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Autore: Enchalott    30/11/2020    4 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il principe degli Anskelisia
 
Nella mischia seguita all’impatto della cavalleria elestoryana sui reietti, Anshar aveva perso di vista Neyosh
Gli Anskelisia avevano mostrato un fugace attimo di disorientamento. Si erano ripresi, seguendo le indicazioni dei sulluhat, che se ne stavano in disparte, indifferenti alla luce del sole. Le anime vendute alla tenebra godevano del massacro, osservando con identica apatia il sangue versato dai loro fratelli e dai loro avversari. I daimar, occultati tra le ombre, sussurravano alle loro menti perverse e tenevano sotto controllo la situazione attraverso gli sguardi cinerini dei loro adepti. Oppure, come il potente Rona, si incarnavano in un essere umano di degna malvagità. Non c’era che l’imbarazzo della scelta.
Il combattimento si era espanso, dilagando a macchia d’olio, frammentandosi in scontri plurimi: le collinette sabbiose modulate dal vento rendevano impossibile distinguere cosa stesse avvenendo nei pressi e l’aria, che odorava di morte, non faceva che incrementare il clamore e la confusione generale.
Il sibilo inconfondibile di una sferza fece voltare Anshar, che stringeva la spada macchiata e cercava di focalizzarsi su una delle mosse che gli era stata mostrata. Si fece animo, pensando che i nemici erano esseri umani come lui: più forti, più esperti, instancabili ma pur mortali. Il pensiero doloroso di Daara, che aveva abbandonato il mondo tra atroci sofferenze, gli infuse il vigore necessario. Rafforzò la presa sull’elsa non familiare e sollevò la lama, preparandosi al nuovo duello.
Il ripudiato si fece avanti senza timore, brandendo la sciabola nella sinistra e la frusta nella destra. Sogghignò nello scorgere il giovane contendente.
«Ma guarda… se gli elestoryani ci mandano un moccioso che puzza di latte, devono essere disperati! Ce ne sono altri della tua risma, bamboccio?»
«Sei elestoryano anche tu!» ribatté Anshar senza abbassare la guardia.
«No, a ben vedere. Sono stato disconosciuto dalla mia gente, pertanto…» alzò le spalle con disprezzo «Dovresti sapere come va, indossi una fascia di capotribù. O l’hai rubata a qualcuno?»
Anshar non cedette alla provocazione.
«Sei un Rhevia, vero?» proseguì l’Anskelisia, squadrandolo «Non credevo ne fossero rimasti dopo il gioioso festino di qualche mese fa.»
Il ragazzo accusò il colpo all’udire la definizione irrisoria con cui il brigante aveva sintetizzato il massacro dei suoi cari. Smise di indietreggiare.
«Non dirmi che ti sei offeso? O che pensi di potermi abbattere! Hai allevato capre fino a ieri e adesso ti senti un guerriero. Saresti un vero spasso, se non apparissi tanto ridicolo!»
Lo scudiscio saettò in avanti, ma Anshar lo evitò e calò la spada. L’Anskelisia richiamò veloce la propria arma infida e nessuno riuscì a prevalere.
«Ah, fai sul serio! Se è così, provvedo subito a spedirti alla riunione di famiglia! Non sia mai che si sentano soli senza di te!»
Fece scattare l’avambraccio e liberò di nuovo la frusta, sfiorando il ragazzo, che si difese spostandosi con mirabile destrezza. L’uomo imprecò, seccato per aver fallito il secondo colpo e gli si gettò contro con foga, affondando la lama ricurva.
«Mi correggo! Da come saltelli, più che un pecoraio mi sembri una danzatrice tyala! Siamo sicuri che tu sia un maschio?»
Il giovane Rhevia non replicò: gli tenne testa, sebbene l’inesperienza non giocasse a suo vantaggio e il ricordo delle sorelle, stanato da quell’animale, gli bruciasse nelle vene come lava. Cercò di non lasciarsi distrarre dalla collera. Forse il suo stile imperfetto, perciò imprevedibile, spiazzò l’avversario oppure lo precipitò in un eccesso di baldanza. Riuscì a sottrargli la frusta acchiappandola al volo e la gettò fuori portata, provocando la sua reazione rabbiosa: il reietto riprese a tempestarlo di colpi alla rinfusa, dimostrando che, a qualunque tribù appartenesse prima, nemmeno lui era nato guerriero. Approfittando del suo disappunto, traducentesi in movimenti imprecisi, il bailye lo disarmò e lo ferì a una gamba. L’Angelo rovinò a terra: strisciò carponi nella sabbia per sfuggire al fendente che lo avrebbe ucciso.
