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Autore: _Lightning_    06/11/2020    1 recensioni
«Si dice che si nutrano di sogni. Qualunque cosa voglia dire.»
«Non intendo rimanere qui abbastanza a lungo da scoprirlo,» rispose Din, seccamente.
Cara smise di trafficare con la fondina del suo blaster e alzò lo sguardo, vedendolo fermo sul bordo della rampa d'uscita della Crest, come se fosse riluttante a mettere piede sul suolo muschioso e umido di Varchas. Il Bambino emise un flebile richiamo dal suo scomparto.
«Cos'ha che non va questo pianeta?»
Din soppresse un sospiro.
«Non mi piace e basta.» Avanzò all'esterno, gli stivali che affondavano nel sottobosco scuro e molle. «Chiamalo un presentimento.»

[CaraDin (slow-burn) // Mando&BabyYoda // Mild Horror // Angst // Hurt/Comfort // Whump]
Genere: Dark, Horror, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Baby Yoda/Il Bambino, Carasynthia Dune, Din Djarin, Yoda
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales of Two Space Warriors and Their Green Womprat'
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Quando guardi l’Abisso
 
_____________

2. Il Pianeta del Crepuscolo
 




Un giorno prima
 
«Si dice che si nutrano di sogni. Qualunque cosa voglia dire.»

«Non intendo rimanere qui abbastanza a lungo da scoprirlo,» rispose Din, seccamente.

Cara smise di trafficare con la fondina del suo blaster e alzò lo sguardo, vedendolo fermo sul bordo della rampa d'uscita della Crest, come se fosse riluttante a mettere piede sul suolo muschioso e umido di Varchas. Il Bambino emise un flebile richiamo dal suo scomparto.

«Cos'ha che non va questo pianeta?»

Din soppresse un sospiro.

«Non mi piace e basta.» Avanzò all'esterno, gli stivali che affondavano nel sottobosco scuro e molle. «Chiamalo un presentimento.»

Cara batté le palpebre, presa alla sprovvista dalla vaghezza della sua risposta. Din non agiva seguando emozioni o impressioni, e tanto meno preferenze. Era un uomo per cui contavano solo fatti, tattiche, linee di tiro favorevoli e posizioni di vantaggio, esattamente doveva essere per ogni cacciatore di taglie Mandaloriano che si rispetti. Le emozioni non giocavano alcun ruolo – tranne quando i lBambino era in pericolo.

E tranne on Varchas, a quanto pareva. Le era parso sulle spine sin da quando si erano sobbarcati quel contratto, a dir la verità. Ormai sapeva leggerlo piuttosto bene, e riusciva a riconoscere i suoi vari tipi di silenzio: pacata contemplazione, calma spensierata o taciturna apprensione. Quest'ultima era rara, e sempre giustificata. Mentre, un paio di mesi prima, non aveva avuto bisogno di chiedergli perché mai attraversare il settore Mandaloriano l'avesse turbato, adesso era a corto di risposte.

Era vero: Varchas, il
pianeta del crepuscolo”, non aveva una buona fama nella Galassia. Era anche vero che si poteva a stento parlare di fama. L'aveva sentito menzionare un paio di volte al massimo nel corso della sua vita – quel commento sul nutrirsi di sogni, che non era esattamente invitante. E basta. Non aveva nemmeno mai visto un Varchaasi. Sapeva solo che esportavano miele pregiato, che non aveva mai avuto il piacere di provare, visto che non aveva crediti da spendere in simili frivolezze.

Quando era loro capitato tra le mani quel contratto, su Nar Shaddaa, avevano accettato perché sarebbe stato semplicemente folle non farlo. In seguito a qualche scaramuccia con gli Imperiali superstiti, la Razor Crest aveva urgente bisogno di essere rimessa in sesto, oltre a un'ispezione da cima a fondo. E Motto, per quanto fosse burberamente paziente, non poteva vivere di credito per sempre. Anche il loro equipaggiamento aveva visto giorni migliori e l'armatura in beskar di Din richiedeva una manutenzione specifica e costosa. Infine, era da un po' che voleva mettere la mani su un blaster Z-6 a ripetizione, in memoria dei vecchi tempi.

