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Autore: Yumi_san    26/11/2020    2 recensioni
Gild Tesoro aveva un anello d’oro massiccio ad ogni dito di entrambe le mani perché, si sa, lui amava le cose belle. Solo l’anulare della mano sinistra era libero da ogni gioiello, da ogni segno di ricchezza o incontrovertibile emblema di potere.
Quel dito era glabro e spoglio agli occhi del mondo, ma per lui sarebbe sempre stato il simbolo della ricchezza più grande che fosse mai riuscito a guadagnare nel corso di una fasulla vita da barzelletta.
Più importante dello One Piece, più grande di tutto l’oro che rivestiva la sua nazione e più prezioso del Goru Goru no Mi.
[Gild Tesoro x Stella] __ Tratto dal film "One Piece Gold".
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Gild Tesoro
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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"Quale speranza? Quale disperazione?"

 

L'oro è servo oppure padrone.
Omero
 
 
Gild Tesoro afferrò il sigaro tra due dita e lo allontanò dalle labbra dopo aver aspirato una generosa boccata di fumo.
 
Niente sipari, quella sera. Niente spettacoli, niente maschere messe su per intrattenere un pubblico che urlava il suo nome.
Non c’era l’animale da palcoscenico, che vendeva oppressione spacciandola per intrattenimento.
Non c’era il mostro senz’anima, come era stato tante volte chiamato.
C’era solo l’uomo, dal corpo nudo avvolto unicamente da una onnipresente e familiare coperta di pena e supplizio.
 
Poggiato con gli avambracci alla fredda ringhiera, rimirò le luci stroboscopiche sottostanti dalla sua camera da letto, dall’alto della fortezza d’oro massiccio dalla quale era solito guardare il mondo con gli occhi, l’ego e il potere di un Dio.
La brezza serale che soffiava su Gran Tesoro gli accarezzò la pelle imperlata di sudore e gli mandò una scarica di brividi lungo la spina dorsale.
Si prese il suo tempo per degustare il sapore appena agrodolce di quel costosissimo tabacco, arrivato dall’altra parte del mondo esclusivamente per soddisfare il suo palato esigente in momenti come quello.
 
Gli erano sempre piaciute le cose belle. Le cose costose, lo sfarzo.
Però la vita gli aveva sempre tirato qualche scherzo, era successo un po' come se lo avesse sempre preso in giro. C’erano volte in cui la sua vita gli somigliava ad una barzelletta.
 
“Chissà cosa mi diresti tu, se potessi vedermi adesso…”
 
A Gild Tesoro piacevano le cose belle, e poteva certamente vantarsi del fatto di essersene circondato. Aveva tutto ciò che si potesse desiderare, tutto ciò che si potesse comprare e tutto quello per cui chiunque avrebbe ucciso o venduto l’anima al diavolo.
O, per l’appunto, ad un Dio.
 
“Un giorno, qualcuno potrà comprarmi. Ma il mio cuore… quello non si potrà mai comprare.”
 
Aveva tutto, già. O meglio, lo aveva avuto.
Molti, molti anni prima.
 
Dischiuse le labbra per liberare uno sbuffo di fumo che si disperse in minuscole particelle di vapore acqueo, udendo così nitidamente quella candida voce accanto a sé da essere costretto a voltarsi per accertarsi che non vi fosse nessuno.
 
Sorrise amaramente. La sentiva, la sentiva ogni giorno e in ogni momento, ma lei non c’era mai. Come avrebbe potuto…
 
Il caleidoscopio delle luci scintillanti di Gran Tesoro si rifletté nei suoi occhi, la musica riempiva l’aria e le sue orecchie insieme alle risate dei suoi ospiti che, ignari, siglavano la loro condanna all’eterna schiavitù semplicemente abbassando la leva di una slot machine.
 
Sì, Gild Tesoro aveva tutto al pari di un Dio. Eppure…
 
La mano che stringeva il sigaro corse in automatico ad accarezzare la sinistra, percorse la base di ogni dito fino a soffermarsi su di uno in particolare e, ancora, quella voce ritornò nelle sue orecchie.
Nitida e chiara come se vivesse all’interno del suo cervello.
 
