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Autore: Moonlight_Tsukiko    18/12/2020    2 recensioni
Eren Jaeger sogna di vivere in un mondo dove sua sorella è ancora viva e di non dover usare le sue preziose strategie di adattamento per provare qualcosa che non sia dolore. Ma la vita ha il suo modo per distruggere tutto ciò che vi è sul suo cammino, ed Eren si ritrova in una spirale dalla quale non sembra uscirà molto presto.
Come capitano della squadra di football della scuola superiore Shiganshina, Levi Ackerman sembra essere la colonna portante per i suoi compagni di squadra. Ma quando non è in campo e non ha indosso la sua maglia sportiva, diventa semplicemente Levi. Levi Ackerman forse sarà anche in grado di aiutare le altre persone, ma Levi certamente non può difendersi dallo zio alcoldipendente.
Nessun altro ha provato il loro dolore, nessun altro ha vissuto ciò che hanno vissuto loro, e nessun altro potrà mai capirli. Ma tutto cambia una volta che si stabilisce una relazione non convenzionale che li forza a mettere a nudo tutte le loro cicatrici.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Berthold Huber, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman, Marco Bodt
Note: AU, OOC, Traduzione | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
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Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 21

Eren

La mia stanza è completamente buia quando apro gli occhi. Rotolo su un fianco e guardo l’orologio.

05:28.

Grande. Due miserabili minuti al suono della sveglia.

Metto un braccio sotto la testa e mi giro su un fianco. Levi sta ancora dormendo. Il suo viso è disteso, libero da ogni preoccupazione. Deglutisco mentre mi vengono in mente i ricordi della scorsa notte. È difficile rendersi pienamente conto che tutto è realmente accaduto. Non era stato frutto della mia immaginazione, anche se sembra.

La sveglia suona e impreco. Spengo la sveglia alla cieca premendo il pulsante. Sento Levi spostarsi accanto a me. Mi giro per guardarlo.

“Buongiorno,” sussurro, non volendo frantumare il confortante silenzio attorno a noi. Si lamenta e sprofonda il viso contro il cuscino.

“Buongiorno,” mormora. “Che ore sono?”

“Cinque e mezza,” rispondo. “A che ora ti alzi di solito?”

“Alle sei,” risponde. Si siede e si passa le dita tra i capelli. “Va bene, però.”

“Okay,” dico con un cenno del capo. “A proposito, ti ho lavato i vestiti. La doccia è libera se vuoi usarla. Ci sono degli spazzolini nuovi sotto il lavandino. Io vado a preparare la colazione.”

Levi annuisce e si alza per afferrare i suoi vestiti e l’asciugamano pulito che gli ho preparato prima di andare in bagno. Preparo i vestiti di ricambio da indossare dopo la doccia e scendo le scale per andare in cucina. Una rapida scansione del frigorifero e della dispensa mi dice che dovrò andare sul semplice, quindi decido di fare un toast alla francese.

Sono nel bel mezzo di finire l’ultima fetta quando sento dei passi. Levi sorride quando gli passo uno dei piatti prima di tornare di sopra a farmi una doccia veloce. Quando mi vesto e i capelli sono abbastanza asciutti, mi unisco al lui per mangiare.

“Dovremmo marinare scuola.”

“Marinare?” Ripeto, sollevando un sopracciglio. “Sei serio?”

“Perché no?” Dice scrollando le spalle, “Abbiamo dormito a malapena. Non saremmo al massimo delle nostre potenzialità.”

“Che ragazzaccio,” dico con un sorrisetto. “Va bene. Bruciamo.”

“Non è stato difficile convincerti,” afferma lentamente. “Stavi forse pensando la stessa cosa?”

“Stai zitto,” dico all’istante, alzando gli occhi al cielo.

Levi sorride di nuovo e continua a mangiare. La vista mi fa sentire un po’ strano. Sembra davvero felice. L’ho già visto sorridere e ridere, ma c’è qualcosa di diverso questa volta. Non sono sicuro di cosa sia, ma è uno spettacolo che vorrei vedere più spesso.

Quando finiamo di mangiare, laviamo i piatti e indossiamo le giacche. Levi guarda il suo telefono per alcuni secondi e io dondolo avanti e indietro goffamente.

“Tuo zio?”

“Sì,” mormora, corrugando le sopracciglia. Scuote la testa e si infila il telefono in tasca. “Dimenticalo. Andiamo fuori.”

“Dove andiamo alle sei del mattino?”

“Uhm... da qualche parte?” Offre esitante. Si passa le dita tra i capelli ancora umidi. “Non ci ho pensato, in realtà.”

Vedo alcune gocce d’acqua rotolare lungo il lato del suo viso.

“Ti ammalerai.”

