Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
l'08.10.2021
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Capitolo
Diciottesimo
Confiteor
(Non
uccidere)
A forza
di
sterminare animali, si capì che anche sopprimere l'uomo non
richiedeva un
grande sforzo.
(Erasmo da
Rotterdam)
1500 –
1502
Il nuovo
secolo chiudeva un’era e ne apriva un’altra,
sostituendola con nuovi ordini e spazzando via quelli vecchi.
Un’Italia
bruciava e moriva; Dio solo avrebbe saputo dire quale creatura sarebbe
nata
dalle sue ceneri.
Perfino a
Venezia, nel suo piccolo, quasi a sottolineare la fine
di un’epoca, moriva Missier il Doge Agustin Barbarigo. Al suo
funerale gli
vennero resi tutti quegli onori di cui, per la natura del suo ufficio,
mai in
vita godette: steso su di un feretro imbalsamato e armato di tutto
punto, il fu
Barbarigo venne trasportato nella sala del Piovego, proceduto da
stendardi, dal
suo stemma, dai marinai dell’Arsenale, dai principali membri
delle Scuole,
tosto seguiti dai funzionari palatini e dignitari, da numerosi frati
d’ogni
ordine, dal clero laico e dagli orfanelli di Santa Maria della
Pietà ciascun
con una candela in mano. Per tre giorni il popolo veneziano aveva
sfilato
davanti al suo catafalco in apparenza per pregare per l'anima sua, in realtà per maledire Barbarigo e la sua rapacità, avarizia, tenacità e superbia. Per tre
notti i
consiglieri ducali del Minor Consiglio avevano scrupolosamente vegliato
il
corpo, così come avevano fatto quando Missier il Doge era
stato ancora in vita,
spiandone e registrandone costantemente ogni azione e parola.
Dopodiché, al dì
del funerale, tutta Venezia si radunò in Piazza San Marco e
davanti alla porta
principale della Basilica il corteo funebre si fermò
bruscamente: per nove
volte i portatori alzarono e abbassarono il feretro e per nove volte
gridarono: Misericordia! Infine, a
Messa terminata, il corteo
si recò alla Chiesa di Santa Maria della Carità,
l’ultima dimora terrena del
Serenissimo Agustin Barbarigo, seppellendolo accanto
all’odiato fratello, il fu
Missier il Doge Marco Barbarigo.
Morto
dunque un Doge, la Serenissima Signoria s’affrettò
a
nominarne presto un altro e la scelta cadde, inaspettatamente, sul
procuratore
sier Lunardo Loredan q. sier Hironimo “dal Barbaro”
della parrocchia di San
Vidal e, come si soleva dir in tali circostanze, mutato
duce, mutabitur
fortuna. I maligni, ovviamente, batterono le lingue:
sier Piero Bembo
di sier Bernardo infatti adombrò che il Loredan avesse vinto
più per conoscenze
personali, che per i propri meriti. Ed in effetti, i primi a brontolare per la malasorte furono i Trum: sier Phelipo procuratore, cugino di sier Antonio, piaceva assai come candidato, giacché onesto, amico del bene pubblico, nemico dello spreco e di rara modestia oltre che ricchezza. Sennonché, il figlio del fu Serenissimo sier Nicolò aveva avuto il cattivo gusto di morire proprio durante il processo d'elezione del nuovo Doge e tale fu la sciagurata coincidenza, che si vociferava come il Trum fosse stato avvelenato. Tale notizia, avendo messo l'intera Venezia in agitazione, aveva portato ad un concitato andirivieni di magistrati e patrizi a San Stae, dove sier Phelipo viveva con le sorelle, onde assicurarsi delle cause del decesso. Sier Antonio Trum s'era ben sfogato con la nipote Crestina, dichiarando assurdo l'intero teatrino: era ovvio che il suo germano fosse morto ad appena sessantasei anni per la sua notevole grassezza, che accidenti dovevano scomodare un medico e soprattutto le cugine per un'indagine? Avrà fatto piacere a sier Piero Trivixan, loro parente, ritrovarsi all'improvviso quel gineceo da ospitare.
In ogni
modo, alla presenza di 50.000 persone accalcatesi a Piazza
San Marco, sier Lunardo Loredan sbarcò al ponte della
Paglia, scortato dai suoi
sei consiglieri ducali e le bombarde e i campanili, che fino a quel
momento
avevano riempito l’aria di spari e di vivacissime melodie,
tacquero
improvvisamente, segno che Sua Serenità era giunto. Ecco
il vostro
Doge!, s’elevò solenne
l’annuncio, mentre il Loredan procedeva con passo
silenzioso dalla porta della Basilica fino all’altare,
inginocchiandosi davanti
al primocerio il quale dopo avergli fatto prestar giuramento lo
benedisse,
cosicché fosse ben chiaro come Dio approvasse dal Cielo
ciò che gli uomini
sceglievano in terra.
Salito
sulla portantina detta “pulpito” trasportata da
duecento
marinai dell’Arsenale, il nuovo Doge attraversò la
folla festante, elargendo
ducati a destra e a manca, suo fratello sier Piero Loredan, i figli del
Serenissimi sier Lorenzo, sier Hironimo, sier Alvixe, sier Bernardo,
madona
Donata, sposa di Jacomo Guxoni da S. Vidal, madona Maria, sposa di Zuam
Venier;
Paula, moglie di Zuam Alvixe Venier ed infine Ysabeta, sposa di
Zacharia
Priuli, immediatamente dietro di lui con tutta la Signoria al gran
completo.
Niente Dogaressa, essendo venuta a mancare ante l'elezione madona
Morexina
Zustignan da San Moixé. Passata la Porta della Carta, il
corteo entrò nel
cortile di Palazzo Ducale e pareva quasi ironico che le nuove facciate,
appena
terminate, fossero state commissionate proprio dal fu Serenissimo
Missier
Agustin Barbarigo, morto prima di potersene giovare. Lì i
marinai deposero la
portantina e Sua Serenità salì sulla monumentale
scala circondata da allegorie
della Fama e della Vittoria, opera degnissima di Antonio Rizzo [1].
Soltanto
alla fine di essa, all’ultimo gradino, venne sier Lunardo
Loredan incoronato
ufficialmente Eccellentissimo Serenissimo Principe e Duca di Venezia,
acciocché
a nessuno sfuggisse il chiaro simbolismo, ossia che la sua ascensione
alla
carica più alta dello Stato non gli era dovuta per diritto
di sangue, bensì per
meriti graduali, carica dopo carica, ma soprattutto, standosene in alto
la
Signoria, come Venezia l’aveva creato Venezia lo distruggeva,
avesse egli
tentato qualsiasi stranezza a suo danno.
Dal
più giovane membro del Maggior Consiglio il Serenissimo
ricevette la bereta delle cerimonie ordinarie, mentre dal
più vecchio
consigliere il corno ducale dei giorni di festa, una vera e propria
“zoja”,
sormontato da una croce di diamanti e scintillante di smeraldi, rubini
e perle,
per un valore totale di 194.092 ducati. Un altro consigliere gli pose
sulle
spalle il manto di broccato d’oro ed ermellino. Il Gran
Cancelliere gli lesse
le norme della Costituzione, su cui Loredan giurò
solennemente di osservarle a
costo della vita. Il Serenissimo ricevette infine lo stendardo di San
Marco fra
le acclamazioni del popolo, al quale egli promise justicia
indifferenter, abondantia, et tenir la terra in paxe .
Impegno
non indifferente se considerata la delicata situazione
politica, con la guerra contro i Turchi che procedeva a fasi alterne,
coi
Francesi oramai padroni del Ducato di Milano e intenti a spartirsi il
Regno di
Napoli cogli Aragonesi di Spagna e naturalmente i Borgia impegnati ad
eliminare
dalla Romagna ogni signoria a loro scomoda.
Decisamente
il Serenissimo Lunardo Loredan non poteva esser stato
eletto in un periodo più tremendo.
In questo
clima dunque di sconvolgimenti di una realtà che
s’era
sempre creduta eterna e immutabile, Hironimo aveva preso la decisione
anch’egli
di lasciarsi quanto più possibile alle spalle i perduti
giorni dell’infanzia e
con essa ogni sensibilità d’animo da lui
coltivata, che, a quanto pareva,
all’altrui giudizio corrispondeva a debolezza al limite
dell’effeminatezza. Ciò
lo infastidiva oltre ogni dire: per quanto il ragazzo adorasse
trascorrere i
pomeriggi in compagnia delle cugine, non si era mai sentito meno
maschio né
desideroso d’emulare quei loro atteggiamenti da donzella.
Anche
perché, ultimamente non resisteva più
all’infinità di
melensaggini che avevano rincretinito le giovani Morexini. A dare il la
era
stata la loro cugina Catharina Corner:
da quando
s’era sposata in sier Zuanne Soranzo era divenuta
insopportabile, cogliendo
ogni occasione per sfoggiare la collana di perle della novizza,
l’elaborata
acconciatura e i vestiti all’ultimo biondo; non faceva che
raccontare delle
feste cui adesso poteva partecipare più agevolmente, di
quanto fosse bello
gestire una propria casa, dei cagnolini che s’era comprata e
in generale
di ricordare alle
sorelle minori e
soprattutto alle cugine Morexini ancora nubili della sua
ascensione dallo
status di vergine a moglie.
Le tose lo
desidera, le maridae lo prova, le vedove lo recorda sicché la
presenza nefasta del Soranzo instillò in Maria e Querina una
gran smania di
sposarsi anch’elle, lavorando con doppia tenacia al proprio
corredo nuziale e
non cessando di ricordare subdolamente al padre sier Batista della loro
età e
di quanto sarebbe stato disdicevole sapersi o monache o zitelle, quando
le
cugine Corner sicuramente tutte si sarebbero maritate. E tanta fu il
desiderio
d’apparire e di comportarsi più adulte della loro
effettiva età, da finire per
rendersi, agli occhi di Hironimo, ridicole, noiose e irrimediabilmente
rincitrullite,
specie Maria la quale, raggiunti come lui i quindici anni, non faceva
che
tarmarlo con i suoi sospiri su questo o quel cavaliere di non so qual
poema
ch’aveva letto; oppure delle sue confidenze circa qualche
giovanotto che aveva
intravisto in chiesa a Messa o dal balcone, descrittogli e
commentatogli
l’aspetto con la spietata pignoleria da mercante tipica della
loro famiglia. E
tramite la medesima precisione ella gli descriveva il tessuto
ch’avrebbe
utilizzato per un nuovo abito o le pietre per una nuova collana o come
si
sarebbe acconciata i capelli alla prossima celebrazione della Sensa. Il
povero
Hironimo si sforzava di ascoltarla e mostrar interesse verso cose che
manco lo
tangevano, anzi, pure arcuava indispettito il sopracciglio
all’udir cantar le
lodi dei giovani patrizi adocchiati dalla cugina; però
ahimè non riusciva a
starle dietro e spesso dimenticava quanto dettogli, temendo assai il
momento in
cui Maria, crudele, gli chiedeva di ripetere onde verificarne il
livello
d’attenzione. E Querina, che in tutto emulava la
più spigliata e volitiva
sorella, rincarava la dose con doppio vigore, onde dimostrare che non
era da
meno. L’unica a salvarsi rimaneva a piccola Marina, quel benedetto angioletto
che dall’alto dei suoi quattro anni non si preoccupava certo
del futuro, trascorrendo
le giornate a giocare in giardino o a palla coi fratellini o a vestire e ninnare le
sue
bambole.
Era un
piacere vederla correre così allegra e spensierata, le sue
risate un balsamo dopo ore e ore d’inconcludenti chiacchiere
da parte delle sue
sorelle maggiori.
“Sior
Barba, come riuscite voi ad ascoltare la siora mia Amia
vostra mojer, la Mariuccia e la Rina senza
addormentarvi ad occhi
aperti? Diamine, hanno più senso i discorsi della
Marinella!”
“E
chi ti dice che le ascolto?”
“Ma
…!”
“Dai
retta al tuo Barba: lasciale parlare, poi quando le si è
seccata la lingua e finalmente tacciono, solo allora replichi:
“Concordo
appieno, meglio non potevate dire, vi auguro buona giornata.”
E poi scappi via
senza guardati indietro, prima che recepiscano il messaggio e ti
assordino coi
loro strilli e rimproveri. Hai ben compreso?”
“Le
mie zermane ritorneranno mai normali?”
“Sì,
è soltanto la novità d’aver scoperto
d’esser “donne”. Poi
quando si stuferanno, vedrai che riprenderanno ad usare il cervello.