Gild Tesoro aveva un anello d’oro massiccio ad ogni dito di entrambe le mani perché, si sa, lui amava le cose belle. Solo l’anulare della mano sinistra era libero da ogni gioiello, da ogni segno di ricchezza o incontrovertibile emblema di potere.
Quel dito era glabro e spoglio agli occhi del mondo, ma per lui sarebbe sempre stato il simbolo della ricchezza più grande che fosse mai riuscito a guadagnare nel corso di una fasulla vita da barzelletta. Più importante dello One Piece, più grande di tutto l’oro che rivestiva la sua nazione e più prezioso del Goru Goru no Mi.
 
“Ti avrei chiesto di sposarmi quel giorno, Stella”
 
Aveva sentito dire che nell’anulare della mano sinistra scorresse una vena che porta direttamente al cuore. “Vena amoris”, la chiamavano.
Se c’era davvero qualcosa del genere, decise, allora avrebbe pulsato solo per lei.
Quel giorno aveva indossato la sua camicia migliore e la sua giacca migliore. C’era una toppa sotto al braccio, ma poco importava. A lei non importavano certe piccolezze.
Si sarebbe presentato da lei con un filo di ferro intrecciato che aveva comprato dal fabbro con i soldi che aveva guadagnato.
L’avrebbe rubato, un tempo, ma lei odiava le condotte criminose. 
Si sarebbe presentato davanti alla sua gabbia e le avrebbe chiesto di sposarlo.
 
“Ti prometto che un giorno diventerà un vero anello, con un diamante così grande che avrai sempre voglia di tenermi  per mano per aiutarti a sorreggerlo!”
 

E aveva giurato a se stesso che ci sarebbe stato quell’anello, un giorno.
Ma non voleva certo sprecare così i soldi guadagnati con tanto sudore e tanto sangue, non subito almeno. Quei soldi sarebbero dovuti servire a comprare la libertà della sua amata, perché il suo cuore, invece, lui l’aveva già conquistato.
L’avrebbe sposata e portata via con sé perchè nel momento in cui lei gli aveva detto per la prima volta di amarlo, dopo uno dei suoi inconcludenti spettacoli di strada davanti alla sua cella, Tesoro si era sentito l’uomo più ricco ed importante del mondo anche con solo trentaquattro berry nelle tasche e un pugno di sogni nel cassetto.
E in ciascuno di questi sogni la protagonista era lei.
La sua Stella, il suo più grande tesoro.
 
“Che bella quella canzone…”
 
A lei piacevano le sue canzoni, lei amava la sua voce.
 
“Un giorno diventerò una star!”
 
“Smettila con quella stupida fissazione! Basta! Zitto Tesoro!!! Se solo avessimo dei soldi!!!”

 
Al contrario degli altri, al contrario di sua madre, lei non aspettava che quel momento della giornata, in cui lui stendeva il cappello accanto all’insegna luminosa dell’ “Human Shop” e cantava per lei.
E Stella, ad occhi chiusi, lasciava che la sua voce lenisse tutte le sue ferite.
 
“Stella, abbi pazienza, ti comprerò io! Te lo prometto, Stella!”
 
Non avrebbe mai più permesso che venisse portata via la mattina e riportata la sera in quella cella, come se fosse stata un giocattolo.
Non sarebbe mai più stata umiliata da gente senz’anima.
Non avrebbe mai più avuto lividi a rovinarle quella bella pelle chiara.
Non avrebbe mai più dovuto fingere un sorriso per il timore di percosse o digiuni.
Insieme, sarebbero stati liberi e avrebbero girato il mondo, lui cantando e lei ballando, portando gioia in un mondo che conosceva così tanto dolore.
Perché se eri tanto fortunato da possedere un dono, pensava Tesoro, era un dovere morale condividerlo col mondo per renderlo un posto migliore.
 
“Ti avrei chiesto di sposarmi, quel giorno. Però lui è arrivato prima di me…”
 
“Quando uno ha i soldi può comprare qualsiasi cosa.”
 
“Dio, se solo allora fossi stato più forte…”
 
“Stella!!! Stella!!!”

 
Dolore. L’asfalto sotto i denti aveva fatto male.
Il ginocchio del galoppino del Drago Celeste sulle vertebre fece male.
Le spalle slogate nel tentativo di liberarsi fecero male.
Le lacrime che scavavano nel suo viso come acido e il suo cuore spezzato facevano male.
 
