su! Bracciata, gambata – su! Dai, Momolo, dai che sennò arrivi ultimo! Bracciata, gambata – su!

Le mani del ragazzo s’artigliarono alla cieca al primo oggetto solido ad esse reperibile, ottimo punto d’appiglio per lo sforzo finale: imitando uno di quei tritoni tanto amati dai pittori nei loro trionfi di questa o quella divinità classica, il giovane Miani sfruttò l’ultima leggerezza concessagli dall’acqua per sollevarsi in alto e lasciarsi cadere pesantemente scomposto e supino a bordo di quella che scoprì trattarsi di una gondola. La testa parve volergli scoppiare quando la batté sul duro legno.

Neanche il tempo di giustificarsi coi proprietari della gondola, che i suoi polmoni si contorsero in fiamme, lo stomaco sottosopra e disgustato dall’effetto purgante dell’acqua lagunare, sicché il giovane patrizio riuscì nella notevole impresa di tossire e allo stesso tempo rigettare vomito e acqua, perlomeno quest’ultima parte a carponi a babordo, fuori dall’imbarcazione. Grugnendo, respirò affannosamente l’aria ritrovata, gli occhi brucianti dalla salsedine, scostandosi le ciocche bagnate dalla faccia e rabbrividendo al contatto dell’aria pomeridiana, le tempie che gli battevano alla stregua dei tamburi di galea.  

“Momolo?!”

L’interpellato in questione si bloccò all’istante, tramutato in sale neanche fosse la seconda moglie di Lot. [5] Circospetto si voltò verso la famigliare voce che lo chiamava, sperando che appartenesse a chi lui sperava. Poiché se si trattava di un suo parente, nulla l’avrebbe sottratto all’orrido destino del sileno Marsia, altroché. [6]

“Patrona …”, mormorò in un buffo singulto, la bocca storta in una smorfia incerta tra l’accattivante e il dispiaciuto per quella sua insolita invasione dell’altrui gondola.

Luzia Trivixan, cortigiana "honorata", virtuosa del canto d’eccellentissima fama, figlia di Apollo, musa ispiratrice dei più celebri musicisti e compositori di Venezia, generosissima mecenate e amante preferita di suo zio Batista lo fissava imbambolata, il ventolino levato a mezz’aria quasi la donna fosse incerta se sventolarsi o picchiare Hironimo con esso.

Fossero quelli stati altri luoghi e altre circostanze, onestamente al ragazzo non sarebbe dispiaciuto trovarsi in mutande a tu-per-tu con la Diva. Al contrario, una subitanea verecondia lo colse traditrice e il patrizio si accovacciò su se stesso nel goffo tentativo di celare simultaneamente petto e inguine, maschile imitazione dell’Afrodite Accovacciata dello scultore greco Doidalsa.

La cortigiana, appurata l’identità dell’ospite imprevisto, abbassò il ventolino di damasco, tirando un grande sospiro di sollievo. Sorridendogli amabile e intuendo al volo i come e i perché di quella bizzarra entrata in scena, Luzia staccò la spilla di diamanti e si sciolse l’ampio zendale di seta dalle spalle, che usò lesta per coprire Hironimo, suggerendogli cogli occhi intelligenti di sgattaiolare dentro la felze, operazione resa assai complicata dalla scoordinazione motoria del ragazzo, ancora mezzo intontito sia dai pugni ricevuti in testa che dal mancato annegamento e di fatti, nella felze, egli c’entrò a guisa di granchio.

