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Autore: Deruchette    08/12/2020    2 recensioni
[La storia segue lo svolgersi degli eventi dall'epilogo di "Hunger Games" all'epilogo di "Mockingjay"]
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Katniss e Peeta, gli Innamorati Sventurati del Distretto 12, i vincitori della 74esima edizione degli Hunger Games.
La loro storia è sotto gli occhi di tutti ma solo in pochi sanno che, in realtà, si tratta solo di finzione. La mossa strategica che li ha portati via dall'arena è costretta a continuare anche adesso che il sipario inizia a calare sull'ultima edizione dei giochi.
E se ad un certo punto la finzione si trasformasse in realtà?
Cosa succederebbe se gli Innamorati Sventurati fossero realmente innamorati?
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Dal capitolo 6:
"È evidente, chiaro come il sole, che è tutto cambiato. Che il ragazzo che all’inizio di quest'avventura consideravo un semplice amico, un alleato, adesso è diventato qualcos’altro. Per settimane mi sono chiesta se non fosse sbagliato nei suoi confronti recitare la parte della brava fidanzatina conoscendo la reale portata dei suoi sentimenti, sapendo che io non provavo la stessa cosa. Non sarebbe tutto più semplice se ti amassi?, la domanda che ronzava costantemente nella mia testa.
Ora lo so. Non solo è più semplice, più normale. È diventato anche necessario. Necessario come l’aria che respiro."
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In The Still Of The Night - 29

In the still of the night

 

 

 

 

29.

 