“ … Se solo fossi stato in grado di proteggerti…”
 
Sicuramente, il collare di metallo attorno al suo esile collo, attaccato ad una catena tra le luride mani di quella carogna, le aveva fatto male.
Il modo in cui era stata trascinata via dal suo amore, che solo allora Tesoro capì non essere poi lo scudo da ogni sofferenza, doveva averle fatto ancora più male.
Doveva star soffrendo terribilmente, la sua Stella, pur sorridendogli per alleviare almeno un goccia di quell’oceano di terrificante dolore.
E lui aveva urlato.
Aveva gridato il suo nome così forte che persino il Diavolo doveva averlo sentito. Aveva urlato, pianto, morso e graffiato perché doveva riprendersela. Doveva riprendersi l’unica cosa preziosa nella sua vita, perché senza non avrebbe saputo che senso dare a tutto il resto.
 
“Grazie, mio Tesoro. Il tuo amore mi ha resa davvero felice. Sono stata felice dal profondo del mio cuore, non lo scorderò mai. Grazie.”
 
“ Se solo fossi stato più ricco…sarei ancora in grado di poter vedere il tuo sorriso.”
 

La vita di Gild Tesoro era una barzelletta.
Ed era così buffo il fatto che gli unici momenti in cui fosse stato davvero felice nella sua vita fossero quelli passati con lei. Squattrinato, senza nulla di meglio da poterle offrire che non una canzone d’amore, o un fiore, una carezza o un bacio.
Lei glielo aveva detto, un giorno: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori [1].
E loro due, boccioli nati da un vaso di sterco e vomitati prematuramente dal mondo senza essere nemmeno stati digeriti, non avevano avuto nemmeno il tempo di poter sbocciare.
 
“Mio Tesoro.”
 
Era nato povero, ma dotato di una voce in grado di incantare gli angeli del paradiso, così come aveva rapito il cuore di uno di loro.
Disprezzava i nobili, ma era finito a guardare la povertà dall’alto di un palazzo d’oro.
Aveva ucciso per quel che avevano fatto all’unica persona che avesse mai amato davvero, ma perpetuava quell’odio ogni giorno attirandolo verso se stesso.
 
“Ma cosa stai facendo? Qualcuno ti ha dato il permesso di ridere? Ahahah!”
 

E lui aveva riso dopo ogni frustata. Piangendo, ma aveva riso.
Aveva urlato e riso anche quando il fuoco aveva marchiato la sua spalla.
Ma aveva anche giurato che sarebbe stato lui, un giorno, colui a cui gli altri avrebbero chiesto il permesso prima di ridere.
Lo aveva giurato il giorno in cui Fisher Tiger aveva liberato Marijoa. Lo aveva giurato con le mani e il viso sporchi del sangue dell’uomo che aveva lasciato morire la sua Stella. Aveva rigirato un coltello nella sua gola due, quattro, venti volte, appagandosi almeno del suo sguardo di terrore, che comunque ben poco servì a far sparire il suo dolore.
Aveva sentito qualcuno, attorno a lui, parlare di dolore. Di disperazione. Di speranza.
 
“Quale speranza? Quale disperazione?”
 
Si era sfamato di quella paura e aveva placato la sua sete di sangue nella speranza che potesse essere la medicina per quel profondo dolore. Aveva pregato che ogni coltellata annullasse tutti gli abusi che lei aveva subito; aveva pregato che ogni goccia di quel sangue nobile versato l’avrebbe riportata indietro da lui, lui che non aveva potuto nemmeno tenerle le mano o cantarle una canzone mentre stava morendo a causa di tutti i soprusi subiti. 
E quella notte, ricoperto di sangue non suo dalla testa ai piedi, aveva inciso una stella nella propria carne con un coltello affilato, proprio sull’odioso marchio infame che figurava sulla sua scapola destra.
Perché lui non era di proprietà di nessuno, se non di una persona sola.
E strappata da lui per sempre, sarebbe stato l’unico padrone di se stesso. Avrebbe assoggettato il mondo al potere del Dio denaro.
Un Dio che era diventato lui stesso solo pochi anni dopo, grazie al potere di un frutto del diavolo che aveva trasformato il suo corpo e qualsiasi cosa toccasse in oro.
 
“Credi che sia un ipocrita, Stella?”
 

Se lui era destinato a soffrire, allora che tutto andasse all’Inferno.
Se provava così tanto dolore, cos’avevano gli altri che lui non meritava?
 