“Eh?”

Prendo uno dei canovacci puliti che mia madre tiene in uno dei cassetti della cucina e lo uso per asciugargli i capelli. I suoi occhi si spalancano, ma mi concentro sul movimento delle mie mani. Quando sono soddisfatto, piego lo straccio bagnato e sorrido.

“Che c’è, non ti sei mai asciugato i capelli prima d’ora?”

“Mi asciugo i capelli tutto il tempo.”

“Allora dovresti essere bravo a farlo, no?”

“Vaffanculo,” ribatte, ma ride mentre lo dice.

“Dai, andiamo prima che qualcuno si svegli.”

Probabilmente ha capito che intendo Jean, a giudicare dall’espressione consapevole sul suo volto. Usciamo dopo aver indossato le scarpe. L’aria amara di dicembre mi colpisce dritto in faccia. Mi pento di aver lasciato a casa la sciarpa, ma non voglio tornare indietro e prenderla. Ormai siamo fuori. 

“Ehi, Eren.”

“Sì?”

“Grazie. Per avermi permesso di restare, intendo. Avevi ragione. Non volevo tornare indietro.”

“Non devi ringraziarmi,” dico. “Io-”

“Volevo che restassi. Lo so. Ma lo stesso. Grazie.”

Alzo le spalle, sentendomi un po’ imbarazzato e tiro un calcio contro il marciapiede.

“Allora, uhm,” mi fermo, schiarendomi la gola, e lui mi guarda incuriosito. “La notte scorsa. Quello era... sì.”

“Sì,” concorda piano. “Mi dispiace. Probabilmente non avrei dovuto.”

Deglutisco. “Mi è piaciuto.”

Levi fa un respiro udibile. Lo guardo esitante prima di scrollare le spalle.

“Voglio dire, ho letteralmente una cotta per te dal primo anno.”

Levi sbuffa piano. “Pensavo stessi scherzando. Non avevi detto che ero cambiato o qualcosa del genere?”

“Potrei aver mentito.”

“Giusto,” dice Levi, annuendo lentamente. “Ma veramente? Dal primo anno?”

Alzo le spalle.

“Eri fuori dalla mia portata. Ma mi sono sempre piaciute le sfide.”

“Non sono mai stato fuori dalla tua portata,” insiste Levi. Rido, resistendo all’impulso di alzare gli occhi al cielo.

“Mi stai prendendo in giro? Sei Levi Ackerman. Capitano della squadra di football, popolare da morire, il sogno erotico di ogni persona che cammina? Nessuno può toccarti.”

“Stai blaterando cazzate, Eren,” dice Levi. Sollevo ancora le spalle.

“Come vuoi. Tutti ti hanno voluto almeno una volta nella vita.”

“Beh, e tu?” Dice, alzando le sopracciglia verso di me. “E se dicessi che sei fuori dalla mia portata?”

“Mi stai prendendo per il culo, vero?”

“Secondo te?”

Non rispondo. Non subito, almeno.

“Non dire stupidaggini,” borbotto. “Come potrei essere fuori dalla tua portata?”

“Sarò onesto. Non provavo niente per te fino a quando non siamo diventati amici. Sono sicuro che hai sentito quello che la gente dice di te. Sì, sono tutti coglioni. Ma non lo sono abbastanza da negare quanto tu sia fottutamente affascinante, Eren.”

Inspiro e cerco di fingere che le parole non abbiano alcun effetto su di me.

“Cosa ne pensi, allora?” Chiedo prima di potermi fermare. Levi scrolla le spalle e si gratta la nuca.

“Hanno ragione.”

Deglutisco l’improvviso nodo alla gola. Prima che io possa rispondere, Levi mi afferra il polso e inizia a correre. Inciampo prima di ritrovare l’equilibrio.

“Ehi, che diavolo...?”

“Fidati di me!” Grida, girando la testa per guardarmi. C'è un enorme sorriso sul suo viso che onestamente mi fa sentire debole alle ginocchia. Gli sorrido di nuovo e mi faccio trascinare.

Corriamo fino a quando gli edifici iniziano a fondersi tra alberi e cespugli. Mi ritrovo ad aggrottare le sopracciglia quando Levi finalmente rallenta il ritmo. Mi lascia il polso e mi infilo le mani in tasca.

“Dove stiamo andando?” Chiedo, ma non mi risponde.

Mi conduce a una recinzione ricoperta di edera. Tira qualche volta la serratura. È arrugginita al punto che quasi si sbriciola nelle sue mani. Spalanca il cancello e inizia a camminare. Indugio goffamente fino a quando non riesco più a sentire il rumore della ghiaia sotto i suoi piedi.  