Il giorno dopo, una riunione straordinaria – l’ennesima – viene indetta da Haymitch al solo scopo di mostrare le falle dei Pass-Pro. Preme un tasto sul telecomando che ha in mano e lo schermo di fronte al tavolo della Sala Riunioni si riempie delle mie immagini, o meglio, di quelle che i tecnici e i montatori hanno modificato per farmi sembrare come appena uscita da una battaglia sanguinaria. Mi vedo mentre mi rimetto in piedi e sollevo l’arco verso il cielo. E sento la mia voce scandire, male, lo slogan.
È davvero pessimo, come Pass-Pro. Ed è, ovviamente, tutto il contrario di ciò che vogliono realizzare Plutarch e Fulvia.
Haymitch propone a tutti i presenti di ricordare il momento preciso in cui li ho impressionati, in cui sono riuscita a lasciare il segno nella loro memoria. Non quello in cui il contributo di Peeta riusciva a dipingermi come la migliore fidanzata del mondo, ma quello in cui prevaleva la mia spontaneità al di sopra di tutto il resto. Il mio essere semplicemente me stessa, per usare le parole che Cinna mi ripeteva sempre.
- Quando ha cantato per Rue, mentre moriva – dice Boggs, il braccio destro della Coin.
- Quando si è offerta volontaria alla mietitura per sua sorella! – esclama Effie. Lei era lì quando è successo, l’anno scorso. Ovvio che l’abbia impressionata: prima di me, non c’era mai stato un tributo volontario nel Distretto 12. Già da allora dovevano aver capito che ero un bel casino di tributo.
Si susseguono altri suggerimenti di esempi, alcuni meno eclatanti degli altri, ma ce n’è uno che mi scuote le viscere e mi fa portare le mani alle orecchie per non sentire. È quello in cui mi ricordano mentre canto alla mia bambina, sul palco durante l’ultima intervista con Caesar prima dell’inizio dei giochi.
- Cosa vi fanno capire tutte queste azioni? – taglia corto Haymitch. Lo fa perché sa che non sopporterei di sentire oltre.
- Sono tutte azioni improvvisate. Nessuno ha detto a Katniss cosa fare – risponde Gale, al mio fianco. È sempre al mio fianco.
- Esatto. Quindi, ecco la mia proposta: facciamo scendere in campo la Ghiandaia Imitatrice. Niente set, niente fumo finto e niente copioni: solo lei e la sua improvvisazione.
Ovviamente, l’idea di me su un vero campo di battaglia, con vere armi e con veri scontri a fuoco, non piace a nessuno. Non piace a Plutarch e a Fulvia, che così non possono mettere bocca su nessuna delle cose che faccio e che non possono intervenire se sbaglio qualche mossa. Non piace a Boggs, che pensa a quanto sarà difficile gestire la mia incolumità in mezzo alla vera guerra. E non piace alla Coin, che ha paura di perdere la sua pedina migliore se rimanessi uccisa durante un’imboscata.
- Fate in modo di ottenere un filmato. Si può comunque usare quello – le dico. Così, almeno, la mia morte avrà uno scopo. Forse.
Alla fine, decidono di acconsentire alla proposta di Haymitch e di mandarmi sul campo. Iniziano i preparativi e, dopo poche ore, sono già su un hovercraft, tirata a lucido nella mia uniforme nuova e pronta a recarmi al Distretto 8, dove appena stamattina c’è stato un bombardamento. È stata la Coin a scegliere il luogo, quindi immagino che adesso quel distretto rappresenti uno spazio sicuro e privo di pericoli per quando arriveremo.
Sull’hovercraft, insieme a me, ci sono Gale – ovviamente! -, Boggs, un paio di altri soldati, Haymitch e Plutarch che dirigeranno i nostri movimenti dall’alto e una troupe che effettuerà le riprese del Pass-Pro. Cressida, la regista dalla testa rasata e tatuata a rampicanti verdi, è accompagnata da Messalla, il suo assistente, e da due alti ragazzi, Castor e Pollux, che indossano delle strane apparecchiature per riprendere le immagini.
Appena arriviamo, l’hovercraft si abbassa quel tanto da consentirci di scendere velocemente prima di riprendere quota e tornare ad immergersi tra le nuvole. Resterà nei dintorni, a monitorare sia la nostra sicurezza che i nostri movimenti mentre siamo quaggiù, in mezzo a palazzi mezzo distrutti e baracconi.
Il nostro gruppo così assortito si dirige verso il centro del Distretto, sul luogo del bombardamento avvenuto stamattina. Stanno ancora recuperando i feriti ed i corpi delle vittime, trasportandoli all’interno di un magazzino adibito ad ospedale di fortuna, e davanti a questa scena vengo presa da un senso di vertigine che rende malferme le mie gambe. Improvvisamente, provo di nuovo l’impulso di fuggire via dal dolore e dalla sofferenza, quello che mi invadeva sempre quando a casa entrava un malato bisognoso delle cure di mia madre. Solo che qui, di malati, ce ne sono a centinaia, forse migliaia, e tutte radunate nello stesso punto.
Non posso scappare, tutt’al più quando una donna, che Boggs mi presenta come la comandante Paylor, si avvicina per capire le nostre intenzioni. Mi riconosce, sa chi sono, e sembra sorpresa di vedermi in piedi sulle mie gambe. Scruta la mia figura soffermandosi più del dovuto sulla mia pancia che, appena un mese e mezzo fa, era piuttosto evidente. Di quella pancia, oggi, non è rimasto più niente.
Si schiarisce la voce quando nota l’espressione sulla mia faccia. - Sei viva, allora. Non ne eravamo sicuri – dice.
- Non ne sono ancora sicura nemmeno io – le rispondo, con voce tremante.
