Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
l’11.10.2021
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Capitolo
Venticinquesimo
Confiteor
(Non dire
falsa testimonianza)
“In
nome della Santissima ed Indivisibile Trinità, del Padre,
del
Figlio e dello Spirito Santo; della gloriosa Maria, santa vergine Madre
di Dio;
di San Marco, Apostolo ed Evangelista, e dell’intera
trionfante corte celeste.
“Sia
messo agli atti che il rispettabile missier Dimitri Spandolin
di Costantinopoli, cavaliere e tributario del Signor Turco in
Costantinopoli e
mercante in Venezia, qui solennemente promette di dare la sua figlia
legittima
madonna Helena in moglie al magnifico missier Marco Miani, figlio
legittimo del
quondam magnifico missier Anzolo Miani, fu senatore
dell’illustrissimo
Consiglio dei Pregadi: il qui presente e sopramenzionato missier Marco
Miani
altrettanto solennemente promette di prendere la sopracitata madonna
Helena
Spandolin come sua legittima sposa e moglie, come comandato da Dio e
dalla
Santa Madre Chiesa. Le due parti si sono così accordate: che
il missier Dimitri
Spandolin per lui fisserà a nome di sua figlia la dote di
ducati 5.000
suddivisi nella seguente maniera …”
Hironimo
inarcò discreto il collo all’indietro, annoiato a
morte
dalle stentoree parole del notaio, il quale leggeva senza
alcun’allegria il
contratto nuziale tra suo fratello Marco ed Helena Spandolin, la
misteriosa
greca che gli aveva rubato il cuore.
Terminata
la Pasqua e i suoi festeggiamenti, i Miani e gli
Spandolin s’erano accordati d’incontrarsi al
palazzo di quest’ultimi e lì
firmare il contratto nuziale, ponendo fine alle trattative, ossia una
guerra di
logoramento su chi cedeva per primo, se il cavalier Dimitri o il
ventiduenne
patrizio veneziano. E appunto quest’ultimo dettaglio aveva
incuriosito l’intera
famiglia di Marco, quando questi aveva di punto in bianco annunciato la
sua
ferma intenzione d’ammogliarsi: non si capiva in quale modo
avesse potuto conoscere
la fanciulla costantinopolitana, fornendo pertanto a tutte le sue
parenti un
eccellente argomento su cui ragionare per interi pomeriggi fino
all’essicazione
della lingua. A tal riguardo, infatti, Marco era rimasto assai vago,
nonostante
le insistenti domande di Madre e di Lucha; li aveva piuttosto
rassicurati della
nobiltà e morigeratezza del casato romeo degli Spandounes e
in particolare
della giovane Helena. Molto probabilmente – li scriveva Carlo
le sue
supposizioni da Lonato sul Garda - il loro fratello aveva conosciuto il
cavalier Dimitri per vie traverse, o tramite i Da Ponte, avendo sier
Antonio q.
sier Zuanne sposato una figlia di questi, Regina Spandolin; oppure
tramite il
protogero, il capo del consiglio degli anziani della
comunità greca a Venezia.
In ogni
modo, quando Marco si ficcava in testa un obiettivo,
sarebbe stato più facile convincere un cane affamato a
mollare una bistecca;
sicché ottenuto il consenso di Madre e di Lucha, egli aveva
dato il via alle
trattative col cavaliere greco, senza mediatore e però
ugualmente in presenza
di terzi, temendo le rispettive famiglie che i due si scannassero a
vicenda
ante raggiungere un accordo.
Allo
Spandolin non piaceva Marco e a Marco lo Spandolin piaceva
ancor di meno; tuttavia al ventiduenne patrizio la bella Helena garbava
moltissimo, la voleva e l’avrebbe ottenuta, a costo di
straziare i nervi del
padre, il quale da bravo levantino si credeva furbo e maestro nelle
negoziazioni. Peccato ch’egli non avesse calcolato
l’ancestrale testa dura miana
ed Hironimo aveva giurato udirlo un giorno borbottare a suo figlio
Giorgio,
uscendo dalla sua casa da statio: Non ho
più saliva in gola,
parlare con quello là è come pretendere di
spaccare un muro di pietre con la
testa.
Osservando
stanco il pigro scorrere dell’acqua del rio
sottostante, Hironimo, tamburellando le dita sulla cornice della
finestra, si
portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio,
trovando più gusto nello studio
dei suoi futuri congiunti, che nell’ascolto
dell’inventario della dote della
futura cognata.
Al tavolo
di noce Dimitri Spandolin sedeva diametralmente opposto
a Madre, Lucha e Marco, assieme al figlio Giorgio e a qualche altro
parente.
Vestivano tutti alla greca, secondo i canoni del loro status nobiliare:
similmente agli Albanesi, anche loro usavano barba e mustacchi e
indossavano un
cappello morbido, di color nero per distinguerli dai mercanti, che ne
sfoggiavano al contrario uno celeste. Portavano di sotto e di sopra
vesti alla
lunga e di panni fini, sempre neri giacché abiti da giorno,
e su di essi si
stagliava una lunga fila di spessi bottoni, dalla cintura al collo. Le
vesti si
presentavano non molto larghe da basso e strette ai fianchi, cinti da
una rete
di seta torta di diversissimi colori, tranne il bianco e il giallo; le
maniche
di sopra fino al gomito invece erano alquanto larghe.
Considerando
l’abito nero dei greci; l’abito nero vedovile di
Madre e le toghe nere dei suoi fratelli, Hironimo col suo zipone blu
turchese
(uno zipone che gli pareva più una gavardina dei tempi dei
suoi maggiori, tanto
gli stava corto e stretto) balzava all’occhio peggio
d’un intruso, in quel
gruppo che più che ad un contratto nuziale pareva
presenziare alla lettura d’un
testamento.
E come il
morto anche Helena, dei cui beni si ragionava, mancava
fisicamente, ben custodita dal gineceo nell’angolo
più remoto della casa.
