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Autore: Chocolate_senpai    01/01/2021    1 recensioni
A dieci anni di distanza dall'ultimo, famoso campionato, la ruota della storia gira di nuovo, di nuovo il perno di tutto è qualcosa che il Monaco stava tramando.
Volenti o meno, Kai, Takao, Rei, Max, e tutta l'allegra combriccola verrà buttata nel mezzo dell'azione, tra i commenti acidi di Yuriy, gli sguardi poco rassicuranti di Boris, i cavi dei computer di Ivan e la traballante diplomazia di Sergej.
Da un viaggio in Thailandia parte una catena di eventi; per inseguire un ricordo Boris darà innesco a un meccanismo che porterà i protagonisti a combattere un nemico conosciuto.
Sarà guerra e pianto, amicizia e altro ancora, tra una tazza di te, dei codici nascosti, una chiazza di sangue sulla camicia e il mistero di un nome: Bambina.
Starete al loro fianco fino alla fine?
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Boris, Kei Hiwatari, Takao Kinomiya, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2



- Da quando ti seguivano?-

Ivan strinse le spalle. 

- Una settimana? Giorno più giorno meno -

Yuriy annuì, lo sguardo perso fuori dalle fessure delle imposte che serravano la piccola finestra.

Era stato un viaggio precipitoso il loro; la mattina erano a Londra, la notte al limitare di una sperduta cittadina nelle vicinanze di Mosca; ed erano stati fortunati a beccare il volo più breve. 

Yuriy giocherellò con la cerniera del cappotto. Era pensieroso, come non poteva esserlo? Ivan aveva chiamato improvvisamente dal loro vecchio nascondiglio, parlando in codice. La zia era il segnale di pericolo, nessuno di loro si ricordava esattamente perché lo avessero chiamato così. Erano arrivati insieme all’aeroporto di Londra; Sergej li aveva raggiunti tempestivamente da Croydon. Non era servito nemmeno darsi appuntamento: si erano trovati puntuali allo stesso gate, in partenza per lo stesso volo.

Sapevano ancora lavorare come un branco.

- Hai idea di chi ... –

- Agenti standard in borghese, ma si muovevano in modo meccanico ... sarebbero stati scoperti anche da un imbecille –

- Quanti erano?- 

- Almeno cinque persone. Li ho lasciati fare per un po’, e quando ho visto che non mollavano la presa mi sono nascosto –

- Hai fatto bene – Yuriy gettò un’altra occhiata alle fessure delle persiane. Allungò una mano nella tasca dei pantaloni, tastando alla ricerca di qualcosa che non c’era. Chiuse gli occhi rassegnato. Niente sigarette.

Giusto, devo smettere

- Nuove reclute quindi? Spero che quel pazzoide non si stia muovendo di nuovo ... avete capito di quale pazzoide parlo -

- Sarebbe stato meglio se te ne fossi andato dalla Russia – continuò, con l’amaro in bocca di non poter rilassare il cervello con un po’ di sano fumo.

Ivan si stiracchiò. Il terribile maglione rosso, molto natalizio e un po’ in anticipo ai primi di novembre, rivelò in tutto il suo splendore la trama a fiocchi di neve sul davanti. 

- Mi avrebbero seguito anche in Africa  – afferrò un elastico dal comodino gettato in un angolo accanto al letto, legando i capelli viola prugna in una lunga coda 

- Che vogliono?-

- Bella domanda. Sicuro non me –

Boris tornò dal bagno in quel momento, se un cespuglio rinsecchito fuori casa potesse definirsi tale. Il suo mal d’aereo era ben conosciuto, e da lui ostentato fino all'inverosimile. Passò teatralmente una mano sugli occhi, come se avesse trascorso i  peggiori venti minuti della sua vita in quel gabinetto improvvisato, a vomitare sulla neve. 

Yuriy guardò l’amico con un sorrisino sarcastico. 

- Tutto bene caro?- 

Boris lo liquidò con un zitta troia a denti stretti, per poi accasciarsi sul letto  accanto a Ivan. 

Il capitano chiuse gli occhi, sospirando. Incrociò le mani al petto, appoggiò la schiena alla parete e si permise di rilassarsi un secondo. Ora che c’erano tutti, anche i ritardatari del gabinetto, si sentiva più tranquillo. Più disteso. Era tutto sotto controllo. Sigarette a parte.