Solitamente questo accade dopo il primo figlio.”
“Spero
d’arrivar vivo a quel momento.”
“Per
fronteggiar una donna bisogna aver spalle larghe, nezzo mio.
Il tuo sior Pare aveva ragione, quando affermava che come il vento, le
femmine
non si comandano mai. D’altronde, è il prezzo che
paghiamo per il privilegio
d’esser nati col pene.”
Neanche
con Marina Morexini q. sier Orsato poteva Hironimo più
parlare e non per via dell’età della giovinetta,
bensì per le solite paranoie
di sua madre madona Pellegrina Nani relicta Morexini, la quale,
preoccupata
dell’eccessiva intesa tra la figlia e il ragazzo, li aveva
per vie indirette
lentamente allontanati, incominciando dall’invitare sempre di
meno al Paradiso
madona Leonora e per associazione i suoi figli oppure declinava gli
inviti di
madona Alba Donado Contarini nel suo palazzo a San Trovaso, quando
sapeva per
certo come anche Hironimo si sarebbe trovato lì. La vedova
temeva infatti che
Hironimo, dall’alto della sua perfidia calcolatrice, potesse
compromettere la
virtù della figliola, dunque accaparrandosela, quando la
donna avrebbe
preferito mille martiri piuttosto di saperla maritata ad un tanghero
senza né
arte né parte quale il giovane Miani.
Sicché
Hironimo aveva dovuto cercare altrove una sua collocazione,
virando verso le amicizie virili dapprincipio da lui snobbante,
all’inizio
accodandosi ai fratelli e poi cercandole da sé.
Per
facilitarle e al contempo obliare la perenne sensazione di
vuoto nel petto, l’adolescente si gettò a
capofitto in ogni disciplina
marziale, accampandosi per poco nelle palestre e nelle scuole di
scherma,
frequentando assiduamente i corsi di tiro con l’arco a San
Nicolò del Lido e di
pallacorda a San Zaccaria. Rincasava tardi, stremato, coi muscoli
tremanti e in
fiamme, lividi dappertutto e gli avambracci rossi per via delle ustioni
da
frizione della corda dell’arco. Però almeno la
notte dormiva senza sognare e
più non pensava.
Nella
lotta libera o grecoromana o negli incontri di pugilato
Hironimo non si spaventava d’affrontare avversari il doppio
della sua stazza,
né si lagnava del vento sferzante contro il viso, dei
vestiti umidi d’acqua e
del bruciore delle vesciche, quando remava in laguna o per sfogare la
rabbiosa
sua energia o per competere contro i compagni in serrate gare da Mestre
fino al
Lido. Sprezzando la temperatura dell’acqua, o in canale o al
mare o nei fiumi,
niente e nessuno lo poteva trattenere dall’accettare una gara
di nuoto.
“Hé,
bravo, bravo! Anche io alla tua età mi dedicavo molto al
nuoto, è il miglior esercizio per irrobustirti! Sapessi da
giovane quante gare
ho vinto!”
“Quando
Anzolo non partecipava …”
“Antonio,
dovevate proprio ricordarmelo?”
Ad
allenamenti terminati, la parte della giornata che più
piaceva
al giovane Miani era quella di recarsi alle stue (stufe, ndr.) pel
bagno turco
assieme al barba materno Batista e quello acquisito Antonio Trum. Non
capiva il
perché i due gli avessero proibito di andarci da solo,
insistendo di
accompagnarlo o lui di raggiungerli. In ogni modo, rilassarsi sulle
panche e
lasciarsi cullare dall’avvolgente tepore umido e profumato
ora di rose, ora di
arancia, cannella e spezie lontane equivalevano per lui ad un balsamo
sia
fisico per rilassare i muscoli tesi e doloranti sia spirituale, cullato
dalla
sospensione di quell’ambiente vaporoso d’eterna
nebbia. Questo prima di
scoprire tutti gli altri benefici
offerti dalle stue, in
particolare durante o dopo il massaggio: Marco e Carlo si erano retti
la pancia
dal tanto ridere, quando zio Batista, perfido pettegolo, aveva
raccontato di
come, al suo primo massaggio in assoluto, ciò che credevano
morto in Hironimo
s’era invece ben risvegliato e di come il ragazzo fosse
scappato via col solo
lenzuolo addosso quando la massaggiatrice, ineffabile, s’era
offerta per un
piccolo extra di “ammollire” quella svettante
durezza.
Il
giovane Miani non osò da allora farsi fare i massaggi, se
non
dagli uomini.
Nelle
stue, che comunque continuava a frequentare volentieri,
Hironimo pianificava i suoi obiettivi, in quale disciplina concentrarsi
di più,
come migliorare la sua postura nella scrima; pensava alla manutenzione
del suo
arco; s’immaginava qualche trucco per velocizzare la vogata
… Osservava tanto e
a lungo i suoi compagni, a seconda dell’abilità li
prendeva a modello e si
prefiggeva di eguagliarli, per poi passare al prossimo più
bravo. Non gli
importava quante volte stramazzasse al suolo dai colpi infertigli, o
per un
cedimento delle gambe ridotte a ricotte. L’adolescente
ingoiava il dolore,
l’umiliazione della sconfitta, le aspre critiche e gli
sfottò, certissimo di
poter ugualmente raggiungere lo scopo prefittosi e di trionfare su
qualsiasi
ostacolo ed avversario.
La sua
determinazione e testardaggine vennero così incanalate in
questo suo esercizio, trasformandosi da difetti da tutti
rimproveratigli a
qualità degne d’elogi. Pian pianino, la sua
tenacia gli conquistò le lodi dei
maestri e il rispetto dei suoi compagni, un giorno perfino si
beccò i
complimenti del suo parente Ferigo Contarini, provocandogli gioiose farfalle allo
stomaco
ché la sua opinione, tra tutte, era per Hironimo la
più importante, avendolo
infatti sempre ammirato (Ha-ha! Ferigo di qua, Ferigo di
là … se
tu fossi femmina, Momolin, a quest’ora già saresti
a dargli il primo figlio, da
quanto gli sbavi dietro!, lo burlava maliziosa
Maria, provocando
feroci arrabbiature nel permaloso cugino). Le ragazze ripresero a
guardarlo e
stavolta con occhi ben diversi, non più come
un’informe creatura di sesso
maschile bensì come un vero e proprio uomo, garbando ai
gusti loro le sue
spalle larghe e le gambe dritte, snelle e muscolose. Anche a costo di
soffocare, Hironimo si stringeva il farsetto quanto più
possibile onde esaltare
la vita stretta e il triangolo del busto. Sfidava gli amici e compagni di allentamenti a serrate gare di lancio della palla; cavalcava per ore e ore, montando talora senza staffe; d’estate partecipava a competizioni su chi riuscisse a rimanere penzoloni più a lungo sul ramo, senza cascar giù in acqua. Solo Maria continuava a sfotterlo per i suoi
capelli
lunghi fin quasi a metà schiena, dei quali il ragazzo aveva
una cura pressoché
maniacale. Che ne capiva lei? A vent’anni se li sarebbe
comunque dovuti
tagliare e poi avrebbe avuto tutta la vecchiaia per starsene pelato,
che male
c’era nel goderseli finché poteva? Inoltre, poteva
negare alla Marinella il
divertimento di pettinarglieli?
Pah, per
le donne la Casa dei Contenti non era mai stata costruita
e meglio era rimanere tra uomini, dove lì sì che
Hironimo trovava comprensione
e riconoscimento dei suoi meriti.
“Ma
come? Stai già eseguendo l’esercizio?”
“Ho
sbagliato, sior maestro? Non dovevo?”
“No,
no … E’ che ieri non riuscivi a terminarlo senza
finir per
terra!”
“Mi
dovevo soltanto abituare … Non è difficile alla
fine!”
“Bravo,
quest’è lo spirito. Finché
s’ha fiato nei polmoni, mai
arrendersi!”
Ogni
vittoria l’esaltava, incoraggiandolo a migliorarsi ancora di
più e a tastare i suoi limiti. Quei brevi atti di euforia
gli azzeravano ogni
percezione d’impossibilità, portandolo a credere
d’esser onnipotente e di fatti
Hironimo accettava ogni sfida per il solo gusto di sapersi superiore
agli altri
partecipanti. S’ingannava dichiarando come lo facesse per
vanità e non per
sfogare quella sua rabbia segreta che da sempre tentava di seppellire.
Inaspettatamente,
una di queste discipline, la scrima, comportò un
riavvicinamento tra Hironimo e suo fratello Carlo, sorpreso il primo di
saperlo
così abile nel maneggio della spada. Era avvenuto per caso,
quando di notte,
credendosi non visto, l’adolescente sgattaiolava nel portego
e staccava dal
rastrello la spada di Padre, la medesima ch’egli aveva
adoprato nelle sue
pattuglie in galea da Chioggia fino alla Romagna a caccia di pirati e
contrabbandieri, durante la Guerra del Sale e la difesa di Feltre
contro il
Duca d’Austria e che Madre teneva sempre lucida e pulita,
come se il marito
potesse in un qualsiasi momento presentarsi a reclamare la sua arma.
Alla luce
della candela, Hironimo allora mulinava la spada, ripetendo le
posizioni impartitegli
dal maestro, il gioco di gambe, la forza nel fendere e
nell’affondare. Nella
sua fantasia egli ammazzava turchi, tedeschi, pirati saraceni,
ungheresi,
francesi, immaginando di trovarsi nelle grandi battaglie dei suoi avi,
per mare
o per terra, e sognando di divenire tanto famoso quanto il suo
trisnonno Zuanne
“il Vecchio”, valente capitano.
“Zò,
ma che fai in giro a quest’ora? Con la spada di Padre? Vai
forse a caccia di pantegane?”
“Stavo
facendo attenzione, prometto di non danneggiarla!”
“Temo
più per la tua sorte che per quella della spada: de diana,
sembri un villano che falcia il grano!”
“Tzé,
spiritoso … Che ci fai piuttosto tu in giro a
quest’ora? Non
dovevi essere in camera tua a piangere per la partenza a Roma di sier
Antonio
Zustignan?”
“Basta
asinerie e dammi qua. Guarda bene e cerca di imitarmi, così
forse non finisci infilzato al primo duello …”
Effettivamente
fu una rivelazione per Hironimo osservare la
naturalezza e fluidità dei movimenti del fratello maggiore,
avendoli
contemplati fino a quel momento solamente nel maestro e in Ferigo
Contarini.
L’aveva infatti sempre creduto un acido topo di biblioteca,
similmente ai suoi
amici, tra i quali spiccavano sier Hironimo Donado “dalle
Rose” e sier Antonio
Zustignan, quest’ultimo lettore di logica e filosofia al
Gymnasium Rivoaltinum
e di recente nominato nuovo ambasciatore a Roma in sostituzione di sier
Polo
Capello.
Carlo si
rivelò dunque un buon maestro e un avversario tenace,
riducendo certe volte Hironimo in un frustrato toro sbuffante.
“Non
attaccare quando sei arrabbiato! Mi concedi solo un
vantaggio! Su la difesa, vedi come ti disarmo al primo colpo? Dai,
macaron de
Puja!”
“Possiamo
prenderci una pausa? Sono stanco!”
“Ha!
Vallo a dire al tuo nemico in battaglia, sai che risata si
fa?”
“Te
ne stai approfittando, che non ti posso ammazzare!”
“Pfui!
Prima d’imparare ad ammazzarmi, impara a non farti battere
dal sottoscritto!”
“Posso
almanco cambiar spada? Questa qui è troppo pesante, non
riesco a muoverla bene!”
“Non
c’è niente che non vada in essa, è il
tuo braccio ch’è
imbranato! Vedi che se le scambiamo, ti sconfiggo lo stesso? La spada
è solo
uno strumento che scompare se paragonato alla mano che
l’impugna e alla volontà
di chi la guida. Su, alza la guardia e ricominciamo.”
Molto
probabilmente, l’ossessione ludica del ragazzo Miani
equivaleva non solo ad una gratificazione personale ma anche ad un
sentimento
di rivalsa verso tutti coloro, che da fanciullo l’avevano
dileggiato, specie a
seguito della morte di Padre. Nelle sue vittorie egli immaginava di
ripulire il
nome suo e del genitore, ristabilendo l’onore della famiglia
e affiancandovi la
gloria personale.
Soltanto
l’equitazione sfuggiva a quella sua triste logica.