Avevano bisogno di soldi, semplicemente. Taglie elevate implicavano rischi elevati, ma erano entrambi guerrieri esperti, oltre che una squadra formidabile, quindi aveva accettato l'offerta in un battito di ciglia. Ripensandoci, Din non era sembrato affatto entusiasta, ma non aveva nemmeno obiettato. Dopotutto, le lasciava quasi sempre carta bianca nelle negoziazioni, una parte di quel lavoro che aveva ammesso di detestare e che lei, al contrario, trovava quasi divertente. Stavolta non c'erano state contrattazioni: diecimila crediti vivo o morto valevano una gita nella bocca di un Exegorth, per quanto la riguardava.

Comunque, ormai erano lì. Era futile interrogarsi sui se e sui ma.

Rinfoderò il blaster e seguì Din fuori dalla nave, inalando l'aria densa e umida della foresta tropicale; incrociò le braccia, attendendo che il Mandaloriano finisse di ispezionare la chiglia della Crest. Avevano subito qualche danno minore mentre raggiungevano il punto di salto di Nar Shaddaa, quando erano stati costretti ad attraversare un campo di asteroidi.

"È a posto?" gli chiese, sentendo dei rumori metallici a babordo della nave.

"Abbastanza," esalò Din in tono insolitamente infastidito, mentre chiudeva di scatto il pannello esterno. "Ma non sono sicuro che reggerebbe un altro ipersalto. Forse dovremmo farla sistemare qua su Varchas."

Puntellò un piede sulla rampa d'ingresso, spostandovi il peso, e la fissò evitando in modo quasi inequivocabile di guardarla negli occhi. Cara iniziava ad avere la percezione di quando evitava attivamente il suo sguardo, anche se, dall'esterno, sembrava sempre scrutare diritto dinanzi a sé. Adesso, il suo sguardo oscillava su un punto un poco al di sopra delle sue spalle e, da come parlava, sembra stesse quasi sperando che lei non concordasse con quanto aveva appena detto.

"Per me va bene. meglio non correre rischi," rispose invece, voltandosi in modo esplicativo verso il Bambino, solo per ritrovarselo già ai suoi piedi, con un'unghia ancorata al suo stivale e gli occhi appuntati su Din. "Non sono sicura che lui sia d'accordo con l'essere lasciato di nuovo da solo, però."

Din liberò uno dei suoi sospiri un po' teatrali, ma s'intuiva l'accenno di un sorriso.

"Non abbiamo molta scelta," disse, avvicinandosi a loro e chinandosi per prendere in braccio il Bambino, che lanciò uno squittio di protesta. "Su, non ci mettermo molto, womprat pestifero," tentò di placarlo in modo burbero, mentre lo adagiava nel suo scomparto.

Cara colse l'accenno di una risata piena nella sua voce. Il Bambino aveva dei poteri considerevoli, questo era indubbio. Ma quello più impressionante era il modo in cui riusciva sempre a migliorare l'umore di Din. L'uomo gli pizzicò una delle orecchie cadenti in un gesto affettuoso, ma il Bambino si limitò a fissarlo con quello che assomigliava terribilmente a un cipiglio di riprovazione.

"Non credo che abbia funzionato," commentò Cara, senza poter fare a meno di sorridere a quella scena, come ogni volta che li vedeva interagire. Din non si preoccupava molto di nascondere il suo affetto verso il suo figlio acquisito. Non si era ancora interessata a fondo degli usi mandaloriani, ma le sembrava chiaro che quei guerrieri temprati e impassibili non avessero alcun obblico nel comportarsi in modo indifferente verso coloro che amavano, specialmente i loro figli. Al contrario, le davano l'idea di essere genitori ferocemente protettivi.

