Albus
ha una mente troppo sconfinata per i suoi diciassette anni, per le
quattro mura della sua stanza e per le strade desolate di Godric's
Hollow.
Albus
vorrebbe toccare le vette dei cieli, sporcarsi i polpastrelli di
quelle volte celesti, placare la sete del mondo che gli arde negli
occhi e nella gola. Invece il fato gli ha imbrattato le mani di terra
infima e lo ha ricondotto in una casa che per lui non è
più casa; ormai le sue radici non sono altro che sbarre di
una gabbia dorata,
catene avviluppate intorno ai polsi.
I giorni scivolano via,
lenti, soffocanti, tra gli sguardi scontrosi di Aberforth e gli occhi
vacui di Ariana. Le lettere di Elphias parlano di terre lontane e
meravigliose, mentre il panorama fuori dalla sua finestra rimane
sempre uguale; un vicolo acciottolato, i cortili delle case dei
vicini, il chiacchiericcio delle donne che portano i panni al fiume e
dei paesani diretti al mercato del giovedì.
Albus sente i suoi
universi farsi sempre più sterili. L'angoscia gli si
infiltra
sottopelle, i libri rimangono accatastati sulla scrivania a prender
polvere, l'inchiostro non canta più per lui, le parole gli
muoiono
sulle labbra, persino la sua voce si ammanta sempre di più
dello
scialbore che lo circonda.
Finché non arriva lui.
-Tu
sei fuoco, Albus. Tu ardi laddove altri preferiscono chinare il capo
e lasciarsi marcire.
Le parole soffici di Gellert gli accarezzano
l'orecchio e vengono distillate con una dolcezza che mal si
accompagna alla malizia che sporca lo sguardo del ragazzo; una
malizia che Albus si ostina a fingere di non notare.
-Dobbiamo
partire e trovare i Doni. Tu sei troppo per questo stupido villaggio,
per questa patetica imitazione di vita. Noi
siamo troppo. Diversi dagli altri, sì, ma di una
diversità che ci
rende migliori, che ci eleva al di sopra delle masse.
Le parole di
Gellert sono sempre accompagnate da labbra che gli sfiorano le
tempie, da baci rabbiosi e morsi sul collo che trasformano il suo
corpo in un fascio di brividi.
-Tu e io, a impugnare lo scettro
del potere. Per il Bene Superiore. Riesci a immaginarlo, Al?
Albus
ha una mente fin troppo sconfinata per i suoi diciassette anni, ma
neanche la più alta filosofia può rimanere salda
davanti alle
lusinghe dell'amore. Ed è così che i suoi
universi trovano terreno
fertile per ricominciare a prosperare, le sue parole riacquisiscono
argutezza e vigore e in lui rinasce la fame vorace del mondo.
Albus
torna a essere fuoco che brucia in un mondo troppo spento, arbusto
rigoglioso in un campo di boccioli sterili.
Si illude di essere
protagonista di un amore giusto e rivoluzionario, di meritare lo
scettro del potere, di essere più
rispetto ai volti anonimi
e alle menti grezze che lo circondano.
Si illude di aver spiccato
il volo e di star sfiorando la volta del cielo con la punta delle
dita, troppo cieco per accorgersi del sole che incombe alle sue
spalle e che ha iniziato, lentamente ma inesorabilmente, a bruciargli
le ali.
Le
sue ali si sono liquefatte, il
cielo gli è crollato addosso andando in pezzi come uno
specchio
infranto sul pavimento. Schegge di vetro sembrano trafiggergli i
polsi e il sangue scorre a fiumi, scorre come tutto l'amore che lui
non è stato capace di donare.
Albus si lascia scivolare a terra e
rimane immobile, le spalle premute contro la parete fredda della sua
stanza, troppo stanco per alzarsi, impugnare una piuma e scrivere ad
Elphias che tra un paio di giorni si terrà il funerale di
Ariana.
La
cruda realtà l'ha risvegliato dopo due mesi di sogni folli,
lasciandolo vuoto, sporco e inquinato, infimo come la terra che
imbratta quelle sue fragili mani che mai potranno impugnare lo
scettro del potere; non dopo aver inconsapevolmente sacrificato
ciò
che era giusto e puro in nome di un amore menzognero, di un peccato
primordiale, di una ragione diventata folle e cieca.
Un urlo
improvviso gli perfora la gola. Albus si piega in avanti e lascia
scorrere le lacrime mentre affonda le unghie negli avambracci,
cercando di estirpare il veleno vischioso che gli appesantisce le
vene come catrame, di annientare il dolore e il senso di colpa, di
dimenticare la furia glaciale che ha incendiato lo sguardo di Gellert
mentre questi alzava la bacchetta contro Aberforth – di
dimenticare
gli occhi sbarrati sul viso cinereo di Ariana, quegli occhi
così
vuoti eppur così accusatori.
Le strade di Godric's Hollow non
sono altro che un teatro di incubi che lo perseguiteranno fino alla
fine dei suoi giorni e ormai anche l'universo lì fuori gli
appare
freddo, scialbo e sterile, spoglio di promesse e di prospettive, come
se tutta la bellezza fosse svanita dal mondo.
Albus sa di avere
ali troppo spezzate per tornare a volare e che non troverà
mai più
un posto da poter chiamare casa.