Eòo,
anno dopo anno, era divenuto uno splendido esemplare di corsiero,
bianco latte
e talmente intelligente, che quando Hironimo gli accarezzava
teneramente il
muso, per qualche istante poteva leggere un tentativo di conversazione
nei
grandi e languidi occhioni dell’animale. Il cavallo era
l’unico essere vivente
col quale l’adolescente si sentisse completamente a suo agio,
raccontandogli
mentre lo strigliava quei crucci segreti dell’animo suo che a
nessuno osava
confessare e se Eòo avesse posseduto il dono della parola,
sicuramente
l’avrebbe capito e consolato meglio di molti cristiani.
Lanciarsi
al galoppo senza una meta, ventre a terra, l’aria che
gli scompigliava i lunghi capelli e gli gonfiava la camicia
… l’ebbrezza del
divertimento, d’assoluta libertà, quasi di poter
volare … Hironimo non se ne
saziava mai, assecondata la sua vivacità da quella di
Eòo, il suo Pegaso, col
quale sognava di poter fuggire via, lontano, lontano, verso nuovi mondi
e lì
compiervi imprese talmente mirabolanti, di cui se ne sarebbe parlato
nei secoli
a venire.
Sicché
non gli risultò difficile partecipare ai vari palii sia a
Venezia che in Terraferma e se dapprincipio bruciarono fastidiose al
suo ego le
prime sconfitte, poi col tempo e la pratica il ragazzo
incominciò a vincerle,
gongolando dinanzi alle espressioni stupefatte dei suoi cugini, i quali
non si
capacitavano della qualità di un cavallo di razza assai
incerta quale appunto
Eòo.
Il suo
massimo trionfo fu il palio di Santa Lucia a Treviso,
svoltosi il 13 dicembre, giorno di doppia ricorrenza laddove si
celebrava sia
la Santa con grande processione e in presenza delle massime
autorità civili e
religiose, dalla Cattedrale lungo via Cornarotta passando il ponte di
San
Cristoforo fino a raggiungere a piazza delle Erbe [2] la chiesa
dedicata alla
Martire; sia si celebrava la liberazione di Treviso dal giogo dei
Carraresi da
parte della Serenissima Signoria, avvenuta il 13 dicembre 1388 ed era
stato
proprio il suo antenato, sier Zuanne Miani “il
Vecchio” q. Francesco "lo S-ciavo"
ad espugnare il Castello, dove Francesco Da Carrara s'era rifugiato.
Per tale
doppia ricorrenza era stato istituito nel 1390 dal
podestà sier Ludovico Morexini anche un palio, con una
sfrenata corsa di
cavalli a Piazza Maggiore del Carrubio per il bel Bravium di velluto
consegnato
al vincitore, drappo benedetto dinanzi agli altorilievi della Madonna
del
Paveio (farfalla, ndr.) e di Santa Lucia. Il primo era un dono del
podestà sier
Lorenzo Celsi, commissionato nel 1354 allo scultore veneziano Phelippo
Calendario, altorilievo che aveva sempre affascinato d’un
gusto quasi morboso
Hironimo.
“Carlino,
tu che sai tutto, perché la farfalla?”
“Sin
dai tempi antichi, la farfalla rappresenta l’anima. Ti
ricordi Psyché? Ecco, nella devozione popolare, la farfalla
simboleggia l’anima
che ottiene, attraverso la conversione redentrice per opera di Cristo e
la
mediazione di Maria, la vita eterna nel Paradiso. Questo
perché la farfalla si
libera dalla crisalide per poter volare via in cielo.”
“Per
questo motivo, dunque, la mano del Bambino è tesa verso di
essa? Come se la stesse accompagnando?”
“Suppongo
di sì. Devi ricordare che questa chiesa ha inglobato
quella di Santa Maria delle Carceri, dove i prigionieri e specialmente
i
condannati a morte venivano a pregare prima dell’esecuzione.
Ladri, stupratori,
sodomiti, falsari, traditori, assassini … un bel bozzolo da
cui liberarsi!
Quanta feccia s’è qui inginocchiata davanti a
Lei!”
“E
convertendosi, sarebbero ritornata la loro anima a volare
leggera?”
“E’
la nostra fede e speranza.”
“Ecco
perché questo luogo mi dà i brividi.”
“Non
ci pensare. Che mali puoi aver commesso tu, razza di
paperotto? Piuttosto, vedi di vincere questo palio o ti pigliamo a
calci nel
sedere da qua fino a San Vidal!”
Hironimo
vinse il palio, sfilando in trionfo per la Piazza col
Bravium in mano e, una volta tranquilli e in tutta privatezza, sua
cugina Maria
pure lo premiò per la sua bravura con un soddisfacente bacio
sulla bocca, ad
imitazione di tutti quegli (per Hironimo) stupidi poemi cavallereschi
di cui
s’ingozzava da mane a sera. Tuttavia, quella vittoria sapeva
di amaro, incapace
egli di scacciare l’immagine della Madonna del Paveio dagli
occhi.
Che
mali puoi aver commesso tu, razza di paperotto?
Non
sapevano niente.
Non
conoscevano il bozzolo creatosi attorno alla sua anima, quel
marciume che la imprigionava abilmente celato dalla galanteria,
cordialità,
generosità, dalla sua bella presenza fisica. Invidia,
rancore, superbia,
avidità di gloria, prorompente sensualità,
attrazione verso il sangue e la
morte li facevano da oscuro contraltare.
Per
liberarsi del passato, Hironimo s’era votato a Marte, il
quale
però era un dio crudele, inneggiante alla violenza
più brutale. La medesima che
il ragazzo tentava disperatamente di dominare, ma che, complice la
rabbia
tipica della sua età e il gusto per il sangue di Venezia
ereditato dai Romei,
troppo spesso veniva incoraggiata e con effetti a dir poco strazianti
per la
coscienza del giovane Miani.
***
Settembre 1503
Nel
quartiere di San Barnaba si trovava un ponte senza parapetti,
nomato il Ponte dei Pugni, l’arena favorita di una delle gare
di pugilato più
sanguinose di Venezia, tanto che ad alcuni forestieri si rivoltava lo
stomaco
all’assistere a quelle disfide, prontamente dileggiati dai
Veneziani lì
presenti per la loro poca sopportazione: quale diletto arrecavano
giostre e
tornei? Roba quasi da signorini effeminati, se si poteva assistere a
ben altra
battaglia più cruenta e veritiera.
Tutta la
logistica attorno al Ponte dei Pugni si presentava
d’altronde adatta al combattimento, le due rive
d’uguale dimensione cosicché le
squadre potevano sistemarsi comodamente e di pari numero. I balconi, le
finestre, le altane e i luminàl degli edifici attorno si
trasformavano in
tribune degli spettatori, così come il canale per
l’occasione ripulito
pullulava di gondole e i ponti adiacenti rinforzati onde non cedere al
peso
della massa stipatasi, in una sorta di Colosseo improvvisato.
Lì tutta Venezia
v’accorreva eccitata, dividendosi i partigiani per simpatie e
già scommettendo
sulla squadra vincente, addirittura assegnando il favore degli
stranieri, a
seconda di dove fossero entrati, se ad ovest da Chioggia o ad est da
Mestre.
Sul Ponte
dei Pugni sfogavano la loro secolare rivalità i
“Castellani” - Arsenalotti, squeraioli, calafati e
pegolotti ad est del Canal
Grande - e i
“Nicolotti” ad ovest,
pescatori e barcaioli [3]. Alla Signoria tali scontri non dispiacevano
e anzi
li incoraggiava, sia per tener ben allenato lo spirito guerriero dei
suoi figli
sia per distrarli da un qualsivoglia malcontento e ribellione nei suoi
confronti.
La regola
era molto semplice: vinceva la squadra che, in una serie
di incontri individuali o di gruppo, avrebbe superato il maggior numero
di
avversari. Un punto per ciascun vittoria, due punti se uno dei
contendenti
riusciva a gettar in acqua il rivale. Curiosamente, la Guerra dei Pugni
non
concerneva soltanto gli uomini, bensì anche le loro donne,
che non disdegnavano
certo dar manforte azzuffandosi con le mogli dei rivali.
Hironimo,
abitando nel sestiere di San Marco, aveva dunque sempre
parteggiato per i Castellani, saltellando a momenti sul posto dalla
foga
dell’incitamento indiavolato e mulinando invasato braccia e
pugni si sciorinava
senza freni nella più prosaica sequela di incoraggiamenti
misti ad
imprecazioni, similmente a tutti gli altri spettatori, donne incluse,
casomai
queste più scatenate perfino degli uomini specie se erano le
consorti dei
partecipanti. Ovviamente, la Guerra dei Pugni corrispondeva
all'ennesima
occasione per Padre e lo zio Batista di litigare, giacché
appartenenti i
rispettivi sestieri alle due opposte fazioni. Le oscenità
poetate dai maggiori
della sua famiglia avrebbero fatto sanguinare le orecchie perfino al
più sozzo
dei soldati. Va' ad affogarti in rio con la tua
ganza, ludro, onto d'un
Cannaregio! San Cancian!, era infatti la cosa più
gentile che Hironimo
aveva sentito Padre urlare al cognato. Magnafasiòli
d’on San Vidal, andé a lumàr che magari
qualche danaro teo cati per pagarte la
legna! rispondeva il barba Batista, in netto svantaggio
rispetto a sier
Anzolo, poiché mentre questi poteva insinuare sulle
attività extraconiugali di
madona Morexina, lo zio non poteva per non vituperare
l’amatissima sorellastra
Leonora. Ma questo non gli impediva di dar della puttana a suo cognato,
tutt’altro.
Purtroppo,
col trascorrere degli anni, sorse in Hironimo una
grande smania di partecipare di persona a quel combattimento, invece di
rimanere spettatore passivo. Ovviamente non ne aveva fatto parola con
nessuno,
sia per la pericolosità degli scontri (alla sera si
raccoglievano i morti di
ciascun partito) sia perché non era una competizione degna
di un patrizio,
partecipandovi esclusivamente il popolino e al massimo qualche
cittadino.
Peccato
che lo spirito ribelle della sua giovane età, il fascino
verso l’ignoto e l’avventura nonché
l’aggressivo spirito competitivo del suo
sesso spinsero il giovane Miani a trasgredire quel divieto e una
mattina del 30
settembre 1503 egli riuscì a sgattaiolare fuori casa (dopo
esser rimasto
indietro con la scusa di un grave mal di pancia) e di mescolarsi tra le
squadre
dei Castellani. All’occasione aveva rubato i vestiti di Dardi
di Polo, il
nipote di Orsolina, e la sua bereta di feltro rosso, sporcandosi con
della
cenere il viso e le mani acciocché non lo si riconoscesse e
dal modo in cui i
suoi nuovi compagni lo accolsero a gioviali pacche sulla schiena, lo
stratagemma funzionò.
Era una
giornata tiepida, soleggiata e San Barnaba affollatissimo,
l’aria vibrante di grande aspettativa, ogni sguardo puntato
sui trecento
gareggianti per fazione che, salutando il loro pubblico, si vantavano
alla
stregua di galletti e insultavano pesantemente l’avversario,
spaziando dal
mestiere presunto delle loro madri alle personali porcherie, niente si
salvava,
neppure i rispettivi morti. Hironimo, dal canto suo, abbassava invece
il capo e
si portava un po’ di frangia sul viso, il cuore
però impazzito
dall’eccitazione.
Le donne
“Castellane”, con i capelli raccolti in un
fazzoletto
rosso, fischiavano, mulinavano i pugni e riempivano di gesti e smorfie
osceni
le “Nicolotte”, dai fianchi cinti dalla fascia
nera, le quali ricambiavano
altrettanto bellicose.
“Maddalusse
ingiandolìe!”
“Dorondòna!”
“Fùmia!”
“Gratapanza!”
“Gualta!”
E via
così in un crescendo inarrestabile di prosaicità.
“Ti
te sé fortunà”, confessò ad
Hironimo un Castellano accanto a
lui, “ancuò se fa la guera
ordenà!”
Il
giovane patrizio sorrise euforico: la guerra ordinata
corrispondeva allo zenit della Guerra dei Pugni, laddove non ci si
limitava più
ad accumulare punti, bensì si doveva conquistare con
qualunque mezzo il ponte
stesso. Fortunatamente, a quello la Signoria sì che poneva
freno, concedendo
saltuariamente la guerra ordinata, altrimenti Venezia si sarebbe
svuotata come
durante i cupi anni di peste.