"Non funziona mai. Torniamo presto, ad'ika." Diede un'ultima occhiata al Bambino e chiuse alla svelta lo scomparto, come se non volesse indugiare troppo, rischiando di cambiare idea riguardo al portarlo con loro. "Non ci metteremo molto," borbottò poi, e non seppe dire se si stesse rivolgendo a lei, al Bambino o a se stesso.

"In marcia, allora," rispose in ogni caso.

"In marcia."

Si avviarono, giù per la rampa della Crest, nella radura e poi tra gli alberi. Vennero presto inghiottiti dal flusso vitale di quei luoghi incontaminati. Le ricordarono i boschi violetti di Onderon, anche se qui la flora sembrava ancor più stravagante. La foresta era rigogliosa, formata da alberi sinuosi e contorti ricoperti da rampicanti in fiore, e ronzava di vita – così tanto che Cara si ritrovò a desiderare di avere anche lei un elmo in beskar, così da non dover agitare qua e là le mani per scacciare gli insetti che sciamavano loro attorno.

"Per la prossima taglia, voglio un pianeta di ghiaccio," disse, cercando di non muovere troppo le labbra per non ritrovarsi a inghiottire una boccata di moscerini curiosamente luminescenti. Ugh. Non aveva problemi a curare ferite aperte, sventrare nemici o combattere esseri alieni sbavanti, ma il suo rapporto con gli insetti era molto... femminile. E l'ultima cosa che voleva era che Din lo scoprisse.

Proprio in quel momento, il Mandaloriano emise un verso nasale che suonò come uno dei suoi tentativi di camuffare una risatina, almeno finché non lo vide tastare la mentiera dell'elmo, scuotendo qua e là la testa e sbuffando sonoramente. Cara dovette sopprimere un sorrisetto.

"Fierfek! Maledette mosche," sputacchiò, dandole la schiena per sollevare l'elmo oltre la mandibola; Cara si voltò prontamente nella direzione opposta. Il ronzante colpevole schizzò via in un volo stentato, disegnando un anello a mezz'aria. "Vada per il pianeta di ghiaccio," concordò lui, una volta risistemato l'elmo. Attivò la tenuta stagna con un sibilo.

"Questa è la cosa più buffa che ho visto ultimamente," lo stuzzicò Cara, mentre riprendevano ad avanzare nel folto del sottobosco, tra felci bluastre e liane indaco.

Din si limitò a scuotere la testa, ma intuì che fosse divertito a sua volta da quel suo goffo incoveniente. Sembrava leggermente meno tesa, rispetto a solo pochi minuti prima, e lo prese per un buon segno. Era raro che fosse turbato, e vederlo così la metteva sulle spine.

Fu smentita quando un profondo richiamo ruppe il silenzio umido: Din voltò di scatto la testa, una mano già corsa al suo Amban e un respi,ro trattenuto che risuonò al di fuori del casco. Una silhouette con due paia d'ali spiccò il volo da uno dei rami più bassi e sparì in un frullio d'ali. Cara rivolse al suo compagno uno sguardo interrogativo, che lui ignorò mentre si rilassava lentamente, con l'aria di chi si aspetta un'imboscata da un momento all'altro.

Ripresero ad avanzare verso la calda luce a malapena visibile tra gli alberi, dove si ergevano le luccicanti guglie di Taamash.

Man mano che si avvicinavano, Cara dovette ammettere di iniziare a condividere la circospezione di Din riguardo Varchas. L'emisfero in cui si trovavano era al momento avvolto da un eterno crepuscolo, con cieli violetti e un sole fioco e morente che incombeva all'orizzonte. Su quel pianeta una rotazione corrispondeva grossomodo a un intero anno standard. Le fasi del giorno duravano intere stagioni, e avvertì un senso d'oppressione al pensiero.