“Ohé, Luzietta”, cinguettò da una gondola vicina Francesca Ordeaschi, altra nota cortigiana honorata d’esotica bellezza, vestita quel giorno d’un eleganza strepitosa, di damaschetto dai fiori d’oro e argento trapuntati di perle, che pareva la dea Flora reincarnata. La sua imbarcazione, contrariamente a quella della Trivixan, ospitava tre gentiluomini, segno che la Ordeaschi ben conciliava il negotium all’otium. “No xélo un fià presto per la pesca de’ bisati?”, alluse maliziosa, indicando celere tramite il ventalino la figura snella e muscolosa d’Hironimo seminascosta dalla felze. Tanto colta e raffinata quanto subdola e intrigante, quell’ambiziosissima figlia di nessuno qual era Francesca Ordeaschi non mancava di metter alla prima occasione disponibile in cattiva luce le sue colleghe per accaparrarsi gli uomini più potenti e ricchi, sicché le cortigiane in sua presenza si comportavano in maniera ancor più guardinga e artificiosa, onde non esser colte in fallo, arrivando perfino a spiarla a loro volta tramite gli stessi clienti che l’Ordeaschi intratteneva così da anticiparne le mosse.

Luzia medesima, pur all'apice della sua carriera, aveva guerreggiato gagliardamente contro Francesca, la giovane e fresca nuova arrivata, sennonché il suo talento canoro e nella musica in generale le avevano ritagliato una clientela, seppur di nicchia, alla temuta rivale piuttosto inaccessibile per quanto si sforzasse.

Affatto intimorita da quella velenosa frecciatina, la cantante rise dunque piena di sarcastica nonchalance, allargando le braccia e roteando enfaticamente i polsi similmente a quando s’esibiva per il suo pubblico. “Oh cara”, tintinnò soave la sua voce simile a mille campanelli scossi dal vento, “io son la Ciprigna Venere, che, poscia la dura pugna, consola tenera tra le candide sue braccia il bello e indomito Marte, l’Andreiphontês, il Miaiphonos!”, gorgheggiò la sua gola d’usignolo in improvvisato canto, sicché la battuta canora piacque agli altri astanti lì vicini, che applaudirono impressionati.

L’Ordeaschi arricciò furbetta la carnosa bocca sensuale, replicando altrettanto ampollosamente: “Ch’el povero Vulcan vostro non vi sorprenda!”

“La sua Venere saprà far giusta ammenda!”, la rassicurò canticchiando la Trivixan, inchinandosi affettata e, raggiunto il suo ospite nella felze, calò i drappi laterali, concedendosi così un po’ di privatezza senza però rinunciare al cruento spettacolo dinanzi a sé sul Ponte dei Pugni. “Dorondòna petegola”, commentò sbuffando, sventolandosi imbronciata il ventalino.

“Oh, poareto ti”, si concentrò poi Luzia sul suo protetto, sistemandosi tra i morbidi cuscini di velluto all’interno dell’elegante felze e invitando Hironimo ad imitarla, il quale s’accoccolò al suo fianco, attirato dal sia dal calore sia dal profumo di lei che gli ricordavano le melagrane settembrine. La cantante gli sistemò sopra una leggera coperta, studiando con materna apprensione i lividi sul volto e il grumo di sangue tra i capelli impiastricciati tra  loro. “Cossa gh’hastu combinà? Vardate, te xé mojo chome un arnàto! [7] Che labbra blu!”, scosse il capo, accarezzando dolcemente e senza alcun fine di seduzione il corpo pieno di tagli e ecchimosi del ragazzo, il quale starnutì, stringendosi più presso lo zendale sotto la coperta. “Non ti sarai mica buscato qualche malanno? Tremi neanche avessi la terzana!”

“No, no, siora patrona, sto bene”, la rassicurò Hironimo, rendendosi conto solo in quel momento di come effettivamente stesse battendo i denti e di come le sue mani si muovessero autonomamente in convulsi spasimi. Le vertigini ancora non l’avevano abbandonato e gli stava sorgendo un gran sonno, cui il solo cicalare dell’amante dello zio gli impediva di abbandonarvisi.