- Nulla di cui preoccuparsi quindi?- Ser riagganciò il filo del discorso di Ivan, porgendo ai compagni una tazza di tè. Chissà poi da quale anfratto della credenza lo aveva tirato fuori. Conoscendolo poteva anche essersi portato i filtri da casa.

Ivan trangugiò una metà del liquido bollente senza fare caso né al sapore nè al bruciore in gola – Mi sono convinto invece che qualcosa di cui preoccuparsi c’è –

- E perché? Se non erano lì per te i problemi dovrebbero essere finiti–

Il più piccolo, perché Ivan era ancora il più piccolo in quantità di anni e di centimetri nel gruppo, finì il tè in un ultimo sorso; la tazza finì a poggiata a terra con malagrazia. Ivan puntellò i gomiti sulle gambe, lasciando le mani a sorreggere il volto. Non voleva ammetterlo, ma era stanco. Era molto probabile che non chiudesse occhio da quando si era rintanato in quella casa.

Una folata di vento più forte delle altre fece sbattere le persiane contro la finestra, producendo un cigolio che sapeva di avventura. Yuriy ricordava ogni fuga finita in quella casa sperduta, gli occhi sbarrati nel buio, le orecchie tese poiché ogni minimo suono poteva significare pericolo. Gli venne quasi da ridere.

Quelli erano bei tempi

Ora erano solo dei blader un po’ datati, con una quantità di esperienza che li faceva apparire quasi mistici agli occhi dei giovani. Almeno così era per lui e Boris. 

Sergej ad esempio aveva percorso un’altra via.


- Che hai fatto in questi anni?-

- Te l’ho detto, ho insegnato-

- Aspetta aspetta, quindi alla fine hai davvero ripreso l’università?-

- L’ho anche finita se è per questo. Ora ho una laurea –

Non ci era voluto molta immaginazione a Yuriy per indovinare a quale lavoro si fosse impiegato l’amico.

- Asilo?- Azzardò.

Sergej annuì, sulle labbra un vago sorriso nato dal ricordo improvviso della classe di bambini che lo aspettavano a Croydon.

- Immaginavo-


- Ora ce ne torniamo a casa?- I grugniti di Boris vennero percepiti a stento dal capitano, che comunque li ignorò. Puntò i suoi occhi su Ivan.

- Hai detto che non erano qui per te. Perché?-

- Perché se cercavano me e basta mi potevano attaccare quando volevano. Invece mi seguivano solo –

- E quindi?-

- Quindi cosa?-

- Avevano un motivo valido per farlo?-

Ivan sbuffò. 

- No! – alzò le mani al cielo con esasperazione – Insomma, dai, sono un tecnico informatico! Anche volendo non avrei più il tempo per una vita avventurosa – Agli occhi degli altri Ivan assunse le sembianze di un uomo di mezza età che lamenta la sua condizione lavorativa il venerdì sera al bar, prima di andare a puttane. 

A Yuriy venne quasi da ridere.

- Un tecnico informatico, eh?- Sussurrò tra se. Solo qualche anno prima stavano organizzando la formazione per l’ennesima partita di beyblade; nulla di emozionante, e di sicuro non un campionato, ma qualsiasi invito proveniente dal mondo di quelle dannate trottole era per loro un toccasana. Ce l’avevano nell’anima.

Poi Sergej si era svegliato e aveva deciso di intraprendere un’altra strada, qualcosa che gli desse più sicurezza nel futuro. Un lavoro vero, lo aveva definito così. Kai, per la prima volta nella sua vita, aveva dato retta al nonno e si era messo a giocare all’imprenditore. Ivan aveva deciso che il suo posto era a perdere diottrie dietro ad uno schermo e, a differenza degli altri, si era rifiutato di abbandonare la sua gelida madre Russia.

Erano trascorsi quattro anni da allora, tutto tempo volato via in un attimo. Erano di nuovo tutti lì a guardarsi negli occhi, ognuno conoscendo i pensieri dell'altro. Ne mancava solo uno, ma Yuriy giudicava da anni Kai irrecuperabile. Il nonnino caro ormai lo aveva incastrato negli affari di famiglia.