La natura si era adattata a quei ritmi: col calare del sole, le piante più verdi avvizzivano lentamente, lasciando il passo a quelle notturne di un blu cangiante. Erano nell'autunno del giorno. Fiori fosforescenti avevano già cominciato a fiorire nei punti più bui, e le loro tinte spettrali sembravano accentuare ogni ombra. Cara aveva la netta impresisone di camminare lungo i confini di un sogno.

Si nutrono di sogni. Le voci che aveva sentito inziavano ad acquisire una parvenza di senso. Non si sentiva del tutto sveglia, al momento: le sembrava di galleggiare in un leggero dormiveglia. Stava già sognando?

Affrettò il passo, riscuotendosi e realizzando di essere rimasta indietro. Din le rivolse un'occhiata perplessa. Sapeva che era perplessa.

"Tutto bene?"

"Certo," replicò secca, senza fermarsi. "Sbrighiamoci con questa taglia, mh? Questo posto inizia a non piacere anche a me."

 

 

Taamash era circondata da alte mura di arenaria, le cui asperità sembravano assorbire i raggi obliqui del sole che ancora faceva capolino all'orizzonte. 

Cara e Din si lasciarono alle spalle la porta della città: era chiusa a metà, le spiegò Din, pronta ad essere serrata quando l'ultimo raggio di sole sarebbe fosse sparito. Le guardie cittadine, con indosso dei morbidi copricapi dai colori vivaci, li accolsero con un cenno del capo, per poi alzare i lunghi bastoni al plasma e lasciare loro libero il passo. Cara non riuscì a distinguere i loro volti, velati dal tessuto verde e giallo, ma sembravano umanoidi, anche se leggermente più alti di un maschio umano medio.

Strade affollate e ricoperte da un pavè verdastro accolsero i loro passi, diretti verso il centro della città. Il loro obiettivo era presumibilmente nei bassifondi o nella zona portuale, ma dovevano prima studiare il terreno. Fu subito lampante che dare inizio a un inseguimento nell'intrico di stradine, vicoletti e camminamenti sospesi che curvavano e si intersecavano attorno alle torri gugliate che punteggiavano la città si sarebbe rivelato un incubo. E ciò portò all'inevitabile conseguenza della parola "morto" che acquisiva attrattiva nella dicitura "vivo o morto". I cadaveri difficilmente fuggivano.

Lo sguardo di Din vagava qua e là – lo si intuiva dal lieve e ritmico inclinarsi del casco – apparentamente senza alcuna logica. Ma lei riusciva a seguirne lo schema: vie di fuga, vicoli ciechi, punti d'osservazione, strettoie e postazioni da cecchino risultavano ben visibili anche a lei. Avevano approcci molto diversi, loro due, e sapeva che avrebbero dovuto compiere un confronto incrociato delle informazioni raccolte, una volta raggiunta la Cantina più vicina.

Continuarono ad osservare e mappare la città, passeggiando tra i molti Varchaasi che non rivolsero loro un solo sguardo, come se fossero invisibili. O non avevano interesse per i forestieri, o non li ritenevano degni della loro attenzione. Era difficile dirlo, visto che avevano i volti quasi del tutto coperti e degli occhialoni a schermare le iridi. Din riusciva ovviamente a leggere il linguaggio del corpo molto meglio di lei, essendo cresciuto nel Credo, ma al momento la freddezza degli abitanti sembrava lasciarlo indifferente. Era ancora sulle spine, però, molto più di quanto non fosse normalmente durante gli incarichi: la sua destra non si allontanava mai troppo dal blaster.

Cara si guardò attorno, stavolta con più intento: Taamash era bizzarra, non c'erano dubbi, ma non le trasmetteva un'immediata sensazione di pericolo. Si era aspettata che gli abitanti di un mondo in cui il giorno e la notte erano quasi eterni fossero dei fuori di testa, ma, per ora, quella sembrava una normale cittadina dell'Orlo Esterno.

