Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: kanagawa    30/12/2020    0 recensioni
La seconda volta che Kenny incontra Uri, non è stato in grado di riconoscerlo, perché il tempo e la memoria sono scivolati via dalle sue membra come granelli attraverso una clessidra, lasciando il solco di un vuoto che echeggia nello spazio e vibra incompreso.
Kenny ritrova la strada per tornare da lui, quella coordinata impressa nelle sue stesse vene, corridoi invisibili tracciati da prima che venisse al mondo...
Kenny tenta nuovamente di ucciderlo e, questa volta, Uri gli chiede perdono.
Genere: Angst, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kenny Ackerman, Kuchel Ackerman, Levi Ackerman, Rod Reiss, Uri Reiss
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La teoria degli ubriachi doveva averla elaborata nel periodo di hiatus che trascorse tra le taverne della città sotterranea. 
Si facevano pensieri incredibili, quando non si aveva la mente propriamente lucida.

Come una sorta di consolazione - ma consolazione da cosa? - mentre l’alcol faceva il suo decorso, anestetizzando il dolore e ogni altra forma di sensazione...

Chiunque tentasse di approcciarlo era il benvenuto. Dopo le risse se ne tornava a dormire sotto il suo cappello, tra i cocci di bottiglie e le sedie rotte. 
Aveva smesso di contare i giorni.

Di ciò che accadeva in superficie - dell’apocalisse che si stava consumando in quei giorni - aveva già smesso di importargliene...

No, anzi, un pensiero c’era ancora... in un piccolo - piccolissimo - angolo della sua mente, quando la morsa dell’oblio lo lasciava per quella manciata di secondi, prima di riafferrarlo, aveva pensato a Levi... 

A Levi, che stava volando lassù.

 

 

....

 

“Tu hai un figlio?” 

Gliene parlò un giorno di maggio che era tornato a casa da uno dei suoi lunghi viaggi diciamo d’affari.

“È di Kuchel”, lo corresse Kenny.

“Oh, è così che si chiama?”

No. Non aveva capito male. Era proprio gelosia quello che credeva di aver scorto in qualche punto tra il suo sarcasmo e quel broncio adorabile che voleva essere una caricatura del suo disappunto.

“Era mia sorella!” si difese Kenny, esasperato.

“Sì,” Uri gli rifilò uno sguardo perforante, così insolito al suo repertorio. “Come lo sono io...”

Quel discorso non aveva il minimo senso...

 

Aveva raccolto con sé il moccioso due anni fa, ma solo allora gliene aveva parlato. Che fosse stato per codardia o mancanza di tempo non sapeva dirlo. Aveva deciso che quella parte della sua vita non avrebbe riguardato in alcun modo Uri Reiss, eppure non era riuscito più a negarglielo. 

Kenny non voleva assolutamente avere figli.  
Aveva giurato a se stesso che in questa vita non avrebbe contribuito ad aggiungere altra sofferenza alla vita di un altro Ackerman e così era stato... 
Quando Kuchel era rimasta incinta gli scrisse per chiedergli denaro e lui le disse di abortire. 
Lei non lo fece. 

Andò da lei con l’intento di farla ragionare, ma se ne andò via solo più infuriato, rabbiosamente consapevole di non riuscire a persuaderla, perché lei - orgogliosa e indomabile - non aveva mai accettato il suo destino, non era mai scesa a compromessi con la visione del mondo che lui avrebbe voluto per entrambi, la sola famiglia che gli era rimasta al mondo.

“Kenny, tu non capisci...” Lei aveva scosso la testa, accarezzandosi la pancia ormai tangibile sotto il vestito rigonfio. 

Così lui decise di urlarle contro, “questa vita non è abbastanza miserabile?!”, ma sua sorella era rimasta in silenzio, sapendo che non c’era più nulla da dirsi ormai... “Stai facendo un errore.”

Fu l’ultima volta che la vide. 

 

“Non capisco come da un Ackerman possa essere nato un simile tappo...”

Nonostante l’incoerente moto di avversione iniziale, gli chiese di descriverglielo, e man mano che raccontava vedeva gli occhi di Uri accendersi sempre più, rapiti da un fremito di luce che fu come un susseguirsi di piccole epifanie.

Perché non importava dopotutto di chi fosse figlio... Se somigliava a Kenny, Uri pensò, avrebbe tanto voluto conoscerlo.

“È denutrito?”

“Non sono così psicopatico da lasciare morire di fame un moccioso.” Kenny replicò sventolando una mano davanti al viso. “Da quando l’ho preso con me è ritornato bello che è in carne, ma non vuole saperne di crescere in altezza...”

Una risata soffusa, luminosa. “Chissà... sarà il gene paterno?” Kuchel non aveva mai detto chi fosse il padre. 

Uri era scalzo. Appoggiato ad un tronco, le piante dei suoi piedi - sempre più freddi del normale - posavano direttamente contro la nuda terra, sulla prateria rigogliosa di inizio estate, dove una brezza piacevole faceva muovere come onde su un oceano smeraldo l’erba selvatica. 
Ricordava un tempo in cui, per gioco, quando usavano passeggiare fino alla sponda opposta del lago, Uri lo obbligava a togliersi le calzature, invitandolo a imitarlo per ricordargli il piacere di camminare a piedi nudi.  
Kenny lo trovava ancora puerile e davvero poco igienico.

“Hai intenzione di crescerlo nel Distretto Sotterraneo?” 

“Non c’è posto più sicuro...” 

Uri misurò in silenzio il peso mancante delle sue parole: per quando verrà quel momento, era ciò che alludeva, ma che scelse di non pronunciare.  
L’oscurità, anche se faceva paura, era il luogo più sicuro al mondo se sapevi come nasconderti... 
Il suo sguardo, che si era rannuvolato leggermente, si levò piano verso gli ampi spazi della fattoria delimitata da palizzate all’orizzonte. Qualche capo di bestiame sparso qua e là pascolava pigramente.

“Sarebbe stato bene qui, con Frieda e gli altri...”

Un sorriso fragile aveva rischiarato i suoi lineamenti infusi di tenerezza. Riusciva quasi a vederli correre e giocare su quel prato sconfinato, la sua coraggiosa nipotina e un bambino dai capelli scuri come le piume dei corvi... 

E lo avrebbe amato, come amava tutti i figli di Rod.

 

 

Qualche tempo dopo, Uri morì e Kenny abbandonò Levi.

 

 

....

 

La mattina in cui Rod Reiss venne a cercare il fratello nella sua casa di città, recava in realtà una questione piuttosto spinosa di cui avrebbe voluto discutere con lui. Ma, per un caso fortuito, non era riuscito ad aprire bocca... 

Kenny sarebbe stato sulle tracce dei suoi bastardi negli anni a venire, non solo su ordini del governo, ma anche per avere qualcosa con cui poterlo ricattare.

Un ameba accidioso sedeva sul trono dell’umanità. I Reiss avevano rinunciato formalmente alla corona, ma di fatto il potere era ancora saldamente custodito in seno alla famiglia.
Certo, Rod Reiss poteva essersi sentito onnipotente nel rappresentare la volontà del fratello di fronte al consiglio, tirando i fili da dietro le quinte di quel suo ridicolo teatrino istituzionale, ma sul piano empirico il suo controllo era stato estremamente limitato: tanto che, la Prima Squadra - la Sacra Inquisizione delle Mura - in assenza di specifiche direttive, poteva agire in modo indipendente. 
La corona l’aveva creato per controllare la popolazione, ma finì per essere controllata a sua volta.
Il potere della Gendarmeria Centrale crebbe a dismisura negli anni, e Kenny ne avrebbe approfittato per costruire le sue reti, affondando lentamente gli artigli della sua influenza: come un cancro in seno all’esercito, nutrito dal sistema stesso e pronto a scoppiare, quando le circostanze fossero state mature, con lo scopo di demolire l’intero sistema dal suo interno... così da prendere lui stesso il controllo. 
Dell’umanità non gli era mai fregato un granché... Tutto ciò che c’era di umano in lui, lo aveva seppellito insieme a Uri.