Corro fino a quando non lo raggiungo di nuovo. Andiamo avanti fino a quando non troviamo un sentiero. Fisso la struttura di ferro sotto i miei piedi, poi assottiglio gli occhi e gli strattono il bordo della giacca per fermarlo.

“Binari del treno?” Domando, confuso.

Lui annuisce. “È fuori uso da circa vent’anni.”

Alzo le sopracciglia.

“Veramente? Perché?”

Lui scrolla le spalle. “Non lo so. Questo è solo quello che ho sentito.”

Levi ricomincia a camminare. Lo seguo alla cieca, i miei occhi sono ancora concentrati sui binari sotto i miei piedi. Si ferma davanti a uno dei vagoni di un treno abbandonato e apre la porta. Sferraglia rumorosamente contro l’altro lato prima di arrampicarsi. Levi offre la sua mano per aiutarmi e io l’afferro saldamente.

Levi armeggia con qualcosa. Improvvisamente, c’è una calda luce arancione tra le sue dita. Allunga la mano per accendere la lanterna appesa al muro prima di lavarsi le mani.

“Non male per un’uscita alle sei del mattino, vero?” chiede retorico, sembrando senza fiato.

Cammino verso la parete di fronte a noi. I passi pesanti dei miei anfibi fanno eco nel metallo del vagone del treno, ma lo ignoro finché non sono esattamente dove voglio essere. È un po’ difficile capire cosa sto guardando ma, prima di rendermene conto, prendo una cornice, tirando a lucido il vetro e la guardo intensamente.

Il ragazzo è senza dubbio Levi. Ha gli stessi occhi grigi, lo stesso sorriso spensierato che vorrei poter vedere più spesso e la stessa aura calma. La donna sembra quasi una sua copia. Anche lei sorride. È impossibile ignorare la sua bellezza. C’è qualcosa di fragile in lei, qualcosa che mi fa desiderare di proteggerla nonostante non la conosca nemmeno. È il tipo di bellezza che descrivono tutti quei vecchi libri che dobbiamo leggere a scuola, e sinceramente mi lascia un po’ senza fiato. È difficile credere che esista qualcuno del genere, ma eccola lì.

“È bellissima,” dico dolcemente, facendo scorrere il pollice sulla superficie liscia della foto.

“È mia madre,” sussurra Levi. Deglutisco amaramente. “Quella... è l’ultima volta che l’ho vista viva.”

“Merda...”

Lui scuote la testa. “Tranquillo. Non ti avrei portato qui se non volessi,” dice.

“Come hai trovato questo posto?” Chiedo, premendo il sottile pezzo di nastro adesivo attaccato all’immagine contro il muro.

Levi scrolla le spalle e si lascia cadere a terra con forza.

“Non l’ho fatto,” risponde lentamente. “Il posto ha trovato me.”

Sento le sopracciglia stringersi mentre mi siedo accanto a lui. I nostri piedi penzolano fuori dal vagone del treno. L’aria gelida sta lentamente rendendo le mie orecchie e tutte e dieci le mie dita insensibili come l’Inferno, ma non voglio rovinare tutto. C’è qualcosa di stranamente meraviglioso nell’essere qui, spalla a spalla con Levi, in un posto che significa chiaramente molto per lui. Che io sia dannato se dovessi rovinare il momento. Per una volta, per una sola volta nella mia vita, voglio che le cose funzionino come dovrebbero.

“Che cosa vuoi dire?” Chiedo, premendo le ginocchia sul petto e unendo le braccia attorno alle gambe. Si stringe nelle spalle e raccoglie una foglia da terra. Ruota lo stelo tra le dita prima di lasciarlo fluttuare verso la ghiaia sotto di noi.

“Come ho detto, tutto ha cominciato ad andare a puttane quando sono stato mandato a vivere con mio zio. È stato letteralmente subito dopo la morte di mia madre. Giuro, ho battuto le palpebre ed è stato come se tutta la mia vita fosse cambiata dal nulla.”

Aspetto che continui, non volendo costringerlo, e dopo un po’ continua.

“Una notte sono scappato,” dice con voce strana. “Non sono riuscito a trattare con lui, quindi me ne sono andato. Non è una cosa insolita. Scappare, intendo. È molto più facile che restare per vedere cos’altro vuole farmi mio zio. E ho continuato a correre. Non avevo una destinazione in mente. Non so come sono finito qui, ma ho rotto la serratura e mi sono intrufolato. Non mi ero nemmeno reso conto fosse una ferrovia finché non ho visto il vagone del treno. Ci sono entrato e ho pensato che mia madre l’avrebbe amato. Adorava i luoghi sconosciuti. Le piaceva andare dove nessun altro voleva.”

“E quindi è per questo che continui a venire qui?” Chiedo incuriosito. “Perché pensi a tua madre?”