Sebbene la bocca della cortigiana continuasse a rimanere fissa in un tenero sorriso, in realtà il progressivo avvicinarsi delle sue sopracciglia tradiva il suo scetticismo. “Vieni, posa qua la tua testina”, tamburellò le lunghe dita bianche e affusolate sulle sue ginocchia. Quando l’ebbe dove lo voleva, Luzia prese a tamponargli col fazzoletto il sangue dalla ferita sulla testa, per poi esclamare sconvolta: “An, Momolo! Guarda le tue povere mani! Erano così belle, chi m’accompagnerà col liuto, quando canto per il tuo avunculo?”, lo acchiappò per un polso e contemplò mesta le nocche sbucciate e le dita gonfie della mano sinistra, avendo il giovane Miani menato pugni anche con quella nuda del guanto. Neppure la destra se la passava tanto bene e al ragazzo dispiacque aver intristito così la Trivixan, la quale traeva grande diletto nel sentirlo suonare durante i privati concerti famigliari, anche se la sua tecnica era da amatori se equiparata ai veri virtuosi che frequentavano la casa della cortigiana.

“Non lo so, forse il Bortolo Trombonzin Veronese?”, replicò il giovane, tingendo di stizza quella che doveva essere una battuta di spirito. “Si racconta in giro come voi due siate divenuti amici assai intimi …”

Luzia gettò indietro il capo, ridendo allegramente. “An, lui lo invito soltanto per suonarmi le sue ultime composizioni (così da ottenere qualche copia gratuita dei suoi spartiti) e per discutere sul serio di musica, mica per finta come faceva a Mantoa, coi siori Marchesi! Se lo sapesse quella spocchiosa sgrandezona della Marchesana, che ha sempre voluto il maestro Bortolo tutto per sé! Non ti pare divertente, Momolo, come io possa avere ciò che quella gran dama d’Yxabela d’Este non avrà mai?”, si portò una mano sulla serica pelle del petto, asciugando qualche molesta goccia d’acqua. “Sta de bona voja, petusso mio, conosco quale pensiero ti turba: non ho promesso nulla al sior Bortolo, figurati se mi prendo per amante uno che ha ammazzato la moglie. Non m’importa che i siori Marchesi l’abbiano perdonato, non m’importano le giustificazioni di lui, di come avesse trovato la sua siora Antonia in letto col ganzo. Ha ucciso e questo mi basta. Ché! Crede forse che io sia nata ieri?”

 “Se v’insolenta, se vi fa torto, lo ammazzerò!”, le promise veemente Hironimo, fissandola serissimo. Non scherzava, ora che aveva visto quant’era facile sopprimere un individuo, non ci avrebbe pensato due volte a spedire quel veronese a far compagnia a sua moglie Antonia, se questi avesse osato levare la mano contro la loro Luzietta. Non siamo tanti dissimili, lui ed io -  ammise a malincuore.

“Ora lo so”, ammise gravemente la cortigiana, ogni frivolezza sparita dalla sua voce cristallina, come se potesse scorgere la differenza nei suoi occhi nerissimi, dell’Hironimo prima e dopo la Guerra dei Pugni.

Non l’aveva d’altronde chiamato Marte Andreiphontês, l’assassino di uomini e Marte Miaiphonos, il macchiato di sangue? La Trivixan non sceglieva mai a caso le sue parole, men che meno se pronunciate in pubblico e dunque ella sapeva o poteva intuire ciò che il giovane Miani aveva compiuto nella confusione della mischia. Ciononostante, la grande virtù delle cortigiane era la riservatezza e il rispetto delle confidenze dei propri clienti, più fedeli loro dei preti nel custodire ogni segreto. Luzia non gli avrebbe posto domande né avrebbe spifferato quanto accaduto allo zio Batista. Era al sicuro, concluse sollevato l’adolescente, mentre si strofinava via invisibili macchie di sangue dalle mani, non ancora avvezzo a quella viscosa sensazione né la sua mente ancora provata dalla concussione capace d’elaborare i recenti avvenimenti.

Per il rotto della cuffia vinsero i Castellani, annunciando per i giorni a venire grandi festeggiamenti. Al suono di tamburi avrebbero i vincitori percorso tutti i sestieri della loro fazione – Castello, San Marco e parte di Dorsoduro – in barche cariche di ghirlande e adornate di fiori. I patrizi lì residenti li avrebbero compensati dispensandoli di vino e denaro e per tutta la notte i loro allegri e grossolani schiamazzi avrebbero tenuto sveglie le contrade, tra cortei alla luce delle torce e festini improvvisati in piazze, campi e campielli.