Non possiamo fare molto, qui fuori, così la comandante Paylor ci accompagna fino al magazzino/ospedale e ci fa cenno di entrare. Ci fa prima oltrepassare una zona adibita alla disposizione dei cadaveri, nell’attesa che vengano scavate le fosse comuni, e poi scosta una enorme tenda che rivela l’ingresso all’ospedale vero e proprio. Un ospedale straripante di feriti, di sofferenti, di lamenti e di voci imploranti. Ci sono centinaia di persone distese su brande e barelle di fortuna, e medici – troppo pochi – che si aggirano tra le file ed i corridoi che queste brande hanno creato e che cercano di alleviare il dolore di queste povere persone come possono. Alcune persone, gli stessi feriti ricoverati, danno una mano a loro volta per aiutare chi è stato meno fortunato di loro.
Arriccio il naso a causa dell’odore nauseabondo che impregna l’aria. È l’odore della malattia, mischiato a quello della sporcizia e del sudore. Vorrei uscire dall’ospedale e tapparmi il naso con una mano mentre lo faccio, correndo, ma non sono qui per scappare. Non sono qui per mostrare la persona debole e spaventata che la mia facciata ben artefatta cerca di nascondere. Non sono qui per fare la codarda. Sono qui per aiutare queste persone. Sono qui per dimostrare, a chi mi credeva morta, che sono viva. Avanzo tra le file, tra i malati, osservando il dolore che Capitol City ha lanciato alla popolazione dell’8.
Queste persone mi vedono, mi riconoscono, e mi chiamano. Chiamano il mio nome, nonostante le terribili sofferenze che stanno provando, ma la mia sola vista sembra risollevare il loro morale ed il loro spirito offeso. Mi avvicino ad una donna che ha una gamba ferita e le accarezzo una mano, la saluto. Lei me la stringe forte. Poco lontano, un ragazzo con la testa fasciata si alza in piedi sul suo letto e si sbraccia per indicarmi la direzione da prendere. Tantissime persone mi accarezzano e mi toccano le mani mentre cammino in mezzo a loro. L’ultima volta che qualcuno ha compiuto un gesto simile su di me, mi trovavo nella residenza presidenziale per la festa che concludeva il Tour della Vittoria e tutti volevano accarezzare i meravigliosi vestiti della Ragazza di Fuoco, la vincitrice degli Hunger Games. Adesso, invece, tutti vogliono accarezzare l’uniforme della Ghiandaia Imitatrice, il simbolo della rivolta.
Quando cominciano a chiedermi della bambina, sono costretta a confessare loro la verità e non limitarmi solo a fuggire, o ad evitare l’argomento, come ho fatto finora. Per la prima volta da quando è successo, sono io stessa a dire ad alta voce quelle parole spaventose ed è sconvolgente l’ondata di fuoco che mi travolge. È sconvolgente la voracità con cui questo dolore mi investe le membra, ma è in qualche modo anche un sollievo, perché parte di questo fuoco, una piccola ed infinitesima parte del fuoco, sembra scivolare via. Sembra abbandonarmi e forse è solo una mera illusione; la gran parte di esso rimane dentro di me, a gravare sul mio cuore, e non credo che se ne andrà mai del tutto.
- L’ho persa – dico in un mormorio quasi indistinguibile, quando una donna anziana me lo chiede di nuovo. Questa donna anziana raccoglie con le sue mani le lacrime che sono cadute dai miei occhi e circonda poi le mie guance in segno di conforto, annuendo piano. È davvero dispiaciuta per ciò che mi è accaduto.
Tutti sono dispiaciuti per ciò che è accaduto a me e alla mia bimba. Tutti mormorano parole di consolazione e di conforto, e la metà di queste parole sono rivolte anche a Peeta. Perché la perdita è stata anche sua, così come è stata mia. L’abbiamo persa entrambi. Io non sono riuscita a diventare una mamma, e lui non è riuscito ad essere un papà. Dei genitori senza una figlia… è questo ciò che siamo.
Parlano molto di Peeta, parlano dell’intervista straordinaria con Caesar e tutti pensano che stesse mentendo, che non credeva davvero a ciò che diceva. La pensano come me: Peeta è stato obbligato a chiedere il cessate il fuoco. Tutti sperano in lui, così come sperano in me. La solidarietà che dimostrano nei nostri confronti è molto più forte ora di quando venimmo come ospiti durante il Tour della Vittoria, ma allora le circostanze erano molto diverse. Se mesi fa parlavamo a nome di Capitol, a nome del presidente Snow, ed eravamo il simbolo vero e proprio della supremazia della capitale su tutto il resto della nazione, adesso i ruoli si sono invertiti. Adesso parlo a nome dei Ribelli, sono qui per dimostrare la mia lealtà alla rivolta, e a quanto pare sanno che anche Peeta sta facendo lo stesso, nonostante le menzogne.
I ruoli si sono invertiti.
Quando esco dall’ospedale, sono costretta ad accasciarmi lungo la parete ed a prendere dei forti respiri per calmare i miei nervi, che sono rimasti profondamente scossi dalla visita e da tutto ciò che questa ha comportato. Non mi aspettavo nulla del genere. E non mi aspettavo, in nessun modo, che con la mia sola presenza avrei potuto far scaturire un vero fiume di speranza. Capisco che Plutarch e Fulvia, con i loro discorsi strategici, non mi hanno mai mentito. Loro sapevano. Conoscono appieno la forza dell’onda che mi trascino dietro ad ogni passo che compio.