Quante
storie, pensava annoiato il giovane Miani, suo fratello era
giunto lì per firmare il contratto e domani ci sarebbe stato
il parentà, che
male c’era se Helena presenziava? Mica la ingravidava con lo
sguardo!
“…
e così le due parti sopracitate firmino il qui presente
contratto, e noi preghiamo Missier Gesù Cristo
acciocché vivano felici, in
prosperità e gioia, concedendoli di bearsi della vista dei
loro discendenti
fino alla terza e quarta generazione, fino alla beatitudine eterna del
Paradiso. Amen.”
“Amen!”,
risposero in coro gli scocciati presenti, i coccigi
distrutti dagli scomodissimi sgabelli pieghevoli. D’ugual
avviso si trovava il
notaio, che bruscamente solerte girò il foglio al cavaliere
greco assieme al
calamaio.
“Io,
Dimitri Spandolin q. Teodoro, mi dichiaro soddisfatto di
quanto concordato e scritto”, lesse ad alta voce
l’uomo, intingendo la
penna e firmando.
Riottenuta
la carta, il notaio la cedette adesso a Marco. “Io,
Marco Miani q. Anzolo, mi dichiaro soddisfatto di quanto concordato e
scritto”,
ripeté la medesima azione il giovane patrizio e il notaio,
firmato anch’egli,
vi appose i dovuti sigilli siglando il patto nuziale che rendeva Marco
ed
Helena formalmente novizzi. Il cavalier Dimitri terminò la
procedura ordinando
al suo famiglio di cedere ai due servitori di Marco il cassone
contenente un
quarto della dote della sua fidanzata.
Infine,
liberati da quella prima incombenza, le due famiglie
s’avviarono chiacchierando a Piazza San Marco, ragionando
sulle varie date da
fissare per lo sponsalicio. Si convenne attorno alla metà
d’aprile, così da non
cozzare il matrimonio di Marco con quello della sua cugina germana
Maria
Morexini, programmato per l’anno seguente. Il gruppetto
entrò nel cortile di
Palazzo Ducale, seguito da una piccola folla di amici e altri parenti
da
ambedue le parti, lì riunitisi su invito per ascoltare il
proclama del
banditore, elevando da privato a fatto pubblico il fidanzamento tra il
magnifico
messer Marco Miani e la magnifica domina Helena Spandolin da
Costantinopoli.
Tutti applaudirono e si rallegrarono con lo sposo.
“Ci
vedremo domani per il parentà, dunque. Per quanto riguarda
le
visite a casa mia, ci organizzeremo in
settimana”, concluse il
cavalier Dimitri, tendendo la mano all’ormai quasi-genero, il
quale non replicò
nulla, limitandosi a reclinare il capo e ad accettare il gesto di
congedo. I
due se le strinsero neanche desiderassero spaccarsi le rispettive dita.
Forse
- meditava Hironimo osservando l’intera
scenetta
- forse si trattava la loro di una naturale
antipatia tra suocero e
genero, un po’ come lo fu tra gli zii e Padre, sebbene il
ragazzo ugualmente
non si capacitasse di tanto immotivato astio, visto che ambedue le
parti avevano
ottenuto ciò che desideravano, il greco un marito veneziano
per la figlia e suo
fratello una moglie per formare una nuova famiglia. Intimamente il
giovane
Miani se la rise nel constatare, quanto il cavaliere greco si
nascondesse
dietro la morigeratezza per tenere i due fidanzati il più
separati possibile,
almeno fino al dì delle nozze religiose. Ormai a Venezia
vigeva l’uso di
consumare il matrimonio già dopo aver dato la man, senza
aspettare di dar
l’anello, evento che poteva avvenire qualche settimana se non
addirittura mesi
dopo la firma del contratto. Marco si sarebbe rosolato nel lardo
dell’impazienza, altroché.
Similmente
al fratello, sebbene per motivi più casti, il ragazzo
fremeva adesso dalla voglia di presentarsi alla sua futura cognata,
dopo averla
conosciuta per mesi solo attraverso le parole di Marco e i litigi col
padre di
lei, così da scoprire il motivo dietro la testardaggine del
maggiore a volerla
sposare a tutti i costi.
***
Il
parentà a casa degli Spandolin si svolse in maniera assai
semplice e intima, complici i costumi diversi tra le due famiglie.
Solitamente,
la novizza entrava nella sala di rappresentanza accennando ad un
qualche passo
di danza, condotta per mano dal suo maestro. Tuttavia, non possedendo
Helena né
un istruttore né delle sorelle o parenti monache da visitare
al termine della
cerimonia, ella non poté soddisfare appieno il tradizionale
rituale, mancando
quindi d’esibirsi vistosamente sia in casa sia in gondola, in
trasto, durante
il tragitto verso il monastero.
Non che
ne avesse bisogno, lei stessa era già uno spettacolo:
appena la greca s’affacciò all’uscio
della porta, Hironimo immediatamente non
riuscì a non notare la vistosissima ed esotica acconciatura
della diciottenne
fanciulla. Essa era fatta a mo’ di scatola di legni sottili e
leggeri, coperta
di una teletta d’oro e decorata di scintillanti pietre
preziose, la cui sommità
terminava a guisa di corona. Dietro scendeva su di un lato soltanto un
velo di
seta vergato, il resto stretto da un cerchio d’oro massiccio
tutto
ingioiellato, il quale cadeva dietro le spalle con alcune folte trecce
di
capelli scuri, una per tempia vicino alle orecchie, incorniciando un
viso vago
e leggiadro. Il collo morbido e il petto li aveva ornati di collane di
perle
(tra cui quella della novizza offertale da Madre come dono di
fidanzamento) di
spille cariche di pietre fini e di catene d’oro, senza un
particolare ordine o
tema. Le sottili mani Helena le teneva incrociate sopra la sottana di
raso dal
busto alto, sopra la quale ne portava altre, di ormesino bianco, lunghe
e
aperte a mezza gamba, cinta da un vivacissimo velo di seta.