Il ragazzo si apprestò ad assestargli il colpo di grazia, ma all’improvviso fu scagliato  all’indietro: avvertì un dolore acuto e perse la presa sulla spada. Si ritrovò schienato al suolo, con la vista annebbiata da puntini bianchi vorticanti e un senso di bruciore insopportabile alla gola. Portò le mani al collo, rivoltandosi nella polvere, ansimando a caccia d’ossigeno e percependo con le dita il triplice giro di un’altra frusta.
«Hai finito di giocare, Navar?» ironizzò il nuovo arrivato «Ti sei fatto beffare da un infante, non ti vergogni?»
La voce giunse ovattata alle orecchie di Anshar, che lottò per non perdere i sensi. Gemette di dolore quando il nemico richiamò il lungo cordone di cuoio intrecciato, trascinandolo senza misericordia nella sabbia.
«Vuoi che te lo ammazzi io?» proseguì sghignazzando il secondo predone «Guarda che poi mi dovrai un favore!»
«Non provare a togliermi il piacere, Erat! Gli darò la lezione che merita, prima di spedirlo alla dimora di Reshkigal!»
Forte dell’intervento del compagno, il ripudiato di nome Navar zoppicò fino al punto in cui il bailye stava cercando di liberarsi e gli assestò una violenta pedata nelle costole, privandolo del fiato residuo.
«Mi hai quasi raggirato, eh, piccolo bastardo! Avresti dovuto lasciarti infilzare senza fare l’eroe! Ora assaggerai cosa significa andarsene un pezzo alla volta!»
Riprese a tormentarlo con un’aggressiva sequenza di calci e poi sfoderò il coltello, inginocchiandosi su di lui, intenzionato a infliggergli più dolore possibile.
Anshar tentò di difendersi, ma ogni volta che provava a proteggersi dalla furia di un nemico, l’altro strattonava lo scudiscio riportandolo all’impotenza. La sua vista si offuscò: arduo comprendere quale parte del corpo non gli inviasse fitte spasmodiche al cervello. Quando intravide la lama falcata dell’avversario balenare al sole, si preparò a morire: sapeva che non sarebbe stato istantaneo e invocò la compassione degli dei, affinché il suo cuore cedesse rapidamente, risparmiandogli l’annunciata serie di torture. Il coltello gli incise il petto. Si sforzò di non gridare. I suoi pensieri tumultuosi si raccolsero sui suoi genitori, su Lilah e Ishat, su Daara. Presto li avrebbe raggiunti e avrebbe potuto riposare tra le loro braccia amorevoli.
Ma la mente volò altrove, come se non desiderasse essere indirizzata in quel luogo di pace. Pensò a Phylana e a Neyosh: qualcosa nel suo inconscio si ribellò. Con le dita intorpidite cercò il pugnale che nascondeva dietro la schiena e lo affondò alla cieca nell’avversario.
Questi imprecò e balzò all’indietro, esaminando con incredulità il braccio offeso. La risata sguaiata del collega istigò la sua rabbia. Afferrò Anshar per i capelli e lo colpì al volto con un pesante manrovescio.
«Salutami quella sgualdrina di tua madre!» sibilò iroso, appoggiandogli la lama sulla carotide con l’intenzione di sgozzarlo.
Il ragazzo chiuse gli occhi, irrigidendosi.
«Fermi, idioti!»
Una voce imperiosa impietrì il reietto, impedendogli di portare a termine l’atto omicida. Anche Erat cessò di dare eco alla propria inopportuna ilarità e si voltò inquieto.