I tapcaf vendevano liquore a basso prezzo, di un intendo viola, assieme a tappeti intarsiati; capannelli di persone erano sparpagliati per tutta la piazza del mercato; dei bambini correvano e si arrampicavano sui tetti e tettoie più bassi, inseguendo quei volatili quadrialati che avevano intravisto nella foresta, e le loro madri li redarguivano dabbasso in una lingua schioccante e inframezzata da trilli.

Un forte sentore mellifluo permeava le strade, e localizzò un'infinità di giardini, aiuole e rampicanti che ricoprivano quasi ogni edificio. Lì le foglie erano ancora verdi e i fiori rigogliosi, tinti di tutte le sfumature esistenti del rosso, anche se si scorgeva qualche sprazzo di giallo e blu qua e là. Il profumo era quasi stordente, così come il continuo, snervante ronzio di api ebbre di nettare. Molte case di Taamash ospitavano arnie nei loro giardini, ed era chiaro che fossero tenute con estrema cura. Dopotutto, erano la principale fonte di guadagno del pianeta.

La città era anche ben illuminata, e di certo più briosa di qualunque bassofondo di un qualunque pianeta remoto su cui avesse messo piede. Non diede troppo peso a qual fatto, almeno finché non notò la totale assenza di lampioni o altri mezzi d'illuminazione. Rallentò il passo, puntando il naso all'insù, verso il cielo violaceo che in quella direzione rifletteva ormai solo un tenue chiarore. Eppure, raggidorati danzavano ai suoi piedi, e sembrava solo pomeriggio inoltrato. Din notò la sua espressione confusa e le diede un colpetto sulla spalla, indicandole la guglia più vicina. Lei assottigliò gli occhi, e finalmente li vide.

Specchi. Giganteschi specchi, perfettamente lucidi, erano appesi in cima alle torri, ricoprendo ogni lato. Erano inclinati verso il sole e ne seguivano l'angolazione, riflettendone i raggi sopra le loro teste in uno schema fitto e complesso, da torre a torre e infine a terra. Ecco come riuscivano a catturare la luce morente, dando l'impressione di un caldo, pieno pomeriggio autunnale. La luce era talmente soffusa e ben rifratta che, se non si alzava lo sguardo verso le costruzioni, si poteva facilmente non notare la fonte d'illuminazione. Non c'era quasi alcuna zona oscura: l'arzigogolato sistema di specchi era orientato in modo tale che i palazzi ed edifici non proiettassero ombre.

"Ingegnoso," si limitò a commentare, con un sottile sorrisetto che tradì quanto quella scoperta l'avesse inspiegabilmente inquietata. "Che fine hanno fatto le nostre pratiche, antiquate lampadine?"

"Fanno quello che possono," rispose ambiguo lui.

Cara si accigliò. Ebbe la netta impressione che la luce artificiale fosse attivamente evitata dai Varchaasi. Quegli specchi sembravano quasi rituali. E questo voleva dire... no, non poteva essere. Giusto? Oppure vivevano davvero nella più completa oscurità, una volta che il sole si tuffava oltre l'orizzonte? Guardò il cielo: si distingueva la sbiadita circonferenza di una luna abbastanza estesa. Quindi, forse, avevano una qualche sorta di luce riflessa che gli psecchi potevano amplificare durante quella notte infinita. Ma comunque... niente elettricità, niente luci nelle case? Come potevano vivere così?

Si ritrasse da quei pensieri: perché le importava, in effetti? Non sarebbero rimasti su quel pianeta per più di un paio di giorni standard, quindi non avrebbero nemmeno avuto modo di vedere la notte vera e propria.

"Sei già stato qui?" chiese a Din, insospettita dalla sua risposta pronta e dai brandelli d'informazioni su Varchas che aveva rivelato finora.

"No. Ma ho sentito le storie," rispose lui, mentre riprendevano ad avviarsi verso le propaggini del centro città.