Lui scuote la testa.

“Nah. All'inizio mi spaventava. Continuavo a pensare: ‘Cazzo, a mia mamma sarebbe piaciuto moltissimo’.”

“Che cosa è cambiato?”

“È diventato confortante,” risponde piano Levi. “Era il mio rifugio. Non stavo ferendo nessun altro. Non mi stavo facendo male. Era la strategia di adattamento più sicura che potessi desiderare.”

Sbuffo in modo spudorato, spingendolo a guardarmi confuso.

“Non eri tu quello che diceva che le strategie di difesa erano una cazzata?”

“Stavo solo facendo lo stronzo,” risponde Levi, infilandosi le mani nelle tasche della giacca. “Non intendevo offenderti, davvero.”

“Grazie per avermi mostrato questo posto, Levi.”

Mi fissa per qualche istante prima di schiarirsi la voce.

“C’è un posto importante per ogni persona importante, giusto?” Dice. Fischio piano.

“Dannazione. Ti piace flirtare a caso?”

Si gratta timidamente la parte posteriore del collo. “Ah, la pensi così? Vattene allora.”

“Cristo. Come cazzo è possibile che fossi ancora single?”

Lui scrolla le spalle.

“Sai, aspettavo la persona speciale e tutta quella roba cliché. Scommetto che pensi siano cazzate.”

“No,” dico onestamente. “Penso sia bello. Ormai tutti quanti non vedono l’ora di uscire con chiunque gli capiti. Questo tipo di cose non funzionano mai. Causano solo dolore inutile.”

Levi annuisce. “Parli per esperienza?”

“Qualcosa del genere,” rispondo vagamente. “E quindi? Hai trovato la tua persona speciale?”

Ridacchia piano prima di distendersi a terra, con le braccia appoggiate dietro la testa. Mi guarda con questa espressione dolce che mi lascia confuso, ma non lo ammetterò mai.

“Non lo so, Eren. Dimmelo tu."

Alzo le spalle. “Devi decidere tu.”

“Bene,” inizia lentamente. Il cuore mi batteva forte nelle orecchie come un dannato tamburo. “Non lo so, amico. Forse l’ho trovata.”

Lo guardo, cercando di rilevare qualsiasi segno che mi stia prendendo in giro, ma mi guarda onesto come sempre. Le nuvole sono ancora un po’ grigie, ma le aree intorno al sole sono macchiate di un misto di arancio chiaro, rosa e un leggero color lavanda. Mi mordo l’interno della guancia.

“Santo cielo,” riesco a dire. Porto le braccia indietro in modo che mi sostengano. “Sarai la mia fine.”

Levi ridacchia piano. “Ottimo.”

Non posso fare a meno di chinarmi e premere le nostre labbra insieme.
 
 
***
 
09:55, dopo la lezione di inglese.

“Che lezione hai dopo?” Chiede Levi.

“Educazione civica. Tu?”

“Scienze,” replica. Si gratta la nuca. “Uhm… per raggiungere la tua classe si passa per la mia, giusto?”

Comincio a ridere, ignorando lo sguardo irritato che mi lancia.

“Porca miseria. Diventeremo davvero quelle disgustose coppie che si tengono per mano giusto per farsi vedere? Sai, quelle che si accompagnano alle rispettive lezioni e si baciano come se non si vedessero da secoli?”

“Okay, prima di tutto, ti prego no. E secondo, chi cavolo vuole tenerti per mano?”

“Oh, qualcuno oggi è suscettibile.”

“Uhm, ahia.”

“Disse quello che mi ha appena insultato,” replico con un ghigno, e Levi sorride con sfacciataggine.

Prima di poter dire altro, i miei occhi si posano su una figura familiare in fondo al corridoio. Il mio corpo si blocca mentre guardo Reiner e Bertholdt parlare tra loro. Bertholdt continua a guardare il pavimento, ma Reiner sembra stranamente disperato.

“Ci vediamo in palestra, okay?” Dico, cercando di sembrare il più normale possibile quando guardo Levi.

“Uh, okay?” Risponde, apparentemente confuso, ma non rimango abbastanza a lungo da permettergli di chiedermi qualcos’altro.

Sono al fianco di Bertholdt in pochi secondi. Reiner si interrompe all’istante non appena i suoi occhi si posano su di me. L’aspetto disperato della sua faccia si trasforma in qualcosa di molto più acido, ma Bertholdt è la mia principale preoccupazione in questo momento.

“Ehi, pensavo andassimo a lezione insieme oggi,” chiedo, spingendo Bertholdt scherzosamente con le braccia. Sembra confuso prima di annuire lentamente, e rilascio un respiro di sollievo quando mi rendo conto che mi sta reggendo il gioco.

