In
the still of the night
29.
Il
giorno dopo, una riunione straordinaria – l’ennesima – viene indetta da
Haymitch al solo scopo di mostrare le falle dei Pass-Pro. Preme un tasto sul
telecomando che ha in mano e lo schermo di fronte al tavolo della Sala Riunioni
si riempie delle mie immagini, o meglio, di quelle che i tecnici e i montatori
hanno modificato per farmi sembrare come appena uscita da una battaglia
sanguinaria. Mi vedo mentre mi rimetto in piedi e sollevo l’arco verso il
cielo. E sento la mia voce scandire, male, lo slogan.
È
davvero pessimo, come Pass-Pro. Ed è, ovviamente, tutto il contrario di ciò che
vogliono realizzare Plutarch e Fulvia.
Haymitch
propone a tutti i presenti di ricordare il momento preciso in cui li ho
impressionati, in cui sono riuscita a lasciare il segno nella loro memoria. Non
quello in cui il contributo di Peeta riusciva a dipingermi come la migliore fidanzata
del mondo, ma quello in cui prevaleva la mia spontaneità al di sopra di tutto
il resto. Il mio essere semplicemente me stessa, per usare le parole che Cinna
mi ripeteva sempre.
-
Quando ha cantato per Rue, mentre moriva – dice Boggs, il braccio destro della
Coin.
-
Quando si è offerta volontaria alla mietitura per sua sorella! – esclama Effie.
Lei era lì quando è successo, l’anno scorso. Ovvio che l’abbia impressionata:
prima di me, non c’era mai stato un tributo volontario nel Distretto 12. Già da
allora dovevano aver capito che ero un bel casino di tributo.
Si
susseguono altri suggerimenti di esempi, alcuni meno eclatanti degli altri, ma
ce n’è uno che mi scuote le viscere e mi fa portare le mani alle orecchie per
non sentire. È quello in cui mi ricordano mentre canto alla mia bambina, sul
palco durante l’ultima intervista con Caesar prima dell’inizio dei giochi.
-
Cosa vi fanno capire tutte queste azioni? – taglia corto Haymitch. Lo fa perché
sa che non sopporterei di sentire oltre.
-
Sono tutte azioni improvvisate. Nessuno ha detto a Katniss cosa fare – risponde
Gale, al mio fianco. È sempre al mio fianco.
-
Esatto. Quindi, ecco la mia proposta: facciamo scendere in campo la
Ghiandaia Imitatrice. Niente set, niente fumo finto e niente copioni: solo
lei e la sua improvvisazione.
Ovviamente,
l’idea di me su un vero campo di battaglia, con vere armi e con veri scontri a
fuoco, non piace a nessuno. Non piace a Plutarch e a Fulvia, che così non
possono mettere bocca su nessuna delle cose che faccio e che non possono
intervenire se sbaglio qualche mossa. Non piace a Boggs, che pensa a quanto
sarà difficile gestire la mia incolumità in mezzo alla vera guerra. E non piace
alla Coin, che ha paura di perdere la sua pedina migliore se rimanessi uccisa
durante un’imboscata.
-
Fate in modo di ottenere un filmato. Si può comunque usare quello – le
dico. Così, almeno, la mia morte avrà uno scopo. Forse.
Alla
fine, decidono di acconsentire alla proposta di Haymitch e di mandarmi sul
campo. Iniziano i preparativi e, dopo poche ore, sono già su un hovercraft,
tirata a lucido nella mia uniforme nuova e pronta a recarmi al Distretto 8,
dove appena stamattina c’è stato un bombardamento. È stata la Coin a scegliere
il luogo, quindi immagino che adesso quel distretto rappresenti uno spazio
sicuro e privo di pericoli per quando arriveremo.
Sull’hovercraft,
insieme a me, ci sono Gale – ovviamente! -, Boggs, un paio di altri soldati,
Haymitch e Plutarch che dirigeranno i nostri movimenti dall’alto e una troupe che
effettuerà le riprese del Pass-Pro. Cressida, la regista dalla testa rasata e
tatuata a rampicanti verdi, è accompagnata da Messalla, il suo assistente, e da
due alti ragazzi, Castor e Pollux, che indossano delle strane apparecchiature
per riprendere le immagini.