Lì, la luce era solo un poco meno intensa, col suo proprio set di specchi montati su torri più basse e modeste.

"Evidentemente hai sentito molte più storie di me."

Non poté evitare di suonare risentita. Dopo mesi passati a viaggiare insieme, poteva affermare senza il minimo dubbio che si fidavano l'uno dell'altra. Riguardo alle loro stesse vite e a quella del Bambino, soprattutto, ma anche nelle piccole cose. Piccole cose come dormire profondamente e non armati mentre l'altro era di guardia, o condividere un pasto schiena a schiena senza che Din svanisse di punto in bianco, rintanandosi nella sua cuccetta o nell'abitacolo per mangiare.

Adesso avvertì un muro ergersi tra loro, più robusto dello strato di beskar che schermava il volto del Mandaloriano. Qualunque ricordo suscitasse Varchas in Din, era o troppo doloroso o troppo segreto per essere rivelato – o, semplicemente, non si fidava ancora abbastanza di lei. Fece male, anche se sapeva di non avere alcun diritto nel pretendere così tanto da lui.

Ad ogni modo, Din non colse il suo tono o decise di ignorarlo. Rimase in silenzio e lei non isnistette, anche se percepì un sottile strato di ghiaccio formarsi tra loro.

"Dovremmo andare allo spazioporto," disse lei dopo qualche minuto, quando indugiarono a un crocevia.

Un enorme rampicante ricopriva la facciata di diversi edifici con fiori e foglie purpuree, spandendo un aroma dolciastro e intendo che quasi le diede un conato.

"Ora?"

La replica del compagno le parve distratta, quasi sognante. per un momento, non suonò affatto come Din Djarin.

"Sì, ora. Oppure possiamo passare il resto del "giorno" ad annusare fiori, così mi viene un mal di testa," disse con noncuranza, arricciando il naso con lieve disgusto. Notò come Din inclinò interrogativamente l'elmo da un lato, e aggiunse: "Non senti il profumo?"

Lui fece una pausa, e si udì un lieve clic provenire dal suo casco. "Dank ferrik," imprecò subito dopo, con una nota acuta di sorpresa nella voce mentre inspirava sonoramente. "Ora sì. È..." s'interruppe, cercando la parola giusta; spesso non gli sovvenivano così prontamente.

"Esagerato? Capisco l'amore per i fiori, ma così è un po' troppo."

Din scosse la testa e riattivò il filtro dell'elmo. "Nauseante," completò seccamente, riprendendo a marciare a passo spedito verso quella che doveva essere la direzione dello spazioporto.

Cara, d'un tratto, prese a sperare che la taglia piombasse loro tra le braccia, così da mettere fine a quella follia. Non sopportava di vedere Din così... non riusciva nemmeno a descriverlo con chiarezza. Spaesato – in parte schivo, in parte pungente. Come se qualcosa potesse sbucare fuori da ombre invisibili e azzannarlo. Era così distante dal suo classico atteggiamento pacato e fermo che si sentì a sua volta fuori posto. Esitò, prima di parlare. Poi si risolse a farlo, giurando a se stessa di lasciar cadere la questione se non avesse ottenuto risposta.

"Sei sicuro di non avere ripensamenti riguardo all'incarico?"

Din si paralizzò nei suoi passi.

"Perché?"

"Sembri... distratto," articolò lei, evitando di dire "turbato".

Din si voltò verso di lei, fissandola per lunghi secondi e, per la prima volta da quando lo conosceva, il suo silenzio sembrò fuori luogo e non intenzionale.

"È colpa delle luci," rispose infine, quasi bofonchiando. "Il mio visore fatica a filtrare il riverbero degli specchi. Sta venendo mal di testa anche a me," ammise poi, quasi rendendosene conto sul momento. "Dovremmo muoverci."