Lei non ha idea dell’effetto che può avere. Le parole di Peeta riecheggiano nella mia mente. Quante volte le ha ripetute in questi mesi? Aveva ragione anche lui. Peeta ha sempre avuto ragione su questo, ed io l’ho sempre rimproverato per ciò che diceva…
Boggs mi si avvicina e mi porge una borraccia, che accetto più che volentieri. – Sei andata alla grande – mi dice mentre prendo un sorso d’acqua.
- Non mi sono sentita male. Questo è già qualcosa – biascico, asciugandomi la bocca col dorso della mano.
- È molto più di “qualcosa”, Katniss! - esclama Cressida, la regista. Lei e Messalla mi informano che hanno raccolto moltissimo materiale con cui poter lavorare una volta tornati alla base, e sembrano entrambi molto soddisfatti.
Anche Gale è rimasto colpito dalla mia performance: a sentire lui, per essere me stessa non avrei dovuto fare ciò che ho fatto, ma scappare via dall’ospedale senza voltarmi indietro. Mi conosce talmente bene da sapere ciò che provoca in me la sofferenza altrui, ed ha visto un sacco di volte com’è che mi comporto appena vedo un malato.
- Volevo farlo, ma ho messo a tacere l’istinto – gli confesso a mezza voce.
- Non lo hai messo a tacere, Catnip. Molto probabilmente ne hai sviluppato un altro – dice.
Soppeso le sue parole, e sto cercando di scovare in me il nuovo istinto che avrei sviluppato in un imprecisato momento della mia vita quando tutti concentriamo l’attenzione su Boggs, che ha alzato un dito ad indicare il suo auricolare e ci intima di fare silenzio. Ascolta attentamente ciò che gli stanno comunicando, e poi ci ordina di andare via.
- Bombardieri in arrivo – esclama.
I minuti successivi sono frenetici.
Sotto indicazione di Plutarch, cerchiamo di raggiungere di corsa un edificio già danneggiato, ma ancora in piedi, prima che gli aerei di Capitol City inizino a bombardare di nuovo questo posto. Secondo lui, questo nuovo attacco non è improvvisato ma semplicemente programmato in precedenza, al solo scopo di terminare il lavoro che avevano iniziato stamattina. Non sono qui perché hanno saputo del mio arrivo. La mia incolumità è ancora protetta, per ora.
Siamo quasi all’interno dell’edificio quando le prime, forti esplosioni giungono alle nostre orecchie. La terra trema sotto i nostri piedi per l’impatto delle bombe. Ci siamo allontanati abbastanza dal luogo dell’esplosione e capisco che Plutarch ha ragione, di nuovo: non sono qui per me. Stanno colpendo ciò che resta ancora da colpire al Distretto 8. Ma quando sbircio fuori, una volta terminata l’ondata, vedo che gli edifici diroccati sono ancora in piedi. C’è solo un edificio che fuma: l’edificio che neanche dieci minuti fa stavamo visitando.
L’ospedale.
- Katniss! – urla Gale quando mi precipito fuori.
- Soldato Everdeen! – inveisce invece Boggs.
Sono cosciente di star violando le regole che mi sono state imposte: sto procedendo, senza alcun tipo di protezione a parte l’uniforme che ho addosso, su un territorio nemico in cui potrei restare uccisa da un momento all’altro. La prossima ondata di bombardamenti potrebbe essermi fatale, ma non mi importa. Non posso restare al sicuro e osservare, in silenzio, mentre colpiscono un luogo pieno di persone innocenti, e già gravemente ferite.
Non posso e basta.
Gli aerei si sono allontanati dopo aver lanciato gli esplosivi, ma li vedo mentre virano per tornare indietro. Per colpire ancora. Afferro una freccia dalla faretra, felice di avere a disposizione le nuove armi che Beetee ha fabbricato e che mi consentono di infliggere seri danni alle forze aeree di Capitol City.
Prendo la mira e la scaglio. Sull’ala dell’ultimo aereo che chiude la formazione prendono vita due esplosioni, anche se io ho scagliato una sola freccia nella sua direzione. Poi sento la presenza di qualcuno al mio fianco. Gale, naturalmente. L’altra freccia era la sua. E abbiamo colpito lo stesso bersaglio.
- Non posso lasciarti infrangere le regole da sola! – esclama, ricaricando la balestra.
Spari e colpi di artiglieria riempiono l’aria, oltre alle nostre frecce: io e Gale ci uniamo alle forze armate dei Ribelli del Distretto 8 per respingere l’attacco del nemico, il nostro nemico comune. Uno dopo l’altro, gli aerei di Capitol City crollano a terra od esplodono in aria dopo aver ricevuto i nostri colpi. Gale mi afferra e mi scaglia a terra, proteggendomi col suo corpo, quando un pezzo di lamiera fumante viene scagliato verso di noi. Mi faccio male ad un braccio, cadendo, ma non è nulla in confronto a ciò che avrei potuto subire se Gale non mi avesse scansata via.
- Stai bene? – mi chiede, mentre mi aiuta a rialzarmi.
Annuisco. – Sì – esclamo, e faccio scorrere rapidamente gli occhi lungo il mio corpo per accertarmene ulteriormente. Sì, sto bene.
Ma non posso dire altrettanto per chi si trovava all’interno dell’ospedale. Quando corro per arrivarci davanti, lo trovo completamente in fiamme. Sono talmente alte da superare il punto in cui, poco fa, si trovava il tetto. Capisco che non c’è più nulla da fare per i feriti perché anche tutti gli altri, i soldati ed i pochi medici che sono miracolosamente scampati alla morte, guardano la scena esterrefatti ed impotenti.
- No – ansimo. Mi slancio in avanti, ma Gale mi blocca. Mi impedisce di avvicinarmi ulteriormente alle fiamme anche quando provo ad opporre resistenza. – No! – urlo, incapace di distogliere gli occhi dall’incendio.
- Katniss – Cressida chiama il mio nome, si posiziona davanti al mio sguardo e mi fa cenno di guardarla. Mi fa cenno di ruotare su me stessa, in modo da trovarmi davanti all’ospedale in fiamme, e capisco di avere le telecamere dei suoi assistenti puntate addosso. Mi stanno riprendendo. – Il presidente Snow ha fatto trasmettere il bombardamento in diretta tv. Dice che è un messaggio per i Ribelli. C’è qualcosa che vorresti dire?