Sarebbe stata invero una gran bella festa, peccato che Hironimo non se la sentì di parteciparvi, troppo scosso dalla recente svolta della sua vita, per quanto ardentemente desiderasse conoscere le sorti di Zane, Nico e Lio, se se la fossero cavata, tornando alle proprie case abbastanza integri da festeggiare la meritatissima vittoria.

Gentilmente accompagnato in gondola da Luzia, Hironimo risalì di nascosto le scale di Ca’ Miani con l’obiettivo di sgattaiolare in camera sua e infilarsi sotto le coperte prima che rincasassero i suoi famigliari e il suo piano avrebbe anche funzionato, se l’Orsolina non l’avesse pizzicato proprio all’uscio della sua stanza, quell’infallibile can da guardia, manco avesse annusato la sua presenza. Gli bastò uno sguardo per capire come l’anziana fantesca sapesse benissimo dove e cosa il padroncino avesse combinato  - mal di pancia, invero!

“Seu ussito de menocca, patron? Xéle cosse da far? Un patricio chome vuj, comportarse da ultimo de’ villani!”, lo rimproverò aspra la donna, seguendolo imperterrita quando uno snervato Hironimo che manco la filò, preferendo entrare in camera sua tra sonori sbuffi e spazientiti roteare di occhi.

“Molighe, Orsolina, ti me dà astio!”, berciò, massaggiandosi le tempie doloranti. “O se proprio no te pol star zitta, almanco parla più pian, chea vaca!”

Figurarsi se la massera si scoraggiò davanti a tal impertinenza. “Gh’avé mentio a la siora vuostra Mare e al sior Zuan Francesco; seti scapà via de chaxa pèzo d’una pantegana, gh’avé robà i vestij dil nezzo mio. Seti tornà ndrio nudo bruco, pituffao bacalà, cum dosso el zendal d’una putana! Gh’avo da continuar? Che turcherie faseu, patron? E per cossa? Per ciaparve a schiaffazze cum cuatro sbisai e bastasi?”, s’appoggiò bellicosa le mani sui fianchi.

“Ih, quante storie!”, scrollò incurante Hironimo le spalle, aprendo il cassone alla ricerca di un paio di mutande asciutte, tirando rapido indietro le mani quando la fantesca, comparendo all’improvviso, gli richiuse di malagrazia il coperchio. “Zò, matta! Mi vuoi spezzare le dita?”

Orsolina lo guardò in cagnesco, i suoi occhi grigi, così terribilmente simili a Padre, saettanti di collera. “Storie? Ve podevate morir mazato lì! Sì horra i festejan, perhò saveu anca di tuti quei omeni, che stanote no torneran pì da le lhoro fameje? Che xéli morti ni per lo stato ni per la fede ma per na baruffa?”

La banalità della morte, elargita così, senza un perché.

Anche quel Nicolotto lo sapeva a cosa sarebbe andato incontro quel giorno? Aveva immaginato che quel letto da cui s’era alzato, quella famiglia da cui s’era congedato, mai più l’avrebbe rivisti e non per via di una guerra bensì per uno sciocco divertimento? Per una rivalità oramai vecchia come il cucco?

S’era reso conto di ciò, mentre rendeva l’anima al Creatore?

“No gh’aveu pensà a la siora vuostra Mare?”

I denti di Hironimo stridettero tra di loro. “Avevo calcolato ogni rischio, mica sono andato allo sbaraglio, io. Non ho corso alcun pericolo, mai, neppure per un istante. Volevo divertirmi un po’, ecco tutto! Sapevo quel che facevo!”

Sì, certo che il Nicolotto lo sapeva così come tutto ciò ch’era successo, l’aveva voluto a suo danno. Nessuno d’altronde lo aveva obbligato a partecipare o ad attaccarlo con un pugnale in mano, di certo il fisico non glielo aveva consigliato per migliorare la sua salute! Di sua iniziativa aveva gareggiato, di sua iniziativa aveva tentato d’accoppare Hironimo, il quale s’era soltanto difeso, non aveva fatto nulla di male! Se lo aveva ucciso, s’era trattato di un disgraziato incidente, lamentevole, però così andava il mondo e perché dunque addolorarsi? Quanti prima di lui aveva ammazzato quel Nicolotto senza starci troppo a meditare su, a compatirsi?

