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Autore: Shadow writer    27/12/2020    2 recensioni
In una metropoli urbana dominata da corruzione e giochi di potere, una giovane donna cerca di farsi spazio attraverso strade poco lecite.
Dopo gli ultimi eventi, la duchessa si trova alle strette e la posta in gioco si fa sempre più alta: il potere e le persone che ama.
Quello che non sa, è che qualcuno le sta alle calcagna, impaziente di vederla crollare. Ma come può combattere un nemico invisibile?
Dalla storia:
“Sentì un fermento nel suo stomaco e una sensazione di ebbrezza che le andò alla testa.
«Sei fortunata» replicò e si passò la lingua sulle labbra, come assaporando quel momento. «Si dà il caso che concedere favori sia la mia specialità».”
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La duchessa '
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La fine
 



Mentre fissava lo sguardo terrorizzato di Camille passare attraverso l’ostile per approdare al disgustato, Alexander capì che la resa dei conti era arrivata. Aveva cercato di prendere tempo per fare le cose bene, ma la realtà gli si scaraventò sul volto in un secondo con la potenza di una palla di piombo. Credere che ci fosse un buon modo di rivelare il suo passato era stata un’illusione. 
Camille si voltò e scappò fuori dalla stanza. Alexander la seguì rapidamente nel corridoio, mentre nel salotto suo padre continuava a sbraitare al telefono che era inammissibile che quella porcata fosse ancora in televisione. 
Affacciandosi sul corridoio, una nuova consapevolezza lo colpì. Quella era la sua occasione, poteva prendere Noah e, mentre suo padre era impegnato, portarlo fuori dalla villa, verso le auto che Roman aveva fatto sistemare. Ma questo piano escludeva un’altra cosa, che era irrilevante solo se non si considerava come avrebbe influito pesantemente sulla sua vita: se non avesse sistemato in quel momento le cose con Camille, non avrebbe avuto un’altra possibilità. 
Salvare Noah significava perdere per sempre la moglie.
In un millisecondo, la sua mente gli proiettò l’immagine di quel caffè di Portobello in cui le aveva parlato per la prima volta. E poi la Torre Eiffel, davanti alla quale le aveva chiesto di sposarlo. E il suo sguardo dolce, il modo gentile che aveva di sorridere e di poggiargli una mano sul petto per poi accarezzargli la guancia. Il suo cuore puro, i suoi occhi mai maliziosi, la semplicità e la schiettezza che metteva nelle parole. E il modo in cui lei rideva quando lui diceva qualcosa di buffo, con gli occhi socchiusi e una mano sollevata per coprirsi la bocca, con educazione. Pensò al suo profumo, a come lui aveva aspettato con ansia la domenica per poterla vedere quando era in carcere. Pensò a quanto era bella il giorno del matrimonio, pensò a tutti i progetti che avevano fatto insieme. Pensò che lei era la stata la donna della sua vita, ma lui, di vite, ne aveva avute due. Camille era la moglie perfetta per quello studente modello che aveva seguito le orme del padre, ma non aveva cancellato del tutto il figlio ribelle che era scappato di casa.
Mentre la sua mente pensava a queste cose, le sue gambe si erano già mosse con decisione e rapidità. Aprì la porta con un colpo secco, facendo sobbalzare la madre seduta sul divano.
«Gesù, Alexander, potresti essere più delicato!» lo rimproverò, con un tono che cercava di essere autoritario su qualcuno che era ormai lontano dal suo controllo.
«Ti voglio bene mamma» replicò lui e le diede un bacio veloce sulla guancia, chinandosi verso di lei, poi si voltò e sollevò Noah che stava ancora giocando sul tappeto.
«Stringimi forte» gli sussurrò e il bimbo si aggrappò al suo collo.
Tornò nuovamente verso il corridoio e con passo rapido e felpato si diresse verso le scale secondarie. Sentiva ancora suo padre al telefono, ma non ci avrebbe messo molto a notare la sua assenza. 
Corse giù per i gradini, sorreggendo Noah con un braccio e aggrappandosi al corrimano con l’altro.
«Dove andiamo?» gli chiese il bimbo, così vicino all’orecchio che il suo respiro glielo solleticò.
«Ora ti porto dalla mamma.»