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Scopro, effettivamente, di avere qualcosa da dire.

 

Il Pass-Pro è stato montato in fretta e furia ed è stato già trasmesso numerose volte via etere. Da un paio di giorni non parlano di altro, solo del Pass-Pro e di ciò che ho detto, parlando a tutti i Ribelli di Panem e al presidente Snow, che so che è riuscito ad avere in qualche modo il video ed ha sentito le mie parole. A quest’ora saprà che sono ancora viva e che il suo piano di uccidermi nell’arena dell’Edizione della Memoria è stato un autentico flop.
Trasmettono il video su tutti gli schermi del 13 in continuazione, quasi senza fermarsi. All’inizio l’ho trovato elettrizzante e rivedermi sullo schermo, circondata da del vero fumo e non da quello finto che avevo visto nel video di prova, è stato strabiliante. Ma dopo la decima replica è diventato solo stancante. La mia stessa voce ha cominciato a darmi sui nervi.
- Devo uscire da qui – ho confessato a Gale dopo colazione. Stamattina abbiamo avuto latte caldo con barbabietole, e già il pasto mi sarebbe bastato per capire che sarebbe stata una giornata orribile, ma ci si è aggiunta l’ennesima replica del Pass-Pro a rimarcare l’ovvio.
- Andiamo a caccia – ha proposto lui.