Al
giovane Miani quell’abito lineare e accollato ricordava
quello
della Basilissa Irene nella Pala d’Oro così come
il medesimo sguardo d’Helena,
indecifrabile e compito, quasi severo. Tuttavia, a cerimonia terminata
e una
volta presentati ufficialmente, dopo l’inchino di circostanza
Hironimo catturò
l’incuriosito sguardo della ragazza su di lui, la quale lo
studiava con
altrettanta intensità. Pizzicata, la novizza celò
gli occhi dietro le lunghe e
seriche ciglia, reclinando appena il capo e lasciando che un verecondo
rossore
le tingesse le gote. L’esempio perfetto d’un
contrito bambino sgridato per una
sua marachella, se il diciottenne patrizio non avesse catturato la
fuggevole
ombra di un civettuolo ricciolo di sorriso sulle labbra carnose della
greca.
Gli
risultò immediatamente simpatica, accantonando ogni malumore
portatosi seco.
Helena
emulava in fatto di curiosità il suo antenato Odisseo,
tempestando a tavola durante il rinfresco i suoi futuri parenti
d’ogni sorta di
domanda su Venezia e i suoi costumi, città che conosceva
poco, avendo vissuto
per lo più a Costantinopoli, nel quartiere greco di Pera; eppure, sosteneva, per
magnifico incanto le
sembrava di continuare a vivere nel Levante, tanto simili le apparivano
l’architettura, il cibo, lo stile di vita.
“Trovo
davvero bizzarro quest’uso”, dichiarò ad
un certo punto
Helena, portando le dita all’altezza del collo e del petto,
“che se da una
parte le fanciulle nubili debbano andare in giro a viso coperto,
dall’altra le
scollature siano così generose” e il modo in cui
proferì con tale genuino
stupore quel suo dubbio, provocò dei divertiti e magnanimi
risolini tra le
donne, mentre gli uomini si guardavano imbarazzati, incapaci di
spiegare l’arcano
senza scivolare nel triviale.
La
novizza aveva infatti notato per lo più il vestito en
donzelon
di Maria Morexini, il cui busto assai corto a malapena le copriva buona
parte
del petto e lasciava nude le morbide spalle. Dal busto fregiato intorno
da una
lista di tela d’oro e perle fuoriuscivano gli intricati
merletti della camicia,
neanche volessero ulteriormente incorniciare, risaltandola, la
femminile
bellezza di quella pelle alabastrina e liscia, invitando
l’occhio maschile a
guardare e a soffrire.
“Oh
bella!”, esclamò Maria, lisciandosi ilare il
rocchetto di seta
bianca, crespa e trasparente, “Perché andiamo in
giro così?” e disegnò
nell’aria la curva superiore dei suoi seni,
“personalmente, lo ignoro. Però
potete chiedere un’opinione a vostro fratello: sicuramente
avrà una risposta
assai più esauriente della mia!”
Giorgio
Spandolin arrossì violentemente, colto in flagrante
contemplazione; le sue sorelle Regina e Chiara sghignazzarono forte
dinanzi al
suo imbarazzo, fino a farsi venire le lacrime agli occhi, ma
più di tutte se la
rideva Helena, coprendosi vezzosa la bocca con la mano, lo sguardo
puntato su
Marco quasi a studiarne le reazioni.
“Vedete?”,
riprese maliziosetta la giovane Morexini.
“Cosicché i
nostri uomini pensino soltanto a noi e non a qualche altra italica
foresta!”
“Foresta?”,
aggrottò Helena la fronte, confusa. “Non
comprendo,
che significa?” Fino a quel momento la giovane aveva
dialogato in un basico
veneziano, lentamente, scandendo bene le parole e probabilmente
già s’era
preparata in precedenza cosa dire. Adesso che deviava dal copione, si
trovava
in maggior difficoltà e le sue lacune nella lingua
rischiavano palesemente
d’emerge.
“Xeno”,
la soccorse sottovoce Hironimo, prima che ci
s’accorgesse di come la greca non avesse capito la battuta e
si coprisse di
ridicolo. Dinanzi al cenno affermativo della sua futura cognata, egli
proseguì
a voce alta: “Le nostre nobil done, giustamente, non vogliono
che corriamo
dietro ad altre italiane, straniere” ed enfatizzò
che le straniere erano queste
gentildonne e non quelle greche, specie se provenienti o dallo Stato da
Mar o
comunque residenti a Venezia.
“Sono
… sono molte belle, le altre donne
d’Italia?”, chiese
accorta Helena, ansiosa di riparare a quel suo piccolo scivolone. Aveva
preso a
torcersi le dita, nervosa, d’un tratto temendo di aver dato
una pessima
impressione di sé.
Hironimo
avrebbe voluto porle una mano sopra la sua e
rassicurarla, comprendendo la sua agitazione: per maritare le loro
figlie a
stranieri, i patrizi veneziani non si ponevano grandi problemi; al
contrario,
ammogliare i propri rampolli a straniere, quello sì che si
rivelava un affare
complesso e le potenziali candidate dovevano dimostrarsi impeccabili,
di virtù
ineccepibile, integrate ai valori locali. La pressione di dimostrarsi
all’altezza delle aspettative doveva pesare moltissimo sulle
spalle di Helena,
rendendola particolarmente inquieta dinanzi al più minuscolo
errore. Se voleva
aspirare, similmente a sua sorella Regina, ad entrare
nell’élite, lei doveva
rasentare pressoché la perfezione, nessuno sbaglio concesso.
E se s’impappinava
davanti ai parenti, quale impressione avrebbe dato al Doge e
all’intero
patriziato, il dì della sua presentazione ufficiale?
“Le
altre nobildonne italiane non sono di nostro gusto”,
anticipò
Marco la risposta di suo fratello minore, “perché
noi già possediamo le più
incantevoli”, dichiarò sincero, sorridendo
allusivamente alla sposa, la
quale abbassò vezzosa il capo, rilassandosi e ringraziandolo
del complimento.
