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Autore: LawrenceTwosomeTime    22/08/2009    1 recensioni
Un racconto breve, ispirato ad un sogno particolarmente vivido. Onirismo, donzella da salvare, cattivi, riflessioni rifrangenti. Ecco.
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una notte sognai.
Il sogno cominciava con un crepuscolo simile a chiara d'uovo.
Le strade, gli edifici, i bassi porticati, sorgevano in bilico tra classicità ellenistica e una parodia giocattolo di quest'ultima; aleggiava qualcosa di sporco, di patinato, nell'aria che era pure solo sognata.
Come umido miele caldo, le finestre gocciolavano rimanendo immobili; i tombini puzzavano e pulsavano, e – come nella realtà – ogni cosa era vivida esternamente e pericolosa dietro l'angolo.
Mi capitava per caso (perché il caso, o forse il karma, non è replicabile dai sogni; più che altro, si ripropone in forma rimpicciolita all'interno del cervello) di incontrare una ragazza, un'amica d'infanzia al cui volto ritornava ogni tanto la mia mente. E che incontro felice era quello!
Era lei a propormi di mangiare una pastina – che, su questo il mio senso dell'onore era irremovibile, avrei certamente pagato io – dunque mi affaccendavo per trovare un posto adatto.
E così, realizzavo che in quell'universo tutte le pasticcerie erano luoghi pericolosi.
Ripiegavo su un piccolo bar nascosto in un vicolo affogato di azzurro, che serviva indistintamente pizza, bomboloni, ciambelle…un angolo d'inferno, insomma, con cui però non condivideva il clima afoso; all'interno del bar, infatti, spirava una soffice brezza primaverile.
La scelta era davvero ampia e, aggiungerei, a dir poco sospetta, ma io ero come un cavallo con il paraocchi, e mi fiondavo sul dolcetto più uno, banale, sciapo e volgare che la casa avesse da offrire: una specie di frittella depressa.
Volente o nolente, dovevo levare presto il paraocchi, perché due figurette ripugnanti, due ragazzini, non si facevano problemi a spupazzare la mia ragazza come fosse una bambola.
Erano questi creature abnormi, nell'età che più infama il buon nome di Madre Natura (sui 14-15 anni); traboccavano di voglie smodate e sghignazzi crudeli, tanto che il loro volto monocorde e ancora sporco di creta riusciva a malapena ad esternarli.
Mi protendevo a difendere la donzella, e lo scontro si spostava, per ovvie esigenze spaziali e teatrali, all'esterno.
Ed era allora che apprendevo la seconda realtà: in quell'universo, il mio corpo non era fatto per l'azione. Avanzavo con movenze sgraziate e visibilmente scollegate, come se la connessione tra cranio e arti fosse instabile. I ragazzini, forse per un maligno sovvertimento del karma, si rivelavano esperti in dolorosissime leve articolari perpetrate a danno dei miei polpastrelli.
Nonostante la mia paralisi, in qualche modo riuscivo ad aver ragione di loro; il più scorretto dei due faceva in tempo a tirarmi un calcione sui gioielli, stramazzando infine al suolo, ma io non sentivo nulla. Zebedei d'acciaio. O forse, di gomma.
Provavo un sentimento tutto nuovo, come se avessi dipinto un capolavoro servendomi di un ramo bruciato.
Il vero artista, si sa, strappa le linee essenziali anche dalle maglie dello strumento più contorto: perché l'opera giace nascosta nei mezzi, non nel soggetto.
Mi voltavo verso la ragazza, ma quella se n'era andata.
Aveva letteralmente cessato di esistere nel momento esatto in cui il mio cervello si era concentrato sulla disputa, valicando l'interazione sociale.
Avere una mente a senso unico non comporta decisioni facili.
Ecco perché quelli come me decidono in fretta, senza pensare.
  
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