Anime & Manga > Bungou Stray Dogs
Segui la storia  |       
Autore: ffuumei    14/12/2020    2 recensioni
Nakajima Atsushi lo guardava da lontano, un po' come fanno i gatti con gli estranei.
Anche lui guardava Nakajima Atsushi da lontano, solo che la parte del gatto selvatico che non si fida degli estranei gli riusciva decisamente meglio.
A volte, però, le cose non vanno come avevi immaginato. Akutagawa Ryuunosuke lo sapeva bene.
(sskk + side!skk)
Genere: Hurt/Comfort, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Atsushi Nakajima, Chuuya Nakahara, Osamu Dazai, Ryuunosuke Akutagawa
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



"Ah, merda- non riesco più a muovere un muscolo..."

Alla fine, Atsushi lo aveva tirato su di peso e avevano iniziato a correre lontano, insieme, perché non ce la facevano più a lottare. Quei ragazzi erano più grandi di loro, in numero maggiore, meglio piazzati e sicuramente più in forze - almeno, se paragonati ad Akutagawa, che adesso non solo non riusciva più a muovere un muscolo, ma i muscoli proprio non se li sentiva. Non riusciva a percepire neanche il resto del suo corpo, come se fosse stato separato con la forza dalla sua coscienza.

Il respiro pesante, gli arti abbandonati lungo il busto, Akutagawa rimaneva in silenzio a contemplare il vicolo in cui si erano nascosti, stremati dalla fuga, esausti dalla battaglia, e avevano deposto le armi, cedendo alla stanchezza. Erano entrambi seduti per terra, sull'asfalto. Atsushi lo teneva ancora vicino a se, con un braccio sulla sua spalla; era molle e debole, la sua presa, ma pur sempre lì, salda. 

"Vieni con me, se non curi le tue ferite si infetteranno. Questa volta non accetto un no come risposta."

Akutagawa sbirciò nella sua direzione. Atsushi aveva un sopracciglio rotto e un rivolo di sangue lungo il mento, tutti i vestiti sgualciti e rovinati, eppure quei suoi occhi erano ancora limpidi, mentre ricambiavano il suo sguardo e gli dedicavano un sorriso un po' sbilenco.
Non sapendo cos'altro rispondergli, si limitò ad annuire, senza neppure sforzarsi di rendere evidente quel gesto. Era troppo stanco per opporre qualsiasi tipo di resistenza.

Lungo la strada, con Atsushi che si ostinava a voler essere il supporto delle sue membra intorpidite e sofferenti, Akutagawa si chiese come fosse possibile che, mentre tutti lo guardavano dall'alto al basso, lo giudicavano, lo insultavano per le pessime condizioni in cui si trovava - mentre il mondo gli puntava il dito contro e lo spingeva a rintanarsi nel suo buco, come una bestia in gabbia che può solo sfoderare gli artigli, senza riuscire a mordere nessuno - Atsushi, invece, gli rivolgesse quel sorriso a metà, timido e incerto, ma anche determinato e sicuro di se, di quello che stava facendo, e come fosse possibile che i suoi occhi non vedessero naufragi, che restassero sempre limpidi e cristallini, anche quando riflettevano il mare d'acqua torbida nei suoi.

Dopo un po', camminando piano, in silenzio, arrancarono davanti al portone socchiuso di un palazzo grigio. Atsushi spinse la maniglia con il braccio libero e, sostenendosi a vicenda, salirono le scale che conducevano verso gli appartamenti all'interno.

"Casa mia non è un granché," disse poi, di punto in bianco, "in realtà non è neanche mia, sono in affitto. È un monolocale," parlava senza guardarlo, come se si vergognasse, mentre tirava fuori un mazzo di chiavi, "ma dovrei avere tutto quello che ci serve."

Non era un granché, aveva ragione: con un'occhiata veloce, persino al buio, Akutagawa aveva già visto tutto quel che c'era da vedere. Il bagno sulla destra, la cucina sulla sinistra, un mobile pieno di cassetti e scomparti subito accanto, un tavolo al centro e un letto singolo addossato alla parete opposta. Tutto qui. L'ambiente era essenziale, privo di decorazioni di alcun tipo, spoglio e quasi anonimo - ma l'aria che si respirava era tiepida e sapeva di vissuto.

Atsushi accese la luce, si tolse il giubbotto e lo appese all'ingresso, poi sparì quasi subito in bagno, chiudendosi la porta alle spalle come se temesse che lo sguardo inquisitorio di Akutagawa potesse seguirlo fino a lì. Akutagawa, dal canto suo, fu invitato ad accomodarsi e a "fare come se fosse a casa sua", nell'attesa che l'altro si fosse fatto la doccia. Perciò rimase in piedi, lì dove Atsushi lo aveva lasciato, stringendosi nel cappotto nero che lo proteggeva dalle ostilità del tempo e del mondo.

Il suo sguardo continuò a vagare per quella singola stanza spoglia, alla ricerca di qualche dettaglio che potesse catturare la sua attenzione ed intrattenerlo per qualche minuto. Tre faretti sul soffitto illuminavano ora i ripiani della cucina, con una serie di utensili ordinatamente appesi; c'era una massa informe di coperte e cuscini sul letto addossato alla parete, alcuni lembi di stoffa sfioravano le piastrelle del pavimento, pulite; sul tavolo era stesa una tovaglia semplice, a quadretti rossi e bianchi, invece la finestra in fondo alla stanza non aveva le tende: dava su un angolo di città che Akutagawa non era in grado di riconoscere, da quella posizione, e la notte era in procinto di reclamare a se tutte le luci che illuminavano i tetti delle case, in lontananza.

Quando l'acqua smise di scorrere, dal bagno provennero una serie di fruscii e il rumore di qualcosa che cadeva rovinosamente a terra, seguito da imprecazioni soffocate. Dopo qualche minuto di silenzio e passi frenetici, la porta si aprì e Atsushi apparì timidamente, un paio di asciugamani in grembo, i capelli ancora bagnati e appiccicati alla fronte, le guance tutte rosse e accaldate, scalzo, con un paio di pantaloni della tuta e una felpa con una tigre stilizzata stampata davanti.

"Eccomi, ci ho messo un po', è che stavo cercando-- ma sei ancora lì?"

Akutagawa sbatté le palpebre, perplesso, "dovevo andare via?" 

"No, no, assolutamente no!" Atsushi sospirò, prima di ridacchiare, "ma non mi aspettavo di trovarti ancora in piedi, con il cappotto, le scarpe e tutto e- insomma, potevi almeno sederti."

Akutagawa diede un'occhiata al letto disfatto, con le coperte che minacciavano di cadere sul pavimento da un momento all'altro, trascinandosi dietro anche i cuscini.

"Ah--" a quel punto, Atsushi parve realizzare chissà cosa, agitandosi, "facciamo così: tu ora vai a farti la doccia - è tutto pronto, tieni, questi sono i tuoi asciugamani e un cambio di vestiti, dentro troverai tutto quello che ti serve - e intanto io sistemo la confusione che ho lasciato. Non pensavo che avrei avuto ospiti oggi- in realtà, non ho mai ospiti, quindi non mi preoccupo troppo dello stato in cui lascio le mie cose--"

C'erano anche le sedie del tavolo, se volevo sedermi, pensò Akutagawa, tra se e se, che bisogno hai di agitarti tanto per un paio di coperte fuori posto?