I due
padrini dei Castellani e Nicolotti giunsero infine correndo
al Ponte dei Pugni, uno da una parte e uno dall’altra. Questi
arbitri,
contrariamente al resto dei partecipanti, erano invece dei rispettabili
cittadini la cui abilità nel pugilato li aveva concesso
l’onore d’aprire la
disfida. Appena saliti si levarono lo zipone e indossarono il guanto,
rimanendo
in manica di camicia onde evitar di ritornare a casa col prezioso
indumento a
brandelli.
“An,
ti no te me gh’ha ancor dito chome te ciami!”, si
sovvenne il
giovane uomo accanto ad Hironimo, intanto che si levava
anch’egli il farsetto
di monachino. “Mi me ciamo Zane, e ti?”
Dall’accento doveva provenire dal
sestiere di Castello. [4]
“Anzolo”,
rispose d’impulso il patrizio. Si tolse il farsetto e
s’arrotolò a ciambella la camicia alla vita,
rimanendo a torso nudo. Dopodiché,
accommiatandosi dai sandali e rimasto scalzo, infilò un
guanto sulla mano
destra.
“Sistu
de Sen Marcho?”
“Siorsì.”
“Stame
vizin, va ben? Mi te vardarò le spàe! E gnente
“sior” qua:
ché parlemo moscheto horra?”, ridacchiò
bonario.
Hironimo
al contrario annuì attento: nella guerra ordinata ne
succedevano di tutti i colori, rimanere compatti e guardarsi a vicenda
le
spalle era l’unico modo per arrivare incolumi a fine gara.
“Et
arecordate di tegnir serrà le labra!”,
s’intromise un ragazzotto
assai robusto, forse uno squeraiolo, presentatosi col nome di Nico.
“Cussì”,
gli mostrò solerte, cacciando indietro le labbra che pareva
quasi ingoiarsele.
Un altro,
nomato Lio e anch’egli di San Marco, da dietro prese a
raccogliere i lunghi capelli di Hironimo, cacciandoglieli dentro la
bereta di
feltro rosso e sistemandogli meglio la sciarpetta d'altrettanto colore.
“Se no,
i te ciapan pe i caveij e bondì sioria!”, rise,
contagiando col suo buonumore
anche il giovane Miani e i giovanotti accanto a lui.
“Speremo
de vinzer st’anno”, sospirò falsamente
tragico Nico,
stiracchiando le braccia. “La mia fameja, par ea vargogna, a
me gh’ha tegnuo el
muso duro fin squasi a Nadal!”
“El
mio vecio manco me gh’ha voluo vardar, me gh’ha
lassà fora dea
porta par tuta ea note, pèzo d’un can!”
“Pianzeu
vuialtri per st’asinerie? Voleu satre cossa xélo
capità a
mi?”, schioccò scettico la lingua Zane alle
lagnanze dei suoi compagni, “la mia
femena no me gh’ha dato par tre” e mostro ben in
alto le dita, “setimane la
mona. Tre setimane, porc’eva, tanto la gera
arabià!”
Perché
la vergogna della sconfitta comportava, oltre ad arti
doloranti, anche lo sdegno degli stessi famigliari e soprattutto delle
loro
risentite metà, tant’era vero che alcuni neppure
osavano rincasare nell’immediato,
temendo infatti d’incassare le ultime randellate della
giornata.
“E
ti, Anzolo?”
“An,
par mi xea prima volta.”
“Bia'
ti!”
“Beh,
se perdemo, sta seguro che te finisso mi a teghe en testa!”
“Pulito!
Perhò se vinzemo, ti me favorissi ea mona di la toa
femena!”
“A
bea! Mi poxjo ea boca?”
“Ti
te pol star lì a vardar, Zane, mica
m’ofendo!”
“O
femo le cosse en tre, che mi sun omo splendido (generoso, ndr.)
de gran core!”
“Alor,
splendidamente mi te dago tante di quee pèae (pedate,
ndr.), che te desmenteghi de ser stà omo!”
“Eh!
Ma almanco ‘na ciuciadina la me pol dar! Senpre te lagni
ch’ea no stagi mai zitta!”
“Zò,
ciucia sto pugnazo, folpo
sporcaciòn!”
Tuttavia
si minacciavano piuttosto allegramente, a giudicare dalle
alte risate sguaiate.
“Ohé,
scomenzemo? O femo note?”, allungò il collo Lio,
mettendosi
in punta dei piedi.
Terminato
lo scontro tra i due cittadini – finito con la vittoria
del padrino dei Nicolotti tra le urla di vittoria e i fischi
dell’avversario –
le Castellane e Nicolotte erano partite all’attacco,
lasciandole per cavalleria
sfogarsi per prime. Una donna con due braccia da marinaio
cacciò un pugno che ci
si dolse per il suo marito; un’altra perse copiosamente
sangue dal naso; alcune
sputarono i denti; altre si videro tirate i capelli e le camice
strappate e una
tal Altabella finì in canale non senza che le si fosse,
durante la caduta, sollevato
il gonnellone, mostrando all’universo mondo il pelliccione
biondo tra le gambe,
visione che pacificò per un attimo tutti i maschi
lì presenti, i quali
apprezzarono e si offrirono volontari di tirarla fuori
dall’acqua.
Conclusasi
la piccola parentesi e ripescata l’Altabella, si
passò
alla vera competizione. Essendo quella giornata di guerra ordinata,
ciascun
partito s’era ammassato sui due lati della riva e, fin dove
si poteva vedere,
esse brulicavano di lottatori. Il gruppetto di Hironimo si trovava per
loro
sommo smacco abbastanza indietro, rendendoli difficile la comprensione
di
quanto stesse avvenendo sul ponte.
“Ecco!
Ecco!”
Ricordato
a voce alta e intelligibile le “regole”, unico
momento
in cui il pubblico chetandosi ascoltava in rigoroso silenzio, i due
arbitri si
pararono di fronte agli angoli opposti dell’arena, abbastanza
da vedere ma non
dar esser coinvolti.
Un ultimo
attimo di apnea …
“San
Marco!”, gridarono i padrini, fuggendo via strategicamente e
la folla ruggì in coro il suo sfrenato entusiasmo.
In un sol
uomo le due fazioni si buttarono in avanti, spingendosi
furiose mentre lanciavano a loro volta urla sempre più
assordanti, tra
bestemmie e insulti, finché le prime file, sotto
l’effetto della pressione, e
le ali della compatta colonna di lottatori non cedettero e di botto
interi gruppi
di quasi sessanta persone caddero rovinosamente in canale a un tempo,
tra i
lazzi ingiuriosi e le risate sgangherate degli spettatori e della parte
avversaria.
I
lottatori rimasti all’asciutto invece corsero forsennatamente
fino al ponte nel tentativo d’attraversarlo e dunque
dichiarare chiusa la
partita, cozzando violentemente tra di loro come un’onda
sullo scoglio:
nell’impatto finirono o abbracciati o atterrati da una presa
brutale;
aggrovigliatisi in nodi di braccia e gambe, ci si spingeva di peso
dalla parte
opposta, o ricacciando via il nemico o avanzando sbuffando a guisa di
toro. Un
marcantonio di Castellano ghermì per il braccio e la gamba
un Nicolotto e,
sollevatolo di peso, lo lanciò giù dal ponte in
acqua, tra gli applausi del
pubblico in visibilio. Un Nicolotto invece saltò sulla
schiena, da dietro, di
un Castellano, che tentò di scrollarselo di dosso a guisa di
cavallo
imbizzarrito, intanto che quell’altro lo costringeva ad
inginocchiarsi. Cogli
avambracci si circondavano gole, ci si faceva vicendevolmente lo
sgambetto.
E poi,
ovviamente, volavano pugni come le dantesche schiere
angeliche, in un dolce coro di diretti, ganci e montanti.
Un
Castellano s’abbassò per schivare il gancio
d’un Nicolotto, per
poi bloccargli un montante di gomito. Un altro Nicolotto invece
schivò un
diretto in una piroetta ad U che provocò
l’involontaria, ma vantaggiosa, caduta
dal ponte di un Castellano (un letterale colpo di culo).
Laddove
fallivano i pugni compensavano i calci, mirando
soprattutto a stinchi e coglioni e chi aveva la miglior coordinazione
gamba-diretto sapeva colpire la virilità avversaria e subito
finirla tramite
sonoro cazzotto, spendendola a far compagnia alle anatre.
Un
Castellano intrecciò le mani per formar un solo pugno e lo
calò
tra le scapole d’un Nicolotto, tramortendolo e poi lo
calciò fuori dal ponte;
un altro Nicolotto si beccò un colpo alla tempia e non si
rialzò più. Un
Castellano invece si prese in testa un colpo che avrebbe ammazzato un
bue e
neanche quello diede più segni di vita; due contendenti si
appiattirono
contemporaneamente a gambe all’aria sulla pietra del ponte e
un Castellano
schiumante sangue dalla bocca attaccò in un balzo il
Nicolotto che si preparava
a dargli il colpo di grazia, stendendolo con un commuovente montante al
mento.
Uno
strano grappolo umano si formò ad un certo momento sul
ponte:
in una catena di prese per braccia, gambe, brache e capelli, alcuni
contendenti
penzolavano dalla struttura nel disperato tentativo di rimanere su,
incitati
dalle grida del pubblico scatenato e dall’esagitato
svolazzare di fazzoletti
dai balconi dei palazzi. I lottatori rimasti aggrappati sul ponte
tiravano su
tra fischi e sbuffi e sputi finché le vene del collo non li
s’ingrossarono
dallo sforzo; ahimè la forza del peso prevalse e tutto il
gruppo cadde in un
sonoro tuffo in acqua, bagnando anche i loro compagni sulla riva tra
grasse
sghignazzate di coloro che assistevano dalla gondola, divertiti sia
dagli
schizzi che dal piacevole moto ondoso provocato da quelle cadute.
I gruppi
retrostanti, tra i quali si trovava anche Hironimo,
incominciavano nel frattanto a scaldarsi, impazienti
d’entrare in azione.
“Spenzare!
Spenzare!”, si spronavano l’un l’altro e
anche il
giovane Miani spingeva il suo compagno davanti con ogni forza
concessagli dalle
braccia. Forti di quella nuova pressione, i Castellani guadagnarono
qualche
spanna al di là della metà del ponte, prontamente
bloccati però dai Nicolotti
che tenendoli fermi o intrecciando le mani o spalla contro spalla,
facendo
perno con le gambe assorbivano e ricambiavano tramite compatto muro
l’impeto
del loro assalto.
Ciò
frustrava le retrovie, stufe di spingere soltanto.
“Zò,
Anzolo, ti che te sé picinin, montame sora le
spae!”, gli
ordinò Zane, abbassandosi quel tanto acciocché
Hironimo potesse salirgli sulle
spalle e, issatolo, lo sbilanciò su quelle
dell’uomo davanti a lui e, trapezio
dopo trapezio, il ragazzo riuscì a portarsi più
avanti. Non fu il solo: molti
dei suoi compagni stavano salendo sui corpi dei loro compari,
arrampicandovisi
sopra e raggiungendo così le prime file che si trovarono il
pronto ausilio di
questo secondo piano di lottatori freschi e dalla mira eccellente.
“Toga
qua, bestia d’un Nicoloto, buso descusio,
magna-bifi!”,
berciò un Castellano vicino ad Hironimo, lanciando con
accurata precisione un
sasso contro un Nicolotto lì sulla riva opposta, colpendolo
alla spalla e per
la sorpresa questi cadde in acqua.
Al che il
patrizio, afferrata al volo l’antifona, senza saperlo si
ritrovò tosto ad imitarlo, e un’interrotta
lapidazione da far sembrare quella
di Santo Stefano roba da imbranati amatori si rovesciò sulla
parte avversaria,
la quale si vide dapprincipio costretta a riparare alla
bell’e meglio,
ingobbendosi.
Magro
vantaggio ché tali pratiche erano assai note: subito infatti
comparvero le retrovie dei Nicolotti che risposero con bombardate
altrettanto
gagliarde. In più occasioni un sasso o un piatto o un coccio
di ceramica
sfiorarono il giovane Miani, traendo all’occasione sangue se
questi era
appuntito. Nondimeno, pur dondolando incerto sulle spalle del suo
collega, era
difficile colpirlo giacché i suoi riflessi prontissimi lo
aiutavano, grazie
agli allentamenti alla pallacorda. Così, abbassandosi e
mostrando la lingua,
impallinava feroce il temerario ch’aveva osato scambiarlo per
un’anatra
selvatica, divertendosi un mondo.
I poveri
gondolieri dovettero intanto girare le imbarcazioni e
spostarsi, prima che la loro testa e la felze dei padroni si trovasse
nella
traiettoria dei contendenti. Qualche proiettile di fortuna arrivava
addirittura
dentro in casa attraverso le finestre, tutte saggiamente lasciate
spalancate.