Inoltre, tutti quei suoi allenamenti nella disciplina marziale non avevano forse l’obiettivo ultimo di fronteggiare la morte? Dov’era quindi in quanto da lui compiuto la stranezza, lo scandalo, il rimorso che la sua coscienza stava cercando d’inculcargli?

“Bagolo? Bagolo?”, (divertimento, ndr.) si strozzò per poco Orsolina con la sua medesima saliva, ascoltando incredula quelle barbarità. “Voléu copar de doja (dolore, ndr.)  la siora vuostra Mare per dil … bagolo?!”

“Ancora una parola e a finire ammazzata sarai tu!”, ruggì il ragazzo, scattando in piedi e premendosi i pugni agli occhi, onde scacciar via sia l’implacabile emicrania sia la tremenda immagine di Madre piangente sul suo corpo immobile e tumefatto, così com’era avvenuto sette anni addietro con Padre.

“El sior vuostro Pare, anca se da zovene l’gera stà assa’ salvadego, no se gh’ha mai portà da bestia! Mai!”

“Io non sono il mio sior Pare!”

“Donca saria mejo par vu tuore esempio da lu!”

“Oh, certo! Adesso corro a prendere la corda e vado ad impiccarmi a Rialto!”, si portò Hironimo la mano alla gola, fingendo di stringere.

Orsolina impallidì, la bocca piegata in una smorfia disgustata. “Talvolta, gh’ho da dirvelo, vuj seti squasi na desgrassia per sta fameja”, sentenziò delusa, incrociando le braccia al petto e dirigendosi in un furioso sgonnellare fuori dalla stanza. “Poara Patrona, cossa la gh’ha combinà per meritarse un fio cussì turcho …”

“Dove vastu?”, la bloccò subito Hironimo, temendo ch’andasse a far la spia con Madre o coi fratelli.

“A pareciarve el bagno: un corno che vuj me spusolenté de freschin i nezuòi (lenzuola, ndr.) néti!”, ribatté pragmatica la fantesca dal corridoio.

Quand’ecco ch’ella cangiò idea, ritornando sui suoi passi e, afferrato il ragazzo per il polso, se lo trascinò seco nelle cucine. A quell’ora l’intera servitù s’era riversata in piazza a godersi i festeggiamenti e pertanto quell’ambiente di solito brulicante di gente e d’attività giaceva in un rilassante silenzio, vuoto.

Orsolina pigliò la tinozza e due pingui brocche di rame, dall’acqua ancora calda. In questo modo avrebbe nettato prima il padroncino, senza destar troppi sospetti in un viavai d’utensili per il bagno. Insaponato ben bene il diciassettenne patrizio, gli rovesciò indosso il contenuto e Hironimo trasalì dal cambio di temperatura e dovette soffiarsi il naso, essendogli entrata fastidiosamente dentro dell’acqua e pure un poco sputacchiò. “Mi vuoi annegare, furbastra?”, la rimbeccò stizzito, scostandosi i capelli divenutigli sul viso una tenda da finestra. Almeno, constatò rincuorato, la ferita sulla testa aveva smesso di sanguinare, sebbene pulsasse peggio d’un cuore.

“V’eo meritarave!”  

“Puoah, vecia bacuca!”

“Varda! Varda che bote! Perché ve voléu tanto mal, patron, da farve petuffar? Manco gh’avesse vuj chissà quali pecai d’espiar! Mi sun segura, che gnanca quei pia-gno-ni a Fiorensa xéli cussì mati!”

“Perché lo faccio? Fatti miei. E comunque, vecchia ignorantaccia, quei piagnoni fiorentini erano matti, li hanno arrostiti tutti alla stregua di fagiani.”