Spalancò la porta che si affacciava sul giardino e cominciò a correre sull’erba verso la recinzione sul retro della villa. Se fosse passato dall’ingresso principale avrebbe attirato troppo l’attenzione. Doveva solo raggiungere il vecchio cancellino dalla serratura interna guasta. Quando ancora viveva lì, lo usava per sgusciare fuori indisturbato e lo lasciava aperto per poter rientrare senza essere visto.
Mentre correva con Noah aggrappato a lui, udì un grido, uno solo. Riconobbe subito proprietario e provenienza della voce: si trattava di suo padre che urlò il suo nome dalla finestra del piano superiore.
Se possibile, Alexander accelerò, appena prima di sentire una serie di passi alle sue spalle e un ringhio di cani.
Imprecò mentalmente, immaginando quanti uomini gli stessero alle calcagna, accompagnati dai doberman che suo padre si vantava difendessero la casa.
Raggiunse il cancellino difettoso e vi si lanciò contro con tutta la sua forza per spalancarlo, ma quello non si mosse e gli provocò un dolore intenso al braccio con cui lo aveva colpito.
Qualcuno lo aveva sistemato.
«Papà, quegli uomini sono quasi vicino a noi».
Quasi ringhiando per la frustrazione, Alex si voltò e vide che Noah non si sbagliava. Li avevano quasi raggiunti.
Cominciò a correre parallelamente al muro di recinzione, puntando verso l’albero che sorgeva poco distante. Se fosse riusciti ad arrampicarvisi sopra, sarebbe potuto saltare al di là del muro di recinzione.
«Noah, ora devi stringermi ancora più forte» sussurrò, quasi senza fiato e sentì le braccine del bimbo aggrapparsi a lui con ancora più energia.
Alexander afferrò una sedia e la posizionò davanti all’albero, poi prese la rincorsa, saltò sulla sedia e da lì si diede la spinta per allungarsi verso il ramo più basso del grosso dell’albero. Mentre le sue mani si schiantavano con la corteccia, sentì la camicia strapparsi.
Noah emise un sospiro preoccupato, ma non parlò, e intanto Alexander cercò di spingere le gambe verso il fusto, in modo da fare leva appoggiandoci contro le suole delle scarpe e portare il resto del corpo sul ramo.
I doberman lo avevano ormai raggiunto. Uno di loro era salito sulla sedia che aveva usato come trampolino e gli abbaiava contro, alternando ringhi a latrati minacciosi.
Alex riuscì a sistemarsi sul ramo e, muovendosi in avanti a cavalcioni, con Noah ancora ben attaccato a lui come un koala, si spinse verso la sua estremità, quella che raggiungeva il muro di recinzione.
In modo un poco sgraziato e con il cuore in gola per il timore di cadere, riuscì ad allungare le gambe e appoggiare i piedi sulla cima del muro. Posò le mani sul ramo e, pur tenendosi aggrappato ad esso, cercò di spostare il resto del corpo sul muro. I primi uomini lo avevano raggiunto e capì non c’era più tempo per le cautele. Si lasciò cadere sgraziatamente sul muro, che era largo poco più di una trentina di centimetri, e guardò al di là, sulla strada. 
Si trovava più in alto di tre metri e non sapeva come scendere senza fare del male al figlio.
Udì le voci degli uomini alle sue spalle, incalzanti, così decise di far sedere il bambino sul bordo, raccomandandogli di stare attento, e di lanciarsi per primo. Lo fece senza esitazioni – non ne aveva il tempo – e quando cadde sul duro asfalto, un dolore lancinante gli attraversò le caviglie, prima che le ginocchia si sfregassero a terra e quella sofferenza superò la precedente.
Barcollando, si alzò in piedi, verso Noah, che ancora lo guardava dall’alto del muro. Sembrava una bambola da quella distanza, con quel corpicino piccolo e fragile.
«Buttati, ti prendo io!» lo incitò, allungando le mani verso l’alto. Non c’era rischio che lo mancasse.
Leggendo il dubbio sul volto del bimbo, Alexander si rese conto che suo figlio non aveva nessun motivo di fidarsi di lui. Lo aveva visto due, tre volte in tutta la sua vita e l’unica garanzia che lui fosse veramente suo padre veniva dalle parole di Emily.
Noah cancellò ogni sospetto quando si lanciò in avanti, ad occhi chiusi, e atterrò tra le braccia dell’uomo, che subito se lo strinse al petto e cominciò a correre verso la fine della strada privata che scorreva sul retro della casa.
Come promesso, una grossa auto nera lo attendeva.