“Lio!
Zò cossa fastu?”, gridò Hironimo al suo
compare, il quale si
stava scimmiescamente arrampicando su per il muro di un palazzo.
“A
catar copi!” (tegole, ndr.), gli rispose quegli, puntando al
tetto assieme ad altri compari. Una volta lì, il giovanotto
incominciò a
staccar le tegole e a lanciarle giù alla sua squadra,
accogliendole questi
simili ai rondinini col verme di mamma rondine. “Ciapa qua,
Anzolo!”, urlò Lio
e Hironimo si spostò cauto alla sua sinistra,
affinché le preziose munizioni
non cadessero per terra, frantumandosi e andando così
sprecate.
Sfortunatamente,
quella sua iniziativa lo distrasse, rendendolo
meno vigile alla mira nemica e una stoviglia di terracotta lo
colpì alla
coscia, sbilanciandolo in avanti. Se non fosse stato per un Castellano
dai
riflessi ben vispi, che lo catturò per il bordo delle braghe
e lo gettò
indietro, di certo Hironimo sarebbe cascato in acqua, coprendosi
conseguentemente
di ridicolo.
Inaccettabile.
Rabbioso,
il diciassettenne patrizio s’accucciò per terra e
incominciò a diselciare a mani nude la riva, onde procurarsi
le mattonelle
necessarie al bombardamento di quegli sfrontati scalzacani. Poco gli
importava
del sangue proveniente dalle unghie rotte, né del sudore e
degli schizzi
d’acqua salata che gli annebbiavano la vista. Munitosi
finalmente, Hironimo
sgomitò per portarsi più presso al ponte e da
lì riprese a lapidare i Nicolotti
ai lati della struttura, permettendo così ai Castellani in
prima fila di
avanzare di qualche passo.
La
piccola vittoria diede nuovo impulso alla squadra e il Miani
venne spinto anch’egli in avanti, finalmente mettendo piede
sul primo gradino
del ponte. Un passo e un passo ancora e senza neanche rendersene conto,
eccolo
faccia a faccia coi Nicolotti.
Una folle
euforia invase il ragazzo, che di riflesso alzò gli
avambracci pronto a parare i colpi e di fatti la sua preparazione
ginnica gli
fornì un pronto vantaggio contro la tecnica assai
raffazzonata dei suoi
avversari, i quali sì possedevano una forza notevole, ma
lasciavano moltissimi
punti scoperti e lì Hironimo colpiva spietato, fosse
all’addome, al fianco, sul
volto.
Colpiva,
indietreggiava, colpiva e indietreggiava, un diretto, poi
abbassamento, parata, schivata, gancio, flessione laterale, gancio,
rotazione,
bloccaggio e infine un bel montante sotto il mento che mai faceva male
(per
lui). Se non si fosse trovato in uno spazio sì ridotto e
asfissiante,
stritolato infatti dai robusti corpi dei suoi compari e avversari, di
sicuro
avrebbe anche potuto divertirsi di più tramite un grazioso
gioco di gambe,
sebbene tali raffinatezze, ragionò, erano sprecate in quella
grande zuffa
plebea. Ma oh! come se la sarebbe spassata alla prossima lezione di
pugilato
nella sala ginnica! I suoi amici, a parte qualche tafferuglio al
Carlevar, non
avevano mai fronteggiato veri avversari che menavano sul serio e non
per futile
gioco, o per guadagnar tempo e scappar via dagli Zaffi. Questo era il
suo
battesimo di fuoco e, superatolo, nessuno l’avrebbe mai
più sconfitto nelle
risse!
Tra i
Nicolotti, intanto, serpeggiavano occhiatacce malevoli e lo
sdegno misto al sospetto li portò alla conclusione che i
Castellani stessero
barando, avendo arruolato tra le loro fila un professionista, anche se
giovanissimo, forse figlio di qualche condottiero che sperava di
attirare
l’attenzione della Signoria in vista d’un futuro
ingaggio. Beh, anche no!
Hironimo
aveva appena steso l’ultimo suo avversario che un altro
subito lo sostituì e con esso il luccichio di qualcosa di
metallico, un pugnale
che teneva attaccato dietro alla cintura nera. Panicando, il ragazzo lo
afferrò
in tempo per il polso, bloccando la punta della lama a qualche dito dal
suo
viso; un suo compare da dietro tentò di spinger via il
contendente, ottenendo
però come risultato che sia lui che Hironimo si
sbilanciarono e caddero per
terra, a qualche spanna dal lato esterno del ponte.
“Corteli!
Pugnai! Arme! Arme!”, corse veloce l’avviso tra i
Castellani di sfoderare le loro di armi e di gettarsi nella pugna o,
per chi
era troppo lontano, di lanciare direttamente i pugnali e stiletti
contro i
Nicolotti, infilzandoli.
Il sangue
schizzava dappertutto, tingendo l’acqua e il selciato e
i bordi (o ciò ch’era rimasto) delle rive, in un
gran mattatoio che ricordava
quei sacrifici umani ai tempi degli Antichi o gli spettacoli gladiatori
negli
anfiteatri romani; grida, ringhi e gemiti cozzarono tra di loro
così come i
metalli nemici sfrigolavano avidi, alterandosi a pugni, morsi e
stramusoni
conditi di mattonelle. Qualcuno perse un dito, chi un pezzo
d’orecchio, chi un
occhio, chi qualche dente (o una fila di essi), chi la punta del naso,
chi
rimase sfregiato sulla guancia, chi si morse a sangue la lingua, chi si
trovò
strisci più o meno profondi sul petto, sulla coscia, sulla
braccia, chi per
poco rimase castrato e chi se ne andò direttamente al
Creatore.
La
disfida degenerò presto in una carneficina per il sommo
gaudio
degli spettatori, i quali giubilavano in estatica frenesia, battendo le
mani e
ridendo senza manco saper perché, gridando, contorcendosi
più dei posseduti dai
demòni, i capelli e gli ambiti scomposti, le lingue fuori e
penzoloni, i denti
ben in mostra, qualche filo di saliva che li scivolava dal tanto
strepitare, i
petti ansanti, gli occhi spalancati, convulsi, spirati e non
ragionavano più,
dimentichi di ogni pietà umana e colmi di perversa
esaltazione e furore,
arrivando ad abbracciare o a strusciarsi non visti con bestiale foga
sulla
compagna accanto, scene da baccanali dei più tremendi.
La
catarsi tramite la mattanza.
Tale
furia, figlia della vergogna e della paura, aveva contagiato
anche Hironimo, steso supino sul bordo del ponte, intrappolato dal
pesante
corpo del suo avversario che ancora tentava d’infilzarlo con
pugnale. Il
Nicolotto era riuscito a graffiagli ambedue gli avambracci, tuttavia il
piede
del patrizio sul suo addome gli impediva di calare oltre la lama, la
quale da
degna emula di quella di Damocle seguitava a penzolare minacciosa
all’altezza della gola. La presa stessa
del Miani, perfezionata
tramite l’apprendimento preciso e raffinato da un maestro,
aveva bloccato i
polsi dell’uomo e il diciassettenne ogni tanto premeva coi
pollici sui
legamenti o li storceva appena, provocandogli notevole dolore.
I due
rimasero bloccati in una vera prova di forza, laddove
avrebbe vinto chi dei due sarebbe resistito più a lungo,
trovando magari una
debolezza nell’altro e sfruttandola per ribaltare la
situazione.
In
questo, per quanto allenato, la giovane età non venne in
soccorso
ad Hironimo, né la sua vita relativamente comoda di
patrizio, giacché al
contrario il Nicolotto sopra di lui doveva di certo lavorar come
facchino o
comunque un lavoro di elevata forza fisica ché la gamba del
ragazzo si piegò
sotto il suo peso e il viso furente di questi
s’avvicinò ulteriormente a quello
di Hironimo, tanto che poté sentirne l’alito caldo
e qualche goccia di sudore e
saliva bagnargli la faccia. Pur bruciandogli i muscoli delle braccia,
il
giovane Miani digrignò i denti e s’impose di non
cedere alla pressione
esercitata dal Nicolotto, il quale lo fissava con una tale espressione,
che
nulla più possedeva di umano, una maschera da incubo rubata
a qualche demone
nei dipinti fiamminghi. Lo voleva ammazzare e ammazzato lo avrebbe,
inutile appellarsi
alla ragione. Al diciassettenne sfuggì una risata isterica:
se soltanto quel
folle avesse saputo chi s’apprestava a pugnalare! Si sarebbe
degolato da sé,
prima di levar la mano contro un patrizio!
La
risatina offese a morte il Nicolotto, ignaro dei pensieri del
ragazzo sotto di sé; premendogli le ginocchia sotto i
glutei, prese a spingerlo
oltre il bordo del ponte ed ecco che il giovane Miani si ritrovava
mezzo
sospeso nel vuoto a contemplare San Barnaba a testa ingiù.
In questo modo non
riusciva a coordinare i suoi movimenti, né a prevedere
quelli dell’avversario,
il sangue gli fluì alla testa e la sua difesa cedette di
conseguenza.
Sicché,
abbandonandosi all’istinto, il patrizio strinse gli
addominali e issandosi come durante gli esercizi puntò al
setto nasale
dell’uomo, elargendogli una poderosa testata che lo
sbilanciò all’indietro, le
mani corse all’osso rotto.
Hironimo
avrebbe allora potuto rifilare un dritto o un gancio
all’addome del Nicolotto. Oppure spingerlo o lontano da
sé o direttamente in acqua.
Avrebbe potuto approfittarne per gattonare via. Avrebbe potuto
tramortirlo
tramite una tallonata sulle palle e passare al prossimo.
Ma non lo
fece. O non poté farlo. Non lo sapeva, non capiva
più
niente, quanto accadde lo osservò con tale distacco che
quasi gli parve esser
un’altra persona, uno dei tanti spettatori di quella macabra
disfida.
Vide la
sua mano correre autonomamente verso il pugnale,
disarmando il gemente avversario.
Vide il
suo braccio levarsi, rapido e letale come insegnatogli dal
maestro di scrima.
Vide la
punta affondare precisa nella carne tenera della gola.
Vide il
sangue sprizzare e lordargli il volto quando la ritrasse.
Vide
l’espressione sconvolta, tradita, terrorizzata
dell’uomo.
Vide il
corpo del Nicolotto tremare convulso e rimbalzare nella
sua caduta prima per terra e poi in una grassa scia di sangue scivolare
in
acqua.
Rigiratosi
prono e aggrappatosi incredulo al bordo del ponte
pregno di sangue, Hironimo seguì ipnotizzato
l’affioramento del cadavere del
suo avversario in superficie, il rosso sulla pelle lavato via
dall’acqua, la
quale dondolava il morto assai dolcemente, quasi lo ninnasse materna
verso il
sonno eterno.
Ho
ucciso un uomo?, si
chiese disorientato il ragazzo,
scoprendosi ancora stretto il pugnale tra le dita insanguinate, il viso
gocciolante di sangue e sudore.
Era stato
dunque così facile? Recidere una vita, scendere
nell’Ade
era dunque così semplice, questione di qualche istante?
Giorni, mesi, anni per
formare un essere umano e un battito di ciglia per annullarlo? Come se
non
fosse mai esistito?
Ho
ucciso un uomo.
Anche
Padre era morto così, in un battibaleno, la sua esistenza
cancellata tramite gesti così banali? Neanche i suoi
carnefici stessero
sopprimendo una bestia?
Ho
ucciso un uomo.
Così
poco valeva la vita umana, così fragile da non metterci
niente per distruggerla?
Ho
ucciso un uomo.
Perché
quel Nicolotto voleva ucciderlo? Che gli aveva fatto
Hironimo di male?
Perché
quegli ignoti avevano ucciso Padre? Che li aveva fatto lui
di male?
La lama
tremò.
Ho
ucciso un uomo.
In un
balzo felino, Hironimo si ritrovò in piedi e cacciando un
urlo spaventoso si gettò su di un avversario a caso,
mulinando il pugnale a
destra e a manca, colpendo dove colpiva, senza tecnica né
scopo, tranne quello
di trarre sangue.
Ho
ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo. Ho ucciso
un uomo.
Non
c’era niente di eroico nella morte. Niente. Un animale che
uccide un altro animale. Semplice. E poi il nulla.