 

Se non fosse stato per quegli occhi, non avrebbe mai attribuito a Rod Reiss la paternità di quella mocciosa dal naso colante.  
Iridi dalle sfumature chiare, esageratamente grandi: gli stessi occhi di Rod, di Frieda, o qualunque altro dannato Reiss... Gli stessi di Uri, d’altronde.

 

La notizia della caduta di Wall Maria era giunta solo dopo il tramonto, insieme allo sciame di profughi traumatizzati fluiti dentro il cancello sud di Trost. 
Kenny si precipitò alla tenuta che era notte e lungo la strada si imbatté nella carrozza di Rod Reiss, mentre sfrecciava a tutta velocità verso la piccola fattoria dove, per tutti quegli anni, aveva tenuto nascosto la sua tresca illecita con la figlia del fattore e il piccolo incidente che ne era derivato. 
Aveva ragionato in fretta, nell’arco di quella fatidica serata, focalizzando nella sua mente la forma che avrebbe preso infine il suo piano.

L’idea di uccidere quella bambina lo disgustò tutto a un tratto... Specialmente dopo aver constatato con quanta altera compostezza Rod Reiss aveva cambiato le proprie carte in tavola disconoscendo la futura Lady Reiss davanti a un manipolo di assassini, pur di conservare se stesso e quel tremendo segreto che, ancora per poche ore, sarebbe stato possibile celare al mondo. 
Al riparo nelle tenebre, mentre i loro sguardi duellavano, i loro pensieri e le loro volontà si erano rincorsi arrivando al punto di esporsi l’uno all’altro, e lì si erano fermati.  
Voleva metterlo con le spalle al muro, costringerlo a rivivere il suo incubo peggiore. Voleva fargli provare quel terrore che, intimamente, lo imputava di aver inflitto a Uri, anni prima... Ma non sarebbe stato necessario esporgli la gola sezionata di quella bambina per ottenere la sua vendetta. 

Per metterlo alla prova? Per vedere se, messo di fronte al medesimo scenario di vent’anni fa, si sarebbe sacrificato per il bene della figlia stavolta?
No... Kenny sapeva fin troppo bene che non lo avrebbe fatto. Lo conosceva meglio di quanto conoscesse se stesso.
Voleva solo assodare con i suoi occhi la riprova che Rod era dopotutto un vile bastardo, così da poterlo legittimamente disprezzare... Dovessero volerci anni. 
Non gli avrebbe permesso di dimenticare. No. Oscuro e inconsolabile, perché non lo voleva lasciar andare, quel dolore...

 

 

....

 

“Kenny, tu morirai?”

Levi aveva cinque anni. Nessuno gli aveva insegnato il concetto della morte, eppure ne aveva già vissuto fino in fondo il significato, abbastanza da colmare un’intera esistenza.

Alla sua domanda, un po’ inaspettata, l’uomo aveva arricciato il naso e storcendo la bocca in una mimica di fastidio aveva sbottato, “certo che fai un po’ le domande del cazzo tu!”

Non aveva voglia di dargli corda e, onestamente, non sapeva cosa rispondere... Gli pressò una mano sulla fronte, in un rude invito a coricarsi, “ora mettiti a dormire!”, liquidandolo con la scusa della tarda ora, prima di sistemarsi a sua volta lì accanto, sulla stuoia troppo piccola di quella stanza troppo vuota.

Kenny stette con le braccia serrate sotto la nuca a fissare il soffitto divorato dall’oscurità e pensava. I suoi talloni si accavallavano sporgendo dal giaciglio frugale. 
Ciò che gli stava chiedendo, era se un giorno anche lui lo avrebbe lasciato come la mamma. Il punto non era “se”... Tutti gli esseri umani dovevano morire. Chi prima, chi dopo.
Non era qualcosa su cui ci si potesse fare promesse...

Ma il bambino non sembrava intenzionato a chiudere gli occhi quella sera. Irritante, l’insistenza del suo sguardo pressato contro una spalla. 

Si era arrovellato in una grama resistenza che era finita ancora prima di delinearsi. Kenny sospirò e si arrese, infine, voltando il capo dalla sua parte. “Se ti racconto una storia, poi ti deciderai a dormire?”

Lo sentì annuire, le iridi grigio-chiare vigili al buio. Per un secondo, credette di avere ancora undici anni, quando Kuchel si rannicchiava accanto a lui, sotto un’altra coperta tutta sfilacciata che fremeva per le sue risatine, mentre gli sussurrava qualche sciocchezza da ragazzina per non farsi sentire dagli adulti...

 

Cosa pensi di potergli offrire?! Questa vita non è abbastanza miserabile?!

 

Kenny... tu non capisci...

 

Non aveva mai capito.

Per non dover rispondere, quella notte, Kenny gli raccontò una favola e lo fece nello stesso modo in cui lo raccontava sempre Uri.

Lo stomaco al riparo sotto il calore del palmo destro, dimenandosi leggermente contro il cuscino in cerca di una postura più comoda e le parole giuste: “dunque... com’è che cominciava?”

“C’era una volta,” suggerì prontamente Levi. “Mamma diceva sempre così.”

“Zitto, non mi interrompere!” Risentì schioccando la lingua sul palato e fece per schiarirsi la gola. “Allora, dicevo... C’era un tale che era un cavaliere... tu sai cos’è un cavaliere? ... Beh, non importa!” 

Era una stanza di pochi metri quadrati che odorava di muffa e sudore. Una candela smorzata su un tavolo sgangherato e una finestra minuscola da cui, al posto degli astri, si riflettevano notte e giorno le ombre contorte delle torce appese in strada
Il respiro del bambino era un dolce balsamo, mischiato al rimbombo rassicurante della sua voce che sovrastava ogni cosa nello spazio infinito della notte in cui rivissero, dipinti in tratti poco lusinghieri, ombre di antichi eroi e le loro battaglie dimenticate.

“C’era un tempo in cui, quando tutti gli uomini erano fratelli, un re saggio e giusto sedeva sul trono dell’umanità, e la pace del suo reame era protetta della stirpe degli angeli...”

Kenny non finì mai di narrare quella storia, perché Levi si era già addormentato.
Il finale non lo conosceva nemmeno lui, Uri non glielo aveva mai raccontato...

 

Ai margini della città sorgeva un piccolo cimitero abbandonato.

Aveva pagato le guardie per portare fuori la salma della sorella, affinché potesse riposare accanto all’ultimo patriarca degli Ackerman.

Prima della morte del nonno, non sapeva dell’esistenza di quel luogo. Si era domandato perché mai, un clan che recava il marchio infame di ‘nemico della corona’, potesse godere tutt’ora di un privilegio simile, e come quel mausoleo decrepito fosse sopravvissuto alle intemperie e all’odio del genere umano, senza mai essere stato oggetto di profanazione... 

Ma Kenny non poteva sapere che fu il re in persona a volerlo.
Il Primo re, colui che aveva dato inizio alle persecuzioni, era anche lo stesso che aveva concesso ai discendenti degli Ackerman di ricevere una sepoltura dignitosa dopo la loro morte.
E la ragione dietro a quel gesto - così ingiustificabile e incoerente, ma solo in apparenza - la vera ragione... nessuno la conosceva.

Kenny non sarebbe mai stato un nonno o un patriarca, aveva rinunciato a quell’eredità quando aveva scelto di devolversi interamente alla violenza. E dubitava che Levi, a sua volta, lo sarebbe mai stato...

 

“Io vivrò per conto mio.”

Kenny aveva cancellato il suo cognome sostituendolo con il triste appellativo de “lo Squartatore”. Kuchel, dal canto suo, non si era nemmeno data la pena di inventarsi qualcosa...