Alex non si premurò neanche di controllare chi guidasse e si lanciò all’interno.
«Portatemi da lei» implorò. «Vi prego, portatemi da lei».
 
 
 
Fino a qualche settimana prima, mai avrebbe sospettato di provare una tale sensazione di sollievo nel vedere il palazzo della duchessa comparire davanti a lui. In carcere si era esercitato ad odiare qualsiasi cosa la riguardasse, dai suoi abiti lunghi ai ricci dei suoi capelli, dal rumore dei suoi passi alla posa altezzosa del mento, eppure, in quel momento non c’era odio nel suo cuore. E neppure risentimento o rancore, ma solo il febbricitante bisogno di vederla e di dirle che suo figlio stava bene. Il loro figlio. 
L’auto lo lasciò davanti all’ingresso e quando raggiunse l’atrio, con Noah ancora aggrappato al collo e un poco frastornato nonostante le parole rassicuranti che gli aveva rivolto, trovò Roman ad accoglierlo.
Il giovane indossava uno dei suoi eleganti completi di seta colorata e, quando li vide, sul suo volto si aprì un sorriso. «Venite. È appena tornata».
Li condusse su per le scale e attraverso i corridoi. Non si fermò davanti alla porta chiusa, ma la aprì, facendoli entrare in quella che pareva una camera da letto.
Emily se ne stava in piedi vicino al letto e guardava al di fuori delle vetrate che occupavano una parete della stanza. Indossava ancora l’abito dorato che si era visto in televisione e si torceva tra le mani un lembo di tessuto.
Nell’udire che qualcuno era entrato nella stanza, si voltò di scatto e il suo volto preoccupato si illuminò di un grande sorriso.
Si lanciò in avanti, facendo frusciare la veste, che la seguì come la coda di una cometa.
«Mamma!» gridò Noah tendendo le manine in sua sua direzione. 
Emily lo afferrò al volo quando lui si protese dalle  braccia di Alexander. La giovane lo strinse al petto e gli baciò il capo.
«Mi sei mancato tantissimo» gli sussurrò tra i riccioli.
«Anche tu!» esclamò Noah. «Non mi piace tanto la casa del nonno»
Emily lo tenne premuto contro di sé e lanciò uno sguardo verso la porta dove erano rimasti Roman e Alexander.
“Grazie” disse con le labbra e senza suono a quest’ultimo. Lui le sorrise.
La ragazza camminò per un po’ nella stanza, mormorando nell’orecchio di Noah e ridacchiando insieme a lui. Quando finalmente lo rimise a terra, Roman allungò una mano in sua direzione: «Vieni con me, andiamo a vedere se è c’è qualche torta in cucina.»
Il bimbo cercò un cenno di assenso sul volto della madre e, una volta ottenutolo, trotterellò dietro a Roman prendendolo per mano.
Tra Emily e Alexander, rimasti soli, calò un silenzio imbarazzante.
«Grazie» ripeté lei, questa volta ad alta voce. «So che non è facile andare contro tuo padre».
«Non è neanche stata una vera scelta. Era la cosa giusta da fare» replicò lui, guardandola negli occhi.
Lei spostò nervosamente il peso da una gamba all’altra, facendo piccoli passetti come per rilasciare la tensione. 
«Mio padre mi ha detto che qualcuno ti ha tradita e gli ha procurato tutte le informazioni su Noah» disse lui improvvisamente.
Lei sgranò gli occhi. «Chi potrebbe essere tanto stupido…?». Tacque un istante, pensierosa, poi riportò lo sguardo su Alexander e disse, decisa: «Gabriel».
«Dobbiamo occuparci di lui prima che faccia altri danni.»
Fece per uscire dalla stanza, ma notò che Emily era rimasta immobile, concentrata su qualcosa.
Quando lo guardò ancora, la sua espressione aveva un che di grave. «Credo che ci abbia già pensato tuo padre».
Allo sguardo interrogativo di Alexander, aggiunse: «Gabriel è in coma. Un camion ha colpito l’auto in cui si trovava, ma c’erano alcuni elementi sospetti.»
Lui le rivolse una lunga occhiata e quando si rese conto della serietà del suo tono, il suo volto si fece preoccupato. Sapeva che suo padre era un uomo pericoloso, ma davvero fino a quel punto? 