“Scusa, me n’ero dimenticato.”

“Aspetta, cosa?” Chiede Reiner, afferrando il braccio di Bertholdt. “Mi stai prendendo in giro, Bertholdt? Sei amico di quell’idiota di Jaeger?”

“Quell’idiota di Jaeger è proprio qui,” sibilo. “E ti suggerisco di andartene. Ti ho già battuto due volte, vuoi vedere chi vince la terza?”

Reiner serra la mascella.

“Non so cosa tu voglia, perdente, ma ti suggerisco di sparire.”

“Oppure? Che cosa farai, Reiner? Sappiamo entrambi che ti batterò, qualunque cosa tu provi a fare. Non rovinarti ancora la reputazione,” rispondo, avvicinandomi. È più alto di me, quindi non gli raggiungo la faccia, ma è più che abbastanza per intimidirlo. Beh, almeno spero. “Non ho paura di te.”

“Eren,” dice Bertholdt piano, stringendomi forte il braccio. Mi tira indietro con forza, il che non è difficile, considerando che ha sia forza che altezza dalla sua. “Basta così.”

“Forse dovresti ascoltarlo, Jaeger,” dice Reiner. “E poi, nessuno ti ha interpellato.”

“Lascialo perdere,” dice Bertholdt, tenendomi ancora stretto sul braccio. “Smettila… hai fatto abbastanza… okay?”

“Di cosa stai parlando?” Chiede Reiner, socchiudendo gli occhi, ma Bertholdt mi sta già trascinando via. “Ehi, Bertholdt, che diavolo…”

Bertholdt continua a trascinarmi lungo il corridoio. Ignora completamente la campana che suona e mi spinge senza tante cerimonie nel bagno dei ragazzi. Chiude a chiave la porta e si gira verso di me.

“Che cosa stavi pensando di fare?” Mi strofino il braccio dolorante e scrollo le spalle.

“Ho pensato che Reiner dovesse allontanarsi da te.”

“So badare a me stesso, Eren.”

“Va bene, va bene.”

“Sono serio,” risponde Bertholdt, aggrottando le sopracciglia e mi appoggio a uno dei lavandini.

“Va bene, scusa,” mormoro. Incrocio le braccia e Bertholdt sospira piano.

“Grazie, Eren. Apprezzo quello che stavi cercando di fare. Ma sai com’è Reiner. Hai... hai visto di cosa è capace.”

Deglutisco e affondo le dita nelle costole abbastanza forte da farmi male. La pressione mi distrae dal mal di testa palpitante che avverto, però, quindi premo verso il basso fino a quando sono sicuro che le mie unghie lasceranno dei lividi.

“Lo so,” mormoro. Mi mordo leggermente il labbro inferiore. “Di cosa stavate parlando?”

Bertholdt fa spallucce. “Stavamo parlando della squadra di football, che tu ci creda o no. Continua a chiedere perché ho smesso.”

“Come se non lo sapesse,” rispondo. Bertholdt mi dedica uno sguardo aspro che mi fa tacere all’istante. “Scusa.”

“Ai suoi occhi non ha fatto nulla di male,” dice Bertholdt. Scuoto la testa.

“Certo che no. Questo è ciò che vuole credere. Ma questa non è la verità. Lo capisci, vero?”

Bertholdt tace.

“Non ti ho mai ringraziato,” dice lentamente. “Per avermi portato da Mina, intendo.”

“Non è necessario. L’ho fatto perché sapevo fosse quello di cui avevi bisogno. Non c’è bisogno di ringraziarmi.”

Si stringe nelle spalle e si appoggia alla porta.

“Lo so. Però mi sento un po’ uno schifo,” fa una pausa e mi ritrovo a guardarlo con curiosità. “Non volevo coinvolgerti in tutto questo. Avrei dovuto gestirlo da solo.”

“Sono contento che tu l’abbia fatto,” dico onestamente. “Chissà cosa sarebbe successo se l’avessi tenuto per te. Ricordi cosa ti ho detto? Devi renderti felice, Bertholdt. Non puoi farlo se non chiedi mai aiuto, lo sai.”

Bertholdt mi guarda in silenzio prima di sorridere leggermente.

“Grazie.”

“A cosa servono gli amici?” Chiedo, ricambiando il sorriso.

“Scusa. Per il tuo braccio, intendo.”

“Eh? Oh, non è niente. Ho passato di peggio. Ricordi il tuo compleanno?”

“Come potrei dimenticare?” Dice Bertholdt con uno sbuffo.

Alzo le spalle e mi spingo dal lavandino.

“Andiamo, forza. Probabilmente dovremmo andare in classe. Ieri ho già saltato.”