"Posso?" Chiese invece, guardando gli asciugamani che gli erano stati praticamente buttati addosso.

"Certo che puoi," gli sorrise in risposta, "te l'ho proposto io."

Akutagawa non se la sentiva di rifiutare, non dopo tutto quello che era successo. E poi - ma questo non l'avrebbe mai ammesso - non si lavava come si deve da troppo tempo, perciò non gli dispiacque l'idea di farsi una doccia gratis, almeno per quella volta.

Quando si tolse il cappotto nero, la camicia, i pantaloni, le calze, le scarpe, si sentì libero e profondamente vulnerabile, al contempo. L'acqua tiepida bruciava sulla sua pelle fredda, solcava il suo corpo e raggirava le sue ossa sporgenti, levigandolo come una pietra in un torrente. Privato delle sole, uniche cose che gli erano rimaste, Akutagawa si stava lavando via di dosso i segni della vita che aveva condotto, lo sporco che appesantiva i suoi movimenti, e si sentiva libero, come se avesse finalmente deciso di posare a terra il suo pesante bagaglio, al termine di un pellegrinaggio interminabile. Tuttavia, spogliato di quelle poche cose che gli erano rimaste, nudo sotto la doccia, in un bagno che non era il suo, in un appartamento che non gli apparteneva, Akutagawa si sentiva vulnerabile, esposto a quell'acqua tiepida che desiderava e da cui fuggiva, al contempo, non più abituato a percepirla, spaventato dalle conseguenze che avrebbe potuto lasciare sulla sua pelle.

Nel giro di una manciata di minuti, non di più, spense il getto della doccia e poi si asciugò in fretta, mettendosi infine i panni che Atsushi gli aveva gentilmente prestato (si chiese come avrebbe fatto a restituirglieli: doveva toglierseli prima di andare via da casa sua, altrimenti non avrebbe avuto modo di lavarli e riconsegnarglieli puliti). Quando uscì anche lui dal bagno, aveva indosso un paio di pantaloni larghi e neri, morbidi al tatto, e una maglietta bianca, semplice, priva di scritte o di stampe bizzarre. Teneva tra le braccia i suoi vecchi vestiti logori e il cappotto pesante, ripiegato con cura.

"Dalli a me, dopo li metto in lavatrice," Atsushi tese le braccia, come per prendergli le cose dalle mani, ma Akutagawa fece due passi indietro, irrigidendosi e guadagnandosi un'occhiata stranita da parte del ragazzo, "non vuoi?" 

"No, è che- aspetta," Akutagawa frugò nelle tasche dei suoi vecchi pantaloni, reggendo il resto dei vestiti con l'altro braccio, e ne estrasse il cellulare scarico e la fotografia che custodiva gelosamente, "ecco, adesso va bene."

Atsushi continuava ad essere stranito e perplesso, guardava prima Akutagawa e poi gli oggetti che stringeva tra le mani - ma non disse nulla, mentre prendeva con cura i suoi vestiti e li appoggiava sul mobiletto del bagno.

"Vediamo un po', dove l'avrò messo..." si lamentava, cercando qualcosa di sconosciuto ad Akutagawa, da qualche parte nel bagno, "eccolo!" 

E così, Atsushi chiuse definitivamente la porta di quella piccola stanza, portandosi dietro una valigetta del pronto soccorso.

"Non abbiamo delle ferite così tanto gravi. Basterà un cerotto, al massimo," protestò Akutagawa.

"Stai zitto, sei a casa mia, qui decido io." 

Nonostante le parole dure e quella spinta poco aggraziata che lo fece cadere sul letto, con le spalle al muro - Atsushi gli sorrise quasi subito, giocosamente, come se l'intera situazione lo stesse divertendo. Effettivamente, quando prese un batuffolo di cotone per applicare il disinfettante sui tagli che aveva sul viso, a vedere le sue smorfie per il fastidio e il bruciore, pareva proprio che si stesse divertendo. Akutagawa avrebbe voluto dargli un pugno, ma ne avevano presi già a sufficienza (per quel giorno, almeno).

"Okay, abbiamo quasi finito," esordì Atsushi, esaminando con attenzione il suo viso. Da così vicino, Akutagawa poteva vedere le rughe di espressione sulla sua fronte, la punta del suo naso, leggermente curvata all'insù, e le sue labbra rosee, appena dischiuse (non l'avrebbe mai ammesso, ma con Atsushi avrebbe giocato volentieri più e più volte al malato e all'infermiere, magari invertendo i ruoli, chissà - era talmente assorto, studiava i suoi lineamenti come un erudito, ignaro di non essere l'unico appassionato, in quella stanza). 

Atsushi annuì, tra se e se, soddisfatto del suo lavoro con le ferite sul viso di Akutagawa. A quel punto, fece scorrere le dita sulle sue braccia scarne e piene di lividi, fino a prendergli le mani tra le sue. 

"Dovresti avere più cura di te stesso," gli disse, sfiorando il perimetro delle ferite sulle sue nocche con il pollice.

Akutagawa spostò lo sguardo dal suo viso alle loro mani. "Anche tu sei ferito. Guarda," con l'indice pulì il rivolo di sangue che stava colando, come un serpente scarlatto, sul dorso della mano di Atsushi. Lui rise appena, seguendo i suoi movimenti con gli occhi.

"Ci siamo ridotti abbastanza male, prima."

"Nakajima." 

Le loro mani erano tese ora, ancora le une nelle altre, come se le avessero dimenticate entrambi lì. 

"Sì?" 

"Grazie."

Akutagawa gliel'aveva detto guardandolo fisso, serio e impassibile. Finalmente, pensò, finalmente ho trovato quelle parole che avrei dovuto dirti sin dall'inizio. Ora posso andare avanti, senza più alcun rimorso.

Ma Atsushi, dopo un attimo di silenzio in cui aveva soltanto sbattuto le palpebre, reggendo il suo sguardo serio, scoppiò a ridere senza contegno.

"Se me lo dici con quella faccia non riesco a prenderti sul serio- sembri un cane bastonato--" era evidente che volesse un'altra serie di pugni, non c'era altra spiegazione razionale per quell'affermazione infelice, secondo il ragionamento logico di Akutagawa, "potresti sorridere un po', ogni tanto, sai?"

A quel punto, Akutagawa distolse lo sguardo, aggrottando le sopracciglia sottili, "perché mai dovrei farlo?" 

"Potresti, non è che devi," Atsushi si asciugò le lacrime ai lati degli occhi, "ma non ha importanza ora, e comunque-" prese un respiro e le sue guance assunsero un tono più roseo, quando gli rivolse un timido sorriso, "non devi ringraziarmi di niente, ho fatto solo quello che volevo fare."



La lista di cose che sapeva di Atsushi, ormai, era composta da talmente tanti punti che sarebbe stato impossibile elencarli tutti. Si trattava pur sempre di sciocchezze, di dettagli futili - perché Atsushi non parlava mai di se e Akutagawa non se la sentiva di chiedere, perché lui stesso non avrebbe voluto rispondere a domande tanto dirette e troppo personali - ma ciò che lo incuriosì di più, quella sera, fu la sua incredibile incapacità di trattare gli ospiti.