Il capitano finalmente si decise. Si staccò dal muro; allungò stancamente una mano alla zip del cappotto e lo riallacciò con calma.  

- Quante ferie arretrate hai Ivan?-

Sul volto del più piccolo si aprì un ghigno divertito. Alzò le spalle, poi afferrò anch’egli il cappotto e un borsone lasciato in un angolo della stanza. Boris gli diede una poderosa pacca sulla schiena.

- Allora ti eri preparato, piccolo bastardo –

- Mi conosci, lo sai che sono efficiente –

Neanche un’ora dopo erano imbarcati sul primo volo per Londra.


...........................


Kai era stato irremovibile.

- Vi ho detto che sto bene –

- Ma, il dottore ... –

- Lo chiamerò io se sarà necessario –

- Non credi che ... –

NO-

Gli fremevano le mani, ma decise di tenerle a posto. Prendere a pugni quei disgraziati non sarebbe servito a molto. Rei aveva già preparato il tè due volte quella sera, e ormai Kai sapeva che di dormire non se ne sarebbe più parlato. Ma voleva, pretendeva un po’ di calma. Si era liberato di suo nonno in viaggio d’affari per almeno una settimana, non avrebbe tollerato altre presenze in casa a minare la sua tranquillità inaspettata.

Per scongiurare la nefanda eventualità di trovarsi quei soggetti fra i piedi da lì fino al giorno del giudizio, prese una decisione terribile, ma necessaria.

Si infilò la giacca, sotto lo sguardo stupito di Takao.

- Dove vuoi andare?-

- Vi accompagno a casa –

Sapeva di stare firmando la sua condanna, ma almeno era sicuro che le pulci si sarebbero allontanate dalla sua dimora. A Takao all’inizio venne in mente di fermarlo, non avrebbe dovuto fare troppi sforzi con quella ferita, e poi il maniaco che aveva fatto irruzione in casa sarebbe potuto tornare in loro assenza. Ma poi si rese conto che il tragitto fino a casa sua sarebbe stato tutto tempo guadagnato per parlare di beyblade.

Con un sorriso a trentadue denti spintonò l’amico di fuori, affiancandosi a lui mentre Kai, con gli occhi al cielo alla ricerca di una qualsiasi divinità cui immolare l’amico, richiudeva il portone con l’unica delle tre serrature che il ladro non aveva rotto.

La prossima volta ci metto del filo elettrificato 

Rei si affiancò a Kenny, ancora scosso dagli avvenimenti. Gli mise una mano sulla spalla.

- Coraggio professore, siamo ancora tutti qui – concluse con un sorrisone.

- Già ... già ... –

Il prof. non era proprio un uomo d’azione. Forse anche Rei avrebbe dovuto riflettere su quello che era successo. Sarebbe stato meglio chiamare un dottore e la polizia; soprattutto la polizia. Ma non era stato rubato nulla, e Kai era convinto che avrebbero solo perso tempo. 

Rei alzò gli occhi al cielo. Non era stellato come quello sopra al dojo di Takao; le luci di villa Hiwatari rischiaravano il circondario quasi a giorno, nascondendo qualsiasi accenno di vita nel firmamento. Peccato.

Era una bella notte. Una di quelle che al villaggio avrebbe passato alla cascata con Mao, rincorso dai gridolini divertiti dei compagni di squadra, dalle occhiate severe di Lai e dai sospiri della ragazza dei cui sentimenti non sapeva ancora bene cosa fare.


- Io ti amo, Rei Kon-

Glielo aveva detto guardandolo negli occhi, davanti al letto dove avevano passato l’ultima notte accoccolati l’uno all’altra. Aveva una voce così morbida che avrebbe fatto sciogliere una roccia al sole. 

Ma lui non aveva risposto. Anche volendo, non sapeva che dire. Aprì la bocca più volte, richiudendola sempre. 

Un giorno avrebbe saputo cosa fare.


Ma quel giorno era sempre più lontano, e ormai sperava quasi che Mao si dimenticasse di lui. Si stava convincendo di non poterle dare più di un amore fraterno.

- Rei!-

Il cinese si riscosse.  Davanti a lui Takao, un sorrisone a colorargli il volto, gli stava porgendo il cellulare. Sullo schermo si vedeva una foto del loro primissimo campionato insieme.