Un uomo, avviluppato in un prezioso mantello bruno che gli celava i tratti, discese la duna in sella a un maestoso cavallo brinato, approssimandosi ai due Angeli e alla loro vittima. Abbassò il cappuccio, mostrando il volto crudele e le iridi di sulluhat, bianche come cenere. Sotto il labbro inferiore era inciso il triangolo violaceo con il vertice rovesciato, a indicare il suo status di privilegio tra i fedeli dell’oscurità. Una consunta sciapa rossa e oro gli decorava la fronte aggrottata.
«Non ditemi che stavate perdendo tempo!» proferì con raggelante biasimo.
«Laras!» si inchinò Navar «N-no, ci mancherebbe! Conosciamo le priorità, ma questo moccioso ci ha dato del filo da torcere e…»
«Ma davvero? Forse vi stavate divertendo troppo per notare che quello è il bailye dei Rhevia. E per rammentare i miei ordini.»
«No, mio signore, volevamo dargli una lezione prima di portarvelo, lo giuro!»
Il leader degli Angeli fece avanzare il destriero, gettando all’indietro la chioma brizzolata, intrecciata di nastri gialli. I pesanti orecchini di metallo luccicarono sinistri.
«Tiratelo su.»
I due tremebondi leccapiedi si affrettarono a eseguire, afferrando Anshar per le braccia, strattonandolo per la lunga coda color cannella e costringendolo a guardare dal basso il portavoce dei reietti.
«Se i tuoi verranno a sapere che sei mio prigioniero, rinunceranno a combattere e si consegneranno, pur di salvarti« asserì Laras «Ti suggerisco di sottoscrivere la resa incondizionata e di apporre il tuo sigillo a scanso di equivoci. Prima che io deliberi di trucidarvi tutti al calare del sole.»
«Lo hai già fatto» boccheggiò il ragazzo «Non esistono Rhevia da ricattare, resto soltanto io e non ho paura di morire. Non obbedirò.»
«Come osi!» ruggì Navar, apprestandosi a colpirlo.
Laras sollevò una mano, impedendogli di infierire. Sogghignò algido in una sorta di approvazione al temperamento del giovane bailye.
«C’è sempre qualcuno da ricattare» ribatté «Tu, per esempio. Ti conviene esaudire la mia richiesta da vivo. Da morto il tuo sigillo diverrebbe mio e non sarebbe difficile far credere ai tuoi ingenui amici che l’istanza provenga da te.»
Anshar gli restituì uno sguardo privo di timore: c’era un’insolita durezza nei suoi occhi di striati giada. Sputò per terra saliva e sangue.
«Mi fai pena» ansimò, stringendo i denti per resistere al dolore che gli veniva inflitto.
Una fugace scintilla rianimò Laras dalla sua impassibilità. Smontò da cavallo e raggiunse il prigioniero, mentre gli Anskelisia lo obbligavano a inginocchiarsi al suo cospetto. Gli prese il volto tra le dita per osservarlo meglio.
«Molto grazioso» commentò sarcastico «Sarebbe uno spreco toglierti subito la vita. Posso fare altro di te.»
«Desiderate che lo rinchiudiamo con la merce o con il cibo?» domandò Erat affilato.
Il ragazzo si divincolò davanti all’efferata minaccia. Quelle parole lasciavano intendere che sarebbe finito tra le persone destinate alla vendita o tra quelle adibite al pasto dai daimar. Rabbrividì nonostante il coraggio.
«No» sancì il capo degli Angeli, socchiudendo le palpebre «È mio.»
I due si guardarono senza aver inteso.
«Spogliatelo» ordinò Laras.
Anshar sperò di aver capito male. Tuttavia, quando i suoi aguzzini gli strapparono di dosso la camicia e lo sbatterono bocconi a terra, realizzò quale sarebbe stata la sua sorte. Avvertì le loro mani allentargli la stola e la lama affilata di un coltello scendergli lungo il fianco per tranciare i legacci dei pantaloni. Lottò con tutte le forze per liberarsi dalla costrizione, per non subire quell’umiliazione.
«È inutile che ti affanni» gli sibilò all’orecchio Navar, piazzandogli un ginocchio tra le scapole «Per il nostro principe, uomo o donna non fa differenza, se ciò che vede è di suo gusto. Più fai lo schizzinoso e più lo provochi. E poi, non dirmi che per uno come te è la prima volta.»