Akutagawa, per qualche ragione sconosciuta persino a se stesso, si era convinto che Atsushi, nella sua vita, fosse sempre stato circondato da amore, affetto, comprensione, accettazione - da persone che gli avrebbero voluto bene lo stesso, non importava quanti errori avesse compiuto. Eppure, mentre lo osservava ingegnarsi per salvare il riso che minacciava di incollarsi alla pentola, con una spatola di qua e un mestolo di là, a girare le verdure nella padella, tutto questo con le spalle inequivocabilmente rigide come il marmo - era teso, irrimediabilmente teso, come il manico dell'utensile di legno che teneva in mano - Akutagawa si domandò se non si fosse sbagliato, per tutto questo tempo. D'altronde, se anche un soggetto singolare come Dazai Osamu, alla fine dei conti, aveva rivelato di possedere un lato profondo, serio e pensieroso, non c'erano più tante altre cose che sarebbero riuscite a stupirlo.

"È quasi pronto!"

La parte divertente era che, in quella bizzarra situazione, Atsushi ci si era infilato da solo. Akutagawa, dopo averlo aiutato a rimettere a posto la valigetta del pronto soccorso, aveva detto che se ne sarebbe andato, ma lui lo aveva preso per il braccio, insistendo perché rimanesse almeno per cena. E si era rifiutato di ricevere aiuto in cucina, dando libero spettacolo delle sue pessime abilità culinarie sotto pressione.

"Ecco," esordì, voltandosi verso Akutagawa, già seduto, per posare le cose al centro del tavolo, "non fare complimenti--" quasi inciampò sui suoi stessi piedi, rischiando di rovesciare tutto sul pavimento. 

A cosa, alla cena mezza bruciata o a quanto sei goffo? ma Akutagawa non avrebbe mai dato voce ad un pensiero simile (non quando qualcuno gli aveva gentilmente offerto la doccia, le cure, la cena e qualche ora al riparo dal freddo dell'inverno, in ogni caso - senza contare la rissa in cui era intervenuto, risparmiando ad Akutagawa ferite ben peggiori di quelle superficiali che si erano fatti entrambi).

Atsushi divise il contenuto delle pentole in due porzioni identiche, riempiendo prima il suo piatto e poi il proprio. Akutagawa si sentiva come i cani davanti alle bistecche, con la salivazione a livelli estremi, e il suo stomaco faceva male per quanto bramava ricevere qualcosa con cui quietare la corrosiva azione dei succhi gastrici, ma cercò di darsi un contegno. Non avrebbe mai voluto sembrare ancora più patetico di così. 

Mentre mangiavano, nessuno dei due disse molto. Atsushi si assicurò che il pasto da lui cucinato fosse quantomeno commestibile e ricevette in risposta soltanto un grugnito. Akutagawa chiese se poteva avere un tovagliolo per pulirsi, perché Atsushi si era dimenticato di metterli sulla tavola. Niente di importante. 

Poco più tardi, però, quando Atsushi si alzò per fare il caffè e gli servì una tazzina già zuccherata (e quella probabilmente era la cosa più galante e a modo che gli avesse visto fare fino ad ora, ma non lo disse ad alta voce: la probabilità che desse fuoco alla cucina era ancora assai elevata, dati i suoi trascorsi come apprendista al bar di Chuuya), Akutagawa cedette alla curiosità. 

"Come mai è così dolce?" 

Atsushi parve preso alla sprovvista. "Cosa?"

"Il cappuccino. Anche il caffè," precisò, facendo oscillare il liquido nella tazzina, "perché?" 

"Oh," si ricompose, "quello..." parve pensarci su per un attimo, come se non sapesse cosa dire, o come dire ciò che avrebbe voluto esprimere, "sai, lo zucchero viene considerato un bene di lusso. Difficilmente si trova, quando non sei molto fortunato. E se si trova, a quel punto dipende tutto da quanto sei veloce a prendertelo, prima che finisca. Ora che posso permettermelo senza problemi, non riesco a farne a meno." 

Girava distrattamente il cucchiaino nella tazzina.

Akutagawa volle azzardare. 

"Orfanotrofio?" 

Atsushi alzò lo sguardo all'istante.

"Come fai a saperlo?" 

Sollevò un angolo della bocca, in un sorriso più ironico che sincero, "ci ho vissuto anche io, per un po'." 

In realtà, non c'era alcuna ironia nella sua espressione. Solo lo stupore sincero per una scoperta che mai avrebbe immaginato, se fosse tornato indietro a quei giorni in cui si sedevano sul marciapiedi, nell'angolo di strada, davanti al bar. Il problema di Akutagawa era che non aveva più tanta dimestichezza con il linguaggio corporeo, la colpa probabilmente era di tutto il tempo trascorso da solo, a vivere di stenti.

Atsushi posò la tazzina sul tavolo, poi rise piano. Era una risata un po' triste.

"Non so perché, ma immaginavo che avessimo qualcosa in comune."

Forse, quella curiosa attrazione magnetica che coesisteva tra i loro sguardi, dipendeva da questo. O, forse, si era trattato di una banale coincidenza, di un assurdo scherzo nell'assurda vita di entrambi.

"Quando ero là," cominciò Atsushi, guardandosi le dita delle mani, "non ricordo di aver vissuto nemmeno un giorno felice. Gli altri bambini si prendevano gioco di me, mi facevano i dispetti, mi prendevano a botte, anche- e il direttore dell'orfanotrofio non era un uomo gentile. Continuava a dirmi che ero inutile, che ero un debole, perché mi lasciavo maltrattare senza reagire- piangevo e basta, aspettando che quella tortura finisse. E non dormivo la notte, perché avevo paura- avevo paura che qualcuno venisse e mi torturasse ancora, avevo paura di addormentarmi perché vedevo solo incubi nei miei sogni. Poi," si toccava nervosamente le dita, mentre parlava, "poi, una famiglia gentile ha scelto di adottarmi. Ero piccolo, non avrò avuto più di sette anni, e pensavo che quello fosse il mio primo ricordo felice.

"Come tutte le cose belle, però, anche quello non è durato molto. Mio padre e mia madre - avrei voluto chiamarli così, ma non ci sono mai riuscito sinceramente - hanno cominciato a dirmi le stesse cose. Anche per loro io ero un debole che non reagiva, che rimaneva a testa bassa, che non sapeva prendere in mano la sua vita e farne qualcosa di decente," aveva gli occhi lucidi, "è per questo che me ne sono andato, appena ho concluso gli studi. Ho aspettato di trovare un posto dove stare e un lavoro che mi assicurasse di avere abbastanza soldi per vivere. Volevo dimostrare a tutti che non sono debole, che non sono un vigliacco, che ho la forza di reggermi sulle mie gambe e di prendere in mano la mia vita, da solo."

"Pensi di esserci riuscito?" 

Atsushi sollevò lo sguardo solo in quel momento.

"Continuo a provarci. Lo vedi. Sono un disastro e la maggior parte di ciò che ho adesso lo devo alla fortuna di aver incontrato Chuuya e Dazai. Senza di loro, forse... forse, non ce l'avrei fatta."

Akutagawa bevve un sorso di caffè. Poi, posata la tazzina sul tavolo, tirò fuori dalle tasche il cellulare scarico e quella foto che conservava con tanta cura. Mise il telefono accanto al caffè e tenne la foto tra le mani, delicatamente, come se potesse disintegrarsi da un momento all'altro e diventare polvere. 

