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Autore: PathosforaBeast    28/12/2020    2 recensioni
Raccolta di storie (oneshot, flashfiction e drabble) incentrate sulla vita di Mycroft Holmes e la presenza costante del numero quattro.
Genere: Introspettivo, Poesia, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Mycroft Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fly.
 



Chiudi gli occhi sotto il tepore delicato del sole. Il vento ti accarezza il viso e l’accenno di barba lasciandoti respirare il profumo dell’erba. Alzi un palmo verso il cielo e per un attimo ogni centimetro di pelle è disposto a farti capire quanto possa essere piacevole sentirsi vivi.
Accarezzi il collo e poi i bordi della camicia, incuriosito dall’idea di vedere la tua pelle assumere due tonalità diverse. Una scura e vissuta, per chi crede impossibile che tu sia al di sopra di qualsiasi dinamica sociale, l’altra pallida e perenne, che si rivela solo nell’intimità della tua camera da letto. Un ossimoro perfetto.
Hai letto da qualche parte, o l’avrai sicuramente ascoltato con gli occhi pieni di meraviglia eoni fa dalla voce profonda e sapiente di zio Rudy, che gli esseri umani trovano pressoché rassicurante la successione ritmica e metodica delle azioni e delle cose che li circondano. Sarebbe rimasto lì, a citarti quanto i concetti di scelta hanno influito nei campi filosofici e artistici a questo mondo, per poi posare lo sguardo sul pavimento, ingentilire le rughe del viso, e ricordare che di fronte a lui c’era solamente suo nipote e non il Primo Ministro che aveva bisogno di chiedere udienza. Allora rialzava lo sguardo poggiando le dita sulla finestra.
Spariva Kierkegaard e dava spazio alla natura.
Allora comparivano le zampe dei gatti che massaggiavano le superfici di fronte a se stessi in ricordo di una madre che chissà se fosse mai esistita o l’incessante intervallarsi delle onde che mai sembrano stancarsi di ritrovarsi nella sabbia.
Istanti brevi ma preziosi in cui va accettato il loro flusso naturale e non cercare di ostacolarlo attraverso negazioni che potrebbero portare solo a digressioni inutili e sentimentali.
Poi avrebbe messo la mano su una spalla e ti avrebbe ripetuto come sempre: “Mai andare contro la massa se si ha la capacità di regolarla dall’interno”.
Abbandoni la testa contro un gomito, mentre ti giri su un fianco e ti lasci cullare dal dondolio dell’altalena.
Forse è solo questo che gli uomini vogliono, ti fermi a riflettere: abbandonarsi almeno per una volta nella vita e sentirsi al sicuro. Protetti.
Incroci le braccia contro il petto.
Nemmeno il rumore di un ramo spezzato a pochi metri da te riesce a turbarti.
 
 
Riapri gli occhi.
La vecchia casa di famiglia, con le mura scorticate e il suo giardino selvaggiamente troppo cresciuto, è ora chiusa in un religioso silenzio. Senti un dolore atroce alla testa, vicino al collo, e quando provi ad alzare un braccio verso la parte lesa, ti rendi conto troppo tardi che ogni tentato movimento è impossibile.
Sei troppo lontane dalle lapidi, senza appoggi né alcuna via di fuga.
Ti agiti contro le corde che ti costringono sulla sedia, ruvide e spesse, agganciate a qualcosa di pesante.
La sottile ironia del portarsi addosso i macigni. Se ne avessi la forza, rideresti di te stesso.
All’improvviso senti qualcosa di caldo sfiorarti uno zigomo. Una mano.
Senti tutti i muscoli tendersi, il respiro diventare sempre più flebile e spaventato.
L’anello sull’anulare ti fa ricordare stranamente tuo padre. I calli sulle dita, le sere spese a spaccare la legna, gli abbracci dati a tua madre intenta a cucinare e i sorrisi condivisi davanti al camino.
Ti rendi contro troppo tardi che ti stai tendendo verso quella carezza sconosciuta e nell’arco di un secondo un secco, sordido schiaffo ti rimette immediatamente al tuo posto.
Perché tu sei questo: deriso, umiliato e inutile.
Così stupido nel fidarti degli altri.
 
 
Spalanchi gli occhi contro l’oscurità.
Ti senti immobilizzato contro le tue stesse lenzuola, le dita bloccate in pugni mai dati, in rabbie e angosce ammutolite perennemente. Giri la testa contro il cuscino a destra e sinistra con violenza. Le pareti, la porta, la finestra… non è cambiato nulla. Sei nella tua stanza e non c’è nessun pericolo.
Sei sfinito. Passi una mano sulla fronte imperlata di sudore e ti siedi appoggiando la schiena contro la testata del letto. Chissà se saranno i mattoni ad assorbire la tua paura o sarà questo sudore a rientrarti nelle ossa celandosi a chiunque.
“ È solo un incubo”, ti dici. Ma gli incubi non sono altro che manifestazioni del proprio subconscio.
Se zio Rudy fosse qui, cosa ti direbbe?
Forse sorriderebbe e ti racconterebbe qualche aneddoto su Freud mentre porterebbe la mano sotto il mento scrutando ogni dettaglio che i contorni arrossati dei tuoi occhi hanno bisogno di condividere.
“ Tanto, mio caro Mycroft, non siamo altro che storie. Se siamo demoni o angeli?” riesci quasi a sentire il profumo dei suoi sigari penetrarti le narici “ dipende solo dal punto di vista del lettore. Tu cerca solamente di non pentirti mai delle tue azioni”.
Ti alzi dal letto, raggiungendo la scrivania accanto alla porta.
Se zio Rudy fosse qui, saprebbe ovviamente come consolarti.
Ma se zio Rudy non fosse qui, il confine della sua libertà non si sarebbe confuso con quello della tua nuova prigionia.
Abbracci l’urna.
Se fosse qui, ti avrebbe detto come si dovrebbe dire addio.
Se non fosse qui, non avresti dovuto affrontare tutto questo.
Eppure ti ha lasciato questa lezione per ultima: vivere l’assenza come presenza.
Andare avanti anche se ti manca un pezzo di cuore.
 
La sveglia delle quattro inizia a tuonare imperativa su di te. La spegni. È ora di metterti in viaggio.
Devi dare a zio Rudy finalmente le ali.
 
 
 
 
 
 
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