Lungi dal rassegnarsi alla violenza, il bailye Rhevia continuò a dimenarsi con energia.
«Tenetelo fermo!» comandò Laras «Vedete di non lasciargli segni sulla pelle, imbecilli! È troppo bello per essere rovinato dalla vostra maldestrezza.»
«Hai sentito, moccioso? Falla finita!» sputò Erat, colpendolo alla tempia con il manico di corno della frusta.
Anshar si accasciò stordito. Laras si piegò su di lui, allentandosi i vestiti e tergendogli con lascivia la traccia di sangue che gli sgorgava dal collo: si leccò le dita e il tatuaggio impresso sul suo mento virò famelico in una tonalità nera.
«Prometti bene, ragazzino» considerò, sfiorandogli la schiena.
Una freccia trapassò la gola di Navar, troncandogli in un istante il respiro e il sorriso. Si abbatté inerte nella sabbia mentre gli altri due si stavano ancora interrogando su cosa fosse successo. Un secondo dardo si piantò nella spalla di Erat, che evitò la fine del compagno solo perché si girò di scatto, abbandonando la presa su Anshar.
Il capo degli Anskelisia si raddrizzò, puntando lo sguardo inespressivo sull’arciere che lo teneva sotto tiro dalla sommità della duna. Sogghignò allietato.
«Finalmente ci rincontriamo, tesoro.»
L’apice letale del terzo strale gli incise la punta dello stivale, costringendolo ad arretrare.
«Sta’ lontano da lui, cane bastardo!» intimò Phylana, balzando dal dosso ad arco teso «Gettate le armi! Svelti!»
Laras fece un cenno al suo sottoposto, che scagliò via la frusta e si strappò l’asticella che sporgeva dall’omero con un’imprecazione soffocata.
«Sai bene che viaggio disarmato, mia cara. Chi mi definisce cattivo è un bugiardo.»
«Prega che sia vivo!» ribatté lei furente, osservando l’amico esanime.
«Non sono un necrofilo, per carità!» sbottò il capotribù con simulato scandalo «Sono una persona per bene, amo il sangue caldo. Lo avresti compreso, se il tuo fratellino non si fosse messo tra di noi.»
Lo sguardo di Phylana si accese di collera. Sapeva che lui la stava provocando, ma era impossibile ignorare termini tanto sprezzanti.
«Non sei degno di nominarlo, maledetto! Manda via il tuo scagnozzo e veditela con me! O hai paura di essere battuto da una donna?»
«Non sia mai! Vattene, Erat, lasciami alle gradevoli cure della mia promessa sposa. Consolati con il ragazzino Rhevia.»
«Non toccarlo!» minacciò lei, voltando l’arco verso Angelo, che si immobilizzò, alzando le braccia a titolo preventivo.
Fu sufficiente quell’umana distrazione. Laras balzò in avanti con l’agilità di un ghali e la raggiunse, cercando di strapparle l’arma. La freccia partì, piantandosi nella terra e mancando l’obiettivo. Phylana reagì con prontezza all’assalto, ma lui era più forte e più pesante: la situazione virò con rapidità a suo svantaggio.
«Butta quel dannato arco, se tieni al tuo compagno» le soffiò all’orecchio «Non vorrai che il mio uomo lo faccia a pezzi, vero? I maschi non gli interessano fisicamente, a meno che non ci si possa dedicare con una lama.»
In contrasto con quei termini intimidatori, il timbro della sua voce era vuoto, come se non provasse nessuna emozione: né rabbia né gioia né eccitazione.
La ragazza mise a fuoco il predone che, nonostante la ferita, aveva recuperato il coltello e si stava dirigendo da Anshar con esiziale calma. Lottò contro se stessa più che contro il proprio acerrimo nemico. Si era ripromessa di non guardare in faccia nessuno pur di vendicarsi di ciò che Laras aveva fatto a Narsas. Aveva giurato sulla tomba di sua madre che sarebbe stato l’unico scopo della sua vita, che nulla l’avrebbe distolta. Non suo padre, non i suoi amici. Avrebbe rinunciato all’affetto, alla propria oltraggiata femminilità e al proprio futuro, pur di scovarlo e di conficcare una saetta nel suo cuore abietto. Il destino lo aveva concesso, esaudendo le sue aspettative e ora quella bestia ripugnante, mascherata da creatura mortale, era avvinghiata a lei nella sabbia e cercava di preservare la sua ignobile esistenza con un infame ricatto. Ma, come il predone non era più un essere umano, lei aveva smesso di essere una fragile fanciulla e non gli avrebbe permesso di estorcerle la resa in quella maniera vile. Non lo avrebbe ascoltato, non avrebbe ceduto, anche se il suo rifiuto avrebbe comportato sacrificare tutto. Tutto e lui.