Ciononostante, Hironimo ben s’accorse della sua espressione
soddisfatta e
pragmatica, simile a quella di un magister, che riceve la risposta
esatta da un
allievo.
“Riguardo
all’abito nuziale”, deviò domina Irene
Spandolin la
conversazione, acciocché la figlia pigliasse un attimo di
tregua. “Pensavo, se
non v’incomoda, che al posto della ghirlanda la nostra Helena
potrebbe
indossare un berrettino di panno d’oro, secondo la nostra
tradizione … Questo
ovviamente per la cerimonia privata …”
Le spalle
della ragazza s’abbassarono, mentre questa cacciava
fuori un grosso sospiro, sfinita. Allora Marco, approfittando della
distrazione
delle genitrici, sotto il tavolo le aveva accarezzato furtivamente il
dorso
della mano a mo’ di conforto. Gesto che non passò
inosservato al guardingo Dimitri
Spandolin, che però preferì mangiare e tacere.
“Hieronymos”,
lo prese brevemente in disparte Helena a fine
visita, nel frattanto che i parenti si salutavano e scambiavano mille
raccomandazioni di buona salute, “volevo ringraziarvi
…”
“Dammi
pure del tu”, la interruppe Hironimo, “fra poco
sarai mia
sorella e in casa non siamo avvezzi a tante formalità, non
tra noi coetanei
almeno.”
La greca
piegò il capo in consenso, incoraggiata. “Sta
bene.
Volevo ringraziarti del tuo aiuto. Sarebbe stato assai riprovevole da
parte
mia, imbarazzare il mio novizzo con la mia torpidezza di
spirito”, gli confidò
e dietro l’abito pomposo e ricco, Hironimo scorse una
diciottenne spaventata e
smarrita, costretta in una situazione completamente nuova e senza alcun
punto
di riferimento.
“Non
t’angustiare: la mia germana possiede un senso
dell’umorismo,
che spiazza anche noialtri”, la rincuorò il
giovane Miani. “Hai già conosciuto
il mio sior barba suo padre: ugual caratterino!”
Helena
ridacchiò nervosamente. “Sì, ho notato.
Il kyrie Ioannes
Baptistes Morezines è stato molto cortese e gentile:
s’è seduto accanto a me e
ha impedito che mi si ponessero quesiti complessi.”
“An,
lui è gentile e cortese verso qualsiasi bella
fanciulla”,
grugnì sardonico Hironimo, conoscendo la fama di cottolon di
suo zio Batista
Morexini. Quand’ecco che si schiaffò la mano alla
bocca, conscio della gaffe
appena commessa. “Ehm, volevo dire …”,
ma si rilassò dinanzi al rassicurante
risolino civettuolo della greca, confermando un poco certe dicerie
sulla loro
natura sensuale al limite dell’impudico.
All’improvviso
la ragazza assunse un’espressione seria. “Siete
tutti stati così buoni e pazienti nei miei confronti, mi
avete fatto sentire
subito la benvenuta”, gli confessò sincera e
riconoscente, inumidendosi a
disagio le labbra, “e anche Márkos mi guarda
attraverso gli occhi del cuore,
cosa però che non faranno gli altri suoi pari: mia sorella
Vassilissa – Regina
- mi ha raccontato quanto sia difficile essere accettata, costantemente
sotto scrutinio. Il mio sposo avrà
bisogno di una moglie di cui non
si possa vergognare, che non lo faccia sfigurare in società.
Ammetto la mia
ignoranza dei vostri costumi e la vostra lingua non la parlo abbastanza
bene da
poter conversare agevolmente. Figurarsi poi se debbo pure imparare il
volgare
italiano … Hieronymos, mi chiedevo se per cortesia tu
potessi aiutarmi a
migliore il mio veneziano nonché il volgare.”
“Io?”,
strabuzzò gli occhi Hironimo, non capacitandosi del suo
nuovo e inaspettato ruolo di magister, proprio lui ch’era
stato all’unanimità
eletto il somaro di famiglia, sin da quando aveva incominciato a
studiare.
“Sicuramente il tempo non ti mancherà per
apprenderlo e Marco …”
“…
sarà sempre via, per mare o per terra; in qualche
città o a
Palazzo Ducale. E il mio Patéras è irremovibile
nella sua decisione di tenerci
separati fino alle nozze religiose”, gli esplicò
concisamente Helena il destino
ch’attendeva la coppia, essendo i patrizi veneziani
più nomadi dei tuareg del
deserto. “Inoltre non voglio importunare la tua
Mitéras, né dimostrarmi indegna
del mio ruolo ai suoi occhi.”
“Ma
tua sorella Regina? Si è ben ambientata
…”
“Possiede
una famiglia numerosa cui badare, non posso
monopolizzarle il tempo.”
Hironimo
si morse l’interno della guancia, dubbioso
s’esaudire o meno
quella singolare richiesta. Da una parte non vi scorgeva alcun tranello
–
Helena e Marco erano palesemente cotti a puntino l’una
dell’altro e figurarsi
se lui era così infame da compromettere l’onore di
suo fratello. Dall’altra,
però, il ragazzo temeva appunto d’impegolarsi in
strani malintesi, in fin dei
conti non era più un bambino e la sua cognata
un’affascinante ed esotica
creatura dell’Oriente.
“D’accordo”,
cedette, poiché parente o meno a
‘na bea dona
no se nega gnente. “Ma a queste
condizioni”, frenò l’entusiasmo
d’Helena, la quale annuì velocemente.
“Primo: che anche le mie germane Anzola,
Maria e Querina studino con noi. Fra poco Maria
s’accaserà con sier Zuanne
Querini di Stampalia e Amorgo e non l’ucciderà
migliorare il suo greco;
insomma, deve conoscere la lingua dei suoi feudi. Secondo: che non se
ne
parlerà a chicchessia”, così Helena non
avrebbe sfigurato e lui non l’avrebbero
sfottuto per l’essersi improvvisato magister.
“Sarà il nostro segreto e se ci
chiederanno che cosa facciamo, diremo che t’insegno a giocare
a scacchi, o a
carte o a suonare il liuto.”