La caccia. Fa parte del mio accordo con la presidente Coin: me ne ero quasi dimenticata.
Recuperiamo le nostre armi dalla Sezione Armamenti e usciamo all’aria aperta, oltre la recinzione controllata da alcuni soldati. Ci lasciano passare senza problemi, cosa totalmente diversa da come siamo sempre stati abituati noi al 12. È strano, ma è anche bello poter uscire liberamente nei boschi, anche se devi comunque chiedere il permesso per poterlo fare.
Camminiamo per un po' in silenzio, guardandoci intorno. Prendo di nuovo familiarità con il bosco, con la natura che mi circonda. Sono mesi che non esco più a caccia. Sia io che Gale non andiamo più a caccia da mesi, dal giorno in cui le regole e la sicurezza cambiarono anche da noi. Fu il giorno in cui provai a convincerlo a scappare via, per l’enorme paura che provavo al pensiero dello scoppiare della rivolta. Alla fine siamo riusciti a fuggire entrambi, e la rivolta c’è stata eccome. È ancora in corso, ed entrambi ne facciamo parte.
Ma fu anche il giorno in cui Gale venne frustato a sangue dal nuovo Capo dei Pacificatori, Thread. Fu il giorno in cui Peeta mi chiese, mi implorò quasi, di smettere di andare a caccia per la paura di ciò che mi sarebbe potuto accadere se mi avessero beccata lì fuori. Fu il giorno in cui capii davvero quanto forte fosse il suo amore per me, e me lo dimostrò restando al mio fianco per la maggior parte della notte, mentre mi teneva un sacchetto di neve premuto sulla faccia.
Stringo la perla nella mano, e cerco di recuperare un po' di conforto da questo contatto.
Continuiamo ad allontanarci ed il ronzio che proviene dagli auricolari che ci hanno dato ci fa capire che siamo ancora nel raggio di azione che ci è concesso percorrere. Tolgo il mio e lo lascio penzolare sulla spalla, beandomi dei rumori a cui sono così abituata e che non credevo mi fossero mancati così tanto. Il fruscio delle foglie smosse dalla brezza, il lieve rumore della terra smossa sotto le suole delle nostre scarpe, e l’acqua che scorre non molto lontano da noi. Deve esserci una sorta di torrente.
Ci muoviamo silenziosi, talmente silenziosi che il rumore dei nostri passi quasi non si sente. Sono degli altri passi, quindi, ad annunciarci l’arrivo di qualcuno. Una preda. Gale la vede prima di me e mi indica col dito la giusta direzione in cui puntare le armi, alla mia sinistra. Vedo che si tratta di un cervo maschio, maestoso e magnifico. Ci avviciniamo a lui e continuiamo a farlo anche quando non c’è più la vegetazione a coprire le nostre figure. Sono pronta a vederlo scappare via da un momento all’altro, ma il cervo non si muove. Ci ha visti, ci ha sentiti, ma non scappa. Continua a brucare il terreno, incurante del pericolo in cui è incappato.
- Non ha paura di noi – mormoro. Non ho neanche il coraggio di puntargli contro la mia freccia.
- Non si è mai sentito minacciato dall’uomo – dice Gale.
Guardo Gale, poi guardo di nuovo l’animale. Prendo la freccia e la rinfilo nella faretra che porto sulla schiena, e decido di allontanarmi. Decido di lasciarlo vivere. Seguo il rumore provocato dall’acqua e dopo un centinaio di metri mi trovo davanti ad un torrente. Mi avvicino al corso d’acqua, ne raccolgo un po' nelle mani a coppa per berla, e poi mi siedo sulla riva ad osservare i giochi di luce che il sole produce sulla superficie. Gale mi raggiunge dopo qualche minuto.
- Non è poi così diverso da casa – osserva.
- No, non è così diverso – ammetto.
Anche se ci sono così tanti dettagli, a rendere questi boschi così diversi da quelli di casa. Illudersi del contrario è solo un modo per affrontare la realtà. È solo un altro modo che il nostro istinto di sopravvivenza mette in atto per aiutarci ad affrontarla.
Sto ancora guardando il riflesso dell’acqua quando Gale mi riporta alla realtà. Ed il mio istinto di sopravvivenza mi ricorda, bruscamente, che la realtà non è un bel posto dove poter vivere in santa pace.
- Katniss, ti devo parlare – inizia, ed io capisco già di cos’è che mi vuole parlare.
- No – ribatto. Chiudo gli occhi. Deglutisco. – Non dire niente, per favore. Gale-
- Non posso più tenermi questo peso sulla coscienza – continua lui, ignorando la mia richiesta di lasciar perdere. – Ti amo, Katniss. Mi dispiace, ma dovevi saperlo.
- Perché me lo stai dicendo proprio adesso? – chiedo. La mia voce si sta di nuovo rompendo, e scivolo sul terreno cercando di allontanarmi dal suo corpo. – Io non ti posso amare. Io non… non posso più amare nessuno-
- Sì che puoi, Katniss. Tu sei capace di amare, e stai ancora amando… solo, non stai amando me.
- Perché dirmelo, allora? Se lo sapevi già, perché lo hai fatto? - apro gli occhi e mi costringo a guardarlo in faccia. Glielo devo, almeno questo. E mi dispiace, mi dispiace essere la fonte del suo dolore, del suo tormento. Mi dispiace non poter ricambiare il suo sentimento come invece desidera che io faccia. Mi dispiace di non poter essere nient’altro che un’amica, per lui.
Gale mi accarezza il viso con la punta dell’indice mentre un sorriso mesto prende forma sulle sue labbra. – Non ha senso continuare a lottare contro un mulino a vento.
- Mi dispiace tanto – circondo il suo braccio con le mie e poggio il capo sulla sua spalla. È sbagliato, agire nel modo in cui sto agendo, quando so che Gale mi ama. Mi sembra quasi di alimentare una falsa speranza, una possibilità che per noi due non ci sarà mai veramente. Ma ho bisogno di sentirlo vicino, di sentire che questo macigno che c’è tra di noi non rappresenti un ostacolo per la nostra amicizia. Ho bisogno di sapere che potrò sempre contare su di lui.
Non riuscirò mai ad essere meno egoista di così.
- Mi passerà – mormora, rafforzando la presa sulle mie mani.