Albus
ha ventitré anni quando
torna a Hogwarts e sente il fiato mozzarsi alla vista delle torri del
castello, imponenti e svettanti contro il cielo azzurro. I suoi occhi
febbrili si nutrono della magnificenza che lo circonda mentre segue
il preside Armando Dippet lungo i sentieri del parco, verso la
scalinata di pietra che conduce al portone d'ingresso; una lieve
brezza gli scompiglia i capelli e Albus inspira l'aria dolce di fine
estate, quell'aria che preannuncia l'inizio della sua nuova vita come
insegnante di Trasfigurazione.
Sono
tornato a casa. Sono tornato a casa.
Mentre
percorre i corridoi del castello, tra arazzi, armature e fantasmi che
gli sorridono e si sbracciano per salutarlo, una sensazione
lancinante gli comprime il petto e il cuore, quasi spaventosa nella
sua intensità. Ci mette un po' a riconoscerla, ma quando
riesce a
darle un nome Albus sente le sue mani tremare e i suoi occhi
inumidirsi; è gioia.
Quella gioia selvaggia e dolorosa, mischiata alla nostalgia del
passato, di cui per troppo tempo ha dimenticato il sapore.
Giunto
all'ingresso delle sue nuove stanze, Albus si congeda da Dippet con
un sorriso e un saluto cordiale. Apre la porta e si ritrova in una
camera circolare dalle pareti di pietra, arredata solo da una
scrivania, una libreria in legno di noce e un letto rivestito da una
coperta vermiglia.
Si
avvicina alla finestra e abbraccia con lo sguardo le torri maestose
che s'innalzano tutto intorno, gli spalti del campo di Quidditch in
lontananza, lo splendore dei prati smeraldini, l'acqua rilucente del
lago accarezzata dai raggi del sole.
Hogwarts.
La sua patria, la sua musa, la stella che gli brilla negli occhi.
L'unico luogo nel quale Albus non ha mai conosciuto sofferenza e
senso di colpa, ma solo la realizzazione del suo genio e la
felicità
apparentemente eterna della spensieratezza adolescenziale.
Albus
sorride e poggia una mano sulla pietra fredda della parete, che
sembra tremare e vibrare a contatto con la sua pelle. I suoi
polpastrelli stanno davvero sfiorando le vette dei cieli, si stanno
sporcando dei secoli di storia che il castello porta con sé
e dei
ricordi che lo investono come un torrente in piena.
Si lascia
annegare in quelle memorie, brandelli di innocenza che la vita non
era ancora riuscita a inquinare; il momento in cui è entrato
per la
prima volta nella Sala Grande, il viso ricoperto di cicatrici del
piccolo Elphias, gli applausi con cui è stato accolto al
tavolo di
Grifondoro. La prima uscita a Hogsmeade, la spilla da Prefetto, il
profumo di libri antichi nel Reparto Proibito della biblioteca, le
pareti umide della piccola aula di Aritmanzia. La lettera che ha
annunciato la sua nomina a Caposcuola, le riviste di Trasfigurazione
impilate sul comodino, le stelle brillanti nel firmamento che lui
amava ammirare dalla finestra del suo dormitorio.
Ora le mura
sembrano respirare intorno a lui e Albus accoglie i loro mormorii,
dolci e confortanti come le carezze di una madre, accoglie le
promesse di una nuova vita in cui potrà finalmente iniziare
a lenire
il dolore che da anni si porta sulle spalle.
Sa che una parte
della sua anima rimarrà sempre opaca, marcia e annerita dal
senso di
colpa – ma qualcosa in lui ha iniziato a guarire nel momento
in cui
ha varcato la soglia del castello, il momento in cui ha mosso il
primo passo lungo quel sentiero non più arido e sterile che
può
insegnargli come lasciarsi indietro le sue ombre e i suoi
peccati.
Sii
la mia
casa, Hogwarts. Ora e per sempre. Come ho fatto a non rendermi mai
conto di quanto fossi magnifica?
Albus
allontana la mano dalla parete fredda – i polpastrelli
sporchi del
peso millenario che quelle mura si portano dietro e della linfa di
una nuova speranza.
Questa notte, dormirà senza sognare gli occhi
di Ariana. Al mattino, si risveglierà a casa
e
neanche il sole riuscirà a bruciare le sue ali rinate.
NdA
Questa storia è stata scritta per il contest "Di prompt stilistici e figure retoriche" indetto da fefe.7 sul forum di EFP. Questi erano i pacchetti;
6. La storia deve svolgersi in due luoghi distinti, entrambi importanti per la vicenda e quindi parte integrante della narrazione. (Godric's Hollow/Hogwarts)
P. Apostrofe (Contenuta nella frase "Sii la mia casa, Hogwarts. Ora e per sempre. Come ho fatto a non rendermi mai conto di quanto fossi magnifica?")
Il tema della storia è ispirato a una mia poesia che parla del sentirsi soffocati in un ambiente che non permette di lasciar erompere la propria personalità e il proprio genio, del rischio di assorbire la mediocrità che ci circonda e di diventare noi stessi parte di quella mediocrità. Per questo ho cercato di adottare nel corso di tutta la narrazione uno stile astratto e "poetico", se così lo vogliamo chiamare.
Spero di essere riuscita a utilizzare a dovere la figura retorica e che lo stile sia risultato piacevole e non tedioso. Ringrazio in anticipo chiunque recensirà :)