“I gh’ha fato ben, i gh’ha fato! Massa premura (zelo, ndr.) de religion, porta solum on gran mal de stomego.”

“Fai attenzione alle tue parole, ché il sior pare del “Pizzocchero” da sant’uomo che l’è, dal Ciel te scolta, te varda, te judega!”

“Bah, piagolo!”, grugnì scocciata la fantesca che afferrò la seconda brocca, esitando però un attimo. “Patron Momolo”, gli disse invece serissima, “mi no vago a contar gnente a la siora Patrona vuostra Mare, perhò vuj m’avé da zurar che mai pì parteciparé a la Guera di Pugnazi.”

Hironimo si morse indeciso il labbro inferiore, cogitando quali dei due mali fosse il peggiore: se rinunciare a tal pericolosa però esaltante competizione oppure se provocare un coccolone al cuore a Madre, informandola di quel suo violentissimo passatempo.

Mentre valutava i pro e i contro il suo sguardo cadde sulle mani appoggiate ai bordi della tinozza, a com’erano state lorde di sangue.

Ho ucciso un uomo.

“Te lo giuro.”

“No, patron, vuj gh’avé da zurar sora l’archa dil sior vuostro Pare.”

Le sue dita erano talmente gonfie, che il solo schiuderle gli risultava doloroso. Ciononostante non rimpiangeva quella sua esperienza. Era stata … liberatoria, quasi catartica.

“Lo giuro sull’arca del mio sior Pare.”

Orsolina fu di parola e così anche Hironimo, ritornato docile al suo ruolo di spettatore passivo, all’occasione in compagnia di Luzia, assai divertita la cortigiana da quel loro segreto.

“Siora Mare?”

“Dimmi, Momolo.”

“Padre aveva ucciso?”

“In guerra diviene purtroppo una necessità.”

“Anche se è condannata nei Dieci Comandamenti?”

“Se fossimo perfetti, vivremmo ancora nel Paradiso Terrestre.”

Ma il vaso di Pandora era oramai stato scoperchiato e d’altronde Venezia brulicava di zuffe, mica bisognava limitarsi soltanto a San Barnaba …

 

 

***

 

 

1504 - 1511

 

Da quel 30 settembre, Hironimo non aveva più avuto chissà quanta paura della morte, ora che aveva scoperto di poterla a sua volta dare e anche così facilmente.

Era conscio tuttavia che soltanto la Serenissima Signoria decretava come e quando essa poteva venir impunemente elargita ed egli non era talmente sciocco da sfidare le severe leggi veneziane, né d’arrischiare le sue personali ambizioni per dei banali omicidi figli di stupidi litigi o questioni d’onore.

A quello ci pensava il Carlevar.

Da Santo Stefano fino a martedì grasso, la città si abbandonava alla pazza gioia, dedicando mesi interi ad ogni genere di spettacolo e intrattenimento, pubblico e privato, tra balli, concerti, palii, regate, combattimenti tra orsi, tori, cani, galli; settimane in cui l’illecito diveniva lecito, il proibito il permesso, il male bene. L’anarchia accuratamente programmata, in cui ognuno assumeva una nuova personalità ed evadeva, giocando con la sua realtà e manipolandola a proprio piacere in un sofisticato gioco delle parti.

Sicché in questo disordine non mancavano anche i regolamenti di conto, le vendette, molto spesso impunite o per incapacità d’identificare il colpevole o per disinteresse dell’autorità, più focalizzate a vegliare l’intera città che il singolo individuo. Le risse dunque erano all’ordine del giorno e Hironimo, due volte su tre, si trovava lì coinvolto o per dar manforte o perché da lui stesso provocate.