 

Al nostro ritorno, io e Gale facciamo come prima cosa tappa al piano riservato alle cucine. Non abbiamo cacciato il cervo, ma mentre tornavamo indietro ci siamo imbattuti in uno stormo di fagiani e siamo riusciti a farne fuori tre prima che il resto della truppa spiccasse il volo. Non è molto, considerando il numero degli abitanti per cui si cucina giornalmente al 13, ma è pur sempre meglio di niente. I fagiani vengono consegnati direttamente nelle mani di Sae la Zozza, che da quando è qui lavora nelle cucine. Chissà se il resto dei cuochi, qui, è venuto a conoscenza del suo piatto forte, quello che propinava agli abituali frequentatori del Forno. Ma se fosse così l’avrebbero già buttata fuori a calci… credo.
Mentre usciamo, il bracciale comunicatore di Gale emette un sonoro “bip bip”.
- Ci vogliono vedere urgentemente al Comando – dice dopo aver letto il messaggio.
- Vogliono farci vedere di nuovo il Pass-Pro? – chiedo, sarcastica.
- Non lo so – mi risponde, e sembra sincero.
Non abbiamo il tempo per posare le nostre armi, così ce le portiamo dietro fino al Comando. Ho un déjà-vu quando entro nella stanza e mi sembra di essere tornata indietro nel tempo, anche se solo di pochi giorni. La sala è gremita di gente, come l’altra volta, e sono tutti di nuovo riuniti davanti allo schermo. Penso che si tratti effettivamente del Pass-Pro, o del video di me che parlo con i feriti del Distretto 8 di cui Cressida parlava tanto mentre tornavamo a casa, ma sullo schermo televisivo c’è di nuovo Peeta. Proprio come pochi giorni fa.