“Cazzo, hai ragione,” dice Bertholdt, in preda al panico. “Non stavo nemmeno pensando.”

“Nessun problema. Educazione civica fa schifo comunque. Mi stai facendo un favore.”

Bertholdt alza gli occhi al cielo.

“Come vuoi. Ora taci e cammina.”

Rido e lo seguo fuori dal bagno.
 
 
***

18:23, casa mia.

“Allora dove stai andando, esattamente?” Chiedo, raccogliendo una delle cornici allineate sul bancone sul nostro camino. Non l’abbiamo mai usato. È più una cosa estetica che altro. Non ne ho mai capito il fascino, ma a quanto pare Mikasa pensava fosse stupendo. Tutto era sempre fottutamente bello per lei.

“Che cosa sei, mio padre?” Chiede Jean, arruffandomi i capelli con la mano. “Sto solo uscendo.”

“Esci?” Ripeto, posando la foto.

Sette anni fa. Avevo dieci anni e Mikasa aveva appena compiuto ventitré anni. La foto è della sua festa di compleanno. Non voleva nemmeno farla, ma la mamma era così emozionata che ne ha organizzata una senza pensarci. Non ricordo molto, a parte il fatto che mia zia Natalie si era presentata e da lì la situazione era degenerata. Secondo la leggenda, aveva bevuto troppi bicchieri di vino economico che aveva imbucato alla festa clandestinamente, nonostante la raccomandazione di mia madre di non portare alcool. Questo è quello che mi aveva detto Mikasa, comunque. 

“Perché lo dici così?” Chiede Jean, stringendo gli occhi. Alzo le spalle e faccio un passo indietro dal camino per buttarmi sul divano.

“Perché,” comincio, trascinando la parola, “Non esci mai. Non sei uscito nemmeno una volta da quando ti sei trasferito.”

“Sono uscito.”

“Andare a fare la spesa non conta. Ho pensato che tu non avessi amici.”

“Okay, wow. Ho amici.”

“Sembra una cazzata, ma va bene.”

Jean alza gli occhi e si aggiusta la cravatta.

“Sai, sei vestito troppo bene. Ti sei spruzzato mezza boccetta di acqua di colonia.”

“Hai finito?” Chiede, sembrando stanco, e io scrollo le spalle.

“Non lo so. Dimmelo tu,” dico, mettendomi seduto. “Se non ti conoscessi, direi che stai andando a un appuntamento.”

Jean diventa sospettosamente silenzioso. Il sorriso provocatorio sulla mia faccia sparisce.

“Oh mio Dio,” sussurro e Jean si gira verso di me.

“Eren? Eren, ascoltami.”

“Stai andando a un appuntamento?”

“Non è così!”

“Invece sì! Ti sembro stupido?”

“No!” Jean si passa una mano tra i capelli e si inginocchia di fronte a me. “Ehi. Guardami.”

Fisso testardamente il terreno. Sospira e mi afferra il mento per costringermi a guardarlo negli occhi. Mi libero dalla sua presa e, senza rendermene conto, appoggio il piede al suo petto spingendolo per allontanarlo il più possibile. 

“Eren? Possiamo parlarne?”

“Di cosa c’è da parlare?" Sputo, la voce priva di emozioni. “Divertiti al tuo fottuto appuntamento, Jean.”

“Santo cielo, Eren! Non puoi ascoltarmi e basta?” Chiede, afferrandomi il polso. Scuoto la testa e lo spingo più forte che posso.

“Non toccarmi, cazzo!” Sibilo.

Non mi preoccupo di afferrare la giacca mentre mi precipito fuori di casa. L’aria fredda attacca istantaneamente ogni centimetro di pelle nuda che può raggiungere, ma sono troppo arrabbiato per notare davvero come sarò a pochi secondi dal congelamento. La porta non si riapre una volta quando chiudo, e mi chiedo se quella sensazione di delusione sia dovuta perché pensavo che Jean sarebbe venuto a cercarmi.
 
 
***

19:01, casa di Armin.

“Perché sei qui, Eren?” Chiede stancamente, appoggiandosi allo stipite della porta.

In realtà non lo so. Levi e Bertholdt hanno già abbastanza a cui pensare, non voglio aggiungere loro anche i miei problemi. Nick e Jean si odiano a vicenda, quindi Nick non sarebbe in grado di darmi consigli utili che mi aiuteranno a rimettere insieme i frammenti della mia relazione con Jean.

Sono andato da Armin perché è l’unica persona rimasta che conosce davvero Jean. L’ultima persona che conosceva davvero Jean era Mikasa, ma non posso chiederle nulla perché in questo momento mi sento turbato. In fondo, forse Jean sta cercando di andare avanti e attuare un processo di guarigione. Un processo che dovrei iniziare anche io, ma non ho il coraggio di farlo.