Lei aveva sempre visto le cose in modo più semplice. Se il nome di famiglia era tutto ciò che impediva loro di condurre un’esistenza normale, bastava abbandonarlo e ripartire da zero: scomparire.
Avrebbe cercato un lavoro e provveduto a se stessa, lasciandosi tutto alle spalle, ogni zavorra legata alle tragedie del suo casato e il sangue maledetto che le scorreva nelle vene, e avrebbe vissuto solo per se stessa... Ma per chi non aveva un’identità, dentro quelle strette Mura, la chiostra di mestieri che si potevano svolgere si stringeva drasticamente... fatta eccezione per quelli più umilianti e privi di assistenza.
Il bordello dove aveva trovato rifugio non era il posto più sgradevole di questo mondo. E quel complesso di cunicoli e caverne sotterranee che non vedeva mai la luce del sole, dove il re e le sue leggi non avevano appiglio, era l’ultimo luogo rimasto in cui i relitti della civiltà umana potevano vivere in relativa libertà.
In quel luogo, Kuchel - solo Kuchel - aveva dato alla luce suo figlio. In quel luogo, suo figlio sarebbe stato al sicuro...

Quando se ne andò di casa, Kenny non fece nulla per fermarla. E non fece nulla, nemmeno quando lei smise di pulire le stanze e cominciò a vendersi, in quel buco merdoso...
Una sola volta si era ritrovato a discutere le scelte della sorella, e lei aveva finito per sbattergli la porta in faccia.

Doveva aver aspettato fino all’ultimo, quell’uomo - quel cialtrone, pittore strampalato -, ma lui non era mai tornato... 
L’unico ad essersi presentato, quando la sua pelle aveva cominciato a sgretolarsi, fu il suo stupido fratello.

“Amore mio... Non devi preoccuparti, il tuo papà verrà a prenderci e ci porterà in un posto bellissimo... Lui ci terrà al sicuro e ci starà sempre accanto, te lo prometto...”

Delirava nella febbre, ma il bambino avrebbe voluto che fosse vero...

 

Mangiava poco e parlava anche meno, per il resto del tempo era espressivo quanto un ciocco di legno. Aveva provato a farlo ridere - o terrorizzarlo, non sapeva bene - cercando un punto di connessione, ma niente... Perlomeno, sembrava in grado di badare ai suoi bisogni e di nutrirsi da solo, tanto bastava per non morire di fame.
Veniva ogni tanto per assicurarsi che fosse ancora vivo, gli lasciava del cibo, qualche spicciolo e poi spariva nuovamente... La tentazione di lasciarlo al suo destino lo aveva sfiorato un giorno sì e uno no.
Poi un giorno era tornato e non lo aveva più trovato in quella stanza... Levi, corse per tutti i vicoli dell’isolato gridando il suo nome, pensando con rabbia a come lo avrebbe sistemato una volta che lo avesse riacciuffato... e cercando di convincersi che non fosse panico, quello che lo stava divorando di minuto in minuto...

Era piccolo, ma sapeva già cos’era la morte. Non aveva mai pianto per la madre, almeno non di fronte a lui.
Che cosa doveva aver pensato, che pensieri aveva fatto, per tutto il tempo che era rimasto accanto al corpo di sua madre?
Se lui non fosse mai arrivato, si sarebbe alzato da lì, prima o poi, e avrebbe deciso che ne aveva avuto abbastanza... o avrebbe continuato a starsene rannicchiato al buio, in quel fetido buco dimenticato da dio, e si sarebbe lasciato morire insieme a lei?
Chiunque fosse il bastardo che lo aveva concepito, non aveva mai avuto un ruolo nella vita di questo bambino; forse non sapeva nemmeno di essere padre.
Ma era una cosa che capitava spesso laggiù... I bambini venivano al mondo da soli e da soli crescevano, se ci riuscivano, sopportando anche le violenze peggiori.

Che cosa c’era da capire in questo?

Lei desiderava questo bambino, perché voleva disperatamente che qualcuno l’amasse, ma nonostante questo non era riuscita a proteggerlo... Egoista, gli aveva lasciato questo fardello.
Levi era l’errore che sua sorella si era lasciata indietro, a cui avrebbe cercato di porre rimedio, e non avrebbe mai voluto che gli si affezionasse...

Alla fine lo ritrovò. 

C’era un’apertura naturale nella grotta, un oculo da cui si riusciva a scorgere una piccola porzione di cielo e la luce, piovendo in un fascio obliquo, si andava a tuffare nelle acque oscure di una cisterna circondata da stalagmiti. 
Il vento che passava attraverso quei condotti somigliava a un lamento. Nessun bambino si sarebbe mai spinto fin laggiù. Apparivano spettri, dicevano. 

Levi era seduto su uno di quegli scogli, le braccia attorno alle ginocchia e lo sguardo perso in alto.

Quel giorno decise di insegnargli a difendersi, perché non voleva tenerlo legato ad alcuna promessa.

 

 

....

 

Tutte le volte che uno squadrone usciva in ricognizione, c’era sempre una folla impressionante che accorreva per vederlo e le campane venivano suonate in tutti i distretti del sud per celebrarne la partenza, come se un atto suicida meritasse tanto clamore...

Era l’anno 844. 

Non aveva nemmeno fatto in tempo a mettere il naso fuori dai cancelli che, a dodici mesi dalle sue scorrerie gloriose, Wall Maria sarebbe stato abbattuto con un calcio, come una torre di sabbia dal capriccio di un bambino.

 

 

“Adesso giochiamo a nascondino. Conterò fino a tre. Tu comincerai a correre e io verrò ad acchiapparti... Ma bada bene a dove metterai i piedi, perché non verrò a tirarti fuori dalla merda!”

“Non mi va.”

Annoiato. Aveva sempre quello sguardo annoiato. E gli dava sui nervi.

“Non decidi tu le regole. Tre, due........ Uno....”

 

BANG!!

 

Un uomo volò fuori dalla porta spalancata del saloon, finendo in mezzo alla polvere.

L’adrenalina che lo aveva animato poco prima era scemata tutto a un tratto, lasciando posto solo ai bruciori di una stizza insopportabile in fondo allo stomaco. Lo seccava il fatto di essersi fatto fregare da quel nanetto e si impuntava teatralmente a sottolinearlo, restando sdraiato nel bel mezzo di una strada pubblica. 
Dietro la sua nuca, i passi di qualcuno che si avvicinava. Un fruscio di abiti, lo sentì inginocchiarsi accanto a sé.
Conosceva quei passi...

“Per quanto ancora vuoi startene lì a dormire?”

Una mano gli levò gentilmente il fedora dal viso, scoperchiando il calore del sole che andò ad inondare tutta la sua visuale. Sopra di sé, Uri gli sorrideva.

Soffiava vento sulla prateria. Il grano era stato mietuto e le balle di fieno accumulate lungo le staccionate della fattoria. Gli uccelli conversavano animatamente tra i rami degli alberi.

“Hai fatto un bel casino, lo sai?” lo rimproverava l’eco soave della sua voce, lui non si arrabbiava mai. “Lui non te lo perdonerà.”

Il viso di Uri era senza età, né vecchio né giovane, fermo in un tratto del tempo che aveva smesso di appartenere a questo mondo.

Kenny tese un braccio in alto, sfiorando il chiarore traslucido di quella guancia - così reale, così solida - la avvolse nella sua mano grande. Il freddo del derma gli era familiare, levigato sotto i suoi polpastrelli e sottile contro l’osso mandibolare.

“Non voglio che lo faccia...”

Durò pochi secondi.

“Capitano Ackerman... è finalmente morto?”

Il prato scomparve. Kenny riaperse le palpebre nell’oscurità.

Il dolore tornò a ricordargli di essere ancora un mucchietto d’ossa scricchiolanti. 
Sollevò il cappello dagli occhi per dare replica all’impertinenza fortuita di Traute - sua prediletta nonostante tutto: “come farebbe un morto a risponderti?” e si tirò sù a sedere, annoiato.