Appena
arriviamo, l’hovercraft si abbassa quel tanto da consentirci di scendere
velocemente prima di riprendere quota e tornare ad immergersi tra le nuvole.
Resterà nei dintorni, a monitorare sia la nostra sicurezza che i nostri
movimenti mentre siamo quaggiù, in mezzo a palazzi mezzo distrutti e baracconi.
Il
nostro gruppo così assortito si dirige verso il centro del Distretto, sul luogo
del bombardamento avvenuto stamattina. Stanno ancora recuperando i feriti ed i
corpi delle vittime, trasportandoli all’interno di un magazzino adibito ad
ospedale di fortuna, e davanti a questa scena vengo presa da un senso di
vertigine che rende malferme le mie gambe. Improvvisamente, provo di nuovo
l’impulso di fuggire via dal dolore e dalla sofferenza, quello che mi invadeva
sempre quando a casa entrava un malato bisognoso delle cure di mia madre. Solo
che qui, di malati, ce ne sono a centinaia, forse migliaia, e tutte radunate
nello stesso punto.
Non
posso scappare, tutt’al più quando una donna, che Boggs mi presenta come la
comandante Paylor, si avvicina per capire le nostre intenzioni. Mi riconosce,
sa chi sono, e sembra sorpresa di vedermi in piedi sulle mie gambe. Scruta la
mia figura soffermandosi più del dovuto sulla mia pancia che, appena un mese e
mezzo fa, era piuttosto evidente. Di quella pancia, oggi, non è rimasto più
niente.
Si
schiarisce la voce quando nota l’espressione sulla mia faccia. - Sei viva,
allora. Non ne eravamo sicuri – dice.
-
Non ne sono ancora sicura nemmeno io – le rispondo, con voce tremante.
Non
possiamo fare molto, qui fuori, così la comandante Paylor ci accompagna fino al
magazzino/ospedale e ci fa cenno di entrare. Ci fa prima oltrepassare una zona
adibita alla disposizione dei cadaveri, nell’attesa che vengano scavate le
fosse comuni, e poi scosta una enorme tenda che rivela l’ingresso all’ospedale
vero e proprio. Un ospedale straripante di feriti, di sofferenti, di lamenti e
di voci imploranti. Ci sono centinaia di persone distese su brande e barelle di
fortuna, e medici – troppo pochi – che si aggirano tra le file ed i corridoi
che queste brande hanno creato e che cercano di alleviare il dolore di queste
povere persone come possono. Alcune persone, gli stessi feriti ricoverati,
danno una mano a loro volta per aiutare chi è stato meno fortunato di loro.
Arriccio
il naso a causa dell’odore nauseabondo che impregna l’aria. È l’odore della
malattia, mischiato a quello della sporcizia e del sudore. Vorrei uscire
dall’ospedale e tapparmi il naso con una mano mentre lo faccio, correndo, ma
non sono qui per scappare. Non sono qui per mostrare la persona debole e
spaventata che la mia facciata ben artefatta cerca di nascondere. Non sono qui
per fare la codarda. Sono qui per aiutare queste persone. Sono qui per
dimostrare, a chi mi credeva morta, che sono viva. Avanzo tra le file, tra i
malati, osservando il dolore che Capitol City ha lanciato alla popolazione
dell’8.
Queste
persone mi vedono, mi riconoscono, e mi chiamano. Chiamano il mio nome,
nonostante le terribili sofferenze che stanno provando, ma la mia sola vista
sembra risollevare il loro morale ed il loro spirito offeso. Mi avvicino ad una
donna che ha una gamba ferita e le accarezzo una mano, la saluto. Lei me la
stringe forte. Poco lontano, un ragazzo con la testa fasciata si alza in piedi
sul suo letto e si sbraccia per indicarmi la direzione da prendere. Tantissime
persone mi accarezzano e mi toccano le mani mentre cammino in mezzo a loro.