- Ti ricordi? Quanto tempo è passato! – Sugli occhi dell’ex capitano si dipinse un po’ di nostalgia. Ah, Takao avrebbe dato tutto per poter di nuovo battersi con la sua vecchia squadra. Ma il tempo era trascorso anche per lui.

- Erano bei tempi ... ma forse tuo nonno è più contento ora – scherzò Rei, giusto per cambiare argomento. 

Takao sbuffò.

- Eravamo grandi campioni ... e guardaci!- Diede una leggera gomitata a Kai, standi attento ad evitare il fianco malandato – Per stare dietro ai nostri vecchi abbiamo rinunciato alle nostre passioni –

- Volevi tirare il bey fino alla morte?-

- Sì, cavolo! Certo che lo volevo!-

Kai non si sarebbe aspettato nessun’altra risposta da lui.

- Ma ... Rei? Kai?-

La comitiva si fermò. Davanti a loro, dal lato opposto del marciapiede, una ragazza mora, magrolina e con due grandi occhi nocciola li guardava stupita. Dalla busta della spesa che teneva in mano pendeva un grosso pacco di biscotti. 

- Ma guarda chi sta facendo le ore piccole!- Takao corse verso l’amica, gettando un’occhiata curiosa alla busta della spesa.

- Non mi dirai che sei uscita di casa a mezzanotte solo per prendere i biscotti?-

Hilary gli tirò un pugno amichevole su una spalla, che lui finse di incassare lamentando un ahia molto teatrale.

Rei, che non si dimenticava mai di essere un gentiluomo, si avvicinò con un misto di eccitazione e cordialità alla ragazza. Era più di un anno che non si vedevano, ma le sue lettere arrivavano puntualissime al villaggio. Era comunque la migliore amica di Mao.

La abbracciò con uno slancio ricambiato, facendola affondare nella felpa morbida. Hilary sospirò rilassata. Dopo la serata che aveva passato era quello che ci voleva. Anche meglio dei biscotti, che comunque non erano lì per caso. 

Si staccò dall’abbraccio solo per scontrarsi con lo sguardo assonnato di Kai. Abbassò subito gli occhi. Abitavano nella stessa città, eppure nemmeno una volta si erano ritrovati se non con la complicità di Takao. Era lui che organizzava le serate dei componenti che rimanevano dei Bladebreakers, ma con il tempo era tutto venuto meno. I sabati sera si erano accorciati per poi sparire del tutto quando Kai aveva cominciato a lavorare con Hito; Takao era quasi sempre chiuso nel dojo a sostituire il nonno nelle lezioni; Kenny studiava come un forsennato per quella laurea in ingegneria che tanto desiderava. E lei aveva deciso di fare altrettanto, ma in una facoltà più abbordabile.



- Ho saputo che stai studiando teatro tradizionale-

Hilary arrossì. Non che si vergognasse di quello che faceva, anzi: la appassionava enormemente. Quello che la emozionava ancora, dopo così tanti anni, era sentirsi addosso lo sguardo indagatore di Kai. 

- Sì io ... ho cominciato tre anni fa –

- Oh, quindi ci sei quasi –

- Già ... tu che fai?-

Takao si intromise nel discorso, sputacchiando briciole di biscotti al cacao. Circondò il collo di Kai con un braccio, affiancandosi a lui.

- Kai ha deciso di mollare tutto per dedicarsi al bey – 

L’amico fece per allontanarsi dalle briciole marroncine che dalla bocca di Takao gli stavano finendo addosso – Casomai è quello che vorresti fare tu –

- Non hai idea di quanto è vero –

L’ex capitano si sedette di nuovo, accasciandosi un po’ sul cuscino. Sarebbe stato meraviglioso.

- Bene, ti ringrazio per l’ospitalità, è stato un piacere rivedere tutti voi, ma io devo tornare a casa- Kai sottolineò il verbo con più enfasi del dovuto. Si alzò seguito da un coro di disapprovazione. 

- Ma dai! Sei appena arrivato, resta ancora un po’!-

- Già, poi chissà quando ci rivedremo –

Persino Kenny, ancora semi scioccato, rincarò la dose – Tanto ormai è tardi, tanto vale rimanere qui, no?-

- Giusto!- 

E così a Takao venne l’ennesima idea geniale della serata.

