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Autore: Francine    01/12/2020    4 recensioni
Ammesso che la passione umana abbia la virtù d'innalzarsi al di sopra di ogni assurdo, come si può sostenere che non abbia anche quella d'innalzarsi al disopra dei propri assurdi?
(Yukio Mishima, Confessioni di una Maschera, 1949)
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Sì, lo so. Lo so. Avrei altre cose ben più poderose a cui badare - e da un tempo così imbarazzante che non basta più il velo pietoso per coprire le mie mancanze, avrei bisogno di un catafalco imperiale. Tipo la Reggia di Caserta, ma con meno stucchi - ma avevo bisogno di far prendere aria al cervello, in qualche maniera, e siccome avevo questa ideuzza - rigorosamente post Soul of Gold - che gironzolava a piede libero per il cervello da un po' di tempo...
Com'è che si dice? Ah, sì. «Sarebbe stato un delitto», giusto? 
Il titolo strizza l'occhio al celeberrimo romanzo di Yukio Mishima - cui non sono degna di accostarmi, ma se non la tocco piano pianissimo, non ha senso proprio toccarla, né? - e state tranquilli: so che Sherry Vernet (alla quale va un grosso grazie per il betaggio; se qualcosa non fila, pigliatevela con me!) ha intitolato allo stesso modo una sua raccolta, ma siccome sono una brava bambina - checché ne dicano le malelingue avvelenate - ho chiesto il permesso.
Tutti i personaggi nominati in questa storia appartengono a Masami Kurumada e a chiunque ne detenga i diritti legali. Questa storia è stata scritta per puro diletto personale; non ha alcun fine lucrativo. Nessun copyright si ritiene leso. L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell'autrice (Francine) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.
Al solito, pomodori a destra e carote a sinistra, grazie. 
Io metto su il caffè.



  
Chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere.
(Charles Baudelaire)



1.



«Avanti. Chiamiamo le cose col loro nome, una buona volta!»
«Cioè?»
«Due parole.» Pausa. «Abuso. Edilizio.»
Indice e medio alzati che tentennano come una bandiera al vento di maestrale, conclude: «Lo so io e lo sai tu.».


Quando Marco beve non va mai a finire bene. Marco non regge l’alcol, neppure per sbaglio. Nemmeno per ipotesi. Eppure – che si tratti di vino, birra, spumante, amaro, rosolio, whisky torbato o anche solo due dita due di limoncello – alza il gomito senza decenza. Tanto ci sarà sempre qualcuno che, arrivati ad un certo punto, giudicherà che la misura è colma e fermerà il suo scivolare indefesso verso la sbronza colossale. Il problema di Marco è che affida questa funzione a Yngve. Il quale non solo non si preoccupa di salvaguardare l’altrui decenza – foss’anche quella di un amico – ma gli lascia tanta corda da portevisi impiccare da sé, e con tutto l’agio di questo mondo e dell’altro; non pago, osserva l’evolversi della situazione quasi fosse un quadro clinico o un bizzarro esperimento scientifico, uno di quelli in cui ti chiedi se si nuota meglio nell’acqua o nello sciroppo al tamarindo. La risposta è una sola – l’acqua, per chi se lo stesse chiedendo – eppure una nota università americana – o era inglese? – ha ben pensato di spendere i soldi dei contribuenti per esperire sul campo questa ovvietà, forse per far parlare di sé ed ottenere i tanto decantati quindici minuti di celebrità – se poi questi siano conditi da applausi o da pernacchie, Warhol non l’ha specificato.
Ecco, Yngve ragiona come i capi dipartimento di una di queste università arrembanti, con la differenza fondamentale – capitale – che lui non spende quattrini per portare avanti le proprie ricerche. Lui opera sul campo una sua personalissima versione della vivisezione; non si allarmino gli animalisti: non ci sono cani, gatti o scimmie sul personalissimo tavolo operatorio di Yngve, ma solo Marco. E forse, non è poi questo male.