L’ultima volta che qualcuno ha compiuto un gesto simile su di me, mi trovavo
nella residenza presidenziale per la festa che concludeva il Tour della
Vittoria e tutti volevano accarezzare i meravigliosi vestiti della Ragazza di
Fuoco, la vincitrice degli Hunger Games. Adesso, invece, tutti vogliono
accarezzare l’uniforme della Ghiandaia Imitatrice, il simbolo della rivolta.
Quando
cominciano a chiedermi della bambina, sono costretta a confessare loro la
verità e non limitarmi solo a fuggire, o ad evitare l’argomento, come ho fatto
finora. Per la prima volta da quando è successo, sono io stessa a dire ad alta
voce quelle parole spaventose ed è sconvolgente l’ondata di fuoco che mi
travolge. È sconvolgente la voracità con cui questo dolore mi investe le
membra, ma è in qualche modo anche un sollievo, perché parte di questo fuoco,
una piccola ed infinitesima parte del fuoco, sembra scivolare via. Sembra
abbandonarmi e forse è solo una mera illusione; la gran parte di esso rimane
dentro di me, a gravare sul mio cuore, e non credo che se ne andrà mai del
tutto.
-
L’ho persa – dico in un mormorio quasi indistinguibile, quando una donna
anziana me lo chiede di nuovo. Questa donna anziana raccoglie con le sue mani le
lacrime che sono cadute dai miei occhi e circonda poi le mie guance in segno di
conforto, annuendo piano. È davvero dispiaciuta per ciò che mi è accaduto.
Tutti
sono dispiaciuti per ciò che è accaduto a me e alla mia bimba. Tutti mormorano
parole di consolazione e di conforto, e la metà di queste parole sono rivolte
anche a Peeta. Perché la perdita è stata anche sua, così come è stata mia. L’abbiamo
persa entrambi. Io non sono riuscita a diventare una mamma, e lui non è
riuscito ad essere un papà. Dei genitori senza una figlia… è questo ciò che
siamo.
Parlano
molto di Peeta, parlano dell’intervista straordinaria con Caesar e tutti
pensano che stesse mentendo, che non credeva davvero a ciò che diceva. La
pensano come me: Peeta è stato obbligato a chiedere il cessate il fuoco. Tutti
sperano in lui, così come sperano in me. La solidarietà che dimostrano nei
nostri confronti è molto più forte ora di quando venimmo come ospiti durante il
Tour della Vittoria, ma allora le circostanze erano molto diverse. Se mesi fa
parlavamo a nome di Capitol, a nome del presidente Snow, ed eravamo il simbolo
vero e proprio della supremazia della capitale su tutto il resto della nazione,
adesso i ruoli si sono invertiti. Adesso parlo a nome dei Ribelli, sono qui per
dimostrare la mia lealtà alla rivolta, e a quanto pare sanno che anche Peeta
sta facendo lo stesso, nonostante le menzogne.
I
ruoli si sono invertiti.
Quando
esco dall’ospedale, sono costretta ad accasciarmi lungo la parete ed a prendere
dei forti respiri per calmare i miei nervi, che sono rimasti profondamente
scossi dalla visita e da tutto ciò che questa ha comportato. Non mi aspettavo
nulla del genere. E non mi aspettavo, in nessun modo, che con la mia sola
presenza avrei potuto far scaturire un vero fiume di speranza. Capisco che
Plutarch e Fulvia, con i loro discorsi strategici, non mi hanno mai mentito. Loro
sapevano. Conoscono appieno la forza dell’onda che mi trascino dietro ad
ogni passo che compio.
Lei non ha idea dell’effetto
che può avere. Le parole di Peeta
riecheggiano nella mia mente. Quante volte le ha ripetute in questi mesi? Aveva
ragione anche lui. Peeta ha sempre avuto ragione su questo, ed io l’ho sempre
rimproverato per ciò che diceva…
Boggs
mi si avvicina e mi porge una borraccia, che accetto più che volentieri. – Sei
andata alla grande – mi dice mentre prendo un sorso d’acqua.
-
Non mi sono sentita male. Questo è già qualcosa – biascico, asciugandomi la
bocca col dorso della mano.