“Che il mondo conosca il nostro dolore. Che conosca la disperazione. Che capisca che la speranza non è niente in confronto al vero potere.”
 

Gild Tesoro aveva guadagnato, un tempo, l’unica cosa di valore che non avrebbe mai potuto comprare. E tutto ciò che aveva fatto da quel momento in poi era stato in nome dell’amore che il suo cuore era stato in grado di provare.
Un cuore che la vita aveva distorto, ferito e fatto ammalare.
Un cuore che faceva così tanto male da fargli preferire il freddo e duro abbraccio dell’oro.
Perché, almeno, l’oro non muore mai. L’oro non soffre. L’oro non versa lacrime.
L’oro non ama.
E anche l’ultima, flebile e dolce speranza che un cuore fatto di quel metallo tanto nobile potesse finalmente cancellare la sua afflizione svanì da lì a poco, restituendogli in cambio nient’altro che l’illusione di poter colmare quel vuoto scavato nel petto modellandovi dentro una colata di prezioso oro fuso.
 
 
Il sigaro tra le due dita si era consumato prima ancora di riuscire a tirare qualche altra boccata, e un’imprecazione sfuggì tra i suoi denti stretti per quanto si fosse fatto trascinare dai propri tormenti.
Un fruscio alle sue spalle catturò la sua attenzione, ma non ci diede molto peso.
 
“Che diavolo ci fa ancora qui.”
 

 -  Ehi, - mormorò qualcuno con voce sensuale, e si sentì avvolgere il busto muscoloso da due esili braccia -  torna a letto, ho qualcosa che forse potrebbe aiutarti a dormire…
Tesoro gettò il mozzicone esausto di sotto e si voltò lentamente, afferrando i polsi che lo stavano accarezzando e liberandosi dalla loro stretta.
 -  Cosa stai facendo, Baccarat? -  chiese inflessibile alla sua concierge senza che nemmeno una minima emozione gli increspasse il viso, solcato da qualche piccola ruga ai lati degli occhi dovuta all’età. La vide incrociare le braccia al petto per mettere in risalto ancor più il suo seno prosperoso, ondeggiando i fianchi con finta nonchalance in un invito più che palese.
L’uomo sbuffò, con un fare che ferì profondamente la giovane donna senza che lei lo desse a vedere.
 -  Vattene, Baccarat.
Lei abbassò le spalle, rimanendo ferma dov’era senza la minima intenzione di vacillare. La stava cacciando, ancora una volta.
E, d'altronde, non aveva poi tutti i torti.
 
I patti tra loro erano chiari, lo erano stati dalla prima volta che lui l’aveva chiamata chiedendole di andare nella sua stanza nel cuore della notte.
Non si era mai permesso di toccarla con un dito prima di allora, non voleva rovinare quel profondo rapporto di fiducia che esisteva tra di loro.
Ma c’era stata una notte in cui i suoi fantasmi erano diventati così opprimenti da averlo costretto a cercare rifugio in qualcosa di diverso, qualcosa che nessuna sconosciuta sarebbe mai stata capace di offrirgli.
Perché, nonostante fosse un figlio di puttana, Baccarat c’era sempre stata. A Baccarat bastava uno sguardo per capire, non faceva domande, non esigeva nulla di più.
L’aveva baciata, senza dire una parola.
L’aveva stretta forte e con urgenza, affamato di qualsiasi forma di contatto fisico ed emotivo, di affetto e di conforto come non credeva sarebbe mai potuto essere. Disperato al punto da tremare come una foglia.
E il resto era venuto da solo.
Lei lo aveva guardato negli occhi e aveva compreso. Lo aveva desiderato e amato con tutta la passione di cui era stata capace, ed era stato allora che anche lui si era reso conto di quanto avesse potuto essere cieco.
Lui, egoisticamente e ipocritamente, aveva ceduto e deciso di rifugiarsi nell’amore e nelle illusioni di qualcun altro.
Perchè lui sapeva, oh, eccome se sapeva quanto Baccarat lo amasse. E le voleva bene così tanto da aver deciso che quella sarebbe stata la prima e ultima volta, che era tutto un errore e che non avrebbe mai dovuto ripetersi.
 