"Noi siamo stati adottati quando eravamo un po' più grandi. L'orfanotrofio non era il miglior posto al mondo, ma non stavamo male. Avevamo degli amici. Non è stato facile andare via. I nostri nuovi genitori - anche noi facevamo fatica a chiamarli mamma e papà, all'inizio - erano due brave persone. Nostro padre riempiva mia sorella Gin di attenzioni e mi portava ovunque, con se. Mi ha anche insegnato a suonare la chitarra, quella che avevo era la sua. Nostra madre, invece, era una donna piuttosto austera e rigida, ma a suo modo ci voleva bene. Qui," mostrò la fotografia ad Atsushi, lasciando che la prendesse tra le sue mani, "eravamo in vacanza. È uno dei ricordi più felici che ho. Vale più di qualsiasi somma di denaro, più di qualsiasi quantità di zucchero al mondo," Atsushi sorrise, ma non seppe se per il sottile umorismo o perché stava osservando con cura le espressioni buffe che avevano Akutagawa e la sua famiglia in quella fotografia (lui e Gin erano seduti su una panchina, c'era un parco divertimenti sullo sfondo e un uomo stava pizzicando le guance ad entrambi i bambini, da dietro - e intanto, una donna distoglieva lo sguardo, apparentemente infastidita, ma teneva ugualmente stretta la manina della piccola Gin).

"Però, come tutte le cose belle, anche questo non è durato a lungo. Se ne sono andati in un tragico incidente," Atsushi posò la fotografia, riportando il suo sguardo su di lui, le labbra schiuse e gli occhi di nuovo lucidi, "e io e Gin siamo rimasti di nuovo soli. Questa volta eravamo già adolescenti. I parenti dei nostri genitori hanno accettato di farsi carico di noi, ma non è stato così semplice. La zia non era mai a casa e lo zio ci faceva sentire come se fossimo un peso, un fardello che era stato obbligato a caricarsi sulle spalle. Non lo ha mai detto chiaramente, ma queste sono cose che si vedono, che si sentono- e io non volevo restare in una casa che non era più la mia, in un posto che mi faceva sentire come un ladro, un parassita."

Akutagawa bevve l'ultimo sorso di caffè, sotto lo sguardo scosso di Atsushi. 

"E poi, cos'è successo?" 

"Poi," riprese, "me ne sono andato. Non ce la facevo più a restare lì. Ho promesso a mia sorella che sarei tornato a prenderla, che le avrei dato tutto ciò che meritava e che in quella casa non c'era più." Rimase un attimo in silenzio, assaporando lo zucchero sulle sue labbra, mentre si mescolava con l'amaro delle sue parole. "Non so quando, ma io ce la farò. L'ho promesso. Dimostrerò che sono forte abbastanza da reggermi sulle mie gambe e andare avanti. Quando richiamerò mia sorella, sarà solo per dirle che sto andando a prenderla, che la riporterò a casa."

Atsushi spinse la fotografia di nuovo verso di lui, tra le sue mani. Il dolce sorriso di Gin era ancora lì, impresso per sempre sulla carta, immortalato in un attimo eterno. Anche quei suoi stessi occhi grandi e scuri che, vispi e curiosi, guardavano dritti nell'obbiettivo della fotocamera, non sarebbero svaniti nel corso del tempo. Sarebbero rimasti lì, su quella fotografia, insieme a tutte quelle cose che non avrebbe mai dimenticato.

A quel punto, per qualche strana ragione, Akutagawa cercò lo sguardo di Atsushi. Come se avesse chiamato il suo nome, Atsushi rispose subito, e i loro occhi ora si riflettevano gli uni negli altri, acque limpide e torrenti torbidi si mescolavano insieme, nel silenzio. 

Non potevano saperlo, nessuno dei due, se il loro incontro aveva un senso, se c'era un significato nascosto dietro a quel gioco di occhi che scappano e che si riprendono, persino seduti a quel tavolo, davanti a due caffè dolci tanto quanto cucchiaini di miele. Forse erano solo due stupidi gatti che avevano giocato a nascondino per troppo tempo, finendo per acchiapparsi all'unisono, stanchi di nascondersi.



Dopo un po', Atsushi aveva sentito la necessità di smorzare quell'atmosfera particolare che si era creata tra di loro. Akutagawa si chiese se anche lui riuscisse a sentire la stessa pressione, la stessa pesantezza di quei ricordi che, tornati a galla, difficilmente venivano ricacciati nelle profondità del lago da dove erano riemersi. La condivisione scalda il cuore e allevia quel peso, ma non è in grado di cancellare alcunché. Si tratta di un sollievo fragile, momentaneo.

"Oh, guarda cosa ho trovato!"

Atsushi stava rovistando da un po' nei cassetti del mobile accanto alla cucina, tra i vestiti e i libri e le cianfrusaglie varie - sorprendentemente, tutto ciò che non era visibile dall'esterno, in quel monolocale anonimo e spoglio, si trovava al suo interno, se si aveva la pazienza di mettersi a cercare. E Atsushi aveva trovato un vecchio giradischi tutto pieno di polvere e ingiallito dal tempo, sommerso da una marea di altre cose.

"Penso che sia del proprietario dell'appartamento. Mi aveva detto di non fare caso a ciò che avrei potuto trovare in giro, ma questo non me lo sarei mai aspettato- guarda, ci sono un sacco di vinili!" 

Sembrava un bambino in un negozio di caramelle. Akutagawa lo guardava dal lavello della cucina - aveva insistito per lavare almeno i piatti, in segno di riconoscenza - e pensò che non fosse così male, quel suo lato ancora infantile. Era leggero, fresco - di gran lunga migliore del suo viso affranto, quando si autocommiserava per ogni singolo errore commesso, e dei suoi occhi lucidi di tristezza.

Tuttavia, dovette ricredersi fin troppo presto, perché Atsushi aveva trovato questo vinile troppo bello (di un certo F. R. David, datato 1983), che doveva assolutamente ascoltare e adesso stava trascinando Akutagawa, con ancora i guanti di plastica addosso, al centro della stanza. Non servì a nulla dimenarsi: la presa di Atsushi era particolarmente decisa a non lasciarlo fuggire.

"Rimani con me," gli aveva chiesto, tirandogli il braccio, "solo un altro po'." 

E Akutagawa, per l'ennesima volta, non se l'era sentita di opporre resistenza nei suoi confronti. Per quanto fosse riluttante a fare qualsiasi cosa il ragazzo volesse fare - e intanto stava sistemando la puntina sul disco in vinile, facendo attenzione a non graffiarlo - la realtà era che il freddo delle notti d'inverno era bello solo se trascorso al caldo, nel tepore di una piccola stanza, in compagnia di qualcuno con cui lasciare che il tempo scorra.

 
Words don't come easy to me
How can I find a way
to make you see I love you?
Words don't come easy.

Atsushi prese a canticchiare la melodia oscillando il capo a destra e a sinistra, a ritmo, come se conoscesse quella canzone da una vita intera. Akutagawa non l'aveva mai ascoltata prima d'ora e non aveva la più pallida idea di cosa fare, con Atsushi che si era sciolto i muscoli delle spalle solo per cominciare a saltellare di qua e di là, in maniera sconclusionata e piuttosto imbarazzante (che fosse una strana specie di danza propizia per esorcizzare la negatività nelle stanze chiuse?).