-
È molto più di “qualcosa”, Katniss! - esclama Cressida, la regista. Lei e
Messalla mi informano che hanno raccolto moltissimo materiale con cui poter
lavorare una volta tornati alla base, e sembrano entrambi molto soddisfatti.
Anche
Gale è rimasto colpito dalla mia performance: a sentire lui, per essere me
stessa non avrei dovuto fare ciò che ho fatto, ma scappare via dall’ospedale senza
voltarmi indietro. Mi conosce talmente bene da sapere ciò che provoca in me la
sofferenza altrui, ed ha visto un sacco di volte com’è che mi comporto appena
vedo un malato.
-
Volevo farlo, ma ho messo a tacere l’istinto – gli confesso a mezza voce.
-
Non lo hai messo a tacere, Catnip. Molto probabilmente ne hai sviluppato un
altro – dice.
Soppeso
le sue parole, e sto cercando di scovare in me il nuovo istinto che avrei
sviluppato in un imprecisato momento della mia vita quando tutti concentriamo
l’attenzione su Boggs, che ha alzato un dito ad indicare il suo auricolare e ci
intima di fare silenzio. Ascolta attentamente ciò che gli stanno comunicando, e
poi ci ordina di andare via.
-
Bombardieri in arrivo – esclama.
I
minuti successivi sono frenetici.
Sotto
indicazione di Plutarch, cerchiamo di raggiungere di corsa un edificio già
danneggiato, ma ancora in piedi, prima che gli aerei di Capitol City inizino a
bombardare di nuovo questo posto. Secondo lui, questo nuovo attacco non è
improvvisato ma semplicemente programmato in precedenza, al solo scopo di
terminare il lavoro che avevano iniziato stamattina. Non sono qui perché hanno
saputo del mio arrivo. La mia incolumità è ancora protetta, per ora.
Siamo
quasi all’interno dell’edificio quando le prime, forti esplosioni giungono alle
nostre orecchie. La terra trema sotto i nostri piedi per l’impatto delle bombe.
Ci siamo allontanati abbastanza dal luogo dell’esplosione e capisco che
Plutarch ha ragione, di nuovo: non sono qui per me. Stanno colpendo ciò che
resta ancora da colpire al Distretto 8. Ma quando sbircio fuori, una volta
terminata l’ondata, vedo che gli edifici diroccati sono ancora in piedi. C’è
solo un edificio che fuma: l’edificio che neanche dieci minuti fa stavamo
visitando.
L’ospedale.
-
Katniss! – urla Gale quando mi precipito fuori.
-
Soldato Everdeen! – inveisce invece Boggs.
Sono
cosciente di star violando le regole che mi sono state imposte: sto procedendo,
senza alcun tipo di protezione a parte l’uniforme che ho addosso, su un
territorio nemico in cui potrei restare uccisa da un momento all’altro. La
prossima ondata di bombardamenti potrebbe essermi fatale, ma non mi importa.
Non posso restare al sicuro e osservare, in silenzio, mentre colpiscono un
luogo pieno di persone innocenti, e già gravemente ferite.
Non
posso e basta.
Gli
aerei si sono allontanati dopo aver lanciato gli esplosivi, ma li vedo mentre
virano per tornare indietro. Per colpire ancora. Afferro una freccia dalla
faretra, felice di avere a disposizione le nuove armi che Beetee ha fabbricato
e che mi consentono di infliggere seri danni alle forze aeree di Capitol City.
Prendo
la mira e la scaglio. Sull’ala dell’ultimo aereo che chiude la formazione
prendono vita due esplosioni, anche se io ho scagliato una sola freccia nella
sua direzione. Poi sento la presenza di qualcuno al mio fianco. Gale,
naturalmente. L’altra freccia era la sua. E abbiamo colpito lo stesso
bersaglio.
-
Non posso lasciarti infrangere le regole da sola! – esclama, ricaricando la
balestra.