«Solo che se lo faccio io, sono il solito italiano». Singhiozzo. O era un rutto? «Se lo fa lui, mister Palo nel Culo…» e la geremiade di Marco si perde in una serie di borbottii incoerenti.
«Ne hai le prove?»


Yngve non potrebbe essere più terrificante, adesso, nemmeno se tenesse in mano un bisturi affilatissimo, uno di quelli che nei film da quattro soldi riluce sinistramente nella penombra della camera operatoria. Perché quando Marco è sbronzo per essere sbronzo non va assecondato. Nemmeno per sogno. Neppure per sbaglio. Perché il suo cervello malato e contorto, a quel punto, trova un appiglio, un gancio in mezzo al cielo cui aggrapparsi e continuare a vagolare, ingarellandosi su se stesso.
E Yngve lo sa.



«No», borbotta Marco. Com’era prevedibile.
«Ma posso trovarle…», e quella luce che splende sul fondo dei suoi occhi blu regala un lunghissimo e poco piacevole brivido alla spina dorsale di Rodrigo. Chiamiamo le cose col loro nome, s'era detto: all’improvviso l'avvolge un gelo micidiale, in barba al sole di giugno che ha fatto gli straordinari per tutto il giorno. Le rocce attorno alla scalinata che conduce dal Sacerdote sono ancora calde. Non oso pensare a cosa sarà agosto, si dice Ruy; ma neppure quel pensiero riesce a sciogliere il gelo che lo ha ghermito, ché se tanto mi dà tanto, qui non ci arriviamo vivi ad agosto…


«Sul serio?»
Yngve rilancia. Sempre e comunque. Anche quando in mano ha un paio di fanti. Soprattutto quando in mano non ha neppure un paio di fanti. Se uno è così scemo da non capire che sta bluffando, non è un problema che lo riguarda. Anzi. Il problema è che Marco non si è mai accorto della luce tagliente che colora gli occhi di mare al mattino di Yngve in quei momenti. La stessa che gli sta attraversando lo sguardo in questo istante; ma Marco non la vede.
Marco lo fissa. Sorride. Si pulisce le labbra passandovi sopra l’avambraccio abbronzato e si alza.
«Scommettiamo?» dice – anche se quest'uscita da smargiasso assomiglia più ad un’accozzaglia incoerente di vocali a caso. Come parlerebbe un polipo, se i polipi potessero parlare. Ammesso che avessero qualcosa da dire agli esseri umani, s’intende.


E così biascicando, Marco si gira e se ne va, il passo strascicato di chi ha troppo alcool in corpo e poca mercanzia nel cervello.


Atarassico, Yngve sorseggia la sua Guinness, come se quello spettacolo indecoroso fosse la normalità; poi posa il bicchiere sul tavolo immacolato e butta la sua bomba con la stessa grazia di una ballerina che attraversa il palcoscenico danzando sulle punte: «Fossi in te, avviserei Aiolia…».
Rodrigo lo fissa come se gli fosse spuntata una seconda testa. «Prego?», domanda. Ché alle volte seguire il filo dei pensieri di Yngve equivale a lanciarsi di testa in un maelstrom particolarmente incazzato.


E infatti Yngve sbuffa, gli occhi stanchi. Di dover spiegare tutto per filo e per segno, forse. Di dover indicare al prossimo l'evidenza dei fatti. Di dover mostrare tutti i passaggi agli allievi duri di comprendonio. In questo è sin troppo simile a Shaka, lui: perché sprecare parole per spiegare l’ovvio, la lapalissiana verità che brilla alla luce del sole?
Peccato, però, che il più delle volte questa verità non sia così evidente come credono loro. E che se si mostrassero più comprensivi e spiegassero al resto dell’universo creato un paio di passaggi, forse un paio di rogne in più si potrebbero evitare.
Tipo lasciarsi accoppare sotto gli alberi di Sala.
Tipo farsi impalare da un ramo di una pianta fin troppo cresciuta – salvo poi atterrare in piedi, al centro della scena, come un fottuto eroe di film d’azione. E Ruy si chiede se, per caso, Yngve non si aspettasse un applauso, in quel momento, ché Loki sarebbe stato prontissimo ad elargirglielo, se non fossero stati in ben altre faccende affaccendati. E se questo non avesse ammazzato il mood generale. Non puoi fare a cazzotti e fermarti ad applaudire il nemico.
Non si può. Non si fa.