“O
a provare danze nuove!”, aggiunse la greca, intuendo in
fretta
il piano. “Così il giorno dello spon-sponsalicio
potrò ballare anche io!”
“Corretto.
Che ti pare?”
Il volto
regolare d’Helena s’illuminò di un
sorriso pieno di
fossette, lo stesso ch’aveva indubbiamente innamorato Marco.
“Come dite
voi bene in veneziano? Pulito?”
“Bravissima!
Pulito!”
Dopo il
parentà era costume per qualche tempo, prima di ricevere
l’anello, che le novizze fossero visitate un giorno dai
parenti maschi e dagli
amici del novizzo, mentre un altro dalle donne della sua futura
famiglia,
svagandosi assieme in giochi, musica e balli, in modo da eliminare ogni
estraneità ed offrire alla sposina la possibilità
di socializzare. Era il
periodo perfetto per colmare le lacune di Helena.
Convincere
Anzola, Maria e Querina a reggere il gioco non avrebbe
richiesto grandi sforzi, specie Maria, la sua tremenda germana, la
quale
avrebbe semplicemente adorato l’idea
di partecipare a quel
piccolo intrigo, doppiamente disinvolta nel mentire senza arrossire
né
confondersi e quella piccola tatina della Querina obbediva ciecamente
alla
sorella maggiore.
Insomma,
si trattava pur sempre di un’opera a fin di bene, no?
***
Purtroppo
per Hironimo, quello d’aiutare sua cognata a migliorare
le sue competenze linguistiche non sarebbe corrisposto
all’unico loro segreto
(o sfilza di menzogne a seconda dei punti di vista) bensì
una lunga serie
destinata a durare per anni, in un continuo accumulo fino a giungere al
punto
di saturazione.
Come
acutamente profetizzato da Helena, per quanto Marco si
sforzasse di trascorrere quanto più tempo possibile assieme
alla giovane sposa,
gli impegni amministrativi e politici lo tenevano spesso e volentieri
lontano
da casa, sicché era toccato a Madre ed Hironimo il duro
compito d’aiutare la
greca ad ambientarsi a Ca’ Miani. L’unica pecca di
madona Leonora rimaneva la
sua età non più incline agli svaghi e
all’esuberanza della gioventù,
limitandosi ad insegnare alla nuora come gestire le finanze domestiche
e in
generale la casa.
Invece, a
Hironimo, Querina, Anzola e Maria era toccato colmare
codesta lacuna e la futura madona Querini offriva costantemente
occasioni di
divertimento, tra una lezione e l’altra, con la scusa di
doversi preparare al
suo futuro ruolo di contessa di Stampalia e Amorgo. Il povero maestro
di ballo
si ritrovò un’allieva in più,
nonché un gruppo di scatenati adolescenti
vogliosi d’apprendere le ultime danze, in primis lo
scandaloso ballo del cappello,
laddove le dame, indossando un cappello maschile, aprivano le danze e
sceglievano loro il cavaliere, un puro sovvertimento di ogni regola
contro cui
tuonavano gli anziani. E per questo alla gioventù
graditissimo.
Maria,
ch’amava tenere banco in ogni circostanza, aggregò
al loro
gruppo anche Chiara Spandolin sorella di Helena; le cugine Anzola e
Magdalena
ed infine i suoi fratelli più grandicelli,
Nicolò, Carlo, Piero e Hironimo. In
letizia assoluta trascorrevano le ore, accoccolati i giovanissimi
patrizi ai
piedi delle loro dame, cantando e suonando frottole e madrigali al
liuto – la
musica la loro vita. Recitavano poesie o leggevano
romanzi ad alta
voce, improvvisavano commediole pastorali o si cimentavano in lunghe
partite di
scacchi o a carte. Un dì Maria aveva proposto un antico
gioco di corte
francese, “Le jeu du Roi qui ne ment pas”, laddove
il Re o la Regina ponevano
domande d’amore agli altri partecipanti. Soltanto il Re non
mentiva, mentre gli
altri forse che sì e forse che no ed era lì la
sfida, di capire chi simulasse e
chi affermasse il vero. Anche Helena nel suo piccolo contribuiva,
suonando
antiche e nuove canzoni romee della corte dei Basileus, le sottili dita
agili
sulle corde del suo bouzouki mentre la sua calda voce orientale
rievocava gli
amori di Atzemiko, le avventure di Ioanne e dei serpenti, il cinguettio
sensuale ed erotico del bellissimo Usignolo. Piero Morexini, che come
il
fratellastro Andrea tra tutti eccelleva nel greco vernacolare,
l'accompagnava
nel canto, creando piacevoli duetti.
In tal
locus amoenus avevano trascorso questi giovani una tra le
più belle primavere ed estati, lontano dal cinismo e
squallore del mondo reale,
relegato alla porta. Sier Batista li osservava di sguincio quando
attraversava
il loggiato che dava sul giardino, soddisfatto di trovare figli e
nipoti in sì
lieti spiriti. Avrebbero avuto tempo - ripeteva alla
sua scettica
consorte madona Morexina, che non approvava tanta frivolezza
- di
rinchiudersi in casa a recitare Paternostri o Avemarie o ad ascoltare
frati
predicatori e monache veggenti e ogni riferimento
all’effettivo passatempo di
sua moglie e delle sue cognate madona Ysabeta Morexini Corner e madona
Marina
Morexini Vituri era puramente casuale.