Anshar… perdonami, Anshar, ma io devo…
Il pensiero del ragazzo fece affiorare una marea di sensazioni struggenti. Sentì gli occhi inumidirsi. Il suo nucleo profondo rifiutò l’idea di perderlo, di abbandonarlo, di anteporre la rivalsa alla sua vita innocente. Si era sbagliata: era ancora una ragazzina indifesa, forse più debole e spaurita di prima! Ma quella volta non sarebbe stata un’altra persona a farne le spese!
Narsas… come ti saresti comportato al mio posto? Avresti compiuto un giuramento a questo prezzo? Oh Narsas, se me lo domando non faccio altro che offenderti…
Phylana gridò di frustrazione e abbandonò l’arco.
Le iridi di vacua cenere di Laras riuscirono a interpretare l’appagante soddisfazione che chiunque avrebbe espresso nel riconoscersi vincitore della partita per la seconda volta
«Così mi piaci» mormorò incolore, inchiodandola sotto di lui.
«Ordina a quel macellaio di gettare il coltello!» sgomentò lei, scorgendo l’Anskelisia inginocchiarsi accanto ad Anshar con la lama snudata.
Il capo degli Angeli alzò incurante le spalle.
«Ora che ho ritrovato te, non me ne importa niente del moccioso. Riprenderemo da dove eravamo rimasti.»
La ragazza inorridì. Avrebbe dovuto aspettarselo. Per quel mostro simile a un demone le promesse non avevano valore, erano solo armi più efficaci di quelle fatte di metallo o di legno. Altro che inerme! Aveva fallito, era caduta nella trappola come una sciocca! Tentò con la sua stessa filosofia, sperando che a Laras fosse rimasto un briciolo del senso dell’onore delle genti del deserto.
«Risparmialo! Mi avrai! Te lo chiedo come dono di nozze!»
«Lieto che ti sia risolta ad accettare la mia proposta» sorrise lui tagliente, facendo arricciare il triangolo scuro sotto la bocca «Ma ho già provveduto. Le teste dello stolto che ha avuto l’ardire di possederti prima di me e quelle dei suoi degni compari sono confitte su un palo nel mezzo di anydri. Credo siano ancora lì, ti porterò a visitarle durante la luna di miele per provare la mia sincerità.»
Phylana si contorse, cercò di liberarsi dal corpo di lui e dalle mani che cercavano di strapparle i vestiti. Lo graffiò, riuscì a colpirlo con la punta di freccia che nascondeva nella cintura. Non servì. Laras lambì il taglio sanguinante con la lingua, insensibile al dolore come tutti i sulluhat e parve addirittura apprezzare l’iniziativa.
«Ti regalerò anche la sua testa, non temere» sussurrò, indicando Anshar «Il resto lo lascerò ai possenti daimar
La ragazza si oppose con tutte le energie residue. Gridò, ma l’unico suono che le uscì dalla bocca fu il nome del bailye dei Rhevia. Non stava mirando a proteggersi dal nuovo affronto, voleva difendere Anshar, impedire che soffrisse, che morisse. Lui era più importante, lui era…
Anshar… Anshar!
 
Erat rigirò il ragazzo sulla schiena: era ancora svenuto e sulla pelle abbronzata iniziavano a trapelare i lividi dovuti alle percosse. Se Laras avesse scelto di divertirsi con lui anziché con la provvidenziale sbarbatella Aethalas, si sarebbe certo adirato. Detestava la merce avariata. Gli era andata di lusso, il suo portavoce sapeva essere più feroce di tutti i daimar al completo. Esitò, osservando il giovane privo di sensi. Bello era bello. Forse sarebbe stato meglio scambiarlo invece di sprecarlo. Non avrebbe faticato a trovare un altro fortunato su cui sfogare i propri istinti cruenti. Gli appoggiò la lama di taglio sul petto, per privarlo delle collane e del sigillo che aveva al collo. Aveva capito alla perfezione che il suo capo lo voleva per piegare la resistenza degli elestoryani e non ci teneva a commettere un altro errore.