Però, la DenDen Mushi della donna era squillata ancora nel cuore della notte. Una volta, due volte, dieci… Per anni.
E ogni volta, la prassi era sempre la stessa.
Qualche bacio rude, via i vestiti, qualche preliminare, dentro, fuori e poi ciascuno per la propria strada. Non esistevano carezze o baci una volta finito, non esistevano parole o sguardi complici.
Tesoro non la guardava mai negli occhi durante l’amplesso.
Si mostrava vulnerabile, ma non le mostrava mai le sue debolezze.
Ma Baccarat era sicura che ci fossero, era così evidente. E avrebbe fatto qualsiasi cosa per togliergli di dosso tutta la sua sofferenza, se solo lui glielo avesse permesso.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa, se solo lui glielo avesse chiesto, proprio come faceva ogni volta che le chiedeva con lo sguardo di alleggerire il peso del suo dolore.
Lo faceva perché lo amava, anche se questo scavava sempre più nella sua di sofferenza, sempre più a fondo.
Perché non era il suo il nome che lui pronunciava, non erano i suoi occhi che cercava toccando l’apice del piacere, non erano sue le mani che desiderava lo accarezzassero, ma a lei andava bene così.
Era così disperata, così affamata del suo amore da essere disposta ad autoflagellarsi solo per sentirsi sua almeno per un momento, effimero e finto. L’illusione che, almeno in quel momento, lui l’amasse era troppo dolce per non naufragarvi.
Lo amava, e andava bene così.
Ma in quel momento, per la prima volta, Baccarat aveva deciso di non lasciare il suo letto una volta finito tutto:  -   Ti sentiresti meglio se solo mi lasciassi dormire con te. Non è questo che cerchi, Tesoro? Io lo so, lo capisco benissimo cosa significhi sentirsi soli.
L’uomo sogghignò aspramente, indurendo lo sguardo e avvicinandosi a lei, sovrastandola con la sua imponente mole: -   Cosa sai, Baccarat? Cosa credi di sapere tu, di me?
La rossa indietreggiò, intimorita da quello sguardo che non gli aveva mai visto.
Sapeva quanto soffrisse, lo conosceva meglio di quanto pensasse. Non conosceva con esattezza quali fossero i demoni a perseguitarlo, ma aveva imparato a conviverci anche lei.
 
“Stupida. Stupida, Baccarat. Tu non hai capito un bel niente.”
 

 -  Che ne sai tu di cosa cerco? Con che diritto sei ancora qui? Credi che io abbia bisogno così tanto di te?
 
“Vattene, finché puoi. Vattene, Baccarat, perché non voglio che tu soffra. Ci ho provato ad amarti, ma non ce la faccio. Nessuna delle donne che abbia provato ad amare e che abbia invitato in questa stanza potranno mai essere lei, la mia Stella. Ho fatto soffrire così tanta gente, ma non voglio far soffrire anche te, Baccarat.”
 

 -  Io non ho bisogno di te. Non ho bisogno di nessuno. -  sibilò abbassando il viso all’altezza degli occhi verdi della donna -  Non crederti così importante per me solo per qualche scopata. Non significa nulla per me. Non sei nulla di più, per me.
 
Non potrei mai amarti come meriti. Vattene. Io sono veleno e tu sei una delle poche persone che non mi ritengono un mostro. Trova qualcuno più meritevole a cui donare tutto questo.”
 
Gild Tesoro percepì chiaramente il labbro inferiore della donna tremare.
L’aveva ferita. Profondamente, dritto al cuore.
Ma era un sacrificio che era disposto a sopportare. Lei avrebbe sofferto molto di meno così, pensò. Magari, così avrebbe smesso di provare quel sentimento per lui, che lui non avrebbe mai potuto ricambiare.
La rossa rimase in religioso silenzio, a spalle basse. Si voltò dopo pochi secondi e si diresse verso il letto per recuperare i propri vestiti.
Tesoro la osservò per tutto il tempo, seguendo con attenzione ogni suo movimento mentre si rivestiva.
Forse aveva funzionato, pensava lui.
Forse era riuscito a salvare almeno lei dal baratro di disperazione di cui si era circondato, dal fossato profondo che aveva scavato attorno a sé e che inghiottiva senza pietà chiunque provasse ad avvicinarsi.
 
 -  I morti non possono darti la felicità, Tesoro -  disse Baccarat con voce tremolante, con una mano sulla maniglia della porta socchiusa -  Solo i vivi possono.
Con queste ultime parole la donna si richiuse la porta alle spalle e si poggiò di schiena contro di essa, chiudendo gli occhi.
 