Molto
probabilmente, il ragazzo aveva osato spingersi troppo in
là, mancandogli di conseguenza il sostegno della sua
squadra. La stanchezza poi
di ore di combattimento gli avevano appesantito le braccia, rendendolo
goffo e
pesante nei movimenti e nelle sue reazioni. Sicché un pugno
allo zigomo gli
fece ruotare la testa, annebbiandogli la vista e un altro
all’addome gli mozzò
il fiato in gola, togliendogli l’equilibrio. Il mondo prese a
vorticare in una
sequela di sferzanti luci, di colori mischiati selvaggiamente tra di
loro e lo
stridulo rimbombo delle grida concitate dei lottatori e in questa
fantasmagorica gagliarda Hironimo sgambettò e
roteò sconclusionatamente, ogni
appiglio perduto così come il dominio sul proprio corpo,
ridotto ad instabile
marionetta.
Un paio
di mani (o tenaglie a forma di mani) non tardarono ad agguantarlo
e, in una buffa capriola, il diciassettenne patrizio volò
letteralmente giù dal
ponte, e trovò curioso il modo in cui il mondo si rovesciava
e roteava fino a
terminare inghiottito nel verde-bluastro delle acque del
canale.
L’impatto
dell’acqua sulla schiena non si rivelò tanto
atroce
quanto temuto dal Miani, il quale affondava rotolando in una grande
scia di
bolle. Né l’acqua fredda gli dispiacque, semmai
l’aiutò a ritrovare la calma,
sentendosi dopo tanto tempo in pace con se stesso, sensazione provata
soltanto
in sella ad Eòo. Neanche s’avvide di come non
riuscisse più a muovere un sol
dito, la mente intorpidita dal cazzotto ricevuto da rendergli
impossibile ogni
azione e confuso ogni pensiero.
Lì,
sottacqua, le grida, i tonfi, ogni suono gli giungevano
ovattati, sgradevoli echi lontani da cui desiderava alienarsi. I raggi
della
luce filtrati dall’acqua creavano piacevoli veli da cui
lasciarsi accarezzare,
mentre il suo corpo, pesante, scendeva, scendeva … le sue
braccia immobili tese
verso l’alto come in preghiera e i capelli fluenti a guisa
d’alghe lo
incoronavano di scapigliata leggerezza
… accompagnato dal profondo
sospiro del mare, quella voce greve e costante che cullava i marinai
caduti
nell’abbraccio della capricciosa Thalassa, addormentandoli
per sempre tra le
sue cupide braccia … quella voce che soltanto i delfini e
gli altri animali
marittimi conoscevano … quella voce antica come il mondo e
che non poteva
offendere, che tutto azzerava …
Il mondo
finalmente distante, sigillato dalla superficie
dell’acqua, e con lui ogni suo dolore. Il sangue
più non macchiava né le sue
mani né il suo corpo; si sentiva libero e leggero, come le
farfalle. E forse
anche la sua anima sarebbe volata via, ricongiungendosi al Nicolotto
della cui
vita egli aveva così crudelmente disposto, ricongiungendosi
magari anche a
quella di Padre …
Libero,
libero da quell’odiosa crisalide!
Hironimo
chiuse gli occhi, soffocato dall’ultima vertigine
provocatagli dal cervello concusso, ma ecco che questi gli
proiettò dinanzi al
posto del buio sempiterno l’altorilievo della Madonna del
Paveio di Treviso, i
cui occhi di pietra dalla farfalla si spostarono sul ragazzo, infelici,
quasi
stesse per piangere.
Figlio
mio, Momolo mio, cosa fai?, udì egli
la Sua voce dolente, curiosamente assai simile a quella di Madre.
Due
enormi bolle fuoriuscirono dalle narici del giovane e una
dalla bocca l’avrebbero presto seguite, se egli, ripresosi
dal suo
incantamento, non avesse saggiamente serrato le labbra e trattenuto in
gola
quel poco preziosissimo fiato rimastogli. Dominando
l’istintiva reazione di
dimenarsi scoordinatamente e così sprecare energie e
ossigeno, Hironimo sciolse
il nodo della camicia e come di lei si sbarazzò anche delle
braghe, i vestiti
pregni d’acqua trasformatisi infatti in ulteriori pesi che lo
trascinavano in
basso.
Stese le
braccia in avanti a forma di cuore, ma stavolta per darsi
propulsione in avanti, sostenuta dalla spinta della gambata che lo
avvicinò
alla superficie.
Bracciata,
gambata – su! Bracciata, gambata – su! Dai, Momolo,
dai
che sennò arrivi ultimo! Bracciata, gambata – su!
Le mani
del ragazzo s’artigliarono alla cieca al primo oggetto
solido ad esse reperibile, ottimo punto d’appiglio per lo
sforzo finale:
imitando uno di quei tritoni tanto amati dai pittori nei loro trionfi
di questa
o quella divinità classica, il giovane Miani
sfruttò l’ultima leggerezza
concessagli dall’acqua per sollevarsi in alto e lasciarsi
cadere pesantemente
scomposto e supino a bordo di quella che scoprì trattarsi di
una gondola. La testa
parve volergli scoppiare quando la batté sul duro legno.
Neanche
il tempo di giustificarsi coi proprietari della gondola,
che i suoi polmoni si contorsero in fiamme, lo stomaco sottosopra e
disgustato
dall’effetto purgante dell’acqua lagunare,
sicché il giovane patrizio riuscì
nella notevole impresa di tossire e allo stesso tempo rigettare vomito
e acqua,
perlomeno quest’ultima parte a carponi a babordo, fuori
dall’imbarcazione.
Grugnendo, respirò affannosamente l’aria
ritrovata, gli occhi brucianti dalla
salsedine, scostandosi le ciocche bagnate dalla faccia e rabbrividendo
al
contatto dell’aria pomeridiana, le tempie che gli battevano
alla stregua dei
tamburi di galea.
“Momolo?!”
L’interpellato
in questione si bloccò all’istante, tramutato in
sale neanche fosse la seconda moglie di Lot. [5] Circospetto si
voltò verso la
famigliare voce che lo chiamava, sperando che appartenesse a chi lui
sperava.
Poiché se si trattava di un suo parente, nulla
l’avrebbe sottratto all’orrido
destino del sileno Marsia, altroché. [6]
“Patrona
…”, mormorò in un buffo singulto, la
bocca storta in una
smorfia incerta tra l’accattivante e il dispiaciuto per
quella sua insolita
invasione dell’altrui gondola.
Luzia
Trivixan, cortigiana "honorata", virtuosa del canto
d’eccellentissima fama, figlia di Apollo, musa ispiratrice
dei più celebri
musicisti e compositori di Venezia, generosissima mecenate e amante
preferita
di suo zio Batista lo fissava imbambolata, il ventolino levato a
mezz’aria
quasi la donna fosse incerta se sventolarsi o picchiare Hironimo con
esso.
Fossero
quelli stati altri luoghi e altre circostanze, onestamente
al ragazzo non sarebbe dispiaciuto trovarsi in mutande a tu-per-tu con
la Diva.
Al contrario, una subitanea verecondia lo colse traditrice e il
patrizio si accovacciò
su se stesso nel goffo tentativo di celare simultaneamente petto e
inguine,
maschile imitazione dell’Afrodite Accovacciata dello scultore
greco Doidalsa.
La
cortigiana, appurata l’identità
dell’ospite imprevisto, abbassò
il ventolino di damasco, tirando un grande sospiro di sollievo.
Sorridendogli
amabile e intuendo al volo i come e i perché di quella
bizzarra entrata in
scena, Luzia staccò la spilla di diamanti e si sciolse
l’ampio zendale di seta
dalle spalle, che usò lesta per coprire Hironimo,
suggerendogli cogli occhi
intelligenti di sgattaiolare dentro la felze, operazione resa assai
complicata
dalla scoordinazione motoria del ragazzo, ancora mezzo intontito sia
dai pugni
ricevuti in testa che dal mancato annegamento e di fatti, nella felze,
egli
c’entrò a guisa di granchio.
“Ohé,
Luzietta”, cinguettò da una gondola vicina
Francesca
Ordeaschi, altra nota cortigiana honorata d’esotica bellezza,
vestita quel giorno
d’un eleganza strepitosa, di damaschetto dai fiori
d’oro e argento trapuntati
di perle, che pareva la dea Flora reincarnata. La sua imbarcazione,
contrariamente a quella della Trivixan, ospitava tre gentiluomini,
segno che la
Ordeaschi ben conciliava il negotium all’otium. “No
xélo un fià presto per la
pesca de’ bisati?”, alluse maliziosa, indicando
celere tramite il ventalino la
figura snella e muscolosa d’Hironimo seminascosta dalla
felze. Tanto colta e
raffinata quanto subdola e intrigante, quell’ambiziosissima
figlia di nessuno
qual era Francesca Ordeaschi non mancava di metter alla prima occasione
disponibile in cattiva luce le sue colleghe per accaparrarsi gli uomini
più
potenti e ricchi, sicché le cortigiane in sua presenza si
comportavano in
maniera ancor più guardinga e artificiosa, onde non esser
colte in fallo,
arrivando perfino a spiarla a loro volta tramite gli stessi clienti che
l’Ordeaschi intratteneva così da anticiparne le
mosse.
Luzia
medesima, pur all'apice della sua carriera, aveva
guerreggiato gagliardamente contro Francesca, la giovane e fresca nuova
arrivata, sennonché il suo talento canoro e nella musica in
generale le avevano
ritagliato una clientela, seppur di nicchia, alla temuta rivale
piuttosto
inaccessibile per quanto si sforzasse.
Affatto
intimorita da quella velenosa frecciatina, la cantante
rise dunque piena di sarcastica nonchalance, allargando le braccia e
roteando
enfaticamente i polsi similmente a quando s’esibiva per il
suo pubblico. “Oh
cara”, tintinnò soave la sua voce simile a mille
campanelli scossi dal vento,
“io son la Ciprigna Venere, che, poscia la dura pugna,
consola tenera tra le
candide sue braccia il bello e indomito Marte,
l’Andreiphontês, il
Miaiphonos!”, gorgheggiò la sua gola
d’usignolo in improvvisato canto, sicché
la battuta canora piacque agli altri astanti lì vicini, che
applaudirono impressionati.
L’Ordeaschi
arricciò furbetta la carnosa bocca sensuale,
replicando altrettanto ampollosamente: “Ch’el
povero Vulcan vostro non
vi sorprenda!”
“La sua Venere
saprà far giusta ammenda!”, la
rassicurò canticchiando la Trivixan, inchinandosi affettata
e, raggiunto il suo
ospite nella felze, calò i drappi laterali, concedendosi
così un po’ di
privatezza senza però rinunciare al cruento spettacolo
dinanzi a sé sul Ponte
dei Pugni. “Dorondòna petegola”,
commentò sbuffando, sventolandosi imbronciata
il ventalino.
“Oh,
poareto ti”, si concentrò poi Luzia sul suo
protetto,
sistemandosi tra i morbidi cuscini di velluto all’interno
dell’elegante felze e
invitando Hironimo ad imitarla, il quale
s’accoccolò al suo fianco, attirato
dal sia dal calore sia dal profumo di lei che gli ricordavano le
melagrane
settembrine. La cantante gli sistemò sopra una leggera
coperta, studiando con
materna apprensione i lividi sul volto e il grumo di sangue tra i
capelli
impiastricciati tra loro. “Cossa
gh’hastu combinà? Vardate, te xé
mojo chome un arnàto! [7] Che labbra blu!”, scosse
il capo, accarezzando
dolcemente e senza alcun fine di seduzione il corpo pieno di tagli e
ecchimosi
del ragazzo, il quale starnutì, stringendosi più
presso lo zendale sotto la
coperta. “Non ti sarai mica buscato qualche malanno? Tremi
neanche avessi la terzana!”
“No,
no, siora patrona, sto bene”, la rassicurò
Hironimo,
rendendosi conto solo in quel momento di come effettivamente stesse
battendo i
denti e di come le sue mani si muovessero autonomamente in convulsi
spasimi. Le
vertigini ancora non l’avevano abbandonato e gli stava
sorgendo un gran sonno,
cui il solo cicalare dell’amante dello zio gli impediva di
abbandonarvisi.