Eppure, quando Atsushi si voltò verso di lui, con tutti i capelli scompigliati e il viso arrossato dalla frenesia dei suoi movimenti, e gli prese con delicatezza le mani tra le sue - quando gli sfilò lentamente i guanti di plastica, dito dopo dito, continuando ad ondeggiare a ritmo di quella canzone d'altri tempi, e intanto canticchiava, indisturbato, indifferente a qualsiasi altro problema al mondo che non riguardasse le mani di Akutagawa - per un attimo, o forse un po' di più, il tempo smise di scorrere. Akutagawa rimase bloccato in un momento eterno ed in movimento, un tragico errore nelle leggi della fisica, un tremendo sbaglio nelle regole del cosmo.

Atsushi aveva intrecciato le loro dita, ora libere dall'impiccio di quei guanti scomodi, e stava guidando i movimenti delle sue braccia, a ritmo con la musica. Che lo avesse voluto o meno, non aveva alcuna importanza: Akutagawa avrebbe ugualmente seguito i passi del ragazzo che rideva, spensierato, a pochi centimetri di distanza da lui, ed era terribilmente attratto da quella sua stupida, momentanea, fragile forma di felicità. Voleva tenerla stretta anche lui tra le dita delle mani, voleva percepirla a contatto con la sua pelle, voleva viverla con il suo corpo e con tutta la sua anima. 

 
Words don't come easy to me
This is the only way for me
to say I love you
Words don't come easy.

Inspiegabilmente, entrambi parvero firmare di comune accordo un nuovo, tacito patto: lasciamo perdere la musica, lasciamo perdere tutto ciò che non siamo io e te.

Akutagawa respirava piano, le mani che erano scivolate lentamente verso il basso, trovando il loro appiglio sui fianchi sottili di Atsushi. Atsushi, invece, aveva chiuso gli occhi, la fronte premuta contro l'incavo del collo di Akutagawa, e ascoltava i battiti del suo cuore mescolarsi con i propri, piano piano. Le sue dita si aggrappavano alla maglietta bianca che Akutagawa indossava, quella che in realtà non era sua e profumava di lavanda, proprio come i capelli di Atsushi (forse, anche Akutagawa aveva lo stesso odore - aveva usato il suo bagnoschiuma, qualche ora prima, per lavarsi - e c'era qualcosa di profondamente intimo in questo semplice, banale dettaglio - qualcosa che Akutagawa avrebbe paragonato al modo in cui Atsushi lo stava stringendo a se, come se volesse tenerlo più vicino, come se temesse che se ne sarebbe andato, da lì a poco, e non volesse vederlo andare via).

Alla fine, stremati, si erano seduti sul letto addossato alla parete. Akutagawa aveva appoggiato la schiena contro il muro, Atsushi si era accoccolato contro la sua spalla come un gatto, tenendo gli occhi chiusi. Presto il suo capo era scivolato sul petto di Akutagawa, e allora lui si era messo un po' più comodo, cercando di tirare su le coperte per mettergliele sulle spalle, in modo che non prendesse troppo freddo.

Il giradischi si era interrotto da un po'. Gli unici rumori presenti nella stanza erano il respiro di Atsushi, tra il sonno e la veglia, che cercava una posizione più comoda, o forse solo un modo per circondare il suo torace con le braccia e continuare a stringerlo a se, seppure più debolmente. Le sue dita erano di nuovo impigliate alla maglietta bianca, come a dirgli: tu non sei solo, ci sono io qui. Puoi contare su di me, in qualsiasi momento; e Akutagawa, in quel momento, non aveva alcuna possibilità di districarsi da lì, prendere le sue cose e andarsene via. Non poteva farlo. Non voleva nemmeno.

Come un gatto che piange alla luna, Akutagawa lasciò scorrere sulle sue guance tutte le lacrime a cui aveva sempre proibito di esistere. Solo la luna sarebbe stata testimone del peso che si era levato dalle spalle, dopo tutto quel tempo, e di quanto sentirsi più leggero lo facesse sentire fragile, al contempo. Ma non un singolo essere vivente ne sarebbe venuto a conoscenza, no, perché Akutagawa pianse tutte le sue lacrime in silenzio, senza fare un movimento, respirando appena, impercettibilmente. Poi, prese coraggio e strinse quel corpo che dormiva su di lui, raggomitolato come un gatto su un cuscino. Gli cinse piano le spalle e la vita con le braccia, e si addormentò con il profumo di lavanda che gli pizzicava le narici. 

Akutagawa non voleva più rivedere la luce del giorno (significava cedere al passato la proprietà di quei ricordi che erano solo suoi, che non voleva lasciare andare per nessuna ragione al mondo).



Mi dispiace di non essere lì, in questo momento. Sono andato al lavoro perché stamattina ero di turno, ma ti ho lasciato la colazione sul tavolo. Spero che ti piaccia, in casa non ho molte cose, rispetto a quelle che ci sono al bar.

Puoi restare quanto vuoi a casa mia, non preoccuparti. Anzi, resta e basta, non andartene. Mi piacerebbe trovarti ancora lì, quando sarò di ritorno.

Per Ryuunosuke, da Atsushi.



Quando si era svegliato, il sole era già alto. Illuminava tutta la stanza, da cima a fondo, senza concedere neppure un millimetro all'ombra. Akutagawa si era trovato steso su quel letto, con la testa appoggiata ad un cuscino e una coperta fin sopra le spalle. Non c'era più nessuno accanto a lui. All'inizio non ci aveva fatto troppo caso, districandosi tra le lenzuola e mettendosi seduto. Si sentiva stordito, come quando ci si addormenta con le prime luci dell'alba e dopo si ha la testa pesante e tutta la voglia di restare a letto il resto del giorno (era un lusso che non immaginava di poter vivere di nuovo - non a breve, almeno - e, in ogni caso, si sentiva più come se tutta la stanchezza gli fosse ricaduta addosso, intorpidendo le sue membra fino alle ossa).

Alla fine, aveva deciso di alzarsi e, a fatica, aveva raggiunto il tavolo - solo un paio di passi più in là - perché non ricordava di aver lasciato tutte quelle cose sulla tovaglia, la sera prima. C'erano una tazza di caffellatte, un piatto con diversi tipi di pane e di fette biscottate, un sacchetto di biscotti bruni, un barattolo con quella che doveva essere marmellata di fragole, o forse di ciliegie - e quel biglietto, ripiegato con cura, infilato con un angolino sotto la tazza tiepida.

Akutagawa ne aveva letto il contenuto una volta, poi una seconda, una terza, una quarta, e alla fine le parole avevano perso il loro significato, mentre gli risuonavano nelle pareti del cervello con la voce di Atsushi - o con la voce che Akutagawa immaginava avrebbe avuto Atsushi, se fosse stato lì e quelle cose gliele avesse dette di persona, prima di infilare le chiavi nella serratura, salutarlo con un sorriso e andare a lavoro, chiudendosi la porta alle spalle (chissà se Atsushi si era fermato a guardarlo, quando ancora dormiva e lui, invece, era sveglio - lì, fermo sulla soglia di casa sua, chissà se Atsushi aveva tentennato sulla porta, indeciso se restare, chiamare Chuuya e dirgli che non la sentiva di presentarsi al bar, per quel giorno - se aveva solo sospirato, sperando che Akutagawa non sarebbe scappato via, temendo di non rivederlo mai più, e se n'era andato perché non poteva venire a meno al suo dovere, e nessun altro motivo - chissà, chi poteva saperlo?).