“Chiamerà ancora. Ha bisogno di questo almeno quanto ne abbia io.”
 

E lei, stupida, sarebbe tornata da lui ogni volta.
Nonostante fosse sempre per lui la seconda scelta, si accontentava di essere tale.
Nonostante il suo potere di governare la sorte e la fortuna, la dea bendata le aveva voltato le spalle, marchiandola con la maledizione di amare un uomo dal cuore infestato dal fantasma di un amore passato ma mai estinto.
Come ogni singola volta, Baccarat riaprì gli occhi e cancellò dalla testa la notte appena trascorsa. Si sarebbe strofinata la pelle sotto la doccia per levarsi il suo odore di dosso, avrebbe messo su la sua maschera migliore per far finta che nulla fosse mai successo.
Avrebbe curato il proprio cuore spezzato fino alla prossima notte in cui lui l’avesse lacerato di nuovo con la flebile illusione che, un giorno, l’avrebbe chiamata sua.
Così, in un circolo senza fine.
Perché lei lo amava, ma andava bene così.
 
Nella sua camera, Gild Tesoro si distese sotto le sue coperte di seta e si voltò di lato.
Sorrise quando la vide.
La vedeva sempre accanto a lui, ogni notte, prima di addormentarsi.
Lei era lì per lui, evanescente ed eterea come un ricordo lontano, bella come un angelo e dolce come una carezza.
Allungò una mano per accarezzarle la guancia. Poco importò che le sue dita le attraversassero il viso. Quell’illusione era la sola cosa che gli permettesse di dormire la notte, il solo motore che ancora alimentasse le sue giornate e non gli facesse desiderare altro che coricarsi alla sera.
Eppure, il calore che provò quando lei gli avvolse il capo nel suo abbraccio e lo strinse al petto era così reale da chiedersi perché mai scomparisse ogni mattina, con le prime luci dell’alba, portando con sé tutto quello che di buono gli era rimasto.
Tutto era un'illusione. Tutta la sua vita e la sua ricchezza erano illusioni.
I suoi soldi non l’avrebbero seguito nella tomba; il suo oro sarebbe svanito con lui.
Ma il suo amore no, invece.
Quello era autentico, svincolato da ogni convinzione e dalla materialità, dal tempo, dalla distanza e dalla morte. Lo sarebbe stato fino a quando non avesse smesso per sempre di respirare, fino a che il suo cuore non avesse pompato per l’ultima volta, la sua mente smesso di pensare, le stelle smesso di brillare nel cielo e la Terra di girare.
E solo allora, forse, avrebbe potuto smettere di amarla.
 
“Mi dispiace, Stella. Mi dispiace di non essere stato abbastanza.”
 
“Lo sei stato, Tesoro. Lo sei stato per me. Il tuo amore è stato la cosa più preziosa che mi abbiano mai donato. E credimi, è stato abbastanza.”
 
“Forse hai ragione, Baccarat. I morti non possono portare la vera felicità, ma è esattamente questa illusione ciò di cui ho bisogno.”


 
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_____________________
 
Note d’autrice:
 
 
[1]: frase presa in prestito dal sommo Fabrizio De André.
 
Buonasera a tutti!
Ho preso una pausa dalla mia long per scrivere questa one-shot a cui mi sono particolarmente affezionata da un po'. 
Io adoro i personaggi complicati, e non si può certo non dire che Tesoro non sia uno di questi.
Solitamente, al contrario di altri manga, One Piece non è famoso per i suoi approfondimenti sulla psicologia e la backstory dei “cattivi” (basti pensare a Naruto, per esempio, in cui ogni personaggio rappresenta un oceano di sfumature tra il bianco e il nero). Tuttavia, quando lo fa, chapeau a Eichiro Oda (Doflamingo, Señor Pink, Big Mom e figli ne sono esempi lampanti)!
Non ho saputo davvero trattenermi dallo scrivere su questo personaggio tanto singolare che, francamente, mi ha colpita al cuore, per quanti difetti possa avere.
Mi auguro che anche voi l’abbiate trovata cosa gradita <3
Vi invito a lasciare un commento se la storia vi è piaciuta, così come se pensiate ci sia qualcosa di poco chiaro o da migliorare! Ritengo che non vi sia mai nulla che non possa essere perfezionato.
Grazie di cuore per essere arrivati fin qui <3
Con affetto,
Yumi


 
   
 
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