Cara si limitò ad annuire, senza insistere. Stava decisamente nascondendo qualcosa, ma ricordò a se stessa la propria promessa: non lo avrebbe pressato ancora, almeno no ndurante il lavoro. Avrebbe avuto tempo per chiedergli i dettagli dopo, al sicuro sulla Crest.

"Giusto. Allo spazioporto, allora."

 



Fecero sosta a un tapcaf nei pressi del piccolo spazioporto commerciale, dove il traffico era limitato ai soli mercantili. Sedettero sul portico esterno, ricoperto d'edera, con una chiara visuale sulle poche piattaforme d'atterraggio e sui magazzini di stoccaggio: l'intera area era nettamente divisa dal resto del centro abitato, anche se si trovava comunque dentro le mura. La distesa di permacrete smorto e grigiastro era un pugno in un occhio, in mezzo ai colori caldi e accoglienti della città, e solo una sparuta linea di aiuole che avevano visto giorni migliori decorava il perimeto esterno, lungo la recinzione metallica che lo delimitava.

Non c'erano navi in vista, se non per un paio di slanciate corvette Varchaasi vicino ai magazzini, probabilmente usate per trasporti planetari. E un piccolo caccia proprio lì accanto: tondeggiante, malmesso, con striature gialle sulla chiglia, esattamente come quello che stavano cercando.

"Pensi che sia quello di Varan Ghunc?" chiese Cara, assaporando il tipico liquore ambrato di Taamash, che le bruciò piacevolmente gola e lingua in un misto di alcol e zenzero.

"Non ci sono molti caccia Huttesi così lontano da Nar Shaddaa," replicò Din, con un braccio puntellato sul tavolo in plastoid mentre controllava probabilmente la nave tramite lo zoom del visore. "Dev'essere il suo."

"Quindi, lavoro concluso. Aspettiamo, lui torna alla sua nave, e noi lo cecchiniamo." Scrollò le spalle, prendendo un gran sorso d'alcol, poi accennò a uno dei tetti più vicini, che si affacciava sullo spazioporto. "È a tiro?"

Din seguì il suo sguardo, ma non sembrò condividere il suo ottimismo.

"Di poco. È a più di un klick. È rischioso."

"Tu non manchi mai il bersaglio."

"Può capitare," ribattè, perentorio. "Anche l'angolazione è pessima. E se lo manco, è andato... o nel caccia e al punto di salto, o nei bassifondi. Li hai visti, vero?"

Cara compresse le labbra in una smorfia, cedendo alle sue ragioni e riconoscendo di non poter prendere il bersaglio alla leggera. I Weequay sapevano rivelarsi spiacevoli, se provocati, e avevano un talento per sparire senza traccia per poi pugnalarti alla schiena al momento più inaspettato. Avevano già abbastanza nemici, per il momento.

"Va bene, cervello di beskar. Che piano proponi?"

"Io dico di rintracciarlo."

Cara picchiettò il fondo del suo bicchiere contro il tavolo, poi annuì.

"Non ho visto molti esterni in giro. Non dovrebbe essere difficile."

"Appunto. In più, ci sono solo un paio di spaziotel in città, e i Varchaasi sono rigidi per quanto riguarda dove debbano andare, mangiare o dormire gli estranei. Per loro, questo è suolo sacro."

"Varan è un contrabbandiere," obiettò Cara.

"Mi sorprendo che esista il contrabbando, qua," replicò lui, scuotendo pensoso il capo, e non cogliendo stranamente ciò che intendeva dire lei.

"La domanda di spezia è alta ovunque. E qui hanno quel miele... doev'esserci per forza un mercato nero, se è così prezioso come dicono."

"Lo è," confermò Din, senza esitazione. "Potrebbe contrabbandare entrambi, ma punto sulla spezia. Almeno, nei mesi notturni: non dovrebbero nemmeno preoccuparsi di schermarla dalla luce."

"Un perfetto pianeta-magazzino," considerò lei, suscitando un cenno d'assenso da parte sua.