Akutagawa rimase lì, in piedi davanti a quel tavolo pieno di cose, le guardava come fanno i gatti quando girano intorno al cibo, indecisi se consumare immediatamente il pasto o farselo durare più a lungo, perché chissà quando sarebbe stata riempita di nuovo, la loro ciotola. E, in primo luogo, ai gatti randagi nessuno riempie la ciotola perché la ciotola neanche ce l'hanno.

Come un animale selvaggio messo in una stanza chiusa, Akutagawa si sentì scomodo, a disagio, in piedi davanti a quel tavolo. Fece scontrare il suo sguardo su ogni oggetto, ogni parete - finché i suoi occhi non tornarono a cozzare sulle scritte del biglietto.

Resta e basta, non andartene. Mi piacerebbe trovarti ancora lì, quando sarò di ritorno, gli aveva scritto Atsushi, e Akutagawa non poteva nemmeno fingere di esserlo immaginato, di aver capito male, che fosse un sogno o un'assurda fantasia - non poteva, perché quelle parole erano impresse sulla carta, inequivocabili.

Akutagawa si chiese se anche Gin, quando si era chiuso la porta di quella casa alle spalle, l'ultima volta che l'aveva vista - se anche sua sorella, in un angolo della sua mente, avesse desiderato ardentemente svegliarsi, il mattino dopo, e scoprire che lui, in realtà, non se n'era mai andato.

Akutagawa si chiese: chissà se mi odia, per averla lasciata sola mentre inseguivo il sogno di cancellare la nostra stessa solitudine, mentre la lasciavo tra quelle mura fredde e me ne andavo, convinto che sarebbe stato semplice, che in poco tempo sarei tornato a prenderla.

E invece lei è ancora lì, sola. Chissà se mi odia. Ho sbagliato tutto. Forse non me ne sarei mai dovuto andare.

Forse...

Akutagawa si sedette al tavolo, continuando a guardare la colazione che gli aveva preparato Atsushi. La tovaglia a quadretti rossi e bianchi, le sedie, la cucina semplice, il mobiletto pieno di cassetti lì accanto, la porta socchiusa del bagno, le coperte disfatte del letto illuminato dalla luce del giorno - tra tutte quelle cose che non gli appartenevano, Akutagawa era come un soprammobile fuori posto, un aggeggio che non c'entrava niente, messo lì.

Però, il ricordo delle mani di Atsushi che guidavano i suoi movimenti, la memoria di quelle dita che si stringevano alla sua maglietta - la stessa maglietta che aveva ancora addosso, stropicciata dalle ore di sonno - e quel profumo di lavanda che adesso si mescolava a quello del caffellatte, freddo, davanti a lui - in qualche modo, gli davano la certezza di essere esistito, un tempo, tra quelle quattro mura. Erano la prova intangibile, ma presente, che lui c'era stato, che c'era un motivo se si trovava lì, e le parole scritte disordinatamente sul biglietto erano un invito a rimanere, la richiesta di entrare a far parte di quel mondo, di considerarsi come parte integrante di esso.

Akutagawa consumò la colazione in silenzio, senza fare rumore lavò le stoviglie, pulì la tavola dalle briciole, mise al loro posto le coperte sul letto, si occupò di spolverare meglio il giradischi che avevano dimenticato su un ripiano del mobile. Ad un certo punto, senza che se ne rendesse conto, il tramonto aveva dipinto i tetti delle case e li faceva sembrare come un quadro espressionista - le ombre erano più dense, le luci erano più intense, gli spigoli si confondevano nel vortice delle nuvole nel cielo, il vento portava già l'odore della pioggia, presagio di quel che avrebbe macchiato le strade di lì a non molto.

E Akutagawa, a quel punto, capì che non voleva più che il tempo scorresse. Non voleva più aspettare niente. Avrebbe preso in mano la sua vita, avrebbe camminato sulle sue stesse gambe, avrebbe cambiato tutte quelle cose che parevano immutabili e avrebbe tenuto bene a mente tutte quelle cose che aveva preferito rinnegare in un angolo della sua testa.

Si mise il cappotto nero sulle spalle e uscì di casa, chiudendosi la porta dietro, correndo sotto la pioggia come un gatto randagio che scappa, in cerca del riparo di una tettoia di legno.

In poco tempo, era riuscito a bagnarsi da capo a piedi e a raggiungere quell'angolo di strada, sempre lo stesso, sempre sotto la luce fioca del lampione che lo aveva fatto sembrare un artista di strada, sempre davanti a quel bar, con il tappetino con la scritta "welcome" davanti e la condensa che scivolava lungo le vetrate, a simboleggiare il contrasto esistente tra il gelo dell'inverno lasciato fuori e il calore delle persone riunite all'interno.

Akutagawa aveva il fiato corto. Si resse con le mani sulle ginocchia, cercando di riprendersi dalla corsa, la pioggia che scorreva dalle punte dei suoi capelli, accarezzava i tratti del suo viso e scivolava fin sotto il colletto del cappotto nero.

Una figura gettò la sua ombra sulla strada, da dietro la porta d'ingresso del bar. Il tintinnio delle campanelle si univa alle gocce che battevano sull'asfalto, nelle pozzanghere.

"Akutagawa, che cosa ci fai qui?"

Pioveva a dirotto.

Atsushi incespicò sul tappetino con la scritta "welcome", poi imprecò, tornò indietro sui suoi passi, prese un ombrello dal portaoggetti lì accanto e raggiunse Akutagawa, in quell'angolo di strada, poco più avanti.

"Volevo uscire."

Non volevo stare ad aspettare il tuo ritorno come un cane. No, non volevo stare ad aspettare e basta. No, no. Non volevo... Io non volevo stare solo.

Atsushi aprì in fretta il suo ombrello, ma il vento lo fece ribaltare al contrario. Dopo qualche minuto di inutile lotta, ci rinunciò, chiudendolo e bagnandosi tutto, come Akutagawa.

"Andiamo a casa, adesso?"

Era la cosa più naturale del mondo quella mano che, timida, prendeva la sua e la stringeva. Né troppo piano, né troppo forte. Akutagawa guardava le loro dita intrecciarsi.

"Non ti fidi?"

Quando alzò lo sguardo, c'erano un paio di occhi limpidi che aspettavano, con un po' di timore e di impazienza, di imbarazzo e di incertezza, la sua risposta.

Akutagawa non disse nulla, ma strinse la presa.



(Nessuno dei due aveva la più pallida idea degli sguardi indiscreti che seguivano ogni minimo loro movimento, da dietro le vetrate del bar.

Dazai sorrideva, sornione, "vuoi essere accompagnato a casa anche tu, piccoletto?"

Ma Chuuya era come un gatto che soffia e che rizza il pelo, indisponente, "chiedilo a tutte le donne che scappano quando provi a portartele a letto, cretino."

Lontani dagli occhi taglienti di Chuuya - che, nonostante tutto, aveva un sorrisetto compiaciuto, mentre li guardava sparire lungo la strada - e dagli occhi criptici, incomprensibili, di Dazai - che seguiva le loro figure mentre svanivano nella nebbia, lontane, e chissà su cosa stava rimuginando, con quel sospiro che si sciolse con il ghiaccio nel suo drink - loro due erano come due gatti che si erano conosciuti, ormai; talvolta si erano avvicinati con le zampe felpate, altre volte avevano sfoderato i denti e gli artigli - ma quelle ferite che si portavano addosso, indelebili, sarebbero state la prova del legame che adesso li accompagnava lungo la via, verso un posto in cui potevano esistere insieme.