Aveva ancora un lavoro da finire. 

 

 

Se Frieda fosse ancora viva, avrebbe avuto 23 anni. E Urklyn 21.

Ackerman era l’ultima persona al mondo da cui si sarebbe recato, malgrado fossero legati l’uno all’altro da un vincolo irriducibile.

Lo aveva tenuto in pugno per tutti quegli anni, accettando di conservare il silenzio per lui e di essere suo complice nel fuorviare la verità sul massacro della sua famiglia, ma quella farsa non avrebbe retto a lungo... E quando il cappio del governo tornò a stringersi intorno al suo collo opulento, dopo cinque anni, Rod si ritrovò costretto a riallacciare i suoi rapporti con quell’unica persona che gli restava della sua ‘famiglia’ e che, più di ogni altra al mondo, aveva disprezzato.

Conosceva perfettamente le sue intenzioni. Le aveva sempre sapute...
Lo aveva messo in guardia ripetutamente, e ripetutamente lui aveva deciso di ignorarlo, così cieco e così testardo e traviato com’era, Uri, dai peccati della carne, da cercare di screditare le sue elucubrazioni, ripetendogli che Kenny non rappresentava un pericolo... ma lui non ci aveva mai creduto.
E aveva sempre avuto ragione, tristemente, proprio perché erano così simili tra loro, aveva potuto intuire fin dall’inizio la reale portata delle sue ambizioni.

Il consiglio, del resto, non avrebbe esitato a sbarazzarsi di lui, una volta ottenuto ciò che necessitava alla successione: un erede di sangue reale. 
La sua esistenza era del tutto superflua. Lo era sempre stata, dal giorno in cui era venuto al mondo, non aveva avuto altro scopo né valore che quello della procreazione. 
Suo fratello, a modo suo, si era sottratto a questa ruota maledetta. E Rod avrebbe cercato ogni mezzo possibile per scavarsi una via di salvezza...

 

“Hai mai sentito parlare del Capitano Levi della Legione Esplorativa?”

Doveva essersi aspettato a lungo quella domanda. Quando Rod glielo pose, non ne fu impreparato.
Affatto.
Tutta la fottuta umanità ne stava parlando... Era impossibile ignorarlo.
Il nome di Levi era passato di bocca in bocca, fino a divenire una fottuta leggenda dentro le Mura...

Il soldato più forte dell’umanità. 

Se lo aveva tenuto d’occhio dall’ombra, in quegli anni, lo aveva fatto solo per accertarsi di non imbattersi di proposito sulla sua strada, evitando ad entrambi un inutile imbarazzo.
Malgrado ciò, non poteva di certo immaginare che l’ostacolo più grande lungo il suo cammino sarebbe stato proprio quel se stesso in miniatura che aveva deciso di plasmare per noia, tempo addietro...

 

Una partita fatta di strategie, mosse e contromosse, snodata tra le viscere contorte e stratificate della città sotterranea, come la parafrasi delirante di una scacchiera su scala 1:1.
In un crescendo di ritmo e tensione, a inseguirlo era un folle ticchettio ai timpani. Più fuggiva e più lui lo rincorreva, sua ombra instancabile, mentre le sue riserve di nervi e fiato si esaurivano, e inevitabilmente finiva per mettersi nel sacco con le sue mani... ed era allora che lo scovava, puntualmente: agguantandolo per la collottola e sradicandolo tutto scalciante dal suo fetido nascondiglio. 

Ogni stramaledettissima volta.

Diceva di odiarlo, quel gioco - o lui
Ma le fiamme in fondo ai suoi occhi - ringhianti e inarrendevoli - tutte le volte che lo costringeva a guardare in faccia alla sua umiliazione, dicevano tutto il contrario...

Levi era cresciuto seguendolo per quelle strade pullulanti di scorie urbane, tra i tendoni dei mercati chiassosi e le taverne malfamate. Gli veniva dietro come un anatroccolo ricalcando goffamente i suoi più inavvertiti atteggiamenti: il suo modo di camminare, di osservare, di bluffare, come ragionava e cosa pensava, compreso il suo ricco glossario di insulti elaborati quanto fantasiosi di cui andava sempre decantando...
Lo emulava per sopravvivere, ne indossava la maschera, ricreando in sé la sua figura. Non per affezione, certamente. Sopravvivere non era mai una scelta.

Una sola cosa non era mai riuscito a inculcargli, la sua visione del mondo: una sorta di vendetta infantile nei suoi confronti per averlo lasciato indietro e perché in fondo a sé sentiva di non essere come lui, perché l’amore di Kuchel era rimasto dentro di lui, malgrado tutto...
E per Kenny, era come se una parte di sua sorella continuasse a rivoltarglisi contro, dopo tutto questo tempo, solo per il gusto di farlo imbestialire...

 

Gambe puntate a terra e braccio dietro la schiena, il pugno rovesciato batteva con fermezza contro il petto: curioso, quanto il saluto dei soldati somigliasse invero all’atto di pugnalarsi al cuore...

 

“Se non volevi che l’umanità scoprisse la verità, perché hai voluto ridare a loro le Ali della Libertà?”

“Non sono stato io... lo hanno deciso loro stessi questa volta.”

Non aveva il potere di salvare quei bambini, ma poteva lasciare a loro la possibilità di scegliere il finale di questa storia: una favilla di speranza, che un giorno sarebbe divampata fino a travolgere questo piccolo mondo, inalberandosi contro l’oscurità... Coraggiosi, intrepidi piccoli eroi della sua storia...

“Quel bambino... come si chiama?”

“Levi, solo Levi.”

 

Uri... che cosa vedevano i suoi occhi?

Che cosa sentiva, attraverso questa sua esistenza amplificata?

Essere connesso a un tutt’uno, a ogni creatura esistente del creato...

Questa sorta di coscienza estesa, come un risveglio interiore, lo portava ad essere un catalizzatore dell’assoluto: il satellite che trasmette e unisce tutte le coordinate cosparse nell’universo, dovunque si trovino, tenendo aperto il sentiero in entrambi i sensi; libero di andare e venire, e non più costretto alla gabbia di un singolo corpo o limite di un unico arco vitale, ma essere in grado di attraversare tempo-spazio, dominarlo e piegarlo al proprio volere... 
C’è chi lo chiama Dio.

Kenny non si era mai sentito parte di questo “tutto”, o magari si era sempre rifiutato di farne parte.
Aveva sacrificato ogni cosa, lungo la strada per ottenere il potere. Compreso sua sorella.
Eppure quell’impulso per la vita che aveva sempre covato e soffocato dentro di sé - il suo stesso sangue - era imploso quando aveva incontrato Uri, la chiave per risvegliarlo, e lo riconnesse al sentiero dei suoi antenati...

Dopo aver perso la ragione che si era scelto di essere al mondo, tutto ciò a cui si era aggrappato fu un vecchio sogno.

Aveva rincorso la violenza per buona metà della sua vita, facendone il suo scudo e la sua arte, ma aveva compreso già da tempo la sua perfetta inconsistenza di fronte a un potere infinitamente superiore, qualcosa in grado di rovesciare le fondamenta stesse di questo mondo...
Ciò che intravvide, quando i giganti sfondarono le Mura, fu una breccia di possibilità. 
L’aveva atteso per più di vent’anni, perdendo l’estro lungo la strada che lo aveva condotto a conoscere Uri, e ora aveva solo bisogno di una scusa credibile: se il mondo sarebbe stato cambiato e l’umanità liberata, era solo un effetto collaterale. 
Si augurava che Uri fosse nei paraggi a godersi questo spettacolo memorabile...

 

 

In chiesa lui non ci andava mai per pregare. Era un posto tranquillo, lontano dal caos mondano, e un riparo discreto per le intemperie, dove godere di un po’ di solitudine al penombra.
E poi... sperava sempre di vederlo lì, di fronte a quell’altare vuoto.

