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Autore: moonwhisper    22/08/2009    3 recensioni
Ed io ho pensato che certe volte la vita è proprio ironica,
che forse c’è qualcuno che si diverte a guardarci morire seduti ad un tavolo di plastica,
lo sguardo basso contro le ginocchia e il cuore abbandonato nel piatto,
da mangiare con coltello e forchetta.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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1 – C & L

 

I colori, come cose vive, si mordevano, uno dopo l’altro, nel corridoio stretto e sconosciuto. Ogni dieci passi ti ritrovavi a mettere il piede nel punto sbagliato, per via di dislivelli strani scavati sotto la moquette. Una di quelle sere allucinate ci ho quasi perso una caviglia, su quegli scivoli sbagliati.

Non credo di averti mai visto, prima di quel pomeriggio, o forse sei tu che non hai mai visto me. Del resto, cose del genere è impossibile stabilirle con certezza. Io scottavo di febbre malata e tu uscivi da quella porta trascinandoti dietro odore di fumo e cioccolato e buste di plastica arrotolate intorno ai sensori antincendio. Mi chiedevi la passeggiata delle quattro di mattina, ed assonnata io ti rispondevo che certo, non c’era niente di meglio da fare che parlare e muovere le gambe a perdere. C’era il freddo umido, ma io facevo finta di non avere più un giubbotto, solo per indossare il tuo. Sapevo che tu sapevi, e sapevo che ti andava bene così, che ti piaceva, anche se il vento ti spazzava via la pelle dalle ossa.

Mi raccontavi di Milano, di tua madre, della casa, del tuo cane, che ti dormiva nel letto. Te ne saresti andato, mi hai detto, perché qui non ti è mai piaciuto il sapore della gente. E mi spiegavi la tua vita, così diversa dalla mia, come fossimo nati in due cazzo di pianeti differenti, che a pensarci bene è l’unico motivo per il quale io e te potremmo non esserci mai visti. Non credo fossero bugie. Io ti parlavo di niente e tutto e mi stringevo addosso il tuo giubbino blu, morbido dentro, idrorepellente fuori. E discutevamo di punti interrogativi, che me li figuro ancora grandi e rosa e lampeggianti. Avevi gli occhi forse verdi o forse no, un po’ rossi ai bordi. Ripetevi che se avevo così freddo mi potevi anche abbracciare. Mi potevi anche abbracciare…

Una notte che non saprei spiegare. C’era il gelo, ma per davvero. Ed eravamo noi due soli, sopra il ponte. Non potevamo guardare quello che veniva, accogliere orizzonti nuovi, ma solo annegarci gli occhi di quello che era passato, di quello che il mare si portava via senza misericordia. Contro il nero, era tutto cielo sconfinato. Mi sono nascosta dentro di te, ti ho attaccato addosso quei miei respiri asmatici, incerti, e tu mi hai accolta come fossi sempre stato li, ad aspettarmi, con le braccia strette attorno al nulla. Avevo paura, di quella paura scivolosa. Mi hai sfiorato le labbra. Come per dire che non c’era niente di meglio da fare che baciarsi e fare l’amore a perdere.

Poi, parlando con qualcuno, non ricordo chi, mi sono ritrovata ad ascoltare storie di una fidanzata storica che ti aspettava, ed io la immaginavo dritta come un fuso sulla riva, pronta ad ingoiare amare bugie pur di riaverti. Una di quelle sceneggiature classiche, di cui io non sono mai riuscita a seguire il filo. E allora mi sono chiesta se alla fine eri anche tu come me, morbido, caldo dentro, idrorepellente fuori.

Sono trascorsi i mesi. Due giorni fa, o forse tre, non ha importanza, c’eri anche tu, in mezzo a quel frastuono morto di voci e fiamme di candela. Sei arrivato con il dolce, ed io ho pensato che certe volte la vita è proprio ironica, che forse c’è qualcuno che si diverte a guardarci morire seduti ad un tavolo di plastica, lo sguardo basso contro le ginocchia e il cuore abbandonato nel piatto, da mangiare con coltello e forchetta. Mi hai dato del Lei, con quella voce educata e asettica, che non so per quale assurdo motivo mi ha ustionato la gola di lacrime stupide.

E mi davi le spalle, mentre me ne andavo, quindi, ecco, ora mi è impossibile spiegare che colore ti brilla in mezzo al viso. Ti sono passata accanto arrancando sotto il peso di un vuoto inutile, pensando che in quel momento il freddo non stava fuori, ma dentro, e che per sensazioni così nessuno ha mai inventato gli indumenti giusti. E mi ripetevo che se avevo così freddo, mi potevi anche abbracciare. Mi potevi anche abbracciare…

 

*

 

Vita Rubina è una raccolta di visioni alterate. Funzionano come piccoli quadri incorniciati e appesi male alla parete, uno accanto all’altro. Alcune sono ricordi vividi, altre frammenti artificiali, danneggiati, storti. Odori e pelle insieme.

Vita Rubina è anche il titolo di una canzone di Moltheni, citata nell’introduzione. Potete leggere il testo qui, ed ascoltarla qui.

Adieu.

  
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