Ma non è più lo stesso.
- Peeta! – urlo. Mi sbraccio fino ad arrivare davanti allo schermo, ed inizio a piangere.
Non sembra essere rimasto più nulla del ragazzo di cui mi sono innamorata. I suoi occhi sembrano spenti e la sua pelle è pallidissima nonostante il trucco che gli hanno applicato, trucco che non riesce a nascondere le occhiaie violacee ed i segni scuri sul mento e sulla fronte. Le sue braccia tremano. Non riesco a vedere le sue mani, ma molto probabilmente tremano anch’esse. È dimagrito tantissimo… è l’ombra di sé stesso.
- Cosa gli hanno fatto? – balbetto. – Come… pochi giorni fa…
- Quel video era vecchio, molto probabilmente – mormora Haymitch, che nel mentre mi si è avvicinato ed io non sono neanche riuscita a rendermene conto. – Sarà in questo stato da settimane, ormai.
- Peeta – mormoro di nuovo, come se lui potesse sentirmi. Ma non può, proprio come l’altra volta.
C’è di nuovo Caesar insieme a lui, pronto per un’altra intervista al Ragazzo Innamorato. Il Ragazzo Innamorato, a cui hanno prosciugato tutta la voglia di vivere e di amare.
- Girano delle strane voci su Katniss Everdeen, Peeta. Pare che stia girando dei Pass-Pro per motivare i Distretti ed incitarli alla rivolta. Cos’hai da dirci al riguardo? – gli domanda Caesar, teso.
Peeta non solleva gli occhi mentre risponde. – Qualunque cosa stia facendo, Caesar, non è in sé – dice, mantenendo un tono di voce basso, ma ben udibile grazie ai microfoni. – Non sa cosa sta facendo. Qualcuno l’ha costretta a dire, o a fare quelle cose. Qualsiasi cosa stia facendo, non lo fa per sua scelta.
Qualcuno dietro di me si fa sfuggire un verso di stizza; la Coin, forse? Non mi volto per accertarmene. I miei occhi non riescono a staccarsi dal volto sofferente di Peeta. La mia mano va subito all’incavo dei seni, dove sento la perla a contatto diretto con la mia pelle. La stringo forte.
- Pensi che possa essere stata raggirata in qualche modo? Pensi che le abbiano fatto il lavaggio del cervello?
- L’hanno fatto a te, il lavaggio del cervello! – esclama qualcuno. Di nuovo, non mi volto per scoprire chi sia stato.
- È quello che penso.
- Cosa vorresti dire a Katniss, Peeta? C’è qualcosa che vorresti comunicarle?
Peeta annuisce, e finalmente solleva lo sguardo. Una telecamera viene puntata direttamente sul suo viso e adesso i segni della sua sofferenza sono più evidenti. È un volto segnato, il suo, e magro. È così magro da far sembrare i suoi occhi azzurri ancora più grandi. E piange, quando comincia a parlarmi.
- Non essere sciocca, Katniss. Pensa con la tua testa. Ti hanno trasformata in un’arma che potrebbe contribuire in modo decisivo alla distruzione dell’umanità. Se hai una vera influenza, usala per mettere un freno a tutto questo…
- Peeta…
- Non può dire sul serio – mormora Gale.
- Non è serio, infatti – mormora Haymitch a sua volta. – Sta mentendo. Lo fa per salvare la vita di questa pazza qui, perché la ama. E continuerà a farlo finché potrà.
- E se lo scoprono?
Haymitch non risponde a Gale. Serve, dopotutto?
Se lo scoprono, Peeta morirà.

E sarà solo a causa mia.

 

 

 

 

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Sì, sono in ritardo anche stavolta. Però è soltanto un giorno, dai. Che sarà mai un giorno di ritardo! *si arrampica sugli specchi*
Voglio aprire queste note ringraziandovi per come avete accolto il capitolo precedente, in particolare per la parte finale: avevo davvero paura di aver reso poco convincente il “faccia a faccia” tra Katniss e Haymitch, ma mi avete davvero tranquillizzata :) grazie ancora!
Non sono, invece, altrettanto sicura per il “faccia a faccia” che è accaduto in questo capitolo: Gale che confessa a Katniss i suoi sentimenti. Doveva arrivare, certo, ma temo di non averlo reso al meglio. Ho smesso di lavorarci sopra perché altrimenti avrei pubblicato nel duemilamai, ma non mi soddisfa. Ditemi voi cosa ne pensate :)
Ci sentiamo al prossimo capitolo :*

D.

   
 
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