Intanto,
tanta allegria continuava poi a Ca’ Miani, la quale dopo
anni di silenziosa austera castità e morigeratezza
s’era riempita dei tipici
cinguettii notturni degli innamorati, al punto che ormai tra i fratelli
giravano già delle goliardiche scommesse, a quando il grande
annuncio. Invece,
ne arrivò un altro che rattristò non poco Helena,
che aveva appena-appena
incominciato ad ambientarsi a Venezia: suo marito Marco era stato
eletto
podestà di Marostica ed era suo dovere pertanto seguirlo. Fu
dura per lei
accomiatarsi dai suoi nuovi parenti, in particolare da Maria, temendo
infatti
di non trovarla più una volta terminato il mandato del
consorte, giacché
sposatasi e trasferitasi nel frattempo a Stampalia. La giovane greca si
consolò
tuttavia della compagnia di Hironimo, il quale le aveva promesso di
passarla a
trovare quanto più possibile e della sorellina Chiara, che
la loro madre voleva
acquisisse in tutto e per tutti usi e costumi veneziani.
Il 18
agosto 1503, dunque, Marco Miani prestò giuramento come
podestà; lo accompagnarono a Marostica il garante sier
Hironimo Soranzo, il
cancelliere sier Pasqualin di la Croxe da Mestre e il commilitone
Synibaldo
Brucalido. Nel corteo d’entrata e alla Messa al Duomo
assistettero anche Madre,
Hironimo e Lucha, venuti apposta per assistere
all’insediamento del fratello e
per restargli accanto per le prime settimane, giusto per aiutare la
coppia ad
ambientarsi.
Marostica,
nell’agro vicentino, si presentava come una città
fortemente murata, costituita da ventun torri e quattro porte: la
Vicentina a
sud, la Bassanese ad est, la Breganzina a ovest e la Pe’ dil
Monte a
nord. In cima al colle Pausolino, sulla pianta di
un’antica fortezza
romana, sorgeva il Castello Superiore, a base quadrata con quattro
torresini ai
lati ed una grande torre centrale, voluto nel 1312 dagli Scaligeri di
Verona
assieme al Castello Da Basso, che si trovava invece a valle.
Quest’ultimo, di
pianta rettangolare, era costruito a ridosso di un imponente mastio. Di
fronte
al Castello da Basso si trovava la Rocca di Mezzo, anch’essa
affacciata sulla Piazza
Maggiore, dove al centro sorgeva una grande fontana costruita sotto le
podestarie di sier Andrea da Molin e sier Piero Baxadona e dove il
martedì e il
venerdì si svolgeva il mercato. La Signoria aveva dato un
grande impulso
all’edificazione religiosa della città, costruendo
la chiesa di San Marco e la
Scoletta del Santissimo Sacramento di fronte alla chiesa di
Sant’Antonio Abate
e la chiesa di San Gottardo nel Borgo; restaurò e
ampliò il Duomo e dulcis in
fundo, commissionò anche la costruzione del convento di San
Sebastiano a est
della Pieve di Santa Maria. Sullo sfondo di Marostica,
s’ergevano le prealpi
vicentine, da Lavarone fino al territorio dei Sette Comuni, montagne
che
portavano a Trento o nei domini veneziani di Folgaria e Rovereto
attraverso le
Piccole Dolomiti. Territorio dunque di confine, perennemente sotto la
pressione
dell’Impero, specie dopo il passaggio dal Ducato di Milano
alla Serenissima
Repubblica nel 1404.
A Marco
l’idea dunque di recarsi in una città
così “a rischio” era
stranamente piaciuta (tutto suo padre, aveva
commentato scherzosamente
Madre, mentre Helena aveva ridacchiato nervosa), sia perché
amava le sfide sia
perché intimamente sperava di distinguersi, come Padre
quando gli Austriaci
avevano minacciato spavaldi il Feltrino per poi ritornarsene a casa
propria con
la coda tra le gambe. Il ventiduenne podestà aveva quindi
fatto il suo ingresso
fiducioso e ottimista, suscitando la sua aria determinata grande
ammirazione,
così come la sua giovane e bella sposa levantina.
Per
Hironimo, Marostica corrispose ad un colpo di fulmine,
dapprincipio per l’entusiasmante esperienza di soggiornare in
cima al monte nel
Castello Superiore, laddove alloggiava appunto il podestà,
nonché di esplorare
assieme ad Eòo il colle Pausolino sia dentro che fuori le
mura e gli altri
colli circostanti, lasciando a Lucha l’onore
d’istruire Marco sul suo ruolo e
le aspettative ad esso connesse. Il ventottenne patrizio aveva
ricoperto
quattro anni addietro il medesimo incarico e nella medesima
città, sicché si
era premurato di condividere le sue conoscenze col minore su Marostica,
sul suo
territorio, la sua economia, l’apparato difensivo, le sue
famiglie più in vista
e in generale sulla popolazione e le sue necessità.
Hironimo, dal canto suo,
preferiva trascorrere il tempo con le due cognate, insegnandole a
cavalcare e
organizzando facili gite fuoriporta su delle docili mule. Lontane dal
severo
giogo paterno, le due greche si divertivano assaissimo, in particolare
Chiara
che coraggiosamente osò chiedere, un pomeriggio, di montare
a cavallo,
dimostrandosi un’amazzone piuttosto discreta.
Settembre
sostituì troppo in fretta agosto e il giorno del rientro
a Venezia si presentò tanto triste, quanto
l’uggiosa giornata di pioggerellina.
Helena aveva gli occhi velati di qualche lacrima ribelle, sorridendo
forzatamente alla suocera e ai cognati. Il suo viso da qualche giorno
appariva
pallido e tirato e la ragazza si teneva a stento in
piedi,
preoccupando Madre la quale si raccomandò mille volte con
Marco, acciocché vegliasse
sulla sposa. Personalmente, Hironimo non comprendeva il nesso tra i
seri
consigli di madona Leonora e la faccia da ebete del fratello, non
avendolo mai
a sua memoria visto così felice, ogni occasione buona per
baciare e cingere per
i fianchi la sua sposa, la mano posta per merto o per caso sul
ventre.