 

Uri aveva dei fiori tra i capelli. Delle fottute margherite, per la precisione. 
Aveva trascorso di nuovo il pomeriggio alla villa con quelle tre pesti - Frieda, Abel e la piccola Floriane - che gli avevano pettinato a turno i capelli, ormai troppo lunghi da tenere in ordine, acconciandoli per gioco.

“E io che dovrei farne? È raccapricciante...”

“Te li sto dando...” 

Aveva reciso un po’ di quei meravigliosi fili d’argento e, con un cipiglio offeso, gliene aveva rifilato in mano un ciuffo, legandovi intorno un sottile nastro cremisi.

Doveva essere una strana usanza del suo ceto. Certe cose non le aveva mai capite...

 

La cappella della famiglia Reiss era un po’ diversa dalle sontuose cattedrali che sorgevano dentro le città murate, dove le dee della Misericordia, della Temperanza e della Grazia venivano celebrate con canti liturgici ed eminenti oblazioni dai membri di quella congrega di fanatici impenitenti: più piccola, più austera.
Un custode laico era istruito a tenere le candele sempre accese.

Vi restava seduto per ore, su una di quelle panchine dure e scomode, ristagnante nell’olezzo perenne di resina e cera sciolta, in attesa di qualcosa - qualunque cosa.
Strano che gli fosse venuto in mente ora di farlo. Prima non gli era mai interessato andarci, in chiesa...
Uri non era mai venuto da lui.

Kenny strinse quella delicata ciocca di chioma ingrigita tra le dita e la baciò, prima di riporla nel taschino del suo gilet scuro, e si levò in piedi.

“È tutto pronto, Capitano.”

Si calò il fedora sugli occhi, sollevando il cilindro del calibro che rimandò uno scatto metallico, lo sguardo nero di determinazione.

 

 

 

L’ipotesi era che quando una persona riceveva il potere di un titano, era più facile per lei assimilare anche i suoi ricordi se in precedenza aveva avuto un’interazione - una qualunque fattispecie, affettiva o meno - con chi l’aveva preceduto.

Doveva esserci qualcosa di speciale in questa connessione informe e profonda tra esseri umani, che dissolveva le barriere dei conflitti, al di là delle diversità, capace di scavarsi una strada nelle più impervie regioni dell’animo umano e far sì che le volontà dei singoli si venissero incontro...

Non sufficiente da costruire un mondo senza guerre, ma abbastanza per far sì che la speranza continuasse ad ardere.

Uri aveva creduto fermamente in questo.

 

Il potere di annientare questo mondo e ricrearlo dalle sue ceneri.

Il potere di fermare il tempo, e guadagnarsi quel pezzetto di eternità sulla terra che lui sapeva essere illusione - ma non per questo, gli era meno cara...

Voleva verificare con i suoi occhi questa ipotesi. 
Tuffarsi nel ventre infuocato dell’inferno e osservare come il mondo si sarebbe dischiuso nell’ora della sua distruzione, offrendosi a lui in tutta la sua perfetta impietosa gloria...
E finalmente, ereditare la memoria del mondo dove Uri viveva ancora e divenire lui stesso la sua memoria.


Si diceva che le battaglie degli Ackerman fossero sempre le battaglie di qualcun altro.

In questa ora buia per l’umanità, ultimi superstiti di una stirpe ormai in estinzione.  due Ackerman si ritrovarono schierati sui fronti opposti di una guerra insensata tra le Mura.
Lame levigate incrociandosi sprigionavano scariche di scintille e fiamme, era il suono del passato che si scontrava con il futuro. 
Benché inconsapevoli rincorressero il riflesso del medesimo sogno, nessuno di loro era disposto a rinunciare alle proprie ragioni...

“Perché mi hai abbandonato?”

Quella domanda ingrata, che era riecheggiata in ognuno dei suoi affondi, inferti con rabbia irrisolta e risoluto intento di lacerargli l’anima, come la furia esaltante di quegli occhi grigi, perfetta coppia dei suoi...

... Quando in mezzo alla folla aveva girato i tacchi, non aveva pensato a molto. Non vide mai lo sguardo del bambino che si lasciava alle spalle.

La sua colpa fu di aver lasciato sempre le cose a metà. Non aveva potuto amare completamente Levi, così non poteva amare interamente Uri.
In bilico tra la propria inadeguatezza e i propri rimorsi aveva sempre optato per la fuga: non restare mai fermo in un punto, non mettere mai radici, libero da ogni vincolo e costrizione, e non ne sarebbe mai stato vittima... Benché doveva essersi accorto per forza che a forza di fuggire, a un certo punto, la sua fuga si era capovolta in un disperato inseguimento...

Eppure a un certo punto, quando aveva cominciato a percepire l’approssimarsi della fine, come era comune a tutti gli uomini, doveva aver sentito la necessità di lasciare il proprio retaggio a qualcuno: era solo capitato che fosse figlio di sua sorella, avrebbe potuto essere chiunque, un trovatello senza nome raccattato per strada e le fognature dell’umanità non mancavano certamente di orfani e bastardi... 
Ma nessuno sarebbe stato come Levi.

A Levi aveva dato tutto ciò che aveva, un armamentario di sapere e resilienza con cui trovare un proprio posto nel mondo, e come ultima lezione, lo abbandonò...

Lo privò dell’amore, per potergli dare in cambio qualcosa di meglio: il bene più ambito e inaccessibile dentro questa gabbia di condannati a morte.
Ma non era qualcosa che si potesse concedere... non aveva questo fottuto potere. Dopotutto non gli importava di come il mondo sarebbe andato in malora di lì a poco, ma Levi avrebbe dovuto conquistarsele da solo, con le sue sole forze...

Non aveva bisogno di nient’altro. 

Solo la libertà di scegliersi come voleva morire... 

Perché amore era schiavitù, era dipendenza, proprio come le mura possenti che avevano protetto l’umanità in quei cento anni, facendole dimenticare cosa fosse “vivere”...
Quando quella gabbia si fosse sfracellata, Kenny avrebbe voluto essere lì per vederlo... quelle magnifiche ali e il modo in cui il suo Levi avrebbe solcato i cieli, quel giorno, per inalzarsi al di sopra di tutte le miserie umane e divenire finalmente ciò che era nato per essere...

Lo aveva cresciuto, affinché un giorno lui potesse ucciderlo. Levi era l’unico al mondo ad averne legittimo diritto e parimente la forza di portarlo a compimento. 
Aveva cresciuto il suo assassino. 

Kenny aveva cercato di convincersene per tutta la vita, per non correre il rischio di doverla pensare diversamente...

 

 

....

 

Il mondo aveva cominciato a crollargli letteralmente addosso.
Li vide cadere, uno dopo l’altro, tutti i suoi uomini, in quella pioggia di macigni, come manichini aggrappati a fili illusori di speranza, mentre le fiamme li inghiottivano.
Nell’oscurità, il boato terrificante della terra che si apriva aveva continuato ad echeggiare sordamente in fondo ai suoi timpani... 

Non ricordava nemmeno come fosse riuscito a riemergere da quell’inferno.

 

Ironico come gli venisse da pensare a Sannes in un momento simile, l’ombra incallita dell’itterizia su quel volto eternamente contrito, in cerca di redenzione, e i moti di Uri sempre attaccati alla bocca, di cui aveva fatto la sua ragione di vita. 
E fu con la sua voce inferma e miserevole che quel fottuto scherzo chiamato Universo gli parlò per la prima volta, sulla guancia una scia di lacrima di boia: “è solo il tuo turno, Kenny”...
Almeno, così aveva creduto.