Sebbene
la bocca della cortigiana continuasse a rimanere fissa in
un tenero sorriso, in realtà il progressivo avvicinarsi
delle sue sopracciglia
tradiva il suo scetticismo. “Vieni, posa qua la tua
testina”, tamburellò le
lunghe dita bianche e affusolate sulle sue ginocchia. Quando
l’ebbe dove lo
voleva, Luzia prese a tamponargli col fazzoletto il sangue dalla ferita
sulla
testa, per poi esclamare sconvolta: “An, Momolo! Guarda le
tue povere mani! Erano
così belle, chi m’accompagnerà col
liuto, quando canto per il tuo avunculo?”,
lo acchiappò per un polso e contemplò mesta le
nocche sbucciate e le dita gonfie
della mano sinistra, avendo il giovane Miani menato pugni anche con
quella nuda
del guanto. Neppure la destra se la passava tanto bene e al ragazzo
dispiacque
aver intristito così la Trivixan, la quale traeva grande
diletto nel sentirlo
suonare durante i privati concerti famigliari, anche se la sua tecnica
era da
amatori se equiparata ai veri virtuosi che frequentavano la casa della
cortigiana.
“Non
lo so, forse il Bortolo Trombonzin Veronese?”,
replicò il
giovane, tingendo di stizza quella che doveva essere una battuta di
spirito. “Si
racconta in giro come voi due siate divenuti amici assai intimi
…”
Luzia
gettò indietro il capo, ridendo allegramente. “An,
lui lo
invito soltanto per suonarmi le sue ultime composizioni
(così da ottenere
qualche copia gratuita dei suoi spartiti) e per discutere sul serio di musica, mica per finta come
faceva a Mantoa, coi siori
Marchesi! Se lo sapesse quella spocchiosa sgrandezona della Marchesana,
che ha
sempre voluto il maestro Bortolo tutto per sé! Non ti pare
divertente, Momolo,
come io possa avere ciò che quella gran dama
d’Yxabela d’Este non avrà
mai?”, si
portò una mano sulla serica pelle del petto, asciugando
qualche molesta goccia
d’acqua. “Sta de bona voja, petusso mio, conosco
quale pensiero ti turba: non
ho promesso nulla al sior Bortolo, figurati se mi prendo per amante uno
che ha ammazzato
la moglie. Non m’importa che i siori Marchesi
l’abbiano perdonato, non m’importano
le giustificazioni di lui, di come avesse trovato la sua siora Antonia
in letto
col ganzo. Ha ucciso e questo mi basta. Ché! Crede forse che
io sia nata ieri?”
“Se
v’insolenta, se vi fa torto,
lo ammazzerò!”, le promise veemente Hironimo,
fissandola serissimo. Non
scherzava, ora che aveva visto quant’era facile sopprimere un
individuo, non ci
avrebbe pensato due volte a spedire quel veronese a far compagnia a sua
moglie
Antonia, se questi avesse osato levare la mano contro la loro
Luzietta. Non
siamo tanti dissimili, lui ed io - ammise
a malincuore.
“Ora
lo so”, ammise gravemente la cortigiana, ogni frivolezza
sparita dalla sua voce cristallina, come se potesse scorgere la
differenza nei
suoi occhi nerissimi, dell’Hironimo prima e dopo la Guerra
dei Pugni.
Non
l’aveva d’altronde chiamato Marte
Andreiphontês, l’assassino
di uomini e Marte Miaiphonos, il macchiato di sangue? La Trivixan non
sceglieva
mai a caso le sue parole, men che meno se pronunciate in pubblico e
dunque ella
sapeva o poteva intuire ciò che il giovane Miani aveva
compiuto nella
confusione della mischia. Ciononostante, la grande virtù
delle cortigiane era
la riservatezza e il rispetto delle confidenze dei propri clienti,
più fedeli
loro dei preti nel custodire ogni segreto. Luzia non gli avrebbe posto
domande
né avrebbe spifferato quanto accaduto allo zio Batista. Era
al sicuro, concluse
sollevato l’adolescente, mentre si strofinava via invisibili
macchie di sangue
dalle mani, non ancora avvezzo a quella viscosa sensazione
né la sua mente
ancora provata dalla concussione capace d’elaborare i recenti
avvenimenti.
Per il
rotto della cuffia vinsero i Castellani, annunciando per i
giorni a venire grandi festeggiamenti. Al suono di tamburi avrebbero i
vincitori percorso tutti i sestieri della loro fazione –
Castello, San Marco e
parte di Dorsoduro – in barche cariche di ghirlande e
adornate di fiori. I
patrizi lì residenti li avrebbero compensati dispensandoli
di vino e denaro e per
tutta la notte i loro allegri e grossolani schiamazzi avrebbero tenuto
sveglie
le contrade, tra cortei alla luce delle torce e festini improvvisati in
piazze,
campi e campielli.
Sarebbe
stata invero una gran bella festa, peccato che Hironimo
non se la sentì di parteciparvi, troppo scosso dalla recente
svolta della sua
vita, per quanto ardentemente desiderasse conoscere le sorti di Zane,
Nico e
Lio, se se la fossero cavata, tornando alle proprie case abbastanza
integri da
festeggiare la meritatissima vittoria.
Gentilmente
accompagnato in gondola da Luzia, Hironimo risalì di
nascosto le scale di Ca’ Miani con l’obiettivo di
sgattaiolare in camera sua e
infilarsi sotto le coperte prima che rincasassero i suoi famigliari e
il suo
piano avrebbe anche funzionato, se l’Orsolina non
l’avesse pizzicato proprio
all’uscio della sua stanza, quell’infallibile can
da guardia, manco avesse
annusato la sua presenza. Gli bastò uno sguardo per capire
come l’anziana
fantesca sapesse benissimo dove e cosa il padroncino avesse
combinato -
mal di pancia, invero!
“Seu
ussito de menocca, patron? Xéle cosse da far? Un patricio
chome vuj, comportarse da ultimo de’ villani!”, lo
rimproverò aspra la donna,
seguendolo imperterrita quando uno snervato Hironimo che manco la
filò,
preferendo entrare in camera sua tra sonori sbuffi e spazientiti
roteare di
occhi.
“Molighe,
Orsolina, ti me dà astio!”, berciò,
massaggiandosi le
tempie doloranti. “O se proprio no te pol star zitta, almanco
parla più pian,
chea vaca!”
Figurarsi
se la massera si scoraggiò davanti a tal impertinenza.
“Gh’avé mentio a la siora vuostra Mare e
al sior Zuan Francesco; seti scapà via
de chaxa pèzo d’una pantegana,
gh’avé robà i vestij dil nezzo mio.
Seti tornà
ndrio nudo bruco, pituffao bacalà, cum dosso el zendal
d’una putana! Gh’avo da
continuar? Che turcherie faseu, patron? E per cossa? Per ciaparve a
schiaffazze
cum cuatro sbisai e bastasi?”,
s’appoggiò bellicosa le mani sui fianchi.
“Ih,
quante storie!”, scrollò incurante Hironimo le
spalle,
aprendo il cassone alla ricerca di un paio di mutande asciutte, tirando
rapido
indietro le mani quando la fantesca, comparendo
all’improvviso, gli richiuse di
malagrazia il coperchio. “Zò, matta! Mi vuoi
spezzare le dita?”
Orsolina
lo guardò in cagnesco, i suoi occhi grigi, così
terribilmente
simili a Padre, saettanti di collera. “Storie? Ve podevate
morir mazato lì! Sì
horra i festejan, perhò saveu anca di tuti quei omeni, che
stanote no torneran
pì da le lhoro fameje? Che xéli morti ni per lo
stato ni per la fede ma per na
baruffa?”
La
banalità della morte, elargita così, senza un
perché.
Anche
quel Nicolotto lo sapeva a cosa sarebbe andato incontro quel
giorno? Aveva immaginato che quel letto da cui s’era alzato,
quella famiglia da
cui s’era congedato, mai più l’avrebbe
rivisti e non per via di una guerra
bensì per uno sciocco divertimento? Per una
rivalità oramai vecchia come il
cucco?
S’era
reso conto di ciò, mentre rendeva l’anima al
Creatore?
“No
gh’aveu pensà a la siora vuostra Mare?”
I denti
di Hironimo stridettero tra di loro. “Avevo calcolato ogni
rischio, mica sono andato allo sbaraglio, io. Non ho corso alcun
pericolo, mai,
neppure per un istante. Volevo divertirmi un po’, ecco tutto!
Sapevo quel che
facevo!”
Sì,
certo che il Nicolotto lo sapeva così come tutto
ciò ch’era
successo, l’aveva voluto a suo danno. Nessuno
d’altronde lo aveva obbligato a partecipare
o ad attaccarlo con un pugnale in mano, di certo il fisico non glielo
aveva
consigliato per migliorare la sua salute! Di sua iniziativa aveva
gareggiato,
di sua iniziativa aveva tentato d’accoppare Hironimo, il
quale s’era soltanto
difeso, non aveva fatto nulla di male! Se lo aveva ucciso,
s’era trattato di un
disgraziato incidente, lamentevole, però così
andava il mondo e perché dunque
addolorarsi? Quanti prima di lui aveva ammazzato quel Nicolotto senza
starci
troppo a meditare su, a compatirsi?
Inoltre,
tutti quei suoi allenamenti nella disciplina marziale non
avevano forse l’obiettivo ultimo di fronteggiare la morte?
Dov’era quindi in
quanto da lui compiuto la stranezza, lo scandalo, il rimorso che la sua
coscienza stava cercando d’inculcargli?
“Bagolo?
Bagolo?”, (divertimento, ndr.) si strozzò per poco
Orsolina con la sua medesima saliva, ascoltando incredula quelle
barbarità.
“Voléu copar de doja (dolore,
ndr.) la siora vuostra Mare per dil …
bagolo?!”
“Ancora
una parola e a finire ammazzata sarai tu!”, ruggì
il
ragazzo, scattando in piedi e premendosi i pugni agli occhi, onde
scacciar via
sia l’implacabile emicrania sia la tremenda immagine di Madre
piangente sul suo
corpo immobile e tumefatto, così com’era avvenuto
sette anni addietro con
Padre.
“El
sior vuostro Pare, anca se da zovene l’gera stà
assa’
salvadego, no se gh’ha mai portà da bestia!
Mai!”
“Io
non sono il mio sior Pare!”
“Donca
saria mejo par vu tuore esempio da lu!”
“Oh,
certo! Adesso corro a prendere la corda e vado ad impiccarmi
a Rialto!”, si portò Hironimo la mano alla gola,
fingendo di stringere.
Orsolina
impallidì, la bocca piegata in una smorfia disgustata.
“Talvolta, gh’ho da dirvelo, vuj seti squasi na
desgrassia per sta fameja”,
sentenziò delusa, incrociando le braccia al petto e
dirigendosi in un furioso
sgonnellare fuori dalla stanza. “Poara Patrona, cossa la
gh’ha combinà per
meritarse un fio cussì turcho …”
“Dove
vastu?”, la bloccò subito Hironimo, temendo
ch’andasse a far
la spia con Madre o coi fratelli.
“A
pareciarve el bagno: un corno che vuj me spusolenté de
freschin
i nezuòi (lenzuola, ndr.) néti!”,
ribatté pragmatica la fantesca dal corridoio.
Quand’ecco
ch’ella cangiò idea, ritornando sui suoi passi e,
afferrato il ragazzo per il polso, se lo trascinò seco nelle
cucine. A
quell’ora l’intera servitù
s’era riversata in piazza a godersi i festeggiamenti
e pertanto quell’ambiente di solito brulicante di gente e
d’attività giaceva in
un rilassante silenzio, vuoto.
Orsolina
pigliò la tinozza e due pingui brocche di rame,
dall’acqua ancora calda. In questo modo avrebbe nettato prima
il padroncino,
senza destar troppi sospetti in un viavai d’utensili per il
bagno. Insaponato
ben bene il diciassettenne patrizio, gli rovesciò indosso il
contenuto e
Hironimo trasalì dal cambio di temperatura e dovette
soffiarsi il naso,
essendogli entrata fastidiosamente dentro dell’acqua e pure
un poco sputacchiò.
“Mi vuoi annegare, furbastra?”, la
rimbeccò stizzito, scostandosi i capelli
divenutigli sul viso una tenda da finestra. Almeno, constatò
rincuorato, la
ferita sulla testa aveva smesso di sanguinare, sebbene pulsasse peggio
d’un
cuore.
“V’eo
meritarave!”
“Puoah,
vecia bacuca!”
“Varda!
Varda che bote! Perché ve voléu tanto mal,
patron, da
farve petuffar? Manco gh’avesse vuj chissà quali
pecai d’espiar! Mi sun segura,
che gnanca quei pia-gno-ni a Fiorensa xéli cussì
mati!”
“Perché
lo faccio? Fatti miei. E comunque, vecchia ignorantaccia,
quei piagnoni fiorentini erano matti,
li hanno arrostiti tutti
alla stregua di fagiani.”