Spari
e colpi di artiglieria riempiono l’aria, oltre alle nostre frecce: io e Gale ci
uniamo alle forze armate dei Ribelli del Distretto 8 per respingere l’attacco
del nemico, il nostro nemico comune. Uno dopo l’altro, gli aerei di Capitol
City crollano a terra od esplodono in aria dopo aver ricevuto i nostri colpi.
Gale mi afferra e mi scaglia a terra, proteggendomi col suo corpo, quando un pezzo
di lamiera fumante viene scagliato verso di noi. Mi faccio male ad un braccio,
cadendo, ma non è nulla in confronto a ciò che avrei potuto subire se Gale non
mi avesse scansata via.
-
Stai bene? – mi chiede, mentre mi aiuta a rialzarmi.
Annuisco.
– Sì – esclamo, e faccio scorrere rapidamente gli occhi lungo il mio corpo per
accertarmene ulteriormente. Sì, sto bene.
Ma
non posso dire altrettanto per chi si trovava all’interno dell’ospedale. Quando
corro per arrivarci davanti, lo trovo completamente in fiamme. Sono talmente
alte da superare il punto in cui, poco fa, si trovava il tetto. Capisco che non
c’è più nulla da fare per i feriti perché anche tutti gli altri, i soldati ed i
pochi medici che sono miracolosamente scampati alla morte, guardano la scena
esterrefatti ed impotenti.
-
No – ansimo. Mi slancio in avanti, ma Gale mi blocca. Mi impedisce di
avvicinarmi ulteriormente alle fiamme anche quando provo ad opporre resistenza.
– No! – urlo, incapace di distogliere gli occhi dall’incendio.
-
Katniss – Cressida chiama il mio nome, si posiziona davanti al mio sguardo e mi
fa cenno di guardarla. Mi fa cenno di ruotare su me stessa, in modo da trovarmi
davanti all’ospedale in fiamme, e capisco di avere le telecamere dei suoi
assistenti puntate addosso. Mi stanno riprendendo. – Il presidente Snow ha
fatto trasmettere il bombardamento in diretta tv. Dice che è un messaggio per i
Ribelli. C’è qualcosa che vorresti dire?
Sì.
Scopro,
effettivamente, di avere qualcosa da dire.
Il
Pass-Pro è stato montato in fretta e furia ed è stato già trasmesso numerose
volte via etere. Da un paio di giorni non parlano di altro, solo del Pass-Pro e
di ciò che ho detto, parlando a tutti i Ribelli di Panem e al presidente Snow,
che so che è riuscito ad avere in qualche modo il video ed ha sentito le mie
parole. A quest’ora saprà che sono ancora viva e che il suo piano di uccidermi
nell’arena dell’Edizione della Memoria è stato un autentico flop.
Trasmettono
il video su tutti gli schermi del 13 in continuazione, quasi senza fermarsi.
All’inizio l’ho trovato elettrizzante e rivedermi sullo schermo, circondata da del
vero fumo e non da quello finto che avevo visto nel video di prova, è stato
strabiliante. Ma dopo la decima replica è diventato solo stancante. La mia
stessa voce ha cominciato a darmi sui nervi.
-
Devo uscire da qui – ho confessato a Gale dopo colazione. Stamattina abbiamo
avuto latte caldo con barbabietole, e già il pasto mi sarebbe bastato per
capire che sarebbe stata una giornata orribile, ma ci si è aggiunta l’ennesima
replica del Pass-Pro a rimarcare l’ovvio.
-
Andiamo a caccia – ha proposto lui.
La
caccia. Fa parte del mio accordo con la presidente Coin:
me ne ero quasi dimenticata.
Recuperiamo
le nostre armi dalla Sezione Armamenti e usciamo all’aria aperta, oltre la
recinzione controllata da alcuni soldati. Ci lasciano passare senza problemi,
cosa totalmente diversa da come siamo sempre stati abituati noi al 12. È
strano, ma è anche bello poter uscire liberamente nei boschi, anche se devi
comunque chiedere il permesso per poterlo fare.