«Bah!» borbottò seccato, gettando un’occhiata a Laras, che non era ancora riuscito a infilarsi tra le gambe della ragazza.
Fu l’ultima cosa che fece. Anshar guizzò in avanti e gli piantò in un occhio il fermaglio appuntito che portava tra i capelli. Erat non emise alcun rumore, forse neppure si rese conto di quanto gli stesse accadendo. Portò le mani al volto insanguinato, provando a liberare l’orbita dallo spillone e si lasciò sfuggire il pugnale.
Il bailye lo impugnò con prontezza e gli trapassò il cuore con un affondo deciso.
Si liberò di lui, trascinandosi nella sabbia verso Laras. Avvertì la rabbia montare, un sentimento di una potenza sconosciuta, che andava oltre l’indignazione e il desiderio di proteggere la sua gente. Si gettò sul principe degli Anskelisia, serrandolo in una morsa disperata che, lo intuiva, non avrebbe mantenuto a lungo.
Phylana si risollevò, svincolata ed esterrefatta.
«Non esitare, sta a te!» ansimò il giovane Rhevia allo stremo delle forze.
La ragazza sferrò un prepotente calcio all’inguine del sulluhat e recuperò il pugnale. Era il momento che attendeva da più di un anno, quello che avrebbe vendicato Narsas e le avrebbe restituito la forza di guardare negli occhi Varsya e se stessa. Forse sarebbe riuscita a perdonarsi.
Laras accusò il colpo, ma non in misura tale da desistere. Rifilò una feroce gomitata alle costole doloranti di Anshar, che allentò la stretta con un gemito. Phylana si gettò in avanti, ma fu respinta e scaraventata a terra. Si rialzò, brandendo la lama. Laras decise di liberarsi prima del giovane Rhevia, che si stava rivelando un osso duro.
«Mi hai stancato!» ringhiò, girandosi con la rapidità di una serpe.
Con destrezza sfilò dalla manica nera un lungo stiletto d’argento e lo conficcò nel ventre del ragazzo. Anshar emise un gemito soffocato e abbandonò la presa. Percepì il bruciore caratteristico del veleno e il calore del sangue che sgorgava. Tutto si fece nebuloso.
Phylana fissò con orrore la stoffa chiara dei pantaloni di lui macchiarsi di scarlatto e il suo viso impallidire.
«No… No!»
Il leader degli Angeli rivolse l’attenzione a lei, buttando a terra l’arma stillante di sangue. Era l’ennesimo atto di spregio: pensare di poterla vincere con la sola forza delle mani e con la coercizione mentale. La osservò con un sogghigno.
«Non essere triste, penserò io a te.»
La Aethalas si puntò il pugnale alla gola, appellandosi alla forza di volontà per riuscire a trafiggersi. Era quanto non era stata in grado di compiere la volta precedente. L’atto l’avrebbe riscattata e Anshar non sarebbe morto da solo.
Laras inarcò un sopracciglio, certo che lei non avrebbe avuto il fegato di suicidarsi. In fondo le persone non cambiano. Scosse la testa divertito.
Qualcosa gli perforò la schiena, causandogli quel dolore fisico che non ricordava più.
«È lui che deve pagare, Phylana» ansò il bailye Rhevia, reggendosi con la forza della disperazione e ostacolando il nemico «Non tu. Fallo, non pensare a me…»
Lei gridò tra le lacrime. Gridò ancora e saltò addosso al sulluhat senza più esitare, senza più pensare, scaraventando entrambi a terra nell’impatto. Prima che il capotribù degli Anskelisia riuscisse a riprendersi, brandì il pugnale e gli squarciò la gola. Uno spruzzo rovente e vischioso la investì, arrossandole gli abiti.
«Torna dai tuoi padroni, maledetto!»