"Avrebbe senso. La stagione di stoccaggio dovrebbe essere alle porte, così come i trasporti illeciti. Concentriamoci sul contrabbando di spezia e partiamo da lì."

"Solita procedura," assentì lei. "Ma non pensi che abbia dei contatti, qui? Un qualche rifugio clandestino?" chiese poi, tornando a quel che intendeva dire poco prima.

"Ne dubito. Quando dico che i Varchaasi sono rigidi, dico seriamente," sottolineò poi, inclinando discretamente il capo verso l'altro lato della strada.

Lei colse l'invito e indirizzò un'occhiata casuale in quella direzione. Per poco non si strozzò nel bicchiere: una delle guardie cittadine era piazzata sul marciapiede, sull'attenti, bastone al plasma in mano e occhialoni fissi su di loro. Non cercava nemmeno di nascondersi. Se ne stava semplicemente lì, indolente, spudoratamente in bella vista. Guardandoli a vista.

Si voltò verso Din, turbata.

"Okay, è... inquietante," mormorò, sentendo un'ondata di vergogna per il fatto di non essersi accorta che li stessero osservando. Si sentiva ancora un po' intontita: lo strano contrasto tra il sole pomeridiano e il cielo crepuscolare, unito a quel costante sentore floreale, stava iniziando a inibire i suoi sensi. "Tu l'avevi notato?"

"Non fino ad ora," ammise lui, suonando a sua volta irritato. "Sono innocui, comunque. Almeno, finché non danneggi gli specchi, i fiori, o usi luci artificiali all'interno delle mura."

Lei inarcò le sopracciglia. Ci aveva visto giusto, allora.

"Quindi, se seguiamo le loro strambe regole, ci lasciano fare il nostro lavoro senza immischiarsi?" disse poi, reprimento l'istinto di lanciare sguardi in direzione della guardia.

"Non penso che faranno storie per un trafficante morto. Soprattutto se contrabbanda miele. E siamo con la Gilda, quindi preferiranno evitare contrasti."

"Anche se non siamo ufficialmente qui per conto della Gilda?"

"Non devono saperlo per forza," disse lui, e riconobbe il modo in cui la sua voce s'impennava leggermente quando sorrideva – o tentava di non farlo.

Bene, quello suonava giù più come il suo Din. Ingollò l'ultimo sorso d'alcol e posò il bicchiere sul tavolo, rivolgendo al compagno un sorrisetto scaltro.

"Pronto?"

"Oya!" replicò lui con fermezza, e si alzò in piedi con un unico movimento, imitato da lei.

"La caccia è aperta."



 


 

 
Note:

ad'ika: figlio, bambino in Mando'a
dank farrik: imprecazione utilizzata da Din nella serie
oya: letteralmente "a caccia!" in Mando'a, ma vuol dire anche "urrà", "evviva", "buona fortuna".

NB. I nomi Varchas e Taamas(h) e alcuni concetti descritti nel capitolo sono ripresi e riadattati dal gioco Sunless Sea/Fallen London, che vi invito a sbirciare se volete intraprendere trip mentali divinamente narrati ♥


Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
so che vi aspettavate spiegazioni sulla situazione leggermente drammatica di Din nel primo capitolo, ma... abbiate pazienza, e tutto si spiegherà! Per ora, vi lascio vittime del world-building selvaggio e di molte idee che ho dovuto tagliare dalla mia altra long, Vode An, ma che non volevo scartare del tutto.
Se notate refusi o frasi "strane", battete un colpo: l'originale è comunque in inglese, e mi capita di scrivere fischi per fiaschi quando riadatto in italiano, nonostante sia teoricamente tutta roba mia :'D

Grazie di cuore ad AMYpond88 per aver commentato lo scorso capitolo ,e atutti coloro che hanno letto e/o aggiunto la storia tra le seguite!
Alla prossima,

-Light-






 
   
 
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