“Jean,” riesco a dire. È estremamente infantile incolpare il mio povero cognato per la mia instabilità emotiva, ma non sono mai stato bravo a assumermi la responsabilità di qualcosa nella mia vita. Non ho mai dovuto essere ritenuto responsabile per nulla, perché mi sono assicurato che nessuno sarebbe mai stato in grado di rendermi responsabile.

Gli occhi di Armin si spalancano. “Sta bene?”

Rido amaramente.

“Lui sta bene.”

Armin increspa le labbra prima di aprire la porta.

“Entra. Perché sei uscito senza un cappotto?”

Lo ignoro e mi tolgo le scarpe. Armin mi porta in cucina e inizia a prepararci il tè. Fisso i disegni colorati appuntati sul frigorifero, senza dubbio il lavoro dei suoi figli.

“Come sta Annie?” Chiedo, distratto, e Armin fa una pausa mentre fa bollire l’acqua.

“Tutto bene,” dice. “Ha partorito.”

“Maschio o femmina?” 

“Maschio,” dice, ridendo piano. “Ancora.”

Rido in silenzio. Armin ha sempre desiderato una femmina, ma tutti e tre i suoi figli sono maschi.

“Oh bene,” dico, scrollando le spalle e mi sistemo sulla sedia della cucina. Armin si siede nel sedile di fronte a me.

“Non ci sentiamo da parecchio,” continua Armin. Scuote la testa con una risata. “Che cosa è successo al ragazzo che non si zittiva ogni volta che mi vedeva?”

Deglutisco bruscamente e fisso la tovaglietta giallo brillante sotto le mie mani.

“È cresciuto,” rispondo debole. Il sorriso sul viso di Armin scivola via.

“Eren?”

“Sto bene,” dico, ma la mia voce si incrina e sento gli occhi in fiamme.

“Che cosa è successo?” Domanda a bassa voce. Alzo le spalle e gioco con il bordo della tovaglietta, scuotendo la testa.

“Niente. Sono solo uno stronzo. Nulla di nuovo.”

Armin apre la bocca per rispondere, ma il bollitore inizia a fischiare acutamente. Impreca e si alza per afferrarlo. Lo guardo versare l’acqua bollente nelle tazze già adornate con una specie di tisana. È sempre stato un grande bevitore di tè. È un’abitudine che Mikasa aveva ereditato da lui. Quando restava bloccata su un dipinto, scendevo nello scantinato e la vedevo seduta lì con le tazze vuote che la circondavano. Forse non avrei dovuto esserne sorpreso. Erano amici praticamente da tutta la vita.

Armin mi passa la tazza sul tavolo.

“Grazie,” mormoro, ma non faccio alcuna mossa per toccarlo. Si mette di nuovo a sedere e soffia con cura sulla parte superiore della sua tazza prima di prendere un sorso lento.

“Non posso aiutarti se non mi dici cosa sta succedendo.”

“Chi dice che ho bisogno di aiuto?”

“Beh, perché saresti qui altrimenti?”

Stringo i denti abbastanza forte da farmi male la mascella. Armin mi osserva in silenzio. So che mi sta analizzando. Lui e Mikasa erano bravi in ​​questo. Hanno sempre saputo leggere le persone. Spesso lo facevano per far impazzire Jean. E con me, funziona a meraviglia.

“Jean…” mi interrompo. Dire ciò che è successo me lo farà realizzare. Quanto sono idiota, intendo. Il senso di colpa mi trafigge come una verga calda fino all’intestino. È questo di cui Jean si occupa continuamente? Tutte le mie strategie di adattamento e sbalzi d’umore? Tutta la mia immaturità e riluttanza a lasciar andare il passato?

“Jean cosa?” Armin persuade. Deglutisco il nodo in gola e comincio a toccare la tazza bollente. Il dolore mi rilassa.

“È andato avanti,” dico, la mia voce terribilmente calma e vulnerabile e il mio stomaco in realtà vacilla mentre dico le parole. “Ha superato Mikasa, intendo.”

“Oh, Eren,” dice Armin, la sua voce disgustosamente comprensiva e il mio labbro inferiore si deforma leggermente.

Mi mordo abbastanza forte da far uscire sangue e distolgo lo sguardo da lui. Non riesco a guardarlo. So che guardarlo abbatterà le dighe nei miei occhi ed è l’ultima cosa di cui ho bisogno.

“Però, alla fine, può fare tutto ciò che vuole, no?” Mormoro. “Non deve restare solo per il resto della vita. E… Mikasa ormai non c’è più.”

“Eren.”

Alzo lo sguardo con riluttanza.