E solo la luna sarebbe stata testimone delle mani di Akutagawa che sfioravano il mento di Atsushi, sulla soglia di casa; nessun altro avrebbe potuto vedere i suoi occhi diventare grandi come due lune piene e poi socchiudersi, piano piano, quando Akutagawa si era sporto un po' più avanti, senza aspettare che Atsushi lo raggiungesse a metà strada - e gli aveva baciato le labbra, lentamente, come se stesse assaporando ancora la dolcezza del caffellatte freddo che aveva bevuto prima.

Solo la luna poteva conoscere i sussurri, pelle contro pelle, di quei due gatti che giocavano a nascondino sotto le coperte, arrotolando le loro code insieme - e che quei sussurri, quei baci dolci, quella timidezza che tingeva le guance di entrambi, alla fine si sarebbe sciolta come zucchero in una tazzina di caffè - quando Akutagawa gli chiese di guardarlo negli occhi, chiamando il suo nome contro la pelle del suo collo - Atsushi - e quando lui gli cinse le spalle con le braccia, stringendo con le dita i suoi capelli, sussurrando piano il suo nome, nel suo orecchio - Ryuu, Ryuu, Ryuu… - come una melodia tiepida che gli toglieva il fiato e lo faceva rabbrividire, dalla base della schiena fino alla nuca, in silenzio.)



A volte, le cose non vanno come avevi immaginato. Akutagawa lo sapeva bene.

Non era un sognatore, difficilmente si sarebbe lasciato andare a dolci fantasie, perché quando la realtà ti ricade sulle spalle, il peso è insostenibile. Eppure, eccolo lì, nel bel mezzo di quello che pareva un delirio onirico a tutti gli effetti, considerando la vita che aveva vissuto.

Fino a una settimana prima aveva dormito su una panchina dimenticata da tutti e adesso era seduto su uno sgabello del solito locale, a guardare perplesso quanto sembrasse ampia ed irraggiungibile la distanza che lo separava da quell'angolo di strada che era stato il suo unico posto nel mondo. Lo guardava come un estraneo, come chi guarda il luogo che ha lasciato e nel quale è tornato, dopo anni di pellegrinaggio. Lo guardava e non lo riconosceva più, così lontano e così piccolo, così buio e così triste.

Atsushi gli aveva regalato una chitarra nuova solo perché voleva sentirlo suonare ancora (dentro al bar, questa volta, e non fuori in quell'angolo di strada che non gli apparteneva più). Pizzicando le corde morbide per abituarsi alla sensazione di sentirle scivolare sotto i polpastrelli (erano uguali in tutto e per tutto alle corde della vecchia chitarra, ma allo stesso tempo non lo erano), Akutagawa osservava di soppiatto i dintorni, come se temesse di disturbare soltanto con i suoi occhi troppo curiosi.

Atsushi era indaffarato a servire alcuni tavoli, Kunikida sedeva al bancone ed era immerso nella lettura di una miriade di volantini colorati (stava cercando, tra le offerte di lavoro, quelle che potevano essere più adatte per un ragazzo come Akutagawa. Tutti quanti avevano accettato subito di aiutarlo a redimersi e a risollevarsi dalle macerie della sua vita. Akutagawa si era sentito svuotato, come se qualcosa, dentro di lui, si fosse sciolto). Dazai, accanto al suo capo, svogliatamente faceva tintinnare il ghiaccio nel bicchiere del drink che gli aveva servito Chuuya qualche minuto prima, e si stava lamentando, come al solito.

"Le donne hanno davvero pessimi gusti, al giorno d'oggi. Chuuya, secondo te perché nessuna accetta mai di uscire con un uomo affascinante come me?"

Chuuya roteò gli occhi, "ma ti sei sentito?"

"Oh, andiamo, non dire così... potresti anche farmelo un complimento, ogni tanto. Ci conosciamo da quando andavamo a scuola, piccoletto."

Non c'era anima viva che osasse parlarne, ma in quel bar esisteva una regola implicita che nessuno doveva permettersi di infrangere: mai fare commenti sull'altezza del barista, mai, se ci tieni alla tua vita.

"Dazai!" Saltò su Chuuya, sporgendosi sul bancone e puntando un dito nella sua direzione, minaccioso. "È da quando andavamo a scuola che non fai altro che darmi fastidio e stressarmi continuamente!" Aggrottò le sopracciglia, esasperato. "Cosa c'è di tanto divertente? Le donne non ti vogliono più e allora hai deciso di provarci con me? In modo patetico, aggiungerei."

Cercò di darsi un contegno (era pur sempre in servizio) ma Dazai fece spallucce e gli rivolse uno sguardo strano, da sotto tutti quei capelli che gli ricadevano sulla fronte.

"Te ne sei accorto solo adesso?"

Seguì un attimo di silenzio.

La gente del locale aveva interrotto qualunque cosa stesse facendo, convogliando l'attenzione su di loro, come se fossero diventati l'attrazione principale di un parco divertimenti. Akutagawa aveva smesso di suonare, perché lo shock era troppo. Atsushi era rimasto impietrito sul posto, con la bocca aperta e una scopa tra le mani.

Vedendo il colore lasciare le guance di Chuuya e poi, in un attimo, salirgli così tanto alla testa da fargli bruciare gli occhi e tremare le mani - solo Kunikida riuscì a reagire in tempo, prendendo Dazai per il colletto della camicia e trascinandolo fuori, prima che si scatenasse il caos.

Dio solo sa cosa sarebbe successo, se fosse rimasto un secondo di più. Leggende di strada narravano che Chuuya lo avesse maledetto così tante volte, insultando la porta dalla quale era uscito (sorridendogli, oltretutto, quel disgraziato gli aveva anche sorriso) fino a perdere la voce, e alla fine si era dovuto prendere il resto della giornata libero, per calmarsi. Dazai, invece, pareva che non fosse tornato nel suo ufficio, per il dispiacere di Kunikida, ma che avesse vagato fino al tramonto per le strade del centro, con la testa tra le nuvole, senza dare fastidio a nessuno (il che rappresentava uno scenario talmente assurdo che spinse la gente a non credere a nulla di tutto ciò, mettere da parte le fantasie e i pettegolezzi, e tornare alle loro solite vite).

A nessuno fu dato sapere, però, che Chuuya si era lasciato sfuggire qualche lacrima (non lo avrebbe mai ammesso nemmeno a se stesso e non seppe dirsi se fosse per il sollievo, per la frustrazione che levava la morsa dalle sue spalle stanche, o forse solo per una strana forma di soddisfazione - dopo tutti quegli anni passati a guardare ogni singola donna e a chiedersi che cosa ci trovasse, Dazai, in ognuna di loro). Però successe davvero, proprio quando Dazai, quella sera stessa, gli aveva chiesto di uscire: fu una telefonata breve, senza provocazioni e prese in giro, per una volta (forse Dazai aveva capito che era arrivato il momento di crescere, oppure aveva soltanto raggiunto il suo obiettivo primario e si riteneva soddisfatto - o, forse, aveva deciso di dare una spinta a quella ruota che gira e che non si ferma, l’aveva mossa con un soffio più deciso degli altri, aveva trovato il coraggio per agire senza più quella tossica paura di fare passi falsi e sbagliare - chi poteva saperlo?).