Una beffa perfetta, questo doveva riconoscerglielo. La pugnalata che aveva atteso da tutta la vita di affondare nella sua schiena, dopo che si erano usati a vicenda, guardandosi e tramando dalle spalle dell’altro per tutti quegli anni, dopo che ogni cosa era stata detta e fatta... Rod Reiss non esitò a colpirlo a tradimento, proprio all’ultimo secondo, incassandosi così la sua vendetta perfetta.
Doveva essersi goduto quella sceneggiata, degustandosela parola dopo parola, in attesa fremente dell’istante in cui, con una svista elementare eppure inappuntabile, sarebbe riuscito finalmente a scaraventarlo a terra.
Ma la sua gratificazione era durata poco. Aveva calcolato davvero tutto, quel bastardo, tranne il fatto di tramutarsi in un gigantesco verme strisciante...

 

Aveva vagato a lungo sulle vaste pianure alluvionali tra i due fianchi delle montagne, ricoperto di terra e fuliggine come un fresco cadavere appena riesumato, la visuale traballante di un solo occhio a fargli da guida, esaurendo infine le sue energie nei pressi di una macchia di coniferi, dove il folto della foresta diradandosi lasciava spazio al paesaggio deturpato di quelle terre a lui così familiari.
Si era liberato del peso del dispositivo di manovra tridimensionale, sganciando le cinghie con una nota di insofferenza, e lo aveva lasciato cadere dietro di sé - un vago tonfo sull’erba - senza darsene più pensiero.
Un grugnito, si accasciò contro la corteccia tiepida di un abete, scivolando col sedere a terra, e si concesse di riprendere fiato.
Capiva di essere fottuto - e non sarebbe la prima volta - ma era certo di avere ancora forza sufficiente per uscirne vivo, approssimativamente integro: con mani tremanti si tastò il fianco destro, dove la lama di Levi era penetrata portandosi via un pezzo di lui, poi scese più giù, alla sua schiena, tuffandosi nello stretto intercapedine tra la sua cintola e il tessuto raggrinzito della camicia da cui estrasse - un altro grugnito di dolore nel sollevarsi - un astuccio nero.
Cazzo, pensò, avrebbe voluto almeno ritrovare il suo cappello...

 

Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso. La luce aveva cominciato a calare a est, il profilo delle catene montuose poco più di una striscia scura e ondeggiante contro l’orizzonte infuocato.
Una sensazione di deja-vù gli permeava il petto. Il tramonto, la prateria, lacrime ai bordi delle sue ciglia chiare, e una daga conficcata in quel polso esile... Possibile che fosse tutto un eterno, maledetto ritorno? Un ciclo di dolore senza fine, a cui aveva cercato di sottrarsi per tutta la vita, e che ora si ripresentava a lui, a pochi istanti dalla fine, in quel paesaggio risibile, come a volersi prendere gioco di lui...
Era così stanco, se solo avesse la forza di mandarlo al diavolo...

Tra ciuffi d’erba umida, delicato rumore di passi, come di un’eco impastata e distante...

“Kenny...”

Oh, se solo avesse avuto la forza di mandarlo al diavolo...

Bianchi e minuti, quei due piedi scalzi se ne stavano fermi nell’oculo sottile del suo campo visivo, quando risollevò la palpebra, l’orlo immacolato della tunica ondeggiava impalpabile contro le sue caviglie sottili, insinuando la presenza del vento.
Per un attimo, Kenny credette ancora di sognare...

“Stai morendo, vecchio?”

Timbro asettico, indefinitamente greve. Conosceva quella voce... 
La figura del soldato si sovrappose all’entità luminosa, la quale andò lentamente scemandosi come fumo opalescente, mentre Kenny ritornava a mettere a fuoco.

“A te cosa sembra?”

Fu della retorica grama, era solo troppo disgustato per concedergli quella soddisfazione. 
Non poteva vedersi, ma dal modo in cui lo stava guardando - pietà? ribrezzo? - poteva benissimo dedurre di essere messo male, anzi, spacciato. 
Una patina rossa e viscida appannava il solo occhio che gli era rimasto, lascito dell’ustione che aveva divorato la metà sana del suo viso, quando un macigno infuocato lo aveva quasi sfiorato in volo; se restava fermo e concentrato, misurando la frequenza del respiro, riusciva quasi a ignorare il dolore lancinante...
Poteva solo sperare in un colpo rapido - perché era questo che lui era venuto a fare, per assicurarsi che non sfuggisse al giudizio finale - dell’acciaio ben affilato, come quello forgiato apposta per trastullare la Legione, o una pallottola in mezzo alla fronte sarebbe stata perfetta...
Lo adocchiò con fiacco entusiasmo, vagamente nauseato. Levi imbracciava un vecchio fucile dal calcio usurato e rimase a distanza di sicurezza dal prigioniero, le spalle rigide, in allerta. 
Non aveva avuto modo di constatare quanto fosse cresciuto in realtà, e questo non lo esimeva dal trarne spasso a ogni occasione: era sempre un tappo incurabile, ma... si era fatto un po’ più alto... Quand’era stata l’ultima volta che, anche restando sul pavimento, poteva ancora scrutarlo facilmente negli occhi?
Aveva mandato via il suo sottoposto con un pretesto qualunque - tipo fare rapporto - ed era rimasto intenzionalmente a tu per tu con lui. Doveva aver capito che quella che seguiva sarebbe stata una conversazione privata...

“Non ne sembri così dispiaciuto...” constatò infine Levi, laconico. Nessuna domanda. Nessuna ironia.
Doveva essergli sembrato come un grosso armadillo antidiluviano giunto qui a esaurire il suo fato... Era così che appariva ai suoi occhi? Si chiese, un matusalemme spiantato che non aveva paura di morire, o magari un patetico parassita che, per eccesso di viltà, sarebbe rimasto aggrappato anche alla più infima delle prospettive?

Gracchiante, macabra, rossa come erano le fauci dell’inferno...

“Me la sto facendo sotto in realtà...” Doveva essere una risata distorta delle sue, che aveva in sé una tristezza intrinseca e disillusa, e che andò esaurendosi lentamente, lasciandogli un sapore ferroso e stopposo sulla lingua riarsa, il sentore di una verità ineluttabile. “Ma non è così male, a pensarci bene...”

“Cosa intendi?” Si accigliò Levi.

La curva della smorfia caustica si spianò un poco, in qualcosa di più benevolo, con una delle sue palpebre socchiuse bruciata dal sole e, tremulo nel suo iride, il picco di raggi dorati che irrorava un’ultimo intenso grido, prima di annegare dietro quelle creste ombreggiate. 

“Un giorno, forse, lo capirai...”

Sarebbe bastato che lo desiderasse. Un singolo palpito di volontà era sufficiente a permettergli di scavalcare le porte dell’Ade e trascinarsi fuori dall’oblio dell’oscurità in cui stava lentamente scivolando... Dopotutto era sopravvissuto così tante volte alla caccia indefessa del Mietitore, aggrappandosi alla straordinaria forza vitale con cui erano stati benedetti i suoi antenati: un giro in più sulla giostra che differenza poteva fare?

Aveva aperto il contenitore delle fiale molto prima che Levi giungesse. 

Gli venne da pensare che somigliasse a un sarcofago in miniatura, imbottito all’interno da grinze di soffice velluto per ancorare il prezioso contenuto - un set completo di boccetta, siringa e un ago di riserva per l’iniezione endovenosa - e a giudicare da come lo aveva fatto Rod, non doveva essere un’impresa assembrarlo da solo... 
Curioso come un elisir di vita eterna potesse costituire anche un veleno letale, a seconda dell’uso che si intendeva farne.

La sua mano sul coperchio e il lampo di fredda realizzazione nell’espressione intonsa di Levi gli suggerì che aveva colto finalmente l’antifona, ma la sorpresa - o il timore che fosse - permase solo il tempo di un respiro, facendo presto spazio ad altre inesplorate incognite in fondo ai suoi occhi... “Hai avuto tutto il tempo per farti l’iniezione, allora, perché non l’hai fatto?”