Mentre lui rifletteva, Emily si era spostata nuovamente verso la vetrata e guardava al di là. Alexander la vide sospirare e decise di raggiungerla.
«Em» la chiamò e allungò una mano che sfiorò la stoffa dorata, «voglio scusarmi per come mi sono comportato nella pensione. Non avevo nessun diritto di trattarti come ho fatto. La rabbia che ho riversato su di te era destinata solo a me stesso. Ero io il traditore, io quello che non riusciva ad accettare di aver commesso un errore così grande.»
Emily lo fissò con gli occhi grandi e le labbra strette, come spaventata dalle sue parole.
«Credi che quello che è successo sia stato un errore?» fu ciò che riuscì a sussurrare poi.
Alexander scosse il capo. Le si mise di fronte e cercò le sue mani, per stringerle tra le proprie, in modo deciso, ma dolce.
«No, sposare Camille è stato un errore. Tenerle il mio passato nascosto e continuare a vivere come se avessi due vite non intersecabili fra di loro è stato un errore. Quando l’ho conosciuta, ero convinto che non ti avrei più rivista e sposare lei sembrava la cosa migliore che potesse capitarmi».
Fece una pausa, come se stesse scegliendo le parole giuste, poi avanzò di un passo verso di lei, senza lasciarle le mani.
«Tu sei stata la cosa migliore, Em».
Lei inclinò il capo e fece una smorfia amara. «Intendi la me del passato».
Alexander non la contraddisse. «Non possiamo negare che le vicende degli ultimi anni ci abbiano segnato e, inevitabilmente, siamo diventati diversi dalle persone che eravamo. Ma quei due giovani che vivevano in un monolocale fatiscente sono ancora vivi, da qualche parte nel fondo dei nostri animi. Li abbiamo ridotti al silenzio cercando di soffocarli, ma non li abbiamo uccisi».
Emily deglutì e a lui parve intimorita da quelle parole.
«Non sto dicendo che possiamo comportarci come se gli ultimi cinque anni non fossero mai avvenuti, sarebbe un errore grandissimo. Non posso negare di aver amato Camille e di averla voluta sposare, per un certo periodo di tempo».
L’espressione della giovane ora si era fatta cauta, sulla difensiva.
«Ma possiamo provare, d’ora in poi, ad evitare di commettere nuovi errori» concluse Alexander.
Lei rimase a guardarlo per qualche istante, poi scivolò via dalle sue mani e superò la vetrata, immergendosi nella luce dorata che accarezzava l’ampia terrazza. Al di là delle tende chiare, l’uomo la guardò raggiungere la balaustra e appoggiarsi ad essa.
Attese qualche secondo prima di unirsi a lei.
Quando lo sentì avvicinarsi, Emily si voltò per affrontarlo.
«Forse mi conosci da abbastanza tempo per sapere che ho sempre un piano» esordì e Alexander sentì il proprio battito cardiaco accelerare. «E oggi siamo all’inizio dell’ultima fase».
Fece una pausa, prese un respiro profondo e lo guardò negli occhi: «Me ne vado. Insieme a Noah».
Gli lasciò qualche secondo, forse per metabolizzare ciò che aveva detto, prima di riprendere: «Fin dall’inizio era mia intenzione lasciare Tridell e questo personaggio ingombrante di “Cassandra”. Non avevo pianificato di rivelare all’intera città la mia storia e la mia identità, ma questo mi dà ora un motivo in più per volermene andare. Non voglio crescere Noah in un palazzo enorme e vuoto né voglio che i suoi amici siano bambini accuratamente selezionati da me. Voglio che abbia un’infanzia normale, lontano da Tridell, dagli scandali e anche dalla duchessa».
Esitò e si voltò leggermente verso il giardino al di sotto della terrazza. Noah e Roman erano usciti in quel momento dal palazzo e si stavano rincorrendo sull’erba.
Li guardò con un sorriso sulle labbra, poi tornò a rivolgersi ad Alexander, che non aveva distolto lo sguardo da lei.
«Voglio partire subito e sei il benvenuto se vorrai venire con noi. Sei suo padre».
Lui la osservò in silenzio, ascoltando le voci entusiaste che venivano dal giardino. Il sole splendeva alle spalle di Emily e faceva sembrare infuocati i suoi capelli.
Per quanto gli avesse appena detto di voler essere una persona normale, Alexander pensò che ci fosse un che di regale, per non dire divino, in lei.
Le sorrise.
 
 
 
   
 
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