Fuori dalle divise dei loro impieghi e ben lontani dal comico teatrino che recitavano da troppo tempo; privi di quelle maschere talmente tanto spesse che, per riscoprire ciò che vi si celava dietro, probabilmente non sarebbe stata sufficiente quella singola serata trascorsa insieme, davanti a due calici di vino: sarebbero stati solo Chuuya e Dazai, il mondo distante, slegato da quel che avrebbero potuto essere.

Era un epilogo che nessuno avrebbe mai immaginato, ma entrambi - sotto sotto sotto - un po' avevano osato sperarci.



Tre mesi dopo.

"Dazai, disgraziato, ti sembra il caso di ridere così? Sei un adulto ormai, comportati come tale!"

Kunikida stava perdendo ogni speranza, non c'era nulla che potesse fare con quell'uomo: avrebbe continuato a comportarsi come un bambino viziato e dispettoso persino sulla soglia dei quarant'anni, ne era convinto. Se non fosse stato per il suo spiccato senso del dovere e per la responsabilità che il suo lavoro gli gettava sulle spalle (essere a capo di un'agenzia investigativa non è affatto una passeggiata, specialmente se devi avere a che fare con dipendenti raccomandati di quel tipo) probabilmente ci avrebbe rinunciato. Vedere un uomo adulto ridere così tanto da rischiare di soffocarsi, non era una scena particolarmente esilarante, per lui che si considerava una persona matura e con la testa saldamente fissata al collo. Per cosa ridesse, poi, lo sapeva solo lui: non era divertente guardare un ragazzino fare il suo lavoro, nell'ottica di Kunikida.

"Ti aspetti davvero che un tale idiota ti dia ascolto?" Chuuya, dal canto suo, quella speranza che Kunikida stava perdendo, non l'aveva neppure mai avuta. "Guardalo, non so come tu faccia ad averci a che fare- io non gli affiderei nemmeno una tazzina da sciacquare."

"Ah, Chuuya..." Dazai si ricompose e finse di essersi offeso, mentre si asciugava le lacrime ai lati degli occhi, ancora l'ombra della risata sulle labbra, "... però non dicevi così, la scorsa notte."

Con questo, ricominciò a ridere (anche Kunikida avrebbe voluto ridere, ma era troppo imbarazzato per Chuuya che, nel giro di qualche secondo necessario per realizzare cosa fosse accaduto, era diventato rosso quanto l'insegna del fast food e aveva minacciato di riempire di botte Dazai fino a farlo tornare sano di mente - avrebbe dovuto dargliene tante, veramente tante, una quantità inimmaginabile).

Intanto, Akutagawa continuava in silenzio a svolgere il suo lavoro, fingendo disinteresse nei confronti del mondo e mal celando quanto si sentisse a disagio. Mentre lasciava scorrere la bibita gassata in un bicchiere talmente grande che avrebbe potuto dissetare una persona normale per almeno tre giorni consecutivi, si chiese cosa ci fosse di così tanto divertente nel guardarlo prendere le ordinazioni, gestire la cassa e preparare i panini in quel fast food. Come Kunikida, anche lui non ne aveva la più pallida idea. Era già troppo complicato gestire quell’assurda euforia che lo prendeva, quando si rendeva conto di avere un posto assicurato, uno stipendio basso ma fisso, la possibilità reale di reggersi sulle sue gambe e di camminare.

Dove, non lo sapeva ancora. Ma avrebbe camminato con la certezza di non cadere più e che, se anche in futuro dovesse succedere, ci sarà qualcuno a sedersi accanto a lui, sull'asfalto.

E forse, piano piano, ce l'avrebbe fatta, a sistemare anche tutte quelle cose che non riusciva a cambiare.

"Ryuu, dovresti sorridere un po'."

Atsushi se ne stava con i gomiti sul bancone, aspettando quello che gli aveva chiesto di preparare.

"Perché?"

"Perché se no i clienti ti scambieranno per la solita cassiera frustrata..." e rise anche lui, ma in maniera più contenuta e socialmente accettabile rispetto a Dazai.

Akutagawa avrebbe voluto nascondersi sotto un tavolo, oppure infilarsi dentro la friggitrice, insieme alle patatine. Il lavoro glielo avevano trovato loro (Kunikida, per la precisione, che era riuscito a sfruttare le sue conoscenze per fargli avere quel posto) e adesso si prendevano gioco di lui, come se fosse improvvisamente passato da dipendente del fast food a pagliaccio di turno. Purtroppo, con quel bicchiere quasi colmo fino all'orlo in mano, non poteva fare nulla. Ci mise dentro una cannuccia con poca grazia e lo appoggiò sul vassoio, insieme a tutto il resto.

"Non mi pagano per sorridere," rispose, rivolgendo uno sguardo tetro e annoiato ad Atsushi.

"Ma non costa nulla farlo. E poi, mi piaci quando sorridi."

La colpa fu tutta di quegli occhi sinceri e limpidi che non avevano alcun timore di incontrare i suoi, se Akutagawa dovette distogliere lo sguardo e celare parte del suo viso con il palmo della mano, per coprire l'ombra di un timido sorriso.








Risponde la segreteria telefonica di Akutagawa Gin. Prego, lasciate un messaggio.

Beep.

"Gin. Sono le cinque del mattino. L'alba è fredda, ma dipinge i palazzi e le strade di una sfumatura tenue, tiepida. Vorrei che vedessi quello che vedo io."

Era appoggiato al davanzale, il vento fresco che gli scompigliava i capelli.

"Adesso ho un lavoro, uno serio," si sentiva ridicolo, "e presto potrò di nuovo permettermi l'affitto e forse persino tutte quelle cose che non servono davvero."

Silenzio.

"Chiamami, quando puoi. Vorrei sapere come stai. Mi manca sentire la tua voce e ho così tante cose da raccontarti."

Silenzio.

"Io sto bene, ora," sorrideva. "Non ho molto, ma ho tutto ciò di cui ho bisogno."

Raggi di luce erano dipinti sul viso di Atsushi: dormiva ancora, raggomitolato tra le coperte come un gatto. Fuori, il sole illuminava l'intera città adesso.

"Penso di aver trovato un posto che potremmo chiamare casa."

Silenzio.

Beep, beep, beep.








[Hai ricevuto una chiamata persa da: Gin]
[Tocca per richiamare]


 

note: rileggendola, questa storia non smette di imbarazzarmi ed emozionarmi al contempo, quasi come se non l'avessi scritta io. effettivamente, è molto diversa dalle solite cose che scrivo, sarà per questo che sono un po' insicura del risultato finale, oltre ai tre anni di blocco dello scrittore che l'hanno preceduta.

la canzone che ho citato nel testo vi consiglio di ascoltarla, se non la conoscete già! mi piaceva tantissimo l'atmosfera che creava, almeno nella mia testa, mentre immaginavo la scena e cercavo le parole per descriverla.

se volete, fatemi sapere cosa ne pensate, se ci sono errori o parti poco chiare, se vi ha lasciato qualcosa. mi farebbe piacere saperlo. in ogni caso, ci tengo a ringraziare di cuore chi ha avuto la pazienza di leggere ed è arrivato fin qui. <3

@ffuumei, 2020



 
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Bungou Stray Dogs / Vai alla pagina dell'autore: ffuumei