“È normale. Essere ferito, intendo. Ne hai diritto.”

“È da egoisti.”

“Stai soffrendo. Il dolore è egoista.”

“Il dolore è egoista...” ripeto a me stesso. Mi passo la mano tra i capelli. “Solo... non avrei mai pensato che avrebbe fatto così male.”

Armin fa un respiro lento e posa il tè con cura.

“Va bene. Qualunque cosa tu prova, è valida. Lo sai, vero?”

Alzo le spalle. “Sicuro.”

Armin increspa leggermente le labbra.

“Cosa ti fa così arrabbiare, Eren?”

Mi affondo sulla sedia.

“I miei genitori si sono sbarazzati di ogni sua traccia non appena ne hanno avuto la possibilità,” sussurro. Il mio stomaco si agita di nuovo, ma lo ignoro in favore di cercare di mantenere la mia voce il più possibile stabile. “Temo che farà lo stesso.”

“Jean non è tua madre o tuo padre,” dice Armin all’istante. “Non sto dicendo che i tuoi genitori sono persone orribili o altro, ma non sono più gli stessi da quando Mikasa ci ha lasciati.”

“Fidati,” mormoro cupamente. “Lo so.”

“Ricordi cosa ha detto Jean? La notte che abbiamo ricevuto la chiamata?”

Deglutisco.

“Più o meno,” dico onestamente. “Non ricordo molto di quella notte.”

Non è una bugia. Il terapeuta che consultavo allora, il dottor Trook, li chiamava ‘ricordi repressi’. Ha detto che a volte la nostra mente ci nasconde delle cose fino a quando non siamo pronti per affrontarle. Quando gli ho detto che non riuscivo a ricordare molto della notte in cui mia sorella è morta, ha detto che era per questo. Ha detto che la mia mente stava cercando di proteggermi. Ho sempre pensato fosse una cazzata, ma una parte di me si è sempre chiesta quanto di ciò fosse vero.

“Ha detto che il suo unico compito era proteggere Mikasa,” dice Armin, e qualcosa sulle parole sembra vagamente familiare. “E di non esserci riuscito.”

“Non ha...”

“Ti ha mai raccontato cosa mi ha detto dopo?” Chiede Armin. Scuoto la testa.

“Noi... noi non abbiamo mai davvero parlato di quella notte.”

Armin annuisce.

“Mi ha detto che il suo compito ora era proteggere te. Non a causa di Mikasa, però. Ha detto che doveva farlo perché i tuoi genitori avevano rinunciato alla responsabilità di genitori non appena il medico ha detto loro che loro figlia era morta. Perché pensi che lui ci tenga così tanto a sapere tutte le cose spericolate che fai? Pensi davvero che lui voglia solo rovinarti la vita o chissà quale altra strana idea ti sei fatto?”

Deglutisco. Questo è il tipo di cosa fastidiosa di Armin. Ha sempre ragione. Anche quando non è così, ha un modo per farti credere che qualunque cosa stia dicendo è corretta. Non ho mai capito come sia in grado di farlo, ma non voglio ragionarci adesso. Soprattutto quando so che ha ragione su ogni singola fottuta cosa che mi sta dicendo.

“Che cosa vuoi che dica, Armin?” Chiedo, sentendomi improvvisamente esausto. “Grazie per avermi illuminato? Grazie per avermi fatto sentire una testa di cazzo?”

“No,” dice Armin. “Voglio che realizzi che il mondo non sarà sempre lì ad aiutarti. So che sembra così metà delle volte, ma ti assicuro che non è vero.”

Si sporge in avanti, la sedia scricchiola leggermente, e fisso il vapore che fuoriesce dal mio tè in modo da non doverlo guardare in faccia.

“Jean ti vuole bene. Non dimenticarlo. E ama ancora Mikasa. E questo sentimento non cambierà mai.”

Annuisco senza davvero elaborare le sue parole.

“Grazie, Armin,” riesco finalmente a dire. Lui annuisce lentamente.

“Prego, Eren.”

Mi allontano dal tavolo.

“Scusa per essere venuto qui senza preavviso. Ora devo andare a casa.”

Armin increspa di nuovo le labbra.

“Ehi, Eren?”

“Sì?”

“Restiamo in contatto,” dice sinceramente. “Anche se è solo una chiamata o qualche messaggio. Mi interessa sapere come stai.”

Lo guardo per un po’ di tempo. Non è diverso dall’Armin con cui ricordo di essere cresciuto, ma c’è qualcosa di strano in questo Armin, comparato a quello del passato. Non so se abbia a che fare con la mia sorella defunta, ma preferisco non pensarci.

“Lo farò,” dico, e mentre me ne vado mi chiedo se lo farò davvero.
   
 
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