“I
gh’ha fato ben, i gh’ha fato! Massa premura (zelo,
ndr.) de
religion, porta solum on gran mal de stomego.”
“Fai
attenzione alle tue parole, ché il sior pare del
“Pizzocchero”
da sant’uomo che l’è, dal Ciel te
scolta, te varda, te judega!”
“Bah,
piagolo!”, grugnì scocciata la fantesca che
afferrò la
seconda brocca, esitando però un attimo. “Patron
Momolo”, gli disse invece
serissima, “mi no vago a contar gnente a la siora Patrona
vuostra Mare, perhò
vuj m’avé da zurar che mai pì
parteciparé a la Guera di Pugnazi.”
Hironimo
si morse indeciso il labbro inferiore, cogitando quali
dei due mali fosse il peggiore: se rinunciare a tal pericolosa
però esaltante
competizione oppure se provocare un coccolone al cuore a Madre,
informandola di
quel suo violentissimo passatempo.
Mentre
valutava i pro e i contro il suo sguardo cadde sulle mani
appoggiate ai bordi della tinozza, a com’erano state lorde di
sangue.
Ho
ucciso un uomo.
“Te
lo giuro.”
“No,
patron, vuj gh’avé da zurar sora l’archa
dil sior vuostro
Pare.”
Le sue
dita erano talmente gonfie, che il solo schiuderle gli
risultava doloroso. Ciononostante non rimpiangeva quella sua
esperienza. Era
stata … liberatoria, quasi catartica.
“Lo
giuro sull’arca del mio sior Pare.”
Orsolina
fu di parola e così anche Hironimo, ritornato docile al
suo ruolo di spettatore passivo, all’occasione in compagnia
di Luzia, assai
divertita la cortigiana da quel loro segreto.
“Siora
Mare?”
“Dimmi,
Momolo.”
“Padre
aveva ucciso?”
“In
guerra diviene purtroppo una necessità.”
“Anche
se è condannata nei Dieci Comandamenti?”
“Se
fossimo perfetti, vivremmo ancora nel Paradiso Terrestre.”
Ma il
vaso di Pandora era oramai stato scoperchiato e d’altronde
Venezia brulicava di zuffe, mica bisognava limitarsi soltanto a San
Barnaba …
***
1504 - 1511
Da quel
30 settembre, Hironimo non aveva più avuto chissà
quanta
paura della morte, ora che aveva scoperto di poterla a sua volta dare e
anche
così facilmente.
Era
conscio tuttavia che soltanto la Serenissima Signoria
decretava come e quando essa poteva venir impunemente elargita ed egli
non era
talmente sciocco da sfidare le severe leggi veneziane, né
d’arrischiare le sue
personali ambizioni per dei banali omicidi figli di stupidi litigi o
questioni
d’onore.
A quello
ci pensava il Carlevar.
Da Santo
Stefano fino a martedì grasso, la città si
abbandonava
alla pazza gioia, dedicando mesi interi ad ogni genere di spettacolo e
intrattenimento, pubblico e privato, tra balli, concerti, palii,
regate,
combattimenti tra orsi, tori, cani, galli; settimane in cui
l’illecito diveniva
lecito, il proibito il permesso, il male bene. L’anarchia
accuratamente
programmata, in cui ognuno assumeva una nuova personalità ed
evadeva, giocando
con la sua realtà e manipolandola a proprio piacere in un
sofisticato gioco
delle parti.
Sicché
in questo disordine non mancavano anche i regolamenti di
conto, le vendette, molto spesso impunite o per incapacità
d’identificare il
colpevole o per disinteresse dell’autorità,
più focalizzate a vegliare l’intera
città che il singolo individuo. Le risse dunque erano
all’ordine del giorno e
Hironimo, due volte su tre, si trovava lì coinvolto o per
dar manforte o perché
da lui stesso provocate.
I motivi?
Molto spesso gelosia tra “innamorati” per i favori
di
questa o quella cortigiana, oppure, questo sì più
serio e valido, per
proteggere le ragazze del loro sestiere di San Marco contro le pretese
dei
giovanotti di quelli confinanti; troppo spesso, infatti, si sentivano
tra le
calli gli echi di qualche povera fanciulla rapita da queste bande di
masnadieri, trascinata a viva forza nelle loro alcove e una volta
lì ...
Hironimo voleva giustificare i morsi della sua coscienza, sostenendo
che se
scazzottava con tal marmaglia era per galanteria cavalleresca verso
quelle
povere indifese e pure di ciò si vantava con le sue
estasiate cugine e l’amante
– in realtà, di quelle giovinette poco gli
importava, la sua era una semplice
disfida personale per dimostrare agli altri la sua forza, il suo
carisma di
capogruppo, la sua dominanza verso il prossimo, il suo sprezzo verso la
morte.
Erano un pretesto, nulla più. Neppure in quelle occasioni in
cui accorrevano
gli sbirri egli si tirava indietro, anzi, per la par condicio finiva
per
pestare a sangue pure loro, gettandoli spesso e volentieri in canale.
Sapeva di
giocare un gioco pericoloso, con quel suo perpetuo
sfidare la sorte a costringerlo ad uccidere nuovamente, e in
più occasioni
rischiò di uscirne sconfitto.
Come con
quel tale di Ferrara, quel gentiluomo la cui moglie per
sbaglio Hironimo aveva approcciato all’imbarcadero, avendo
infatti equivocato
la pelliccia di volpe argentata di lei per la medesima indossata dalla
sua
amante che, disgrazia del destino, gli aveva dato appuntamento proprio
lì.
Accortosi dello scambio di persona, Hironimo s’era
immediatamente scusato con
ambedue, spiegando il malinteso, ma il ferrarese non aveva voluto
sentir
ragioni, appellandolo coi peggior epiteti e insistendo di soddisfare e
lavare l’onta
subita col sangue.
Al che,
annoiato a morte da tali discorsi e incollerito per quegli
ingiusti insulti, Hironimo da dietro la maschera gli aveva riso crudele
e
beffardo, mentre sguainava enfaticamente lo stiletto e la
spada. Sangue
avrai, Ferrarese, non rifiuto dartelo se lo cerchi. Ma bada: se
stanotte deve
scorrere, sarà a gran fiotti il tuo.
A stento
evitò d’ucciderlo, però per il suo
orgoglio perse il
gentiluomo un occhio, tornandosene a Ferrara sfigurato e col dubbio se
quel
veneziano avesse proferito o meno la verità. Quanto al
Miani, si biasimò per
aver esitato a spedire quella canaglia
nell’Aldilà, perdendo così
l’occasione e
il piacere d’alleggerire il mondo dell’ennesimo
arrogante idiota.
La
guerra, incominciata a maggio del 1509, gli portò consiglio.
Lì
non aveva nessuna remora o coscienza a fermarlo, né
famiglia, né leggi né Dio.
E come
Hironimo aveva appurato anni addietro, non c’era nulla
d’eroico in essa, nulla d’esaltante né
degno d’esser cantato da quei bugiardi
dei poetastri in infiniti e barbosi poemi. Si uccideva e si passava al
prossimo
avversario, meccanicamente, spesso con brutale gusto, la mente
proiettata
completamente nel presente, senza passato e futuro. Vivere alla
giornata con
l’incertezza del domani, l’unica consolazione era
quella di privare il nemico
di tale medesima prospettiva.
Il
giovane patrizio giudicava questa una vita assai più
lineare,
semplice e diretta. Soddisfacente quasi. Obiettivi chiari,
ordini da
impartire e da obbedire. Il nemico davanti a sé, la zagaglia
in mano e le
redini di Eòo nell’altra, l’appagamento
di penetrare con essa la carne
avversaria, conscio che ogni uccisione corrispondeva ad un danno a chi
si
prefiggeva di distruggere lui e la Signoria; conscio che ogni uccisione
era la
prova della sua bravura, della sua consacrazione a Marte.
Battaglia
dopo battaglia, il suo talento e la sua dedizione
sarebbero state ricompensate, ne era certo. Nel sangue avrebbe
trionfato
assicurandosi la gloria, la fama immortale, avrebbe reso onore ai suoi
illustri
avi, superandoli in ingegno e abilità militare. Avrebbe
definito il suo
destino, il suo posto nel mondo.
Gli ci
volle la sconfitta a Castelnuovo di Quero e il racconto di
Thomà per far comprendere ad Hironimo che, alla fine della
fiera, non s’era
comportato né meglio né peggio d’un
comune macellaio, tranne che a quest’ultimo
Dio non avrebbe chiesto conto di tutti gli animali che scannava per
riempire le
pance dei suoi clienti. Non aveva acquisito alcun merito agli occhi
della
Signoria perché ancora nessuno s’era fatto avanti
per pagare il riscatto; se
sarebbe stato ricordato, solo per quella sua umiliazione, azzerando gli
sforzi
dell’intera sua adolescenza a meno che qualcosa, qualcuno non
gli avesse
concesso un’occasione di riscatto. A patto però
che fosse sopravvissuto,
ovviamente. Ora come ora, la certezza di rimanere in vita stava
inesorabilmente
crollando. Lui non decideva niente, non era padrone del suo destino.
Ostaggio
impotente, vittima nelle mani del suo carnefice, più forte,
più astuto, più
spietato di lui. Come il Nicolotto di otto anni addietro, chi
l’aveva costretto
a quella vita? Coscientemente aveva imboccato quel cammino e adesso
doveva
pagarne le ovvie conseguenze nell’infamia della prigionia.
Fosse almanco morto
eroicamente in battaglia …
Per
questo guadagno aveva dunque compromesso la sua anima?
Riponi
la tua spada nel fodero, ché tutti coloro che avran messo
mano alla spada di spada periranno.
Non aveva
considerato questo dettaglio, nella sua cieca ed
entusiasta ricerca del successo militare. Tanto si credeva invincibile,
da non
aver realizzato come anche lui fosse sottoposto alla medesima dura lex
della
guerra, laddove prima o poi il fato l’avrebbe destinato a
fronteggiare
qualcheduno a lui superiore, che gli avrebbe inferto tutto il male
ch’egli
aveva a suo tempo sfogato sui perdenti.
A qual
pro odiare dunque Mercurio Bua, biasimandolo delle sue
disgrazie?
Fossero
stati i ruoli invertiti, Hironimo si sarebbe comportato
esattamente come lui.
Se non
peggio.
Continua
…
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Continua
il nostro viaggio nella coscienza assai sporca del
Nostro, ne avremo ancora almeno per qualche capitolo, dove spiegheremo
altri
punti qui accennati, ma non sviluppati, tipo il suo rapporto con Lucia
Trevisan.
Colgo
l’occasione per un meritatissimo ringraziamento a
Alessandroago_94 che, contrariamente a quanto dice, non è
né ignorante né
inutile anzi, è stato il primo a recensire e a darmi fiducia
continuando a
leggere, dopo un prologo assai bislacco. Grazie mille!
Spero
dunque che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
oggidì questa Scala è nota come “La
Scala dei Giganti”, per
via delle scultore gigantesche di Marte e Nettuno ad opera di Jacopo
Sansovino,
lì collocate nel 1567.
[2] Piazza
delle Erbe = oggi Piazza del Monte di
Pietà. La chiesa di Santa Lucia, addossata alla chiesa di
San Vito, aveva
inglobato la chiesa di Santa Maria delle Carceri, da qui i numerosi
simboli
sulla conversione e sul destino dell’anima dopo la morte.
Infatti, oltre
all’altorilievo, c’è anche un affresco
di Tomaso da Modena raffigurante la
Madona del Paveio.
[3] Castellani:
sestieri di Castello, San Marco e
Dorsoduro (tranne per le contrade di San Nicolò dei
Mendicoli, Angelo Raffaele,
San Basegio, Santa Margherita e San Pantalon); Nicolotti:
sestieri
di San Polo, Santa Croce e Cannaregio.
[4]
Ebbene sì, a Venezia si poteva riconoscere
dall’accento da
quale sestiere uno proveniva. Questa curiosità venne persino
appuntata da
Goethe nel suo “Viaggio in Italia.”
[5] La
moglie di Lot contravvenne agli ordini degli angeli,
voltandosi indietro durante la distruzione di Sodoma e di conseguenza
tramutandosi in una colonna di sale.
[6]
l’orgoglioso sileno Marsia sfidò Apollo ad una
competizione
musicale, perso contro il dio, quest’ultimo per la sua hybris
lo fece
scorticare vivo.
[7] mojo
chome un arnàto = (lett.) bagnato come
un’anatra, ossia bagnato fradicio.