Camminiamo
per un po' in silenzio, guardandoci intorno. Prendo di nuovo familiarità con il
bosco, con la natura che mi circonda. Sono mesi che non esco più a caccia. Sia
io che Gale non andiamo più a caccia da mesi, dal giorno in cui le regole e la
sicurezza cambiarono anche da noi. Fu il giorno in cui provai a convincerlo a
scappare via, per l’enorme paura che provavo al pensiero dello scoppiare della
rivolta. Alla fine siamo riusciti a fuggire entrambi, e la rivolta c’è stata
eccome. È ancora in corso, ed entrambi ne facciamo parte.
Ma
fu anche il giorno in cui Gale venne frustato a sangue dal nuovo Capo dei
Pacificatori, Thread. Fu il giorno in cui Peeta mi chiese, mi implorò quasi, di
smettere di andare a caccia per la paura di ciò che mi sarebbe potuto accadere
se mi avessero beccata lì fuori. Fu il giorno in cui capii davvero quanto forte
fosse il suo amore per me, e me lo dimostrò restando al mio fianco per la
maggior parte della notte, mentre mi teneva un sacchetto di neve premuto sulla
faccia.
Stringo
la perla nella mano, e cerco di recuperare un po' di conforto da questo contatto.
Continuiamo
ad allontanarci ed il ronzio che proviene dagli auricolari che ci hanno dato ci
fa capire che siamo ancora nel raggio di azione che ci è concesso percorrere. Tolgo
il mio e lo lascio penzolare sulla spalla, beandomi dei rumori a cui sono così
abituata e che non credevo mi fossero mancati così tanto. Il fruscio delle
foglie smosse dalla brezza, il lieve rumore della terra smossa sotto le suole
delle nostre scarpe, e l’acqua che scorre non molto lontano da noi. Deve
esserci una sorta di torrente.
Ci
muoviamo silenziosi, talmente silenziosi che il rumore dei nostri passi quasi
non si sente. Sono degli altri passi, quindi, ad annunciarci l’arrivo di
qualcuno. Una preda. Gale la vede prima di me e mi indica col dito la giusta
direzione in cui puntare le armi, alla mia sinistra. Vedo che si tratta di un
cervo maschio, maestoso e magnifico. Ci avviciniamo a lui e continuiamo a farlo
anche quando non c’è più la vegetazione a coprire le nostre figure. Sono pronta
a vederlo scappare via da un momento all’altro, ma il cervo non si muove. Ci ha
visti, ci ha sentiti, ma non scappa. Continua a brucare il terreno, incurante
del pericolo in cui è incappato.
-
Non ha paura di noi – mormoro. Non ho neanche il coraggio di puntargli contro la
mia freccia.
-
Non si è mai sentito minacciato dall’uomo – dice Gale.
Guardo
Gale, poi guardo di nuovo l’animale. Prendo la freccia e la rinfilo nella
faretra che porto sulla schiena, e decido di allontanarmi. Decido di lasciarlo
vivere. Seguo il rumore provocato dall’acqua e dopo un centinaio di metri mi
trovo davanti ad un torrente. Mi avvicino al corso d’acqua, ne raccolgo un po'
nelle mani a coppa per berla, e poi mi siedo sulla riva ad osservare i giochi
di luce che il sole produce sulla superficie. Gale mi raggiunge dopo qualche
minuto.
-
Non è poi così diverso da casa – osserva.
-
No, non è così diverso – ammetto.
Anche
se ci sono così tanti dettagli, a rendere questi boschi così diversi da quelli
di casa. Illudersi del contrario è solo un modo per affrontare la realtà. È
solo un altro modo che il nostro istinto di sopravvivenza mette in atto per
aiutarci ad affrontarla.
Sto
ancora guardando il riflesso dell’acqua quando Gale mi riporta alla realtà. Ed
il mio istinto di sopravvivenza mi ricorda, bruscamente, che la realtà non è un
bel posto dove poter vivere in santa pace.
-
Katniss, ti devo parlare – inizia, ed io capisco già di cos’è che mi vuole
parlare.
-
No – ribatto. Chiudo gli occhi. Deglutisco. – Non dire niente, per favore.
Gale-
-
Non posso più tenermi questo peso sulla coscienza – continua lui, ignorando la
mia richiesta di lasciar perdere. – Ti amo, Katniss. Mi dispiace, ma dovevi
saperlo.