Come se avesse mai avuto la risposta, o una scusa credibile, per non restare qui a crogiolarsi nell’affascinante ipotesi dell’oltretomba, indulgendo se stesso dal prendere in mano la situazione: la risposta a quella domanda che, fin da quando avesse memoria, aveva sempre cercato e rincorso senza posa, solo per farsela scivolare via dalle dita, ancora, e ancora...

Si era già tirato su la manica, arrotolandola fino ad esporre l’interno del gomito, ricordando il punto esatto in cui la punta della cannula andava allineata contro lo strato di cute dietro cui sentiva pulsare in rilievo una vena bluastra, e con la mano libera sfilò per primo il cilindro in vetro della siringa dal suo letto incavato.
Aveva chiuso gli occhi, sentendo l’affanno del propio respiro accelerare, solo per un breve istante. Dietro le palpebre, vedeva un’ombra muoversi in quella cortina di luce tremula, come un dardeggiare di sole dietro il fogliame frusciante di un albero... 

Uri... Se fosse stato lì, si sarebbe inginocchiato accanto a lui - e poteva percepirlo distintamente, come un alito di brezza calda contro il viso - mentre serrava la sua vita in un pugno fino a tremare, lottando contro il desiderio di fuggire, le sue mani fredde e levigate lo avrebbero avvolto con gentilezza e, senza dire una parola, avrebbe cominciato a sfilare le sue dita dall’appiglio di quei tre anelli saldati all’estremità del pistone argenteo, una per una - indice, medio, e pollice - lentamente, senza fretta... fino a ché non lo avesse liberato dalla sua stretta: perché questo avrebbe fatto, se fosse stato lì, in quel momento, avrebbe cercato di dissuaderlo, esattamente come aveva dissuaso suo fratello un tempo - ma non voleva paragonarsi a quel mappamondo...

Dell’Impero di luce che aveva difeso per lui, ormai non restava che un pugno di rovine e infamia. 
La consapevolezza che era tutto perduto, ancora una volta, un’amara ritorsione, si posò sulle sue spalle come una placida constatazione. 
La nebbia, quella rabbia totalizzante che era solita impossessarsi di lui, sembrava dissiparsi gradualmente. E con la vista finalmente rischiarata, un’ispirazione gli si venne ad affacciare, repentina, volatile, e la coscienza di Kenny tentò di afferrarla prima che potesse scomparire, rincorrendola attraverso i volti e le vite - storie di coloro che inconsapevoli furono portatori di verità - in cerca di un filo conduttore, un sentiero segreto che, serpeggiando per miglia e miglia attraverso le viscere dedaliche della memoria, potesse finalmente ricondurlo a casa...
E di quell’Umanità che gli era sempre stata estranea e detestabile, Kenny riusciva infine a comprendere le ragioni. Per un istante, un brevissimo istante, riuscì perfino a sentirsi parte di essa.

Forse non gli era mai interessato davvero trovarsi lassù, ergersi in cima alla catena alimentare. Acquisire il potere che gli avrebbe permesso di accorciare le distanze inalienabili tra le loro singole esistenze. E non gli sarebbe importato nemmeno di poterlo capire, alla fine... Tutto ciò che voleva, ogni atto teso a guadagnare tempo, era che Uri potesse vivere un po’ più a lungo...

E lui che era sopravvissuto a tutti loro - a Kuchel, a Uri, a Rod Reiss, a quei folli sognatori ubriachi della vita, ed a Sannes per quanto ne sapeva - in quel mezzo secolo e oltre, sentiva di non aver imparato ancora nulla...

La più sfolgorante intuizione dell’umanità, o solo il riassunto deprimente della sua vita, ma dovevano essere sembrati vaneggiamenti di un moribondo alle sue orecchie.
Per cosa avrebbe vissuto Levi? Cosa avrebbe fatto, quando fosse venuto il suo turno? 
Avrebbe continuato a trascinarsi avanti, in quel pantano senza fine di morte e futili conquiste, lottando per rialzarsi ogni volta, anche se il mondo avesse cercato ripetutamente di metterlo sotto terra? O come l’ultima volta, si sarebbe rannicchiato in un angolino contro il muro lercio di una stanza buia - come quando lo aveva trovato, un fantasmino vestito di stracci - ad aspettare che la Morte gli venisse a bussare?
Il diritto di chiederselo, Kenny sapeva di averlo gettato via tanto tempo fa...

Lo vide gettare via la carabina come il peso inutile che era, cadendo sulle ginocchia, imperterrito, sullo spiazzo di terra ed erba rada di fronte cui le sue gambe si diramavano indolenti. Estorcere confessioni da un uomo morente, la giusta dose di stoicismo che ci si aspettava da un soldato.
Tutta quella strada fatta per venirlo a cercare, rovistando tra macerie e brandelli di soldati, sospinto da dio-solo-sa quali motivazioni e volontà. 
Qualunque cosa avesse cercato laggiù - la verità, la speranza - lui non era in grado di dargli. Non n’era mai stato degno.
Non aveva nulla da dirgli che non si fossero già detti nel corso della battaglia nella grotta o, ancora prima, sui tetti di Stohess: uno scambio vicendevole di rabbia e violenza in cui avevano messo a nudo i loro cuori. E non doveva esserci nient’altro, nessuna patetica scusa o giustificazione vana per ciò che non era mai potuto essere tra loro...

Tutto ciò che sapeva, pretese. Tutto ciò che sapeva non era poi tanto diverso da un aneddoto da taverna, una storia campata per aria...
Non aveva idea di chi aveva davanti. Non aveva pensato molto a Levi in quegli anni. Il Levi che ricordava era il marmocchio recalcitrante delle notti insonni, quello dei lunghi silenzi furiosi... Non conosceva affatto quest’uomo, questo giovane uomo che era la coppia carbone di Kuchel.
Non aveva idea di chi era diventato, né del valore che quella domanda poteva avere davvero per lui... 
Il soldato gli chiese di Reiss I, di perché avesse prospettato l’estinzione dell’umanità. Il soldato voleva salvare l’umanità, ma il bambino voleva sapere altro...
A questo punto, pur partendo da due punti cardinali opposti della vicenda, dovevano essere giunti per presupposto alla stessa conclusione e risposta. 
La storia che Kenny conosceva era un po’ diversa, ma quella che avrebbe conosciuto Levi lo era altrettanto. E Kenny decise che quella storia sarebbe stata per lui la stessa che il nonno gli aveva rifilato anni addietro, sul letto di morte, solo per non portarsi quel peso ammorbante nella tomba. Dopotutto Levi era solo un moccioso e, secondo l’etica di sua sorella, i mocciosi andavano preservati da certe verità scomode...
Levi si appressò a lui, se possibile, ancora di più. Le mani salde sulle sue spalle, come per impedirgli di scappare o impedirsi di vacillare. Circospetto ma determinato, quasi che avesse paura che qualcuno, un’ombra tra quei cespugli o dietro le nuvole, potesse origliare. “Se è vero che anche il mio cognome è Ackerman...” Non era una domanda, sapeva, inorridendosi. La temeva tanto quanto lui. “Alla fine, tu cos’eri, davvero, per la mamma?” Sillabò lentamente, composto, esitante. Il cielo ardeva rosso contro la sua pelle.
“Cosa sono stato per te?” 
Si era immaginato di dirlo, prima che la voce si incrinasse. Aveva ripiegato sul nome della madre per evitare di ritrovarsi in quella frase insieme a lui.
Quel dubbio che lo aveva lasciato orfano, era rimasto in lui per più di vent’anni. Lo aveva visto crescere e diventare uomo, camminando sempre un paio di passi dietro di lui e dormendogli accanto ogni notte. Era stato con lui in solitudine o in compagnia, era con lui quel giorno di pioggia...
Si era sempre detto che non gli importava saperlo. Ora, invece, non era certo se lo voleva sapere davvero...