“Luchin”, aveva
egli un giorno avvicinato esitante il
maggiore dei Miani, “volevo il tuo
permesso, se non t’incomoda, di
poter nomare mio figlio come il nostro sior Pare. Poiché sei
tu il primogenito,
non volevo te ne avessi a male, sentendoti defraudato di questo tuo
diritto”. Al che Lucha gli aveva battuto
una mano sulla schiena,
rassicurando il fratello che il suo consenso glielo dava più
che volentieri:
Dio solo sapeva quando si sarebbe ammogliato e poi, mica quella era una
regola
fissa, bastava pensare allo zio Batista, che pur ultimo dei maschi di
sier
Carlo “da Lisbona”, aveva conferito ai figli il
nome paterno, dell’avo paterno
e materno, secondo la tradizione. Marco l’aveva allora
abbracciato, commosso.
“Perché
quel discorso, Luchin?”, cedette Hironimo alla tentazione
di chiedere al fratello durante la cena. Si erano fermati a pernottare
nella
loro casa a Treviso, avendo Madre un poco sofferto il viaggio.
“Marchetto
parlava come se Helena fosse già incinta.”
Lucha
proruppe in una fragorosa risata, affogando per poco il naso
nella zuppa. “Te xé svejo chome un
indormensà! Helena è
già incinta,
da un bel po’ anche! Forse addirittura prima di partire per
Marostega!”
L’ultimogenito
di Ca’ Miani tartagliò qualcosa, sconvolto da tale
rivelazione, più che altro per la realizzazione
d’aver suggerito ad una donna
gravida di cavalcare, azzardo rischiosissimo per lei e la creaturina
nel suo
ventre. Stupido, come aveva potuto non cogliere i segni? Affanni,
nausee,
capogiri, appetito gagliardo … Ciononostante, onde evitare
l’ennesimo sermone,
il diciassettenne tacque, incassando il colpo e concentrandosi sulla
sua zuppa
alle trippe.
Madona
Leonora non tardò a divulgare la notizia della prossima
nascita del suo primo nipote di sangue: spedì la Zanetta e
l’Ufemia a chiamare
a raccolta amiche e parenti e costoro risposero entusiaste
all’appello,
imbastendo un vero e proprio Maggior Consiglio muliebre, tra una fetta
e
l’altra di focaccia dolce con melagrana.
“Mi
sembra quasi surreale ritornare a pronunciare in famiglia il
nome Anzolo, dopo tutti questi
anni”, confidò madona Crestina alla
sua matrigna, mentre porgeva all’undicenne figlia Dionora una
fetta di dolce.
“Spero l’affare non vi ponga a disagio, siora
Mare”, aggiunse sottovoce,
timorosa dei brutti ricordi associati a quel nome, quasi vi pendesse
sopra una
maledizione.
La
nobildonna scosse il capo. “E’ giusto
così, Tina”, asserì
serena, la sua bocca increspatasi in un birbante sorrisetto.
“E poi, tra di
noi, avevamo i nostri nomi …” e le due donne
ridacchiarono complici, ben
familiari ai quei segretucci tra marito e moglie.
“E’
un peccato che mia sorella partorisca a Marostica”,
asserì
madona Regina Spandolin da Ponte. “Abbiamo già
avuto una vita così raminga: un
poco di stabilità le avrebbe giovato. È sempre
stata una ragazza molto
sensibile e domestica.”
“Vi
recherete a Marostega per il parto, madona Irene?”,
domandò
Pellegrina Muazzo Miani alla madre di Helena e Regina.
La
matrona greca negò, le labbra increspate in una smorfia
delusa.
“Purtroppo no, ahimè, mio marito deve rimpatriare
a Costantinopoli per affari,
ovviamente, ed io debbo appunto seguirlo. Tuttavia, Georgios e
Vassilissa sono
qui a Venetia e la mia Clara a Marostica con sua sorella, pertanto mi
dichiaro
tranquilla: Eleni non rimarrà sola in questa
prova.”
“Forse
dovremmo visitare i cugini Marco ed Helena per il
battesimo: adoro le feste di presentazione degli infanti, specie se
primogeniti
maschi! Sicuramente parteciperanno tutte le famiglie nobili locali e ci
saranno
danze e banchetti, chissà che in quanto podestà
Marco non organizzi una
giostra!”, propose sognante Maria, immediatamente rampognata
da sua madre.
“Contegno,
figlia mia! Proprio in quel mese ti mariterai in sier
Zuanne Querini! Trovi morale disertare il tuo consorte appena terminate
le
nozze?”
“E
chi l’abbandona? Naturale che verrà con me!
Scommetto che gli
piacerà visitare la città, le sue mura, i suoi
palazzi, chiese e conventi.
Perché Marostega è molto bella, nevvero
Momolo?”
L’interpellato
in questione, seduto in un angolo accanto al seienne nipote Gasparo a leggiucchiare
un libro sulla varietà di uccelli rapaci utilizzati nella
falconeria, levò
confuso lo sguardo verso la cugina. Ultimamente, avevano notato i suoi
parenti,
da qualche settimana Hironimo se ne stava per conto suo e in inusuale
silenzio,
indossando i guanti anche in casa, sebbene fossero solo ai primi di
ottobre. Il
ragazzo s’era giustificato che il suo ruzzolone
giù per le scale l’aveva non
poco scosso, portandolo a cercare per qualche tempo svaghi
più tranquilli.
“Scusami?”, sbatté le ciglia, non avendo
seguito il filo del discorso.
“Marostega”,
ripeté vezzosa Maria. “Dev’essere un
posto molto
interessante, no? Tu ci sei stato quasi due volte, puoi
confermare!”
“Mi
piacciono molto i suoi boschi ed i colli. Un vero peccato che
abbiamo perso la stagione venatoria.”
“Sì,
ma i palazzi? Il Duomo? I conventi? Ho sentito dire che sono
davvero notevoli …”, insistette la cugina.
Hironimo
scrollò le spalle. “Sono soltanto degli edifici:
freddi,
immutabili e morti. La natura invece m’affascina appunto
perché è caduca, viva
e imprevedibile. In una chiesa è come essere vivi in un
sepolcro di marmo; in
un bosco si è vivi in un mondo vivo.”
Le donne
lì presenti si sciolsero in tintinnanti risatine.