-
Perché me lo stai dicendo proprio adesso? – chiedo. La mia voce si sta di nuovo
rompendo, e scivolo sul terreno cercando di allontanarmi dal suo corpo. – Io
non ti posso amare. Io non… non posso più amare nessuno-
-
Sì che puoi, Katniss. Tu sei capace di amare, e stai ancora amando… solo, non
stai amando me.
-
Perché dirmelo, allora? Se lo sapevi già, perché lo hai fatto? - apro gli occhi
e mi costringo a guardarlo in faccia. Glielo devo, almeno questo. E mi
dispiace, mi dispiace essere la fonte del suo dolore, del suo tormento. Mi
dispiace non poter ricambiare il suo sentimento come invece desidera che io
faccia. Mi dispiace di non poter essere nient’altro che un’amica, per lui.
Gale
mi accarezza il viso con la punta dell’indice mentre un sorriso mesto prende
forma sulle sue labbra. – Non ha senso continuare a lottare contro un mulino a
vento.
-
Mi dispiace tanto – circondo il suo braccio con le mie e poggio il capo sulla
sua spalla. È sbagliato, agire nel modo in cui sto agendo, quando so che Gale
mi ama. Mi sembra quasi di alimentare una falsa speranza, una possibilità che per
noi due non ci sarà mai veramente. Ma ho bisogno di sentirlo vicino, di sentire
che questo macigno che c’è tra di noi non rappresenti un ostacolo per la nostra
amicizia. Ho bisogno di sapere che potrò sempre contare su di lui.
Non
riuscirò mai ad essere meno egoista di così.
-
Mi passerà – mormora, rafforzando la presa sulle mie mani.
Al
nostro ritorno, io e Gale facciamo come prima cosa tappa al piano riservato
alle cucine. Non abbiamo cacciato il cervo, ma mentre tornavamo indietro ci
siamo imbattuti in uno stormo di fagiani e siamo riusciti a farne fuori tre
prima che il resto della truppa spiccasse il volo. Non è molto, considerando il
numero degli abitanti per cui si cucina giornalmente al 13, ma è pur sempre
meglio di niente. I fagiani vengono consegnati direttamente nelle mani di Sae
la Zozza, che da quando è qui lavora nelle cucine. Chissà se il resto dei
cuochi, qui, è venuto a conoscenza del suo piatto forte, quello che propinava agli
abituali frequentatori del Forno. Ma se fosse così l’avrebbero già buttata
fuori a calci… credo.
Mentre
usciamo, il bracciale comunicatore di Gale emette un sonoro “bip bip”.
-
Ci vogliono vedere urgentemente al Comando – dice dopo aver letto il messaggio.
-
Vogliono farci vedere di nuovo il Pass-Pro? – chiedo, sarcastica.
-
Non lo so – mi risponde, e sembra sincero.
Non
abbiamo il tempo per posare le nostre armi, così ce le portiamo dietro fino al
Comando. Ho un déjà-vu quando entro nella stanza e mi sembra di essere tornata
indietro nel tempo, anche se solo di pochi giorni. La sala è gremita di gente,
come l’altra volta, e sono tutti di nuovo riuniti davanti allo schermo. Penso
che si tratti effettivamente del Pass-Pro, o del video di me che parlo con i
feriti del Distretto 8 di cui Cressida parlava tanto mentre tornavamo a casa,
ma sullo schermo televisivo c’è di nuovo Peeta. Proprio come pochi giorni fa.
Ma
non è più lo stesso.
-
Peeta! – urlo. Mi sbraccio fino ad arrivare davanti allo schermo, ed inizio a
piangere.
Non
sembra essere rimasto più nulla del ragazzo di cui mi sono innamorata. I suoi
occhi sembrano spenti e la sua pelle è pallidissima nonostante il trucco che
gli hanno applicato, trucco che non riesce a nascondere le occhiaie violacee ed
i segni scuri sul mento e sulla fronte. Le sue braccia tremano. Non riesco a
vedere le sue mani, ma molto probabilmente tremano anch’esse. È dimagrito tantissimo…
è l’ombra di sé stesso.