Se fosse riuscito a zittirlo lì, dietro un comignolo anonimo di Stohess, quando la sua nuca era stata a portata di mira... Ma Levi era sopravvissuto al suo proiettile, e insieme a lui anche le ombre dei suoi rimorsi. 
Errore o fatalità non aveva importanza. Non c’era spazio per i sentimentalismi, quel momento sarebbe dovuto giungere prima o poi, e sarebbe stata la prova del suo fallimento o la sua più grande sconfitta.
Aveva una faccia così mortalmente seria - irriducibilmente ostinato e sincero - che gli venne da ridere e rise solo per confutare il quieto disagio che provava. Dopodiché gli disse che, sì, era suo fratello. Solo suo fratello, come se questa breve parentela lo scagionasse da peggiori accuse.
E la verità aveva quel retrogusto amaro come il sangue che gli incrostava la bocca, ma Kenny questo non glielo disse...

Sarebbe cambiato qualcosa, se fosse stato davvero uno sconosciuto? Se era così facile con un estraneo, perché non poteva esserlo per il sangue del suo sangue? 
Lo avrebbe abbandonato lo stesso, se fosse stato solo un perfetto sconosciuto?
Se gli avesse voluto bene, questo, non se lo sarebbe mai permesso di domandare...

Allentandosi la morsa sulle sue spalle, come sentiva la tensione del momento sciogliersi, le sue braccia scivolarono piano lungo i fianchi. La schiena si raddrizzò, come se dentro di sé avesse già accettato il verdetto finale, e saperlo del suo stesso sangue gli fece prendere inavvertitamente le distanze.
Delusione? Sollievo? Kenny non sapeva dirlo... Un velo di nubi sembrò calare, impercettibile, sulle sue palpebre, le sottili lame dei suoi occhi rilucere malinconiche - forse solo un gioco di luce in quel crepuscolo scarlatto...
C’era del sangue che gli imbrattava una guancia, ma non sembrava il suo. Aveva l’incarnato di sua madre, pallido e fin troppo delicato.
Quella sensazione gli era dannatamente familiare. 
Lo aveva già veduto altre volte, in altri luoghi, altri occhi... Occhi di coloro a cui sottraeva il barlume della vita, il modo in cui ella sopraggiungeva e l’aspetto che assumeva ogni volta... 
La prima volta la Morte aveva le sembianze di Uri, indicibilmente soave e terrificante in ogni fibra del suo essere. Stavolta, invece, gli apparve con il volto sdegnoso di Levi, ed era come rivedersi in uno specchio incrinato: la sua stessa espressione del cazzo, ma sul bel volto di Kuchel.
Così Kenny lo guardò, lo guardò davvero, e per la prima volta riuscì a focalizzarlo, senza filtri né ragioni superiori: il viso del giovane uomo che aveva preso il posto del bambino che era stato, e che avrebbe riconosciuto tra mille e milioni, non importava quante volte e il modo in cui sarebbe cambiato, perché sempre lo sarebbe stato ai suoi occhi. E quelli erano gli occhi del bambino che lo avevano inseguito, quel giorno, in un lento accavallarsi di spalle e braccia, lungo la strada i passi riecheggianti e fin dietro l’angolo di mattoni dove l’aveva visto sparire... 
Quella schiena, il fantasma di un’infanzia che non si era mai scollato dalle caviglie.

“Quel giorno, perché...” chiese la voce del bambino. “Perché te ne sei andato?”

In piedi di fronte a lui, tutto stropicciato e smarrito. 
I suoi piedi minuscoli imbrattati di nero sudiciume, le gambe che spuntavano come stecche dall’orlo di una camicetta chiara e tutta raggrinzita, gli occhi scavati...
Era una testolina sparuta che gli arrivava stentatamente al girovita, anche stando in punta di piedi. Gli abiti di seconda o terza mano dentro cui cadeva come uno spaventapasseri, una striscia di fuliggine sulla guancia che, nel tentativo di sfregare via con quella sua manica sudicia, finiva solo per spalmarlo dappertutto ogni volta... 
Se ne avesse avuto la forza, avrebbe voluto alzarsi da lì, per stringerselo al petto e portarlo via con sé.


 

Non importa se alla fine resterai solo, sopravvivi.

 

Usa ogni mezzo possibile a tua disposizione, sopravvivi. 

 

Uccidi chiunque tenterà di ostruirti la via, sopravvivi...


 

E Levi lo sentì arrivare anticipatamente, il peso muto che restò a bruciare contro lo sterno come pietra infuocata, e sussultando indietreggiò per attutire l’impatto di un pugno che non era mai giunto...
Il silenzio dopo, bianco, immobile, senza clamore. Il tumulto del vento a sovrastare ogni cosa.
Al posto di una lama, il nero cofanetto premuto sopra il cuore. Non fece in tempo a chiedergli cosa doveva farci.
Il tempo delle domande era finito.

Il destino di questo mondo e la sua memoria, la speranza che non aveva potuto dargli, il suo sogno, il maleficio a cui era incatenato, il futuro, una scelta ancora in bilico... Tutto questo - la sua stessa vita - Kenny lo affidò alle mani di Levi.

"Vivi". 

In quel gesto confuso come se stesse per scacciarlo, o volesse solo riscuoterlo dal suo torpore, mentre glielo scaraventava seccamente sul petto, insieme a tutto ciò che non era mai riuscito a dirgli... Le sue ultime forze, pregando che ne valesse la pena e che potesse preservarlo da ogni male, tranne quello che potrebbe fare a se stesso...
E per una volta, decise di non fuggire.
Si chiedeva se questo fosse amare, come lo scompenso di quell’equazione assurda che non era riuscito a risolvere all’inizio... Si chiedeva se lo avesse finalmente compreso, ma non lo avrebbe mai saputo...

“Ehi...” Levi gli diede un calcio, ma Kenny non si mosse.

“Moccioso... adesso perché ti metti in quella posizione?”

In silenzio, Levi si strinse le ginocchia al petto e rimase così, sotto quell’albero, ancora per molto, molto tempo. 
Ai suoi piedi, sbocciavano piccoli fiori senza nomi.

“Dacci un taglio, sei sempre stato troppo sentimentale...”

 

 

Kenny si issò in piedi, prendendo in braccio quel bambino emaciato, e se ne andò valigia in mano, portandosi via insieme a lui i ricordi del vecchio mondo che svaniva dietro di loro...

L’alba dell’indomani, quando il sole avesse tagliato l’orizzonte, un nuovo mondo sarebbe sorto sulle rovine del paradiso. Coloro che avevano pianto nella notte, ancora una volta, si sarebbero rialzati, e avvolgendo le ferite sotto il mantello avrebbero continuato ad avanzare. 
Ma fino ad allora, c’era ancora tempo...

 

 


 

 

 

“Quindi... come andò a finire?”

Un sorriso. “Te lo dirò la prossima volta.”

Si domandava quando fosse la prossima volta...

 

 

 

 

 

........

 

.....


 

“Comincia a fare freddo...”

“Stringiti a me.” 


Gli avvolse un braccio intorno alle spalle, i suoi capelli a solleticargli il mento, tentando di scaldarlo in quel giaciglio improvvisato per lui tra le sue gambe, sotto l’albero, spossati come dopo una lunga passeggiata.

Era il primo re, o era Uri, quello che stava stringendo? E lui... chi era, in quel momento?
Il cielo aveva i colori struggenti del crepuscolo, e sembrava lo stesso cielo scorto dal portico di quell’antico palazzo a Marley, con le pareti pitturati di ocra brillante e le fontane zampillanti... Lo stesso crepuscolo riflesso nei suoi occhi, quando la mano di un gigante lo aveva stritolato e un re aveva pianto per lui... 
O forse era solo una sua suggestione, Kenny non ne era più tanto sicuro...

Uri gli si adagiò contro, le palpebre pesanti, fondendosi nel tepore del suo petto ampio, e mentre lui gli baciava la tempia e il vento spazzava le praterie, come sul punto di prendere il volo, sussurrandogli piano...

 

 

“Portami a casa, Kenny...”

 

 


 

 

  
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