- Restate tutti a dormire qui!-

Kai sbiancò. Provò a protestare ma nel marasma generale di voci entusiaste che si levarono al cielo, la sua si perse. Non seppe come, ma cinque minuti dopo aveva addosso uno dei pigiami di Takao, era steso su un futon dentro al dojo e stava ascoltando Rei raccontare ad Hilary come se la passava Mao al villaggio con un orecchio, e con l’altro Takao e Kenny che gli blateravano di quanto sarebbe stato figo sfidarsi con il bey il giorno dopo; coronando il tutto con per fortuna che domani è domenica!

Già, per fortuna

Kai disse addio al suo tranquillo weekend. Ma una piccola, piccolissima parte di se era felice. La vita monotona non aveva mai fatto per lui, e quell’assaggio di follia non gli dispiaceva. Si sfiorò con la mano il fianco ferito. Nulla di più di un graffio, che gli fece venire in mente che la pallottola era finita nel muro del salotto. In qualche modo lo avrebbe spiegato al nonno. Il ricordo dell’emozione, dell’adrenalina di trovarsi davanti un nemico armato, gli portò alla mente anche una persona in particolare. Un lieve sorriso gli colorò il volto.

Chissà dov’era Yuriy in quel momento?


...........................


Una giornata piovosa a Londra. Che novità. Olivier aprì l’ombrello verde pastello puntellato di piccole paperelle gialle. Un regalo di una vecchia zia di Gianni che non aveva potuto rifiutare, e che ora faceva proprio al caso suo. Si appostò sotto Westminster, evitando che le profonde pozzanghere scalfissero le sue scarpe eleganti. Il cappotto beige forse era troppo leggero per l’aria gelida della prima mattina, ma si abbinava così bene con il resto dell’outfit che non aveva potuto rinunciarvi. 

Quella mattina aveva poche commissioni da fare, e la prima era recuperare colui che lo avrebbe accompagnato nei giri di compere ad Harrods.

Andrew uscì dal cancello di corsa, in un look total black che avrebbe fatto impallidire qualsiasi agente segreto. Adocchiò Olivier e gli corse incontro, nascondendosi sotto l’ombrello. 

- Dovevi venirmi a prendere dentro Vier! Mi stavo infradiciando-

- Perdonami, caro, ma la tua cameriera mi ha svegliato con mezz’ora di ritardo stamattina –

- Certo certo ... ma che cavolo di ombrello hai preso? Se mi vedono i colleghi dei miei sarò preso per i fondelli a vita!-

- Uuuh, come siamo permalosi mon amour 

Olivier sorrise sotto i baffi; lo sguardo gelido dell’inglese cercò di trapassarlo, ma non lo scalfì. Si era svegliato con la bella sensazione di essere invincibile, specialmente dopo una colazione a base di croccanti e caldi croissant nella pasticceria francese più buona del quartiere. Ciò fece ricordare a Olivier che quella mattina si sentiva anche incredibilmente generoso. Alzò un dito davanti al tentativo di Andrew di riprendere gli insulti all’ombrello, cavando dalla larga tasca del cappotto un sacchetto di carta che sprigionava un profumo intenso di cioccolato

pour toi-

Andrew vi affondò una mano, tastando quello che doveva essere la testa rotonda di un morbido chocolate muffin.

Per quella mattina il francese avrebbe evitato gli insulti.


- Dove siamo diretti?-

- Harrods ovviamente –

Non c’era luogo migliore per le compere ai parenti. Un cadeau dall’Inghilterra ai suoi genitori avrebbe loro ricordato che il figlio prediletto, nonchè unico, li pensava sempre. Evitarono i marciapiedi più affollati, prendendo scorciatoie che conosceva solo Andrew, lo scalpiccio delle scarpe sulle pozzanghere divenne terribilmente nostalgico per il francese. Sotto sotto sentiva sempre un po’ la mancanza dell’Inghilterra; dopotutto vi aveva passato la maggior parte delle estati prima di conoscere Gianni.