I motivi? Molto spesso gelosia tra “innamorati” per i favori di questa o quella cortigiana, oppure, questo sì più serio e valido, per proteggere le ragazze del loro sestiere di San Marco contro le pretese dei giovanotti di quelli confinanti; troppo spesso, infatti, si sentivano tra le calli gli echi di qualche povera fanciulla rapita da queste bande di masnadieri, trascinata a viva forza nelle loro alcove e una volta lì ... Hironimo voleva giustificare i morsi della sua coscienza, sostenendo che se scazzottava con tal marmaglia era per galanteria cavalleresca verso quelle povere indifese e pure di ciò si vantava con le sue estasiate cugine e l’amante – in realtà, di quelle giovinette poco gli importava, la sua era una semplice disfida personale per dimostrare agli altri la sua forza, il suo carisma di capogruppo, la sua dominanza verso il prossimo, il suo sprezzo verso la morte. Erano un pretesto, nulla più. Neppure in quelle occasioni in cui accorrevano gli sbirri egli si tirava indietro, anzi, per la par condicio finiva per pestare a sangue pure loro, gettandoli spesso e volentieri in canale.

Sapeva di giocare un gioco pericoloso, con quel suo perpetuo sfidare la sorte a costringerlo ad uccidere nuovamente, e in più occasioni rischiò di uscirne sconfitto.

Come con quel tale di Ferrara, quel gentiluomo la cui moglie per sbaglio Hironimo aveva approcciato all’imbarcadero, avendo infatti equivocato la pelliccia di volpe argentata di lei per la medesima indossata dalla sua amante che, disgrazia del destino, gli aveva dato appuntamento proprio lì. Accortosi dello scambio di persona, Hironimo s’era immediatamente scusato con ambedue, spiegando il malinteso, ma il ferrarese non aveva voluto sentir ragioni, appellandolo coi peggior epiteti e insistendo di soddisfare e lavare l’onta subita col sangue.

Al che, annoiato a morte da tali discorsi e incollerito per quegli ingiusti insulti, Hironimo da dietro la maschera gli aveva riso crudele e beffardo, mentre sguainava enfaticamente lo stiletto e la spada. Sangue avrai, Ferrarese, non rifiuto dartelo se lo cerchi. Ma bada: se stanotte deve scorrere, sarà a gran fiotti il tuo.

A stento evitò d’ucciderlo, però per il suo orgoglio perse il gentiluomo un occhio, tornandosene a Ferrara sfigurato e col dubbio se quel veneziano avesse proferito o meno la verità. Quanto al Miani, si biasimò per aver esitato a spedire quella canaglia nell’Aldilà, perdendo così l’occasione e il piacere d’alleggerire il mondo dell’ennesimo arrogante idiota.

La guerra, incominciata a maggio del 1509, gli portò consiglio. Lì non aveva nessuna remora o coscienza a fermarlo, né famiglia, né leggi né Dio.

E come Hironimo aveva appurato anni addietro, non c’era nulla d’eroico in essa, nulla d’esaltante né degno d’esser cantato da quei bugiardi dei poetastri in infiniti e barbosi poemi. Si uccideva e si passava al prossimo avversario, meccanicamente, spesso con brutale gusto, la mente proiettata completamente nel presente, senza passato e futuro. Vivere alla giornata con l’incertezza del domani, l’unica consolazione era quella di privare il nemico di tale medesima prospettiva.

Il giovane patrizio giudicava questa una vita assai più lineare, semplice e diretta. Soddisfacente quasi. Obiettivi chiari, ordini da impartire e da obbedire. Il nemico davanti a sé, la zagaglia in mano e le redini di Eòo nell’altra, l’appagamento di penetrare con essa la carne avversaria, conscio che ogni uccisione corrispondeva ad un danno a chi si prefiggeva di distruggere lui e la Signoria; conscio che ogni uccisione era la prova della sua bravura, della sua consacrazione a Marte.

Battaglia dopo battaglia, il suo talento e la sua dedizione sarebbero state ricompensate, ne era certo. Nel sangue avrebbe trionfato assicurandosi la gloria, la fama immortale, avrebbe reso onore ai suoi illustri avi, superandoli in ingegno e abilità militare. Avrebbe definito il suo destino, il suo posto nel mondo.