Gli occhi bianchi di Laras divennero bruni, come quelli che lei rammentava nei suoi incubi peggiori. Il suo sguardo si spense in un ultimo rantolo gorgogliante. Phylana si staccò da lui con un moto di ribrezzo, abbandonando il coltello ricurvo come se scottasse. Riportò la mente a fuoco, stordita, incredula.
«Anshar!»
Il ragazzo era riverso a terra e dalle sue dita premute accanto all’ombelico scaturiva un fiotto copioso di sangue. Le sorrise debolmente.
«Sei libera…»
Lei si precipitò al suo fianco, scorgendo con terrore i bordi lividi della ferita.
«Non parlare! Stai giù, Anshar, lascia scorrere il sangue! Lo stiletto era…»
«Avvelenato, lo so. Va bene così, Phylana. Mettiti al sicuro, ora.»
La Aethalas gli scostò a forza le mani dalla lesione e la deterse per osservarla meglio.
Dei! Dei, fate che non sia koreyon!
Gli si appoggiò sul petto per bloccarlo: sapeva che gli avrebbe fatto male. Accostò le labbra al taglio e iniziò a suggere. Sputò, percependo il sapore metallico del sangue e quello dolce di lui. Tornò a estrarre la tossina con la bocca, mentre il giovane stringeva s’inarcava  per la sofferenza insopportabile.
«Non toccarmi… se è koreyon potrebbe contaminarti! Lasciami…»
«Non m’importa!» esclamò Phylana, asciugandosi le lacrime «Non ti lascio né in questa vita né nella prossima!»
Anshar si abbandonò, privo di energie. La ragazza smise di aspirare quando vide che il colore dei labbri della ferita era tornato quasi normale. Frugò febbrile nel sacchetto legato alla cintura e ne estrasse una fialetta verde. La accostò al viso di lui, sollevandolo con delicatezza. Il bailye gemette piano nella semi incoscienza che lo stava portando via dal mondo.
«È l’antidoto più potente che ho! Andrà bene, se non è… se non è…»
La voce le morì in gola per l’angoscia, mentre gli somministrava il farmaco. Anshar, riverso tra le sue braccia, deglutì il medicamento e si contrasse in uno spasmo di dolore: in quell’atto involontario le loro labbra si sfiorarono. Riaprì gli occhi, ma non riuscì a metterla a fuoco. Percepì sulla pelle l’umidità delle sue lacrime.
«Phylana, non piangere per me. Ero già morto, ma ho sentito la tua voce che mi chiamava e sono tornato... ora vattene da qui…»
«Devo cauterizzare la ferita!» balbettò lei.
Lo depose a terra, constatando che i vestiti che gli avevano lasciato addosso erano intrisi di sangue. Recuperò una lama medica dalla sacca e innescò le fiamme, dandole aria finché non divenne rovente. Gli si avvicinò tremando.
«M-mi dispiace. Non sono brava a…»
Lui annuì, chiudendo la mano nella sua e preparandosi al nuovo dolore.
«Lo sei… ne sono certo.»
L’utensile lo bruciò con brutale puntualità, strappandogli un grido acuto. Al secondo tocco perse i sensi. La ragazza terminò la procedura con una medicazione approssimativa, sfruttando quanto di utile e pulito riuscì a trovare. Per la prima volta si pentì di non aver continuato gli studi di guaritrice.
«Anshar…»
Non rispose. Nell’agitazione che la ottundeva, Phylana non intese se era ancora vivo. Non riuscì a sentirgli il polso e preferì non toccare le profonde abrasioni sul suo collo. Appoggiò l’orecchio al suo petto, cercando il battito. Lo udì, regolare e quieto. Restò appoggiata a lui in preghiera, mentre i minuti scivolavano via impietosi. La mano di Anshar le accarezzò i capelli.
«Non era koreyon…» mormorò il bailye.
Lei ricominciò a piangere. La guardò, mentre la nebbia svaniva dalla sua visuale. Le sue iridi nocciola e verdi avevano la dolcezza di sempre. Anche a un passo dalla fine riuscì a farla arrossire.
«La battaglia è ancora in corso, dobbiamo toglierci da qui» suggerì la ragazza.
«Sarebbe opportuno. Il vento è cambiato. Sta giungendo una tempesta.»
   
 
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