Decisero di evitare la metropolitana, come facevano sempre. Stare stretti come sardine tra quella marmaglia di persone umidicce non faceva al caso loro. Presero il primo taxi che trovarono, fiondandovisi dentro.

Andrew richiuse in fretta l’ombrello, di cui aveva preso possesso poichè il francese lo teneva troppo basso e glielo sbatteva in testa, e richiuse l’elegante sportello nero.

Harrods, s’il te plait –

L’aria dell’abitacolo era satura di umidità, ma sempre meglio della metro. Olivier scrutò dal finestrino leggermente appannato il viavai di persone e ombrelli venire oltrepassati dal taxi.

- Non capisco perché voi inglesi dobbiate mettere fretta in qualsiasi cosa. Sono le nove del mattino –

- Noi lavoriamo, facciamo girare l’economia. Non abbiamo tempo per osservare quadri tutto il giorno –

- Sbaglio o avete una delle gallerie più grandi di tutta Europa? Ed è gratis per giunta –

Andrew non rispose. Non era mai stato un appassionato di quadri, non quanto lo era di economia comunque. La frenesia della sua città, gli edifici ingrigiti vicini alle vecchie ville, gli uomini in giacca e cravatta con la ventiquattrore in una mano e il caffè di Starbucks nell’altra ... gli piaceva respirare quell’aria, tanto meglio se sotto una scrosciante pioggia mattutina.

Contemplò per un altro paio di minuti il paesaggio, pulendo una porzione di finestrino appannato per guardare meglio la sua industriosa città muoversi ...  finché gli occhi si incastrarono per un istante in una testa rossa ben visibile tra tutte le altre.

Senza nemmeno pensarci fece fermare il tassista con un grido un po’ troppo violento, facendo sobbalzare Olivier.



Ci voleva un caffè forte, e ovviamente il miglior caffè era quello italiano. Che Olivier conoscesse quel piccolo bar sperduto in una via traversa era quasi scontato; una volta che ti abitui ai sapori italiani non ne fai più a meno, e Gianni lo aveva assuefatto. 

Andrew posò la tazzina bianca sul tavolo quadrato. Un locale semplice, con pochi posti e una calma innaturale tra le pareti tappezzate da una carta da parati che sapeva di casa di campagna dei nonni. 

- Non vi facevo tipi da vita mondana –

- è un modo simpatico per chiederci cosa ci facciamo qui?-

- Piuttosto che simpatico lo definirei ... elegante –

Yuriy il suo caffè lo aveva già terminato. Lui il gusto forte della bevanda calda non sapeva gustarselo e nemmeno gli piaceva, ma quella era la prima caffeina che immetteva nel suo corpo quella mattina, e ne aveva dannatamente bisogno.

Ivan rispose al suo posto alla curiosità dell’inglese, dietro alla sua enorme tazza di cappuccino. 

- Avevo bisogno di un disco fisso, ho trovato su internet un posto ben fornito di materiale informatico qua vicino –

- Aha ... – 

Olivier era stato stranamente in silenzio. Erano passati tanti anni, ma l’unica cosa che era cambiata erano i capelli. Quelli di Ivan più lunghi, quelli di Yuriy meno ... appuntiti? Avrebbe voluto chiedergli se faceva la pettinatura orecchiuta di proposito, ma non voleva rovinare quella calda atmosfera del caffè con le occhiate gelide del russo. Vier passò distrattamente una mano fra le sue ciocche verde pastello. A differenza dell’amico inglese lui aveva preferito dare un taglio netto alla loro crescita.

- Siete a Londra in vacanza?- Il francese sorpassò gli assillanti commenti puntigliosi dell’amico che continuava a sottolineare come due russi stonassero nella sua bella cittadina. 

Quando gli occhi di Yuriy si posarono su di lui ebbe un brivido.

Sono perfetti

Non si vergognò nemmeno un po’ di sembrare poco eterosessuale a pensarlo. Quando una cosa era bella, era giusto ammirarla.

- Io e Boris viviamo nella periferia di Londra da un anno – e con questo rispose alla domanda su cosa facessero lì.

Le sopracciglia di Olivier schizzarono alte sulla fronte.

- Vivete qui?-

- A una mezz’ora di macchina –

Mon dieu! Eravamo così vicini e non lo sapevamo – esclamò, sinceramente sorpreso, volgendo gli occhi su Andrew, altrettanto sorpreso anche se meno entusiasta.