-
Cosa gli hanno fatto? – balbetto. – Come… pochi giorni fa…
-
Quel video era vecchio, molto probabilmente – mormora Haymitch, che nel mentre
mi si è avvicinato ed io non sono neanche riuscita a rendermene conto. – Sarà
in questo stato da settimane, ormai.
-
Peeta – mormoro di nuovo, come se lui potesse sentirmi. Ma non può, proprio
come l’altra volta.
C’è
di nuovo Caesar insieme a lui, pronto per un’altra intervista al Ragazzo
Innamorato. Il Ragazzo Innamorato, a cui hanno prosciugato tutta la voglia di
vivere e di amare.
-
Girano delle strane voci su Katniss Everdeen, Peeta. Pare che stia girando dei
Pass-Pro per motivare i Distretti ed incitarli alla rivolta. Cos’hai da dirci
al riguardo? – gli domanda Caesar, teso.
Peeta
non solleva gli occhi mentre risponde. – Qualunque cosa stia facendo, Caesar, non
è in sé – dice, mantenendo un tono di voce basso, ma ben udibile grazie ai
microfoni. – Non sa cosa sta facendo. Qualcuno l’ha costretta a dire, o a fare
quelle cose. Qualsiasi cosa stia facendo, non lo fa per sua scelta.
Qualcuno
dietro di me si fa sfuggire un verso di stizza; la Coin, forse? Non mi volto
per accertarmene. I miei occhi non riescono a staccarsi dal volto sofferente di
Peeta. La mia mano va subito all’incavo dei seni, dove sento la perla a
contatto diretto con la mia pelle. La stringo forte.
-
Pensi che possa essere stata raggirata in qualche modo? Pensi che le abbiano
fatto il lavaggio del cervello?
-
L’hanno fatto a te, il lavaggio del cervello! – esclama qualcuno. Di
nuovo, non mi volto per scoprire chi sia stato.
-
È quello che penso.
-
Cosa vorresti dire a Katniss, Peeta? C’è qualcosa che vorresti comunicarle?
Peeta
annuisce, e finalmente solleva lo sguardo. Una telecamera viene puntata direttamente
sul suo viso e adesso i segni della sua sofferenza sono più evidenti. È un
volto segnato, il suo, e magro. È così magro da far sembrare i suoi occhi azzurri
ancora più grandi. E piange, quando comincia a parlarmi.
-
Non essere sciocca, Katniss. Pensa con la tua testa. Ti hanno trasformata in
un’arma che potrebbe contribuire in modo decisivo alla distruzione
dell’umanità. Se hai una vera influenza, usala per mettere un freno a tutto
questo…
-
Peeta…
-
Non può dire sul serio – mormora Gale.
-
Non è serio, infatti – mormora Haymitch a sua volta. – Sta mentendo. Lo fa per
salvare la vita di questa pazza qui, perché la ama. E continuerà a farlo finché
potrà.
-
E se lo scoprono?
Haymitch
non risponde a Gale. Serve, dopotutto?
Se
lo scoprono, Peeta morirà.
E
sarà solo a causa mia.
___________________________
Sì, sono in ritardo anche
stavolta. Però è soltanto un giorno, dai. Che sarà mai un giorno di ritardo!
*si arrampica sugli specchi*
Voglio aprire queste note
ringraziandovi per come avete accolto il capitolo precedente, in particolare
per la parte finale: avevo davvero paura di aver reso poco convincente il “faccia
a faccia” tra Katniss e Haymitch, ma mi avete davvero tranquillizzata :) grazie
ancora!
Non sono, invece, altrettanto
sicura per il “faccia a faccia” che è accaduto in questo capitolo: Gale che confessa
a Katniss i suoi sentimenti. Doveva arrivare, certo, ma temo di non averlo reso
al meglio. Ho smesso di lavorarci sopra perché altrimenti avrei pubblicato nel
duemilamai, ma non mi soddisfa. Ditemi voi cosa ne pensate :)
Ci sentiamo al prossimo capitolo
:*
D.