«Aiolia», ripete Yngve. Come se quelle sei lettere dovessero far scattare qualche interruttore nel cervello intontito di Rodrigo. E quando questo non accade, continua: «Che è amico di Milo. Che è amico di Camus.».
«E?»
«E se tu avvisassi Aiolia, magari lui avviserebbe Milo. Il quale, a sua volta, avviserebbe Camus.»
«Cos’è, il gioco del telefono?»
«Noi non vogliamo ritrovarci con del surimi a custodire la Quarta Casa, vero?»
Ma allora perché non l’hai fermato?, si domanda Rodrigo, il bicchiere di Laphroaig stretto tra le dita. E poi lo dice: «Perché non l’hai fermato?».
«Perché sai benissimo che è impossibile fermare Marco, in certi momenti. Fai prima a tagliare la testa al vento.» Pausa. «E poi, a voler essere spietatamente onesti, neppure tu l’hai fermato. O sbaglio?»


Touché.
Una di quelle stoccate che trafiggono il cuore e lo trapassano da parte a parte. Brucia farsi trovare con la guardia abbassata. E brucia che ad avergli inflitto la bordata finale sia stato proprio Yngve, il serafico ed atarassico Aphrodite dei Pesci, che mai si preoccupa di quel che gli accade attorno: se è un nemico, lo si abbatte. Con garbo ed eleganza. Perché preoccuparsi?
Dovessero venirgli le rughe, pensa Rodrigo, incassando.
«Dai retta ad un cretino», conclude Yngve, versandogli un altro goccio di whisky torbato. «Avvisa Aiolia. Così avrete modo di parlare di quella cosa…»
«Quale cosa?»


Il sorriso di Rodrigo, all'occasione, è bello come solo sanno essere quelli di chi non sorride mai. Un lampo divertito che abbraccia gli occhi di foresta liberando le sue spalle dal peso di una serietà sproporzionata. Saturno sa essere un padre severo, e a Rodrigo piace indulgere in una sorta di auto perfezionamento così cattolico da fare male. Una spada la si affina col fuoco. Ad astra per aspera, eccetera eccetera.
Solo che Rodrigo gli sta mostrando un altro sorriso, uno ben più pericoloso della sua maschera di serietà – è lui, quello che Marco chiama affettuosamente Mr. Palo nel Culo, non Camus – ed è quello che sta rivolgendo a Yngve in questo stesso istante. Uno di quelli che ti affetta in due come fossi un petalo di ciliegio sul filo di un’affilatissima katana.
Ma Yngve non si scompone.
Ci vuole ben altro, per incrinare la sua, di maschera.
«Quella cosa», replica, infatti, prima di svuotare il proprio bicchiere in un unico, lunghissimo sorso. «Prima la affronterete, e meglio sarà per tutti.».


E Rodrigo si dice che ha ragione. Come sempre succede, con Yngve. Facile così, però; e il custode della Decima Casa non si accorge di aver pensato quelle parole ad alta voce fino a quando non incontra lo sguardo malizioso e divertito di Yngve.
«Chi è troppo vicino al faro brancola nel buio», dice. «O una roba del genere. Dovrò farmelo spiegare per bene…»
E Rodrigo sa già a chi chiederà lumi Yngve. Uno sbarbatello dai grandi occhi, il cuore gentile e l’armatura di un rosa così improbabile da sembrare una caramella. Con le catene pronte ad ammazzarti senza battere ciglio, ma pur sempre una caramella.
E se ne restano in silenzio, mentre il sole si va ad inabissare dietro alle montagne, per illuminare altre vite ed altri giorni, lasciandoli ciascheduno coi propri pensieri a fare loro compagnia.


   
 
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