- E come mai questo trasferimento? In Russia faceva troppo freddo?-

- In Russia si stava benissimo, grazie per l’interessamento – la risposta di Yuriy fu un pelo glaciale, ma Andrew sorrise. Si poggiò trionfante allo schienale della sedia, incrociando le braccia al petto. Era riuscito a punzecchiarlo a dovere.

Punto per me

- Siamo qua su invito di un’accademia di beyblade per dare delle lezioni tecniche, che si sono dilungate –

- Quindi navigate ancora nel bey –

- Occasionalmente –

- Hai parlato di te e dei tuoi colleghi russi, ma ne manca uno all’appello o sbaglio? L’uomo bicolore non è con voi?-

L’uomo bicolore. Kai nel tempo aveva assunto più soprannomi da parte dell’inglese, sempre mal sopportati. Era stato amore di nonnoprincipessinaPocahontasaquilottotesta di cocco, o semplicemente stronzo. Andrew era particolarmente fantasioso con i soprannomi.

- Kai è in Giappone a fare ... non ne ho idea, cose con suo nonno comunque – Non si sarebbe certo messo a raccontare la vita dell’ex compagno. Non aveva ben chiaro cosa stesse confabulando con il parente nella villa nipponica di loro proprietà, e non era abbastanza pettegolo per spifferarlo al caro inglesino.

Andrew rimestò il cucchiaino nella tazzina vuota. Un sorriso gli allargò le labbra.

- A casa del nonnino a farsi mantenere quindi?-

Yuriy roteò gli occhi al cielo. Non si era certo svegliato quella mattina per parlare di Kai, dei loro progetti futuri o della loro vita. Ivan notò il vago tremolio della mano del capitano; decise che era ora di intervenire, prima che perdesse la calma del tutto e riempisse di grida di dolore quel tranquillo barettino. Urla di dolore in inglese magari.

- Tu Olivier sei ospite da Andrew?-

Incredibile come anni passati a socializzare davanti alla macchinetta del caffè nella pausa pranzo lo avessero abituato a trovare argomenti di discussione con chiunque, pur di riempire un silenzio opprimente, o coprire i commenti di un collega particolarmente petulante. Ivan si diceva di essere finalmente diventato grande, quella grandezza di cui parlano tutti gli adulti ai bambini per indicare loro l’età in cui potranno capire certe cose, e farne altre che da piccoli possono solo sognare. In realtà lui era diventato grande molto tempo prima, e non era servito cercare un lavoro serio. Forse quindi era più ... maturo?

- Certamente, i McGregor sono stati così carini da ospitarmi, mh mh –

Appena ebbe terminato la frase, Olivier si portò le mani al viso; la bocca si aprì e gli occhi si spalancarono. Ivan pensò stesse vivendo un’epifania di qualche tipo, ma il francese riprese a parlare con più enfasi di prima, sporgendosi verso di lui dall’altra parte del tavolino.

- Ma sapete cosa è successo ieri notte? Sono venuti i ladri! Cielo, che emozione –

Andrew poggiò una mano sulla spalla dell’amico.

- Scusatelo, è diventato scemo a passare troppo tempo in Italia – Fece, alludendo brutalmente a Gianni e ai suoi neuroni malfunzionanti.

Olivier non fece nemmeno caso ai commenti dell’inglese. Attaccò a parlare, la voce sempre più acuta e le mani in una gesticolazione costante, anch’essa ricordo dei lunghi periodi trascorsi in Italia. Lentamente il piccolo bar fu invaso dalle chiacchiere dall’accento gallicano, e Yuriy si arrese all’idea di non tornare a casa prima dell’ora di pranzo. Represse uno sbadiglio, osservando Ivan di sfuggita. L’amico si era appoggiato al tavolino con i gomiti, una mano sorreggeva il mento e gli occhi erano puntati su Olivier. Sembrava incredibilmente attento, se non fosse che l’altra mano tirava nervosamente su e giù la zip della felpa. Dall’altro lato del tavolo Andrew stava dietro al racconto del francese parlandogli sopra quando necessario, per correggere piccole imprecisioni sull’accaduto.







  
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