Gli ci volle la sconfitta a Castelnuovo di Quero e il racconto di Thomà per far comprendere ad Hironimo che, alla fine della fiera, non s’era comportato né meglio né peggio d’un comune macellaio, tranne che a quest’ultimo Dio non avrebbe chiesto conto di tutti gli animali che scannava per riempire le pance dei suoi clienti. Non aveva acquisito alcun merito agli occhi della Signoria perché ancora nessuno s’era fatto avanti per pagare il riscatto; se sarebbe stato ricordato, solo per quella sua umiliazione, azzerando gli sforzi dell’intera sua adolescenza a meno che qualcosa, qualcuno non gli avesse concesso un’occasione di riscatto. A patto però che fosse sopravvissuto, ovviamente. Ora come ora, la certezza di rimanere in vita stava inesorabilmente crollando. Lui non decideva niente, non era padrone del suo destino. Ostaggio impotente, vittima nelle mani del suo carnefice, più forte, più astuto, più spietato di lui. Come il Nicolotto di otto anni addietro, chi l’aveva costretto a quella vita? Coscientemente aveva imboccato quel cammino e adesso doveva pagarne le ovvie conseguenze nell’infamia della prigionia. Fosse almanco morto eroicamente in battaglia …

Per questo guadagno aveva dunque compromesso la sua anima?

Riponi la tua spada nel fodero, ché tutti coloro che avran messo mano alla spada di spada periranno.

Non aveva considerato questo dettaglio, nella sua cieca ed entusiasta ricerca del successo militare. Tanto si credeva invincibile, da non aver realizzato come anche lui fosse sottoposto alla medesima dura lex della guerra, laddove prima o poi il fato l’avrebbe destinato a fronteggiare qualcheduno a lui superiore, che gli avrebbe inferto tutto il male ch’egli aveva a suo tempo sfogato sui perdenti.

A qual pro odiare dunque Mercurio Bua, biasimandolo delle sue disgrazie?

Fossero stati i ruoli invertiti, Hironimo si sarebbe comportato esattamente come lui.

Se non peggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Continua il nostro viaggio nella coscienza assai sporca del Nostro, ne avremo ancora almeno per qualche capitolo, dove spiegheremo altri punti qui accennati, ma non sviluppati, tipo il suo rapporto con Lucia Trevisan.

Colgo l’occasione per un meritatissimo ringraziamento a Alessandroago_94 che, contrariamente a quanto dice, non è né ignorante né inutile anzi, è stato il primo a recensire e a darmi fiducia continuando a leggere, dopo un prologo assai bislacco. Grazie mille!

Spero dunque che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] oggidì questa Scala è nota come “La Scala dei Giganti”, per via delle scultore gigantesche di Marte e Nettuno ad opera di Jacopo Sansovino, lì collocate nel 1567.

[2] Piazza delle Erbe = oggi Piazza del Monte di Pietà. La chiesa di Santa Lucia, addossata alla chiesa di San Vito, aveva inglobato la chiesa di Santa Maria delle Carceri, da qui i numerosi simboli sulla conversione e sul destino dell’anima dopo la morte. Infatti, oltre all’altorilievo, c’è anche un affresco di Tomaso da Modena raffigurante la Madona del Paveio.

[3] Castellani: sestieri di Castello, San Marco e Dorsoduro (tranne per le contrade di San Nicolò dei Mendicoli, Angelo Raffaele, San Basegio, Santa Margherita e San Pantalon); Nicolotti: sestieri di San Polo, Santa Croce e Cannaregio.

[4] Ebbene sì, a Venezia si poteva riconoscere dall’accento da quale sestiere uno proveniva. Questa curiosità venne persino appuntata da Goethe nel suo “Viaggio in Italia.”

[5] La moglie di Lot contravvenne agli ordini degli angeli, voltandosi indietro durante la distruzione di Sodoma e di conseguenza tramutandosi in una colonna di sale.

[6] l’orgoglioso sileno Marsia sfidò Apollo ad una competizione musicale, perso contro il dio, quest’ultimo per la sua hybris lo fece scorticare vivo.

[7] mojo chome un arnàto = (lett.) bagnato come un’anatra, ossia bagnato fradicio.

 

  
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