“Ignoravo questo tuo spirito alla Laudato
sie, mi' Signore, cum tucte
le tue creature”, scosse Maria giocosamente il
capo. “Dovresti insegnare
agli stessi Francescani!”
“Le
tue risposte sono troppo pepate per una donna, zermana”, la
rimbeccò Hironimo, ritornando offeso al suo manuale.
“E
per un uomo, possiedi un animo più dolce del latte,
zermano”,
non si scompose la Morexini, semmai traendo gusto da quel battibecco.
“Forse
dovreste recarvi voi stessa a Marostega”, cangiò
discorso
madona Alba Donado Contarini, rivolgendosi all’amica madona
Leonora. “In fin
dei conti, siete la matrona di Ca’ Miani ed Helena
necessiterà di una figura di
riferimento e con esperienza, al di là della comare
levaressa.”
“Non
vorrei esser di troppo, né sostituirmi a
…”, nicchiò la
patrizia, scrutando di sottecchi la consuocera.
“Perdiana,
non dite assurdità!”, ribatté
vivacemente madona Alba,
“è vostra nuora, vivete sotto lo stesso tetto; per
lei, voi siete una seconda
madre. O sbaglio, madona Irene?”
“No,
no, affermate il vero. Anzi, despina Lionora, mi fareste un
grandissimo favore assistendo la mia Eleni!”
“In
tal caso, scriverò a mio figlio Marco che lo
raggiungerò
assieme ad Hironimo (e forse anche a Carlo) per Natale.”
Quand’ecco che
l’espressione dell’anziana patrizia
s’incupì. “Prego solo la Madonna che
tutto
vada bene: Helena ha molto sofferto durante i primi mesi, non vorrei le
capitasse qualche complicazione al momento del parto
…” Non aveva avuto il
coraggio di confessare a nessuno quella sua intima pena, lo svantaggio
di non
possedere in casa sufficienti presenze femminili su cui discutere di
certi
argomenti.
Crestina
strinse incoraggiante la mano della matrigna.
“Varé là,
siora Mare! Che dite? Helena è giovane, forte …
Guardate sua sorella Regina:
s’è sgravata tranquillamente, senza alcuna traccia
di febbre e anzi, dopo
quattro giorni aveva già il viso latte e rosa. Volete che
per Helena sia
diverso?”
Madona
Leonora non rispose, stringendo le labbra in una linea
dura: adesso Crestina minimizzava, però anche lei a suo
tempo aveva sofferto moltissimo
alla sua prima gravidanza, portandola a redigere il suo testamento.
Il nuovo
membro della famiglia Miani decise di venire al mondo il
6 marzo 1504 ed era stato un bene che Hironimo avesse già
ricevuto il suo
battesimo di fuoco, ché le urla infernali di Helena da
dietro la porta di
camera sua neanche si potevano paragonare a quelle della sua
sorellastra
Crestina, né della zia Morexina, né di Maria
Foscarini Miani moglie del
biscugino Zuan Francesco: nessuna delle donne aveva emesso suoni
così tremendi,
quasi avessero sottoposto sua cognata al peggiore dei supplizi,
aprendola e
squarciandola a metà senza un attimo di respiro.
Per ovvie
ragioni tecniche anatomiche, il primo figlio
corrispondeva ognora ad una grande sfida per la primipara, variando i
tempi di
nascita dalle dieci ore ad una giornata intera. Compito pertanto delle
donne
era quello di tranquillizzare la futura madre e ai parenti maschi il
futuro
padre, in un’equa partizione dell’ansia.
Costretti
dunque a pazientare nella sala di rappresentanza, Carlo
ed Hironimo tenevano bloccato in uno stretto e compatto cerchio il
povero
Marco, che ad ogni grido scattava in piedi dalla sua sedia, smanioso di
soccorrere la moglie.
“Sentate
e stà bon!”, gli poneva una mano sulla spalla suo
fratello maggiore, costringendolo seduto. “E smettila
d’agitarti: se ci muori
al primo, che ci fai al secondo? Ascendi in Cielo direttamente dalla
tomba?
Guarda i nostri siori zii, fanno tutte queste storie quando le loro
mogli
partoriscono?! Li hai mai visti strapparsi i capelli e piangere peggio
d’un
puteo?”, sbuffò snervato. Dopodiché,
accertatosi che Marco si fosse un poco
tranquillizzato: “Capisco la tua ansietà,
però credimi che quel che stai
provando adesso, l’hanno provato anche i nostri parenti e
come vedi sono ancora
tutti in piedi, sulle loro gambe!”, lo consolò
Carlo, pigliando un bicchiere
d’acquavite e costringendo Marco a berlo in un sol sorso.
“Presto sarai padre
di un bellissimo fantolino e ti getterai queste ore alle spalle,
ridendotela
alla grossa!”
“Beh,
insomma, quasi tutti
l’hanno sperimentato,
parla per gli ammogliati”, lo corresse Hironimo, zittito
immediatamente da
un’occhiataccia ammonitrice da parte di Carlo.
Muovendo
esagitato la gamba, Marco balbettò terrorizzato:
“E
allora … allora per-perché ci … ci sta
mettendo così … così tanto?
È … ormai è
quasi sera … se lei … se il bambino
…”, e onde impedirgli d’esprimersi in
altri
incoerenti e tristi presagi, gli si versò solerti del
liquore. “Mio figlio
sarebbe già dovuto nascere un paio o più
d’ore fa!”, guaì disperato, storcendo
la bocca dal bicchiere portogli, rifiutandolo schifato.
“Bevi
e tasi!”, non dimostrò Carlo alcuna
pietà, intanto che
Hironimo teneva fermo lo spiritato. “Hai voluto divertirti
con la mojer, ecco
le conseguenze. La sofferenza che stai provando è niente
paragonata alla sua!
Ergo, sii uomo e rispetta il suo sforzo comportandoti da
tale!”
“Amen!”
“Momolo,
ancor na parolla e te dago ‘no stramuson, che te spalmo
sul muro!”
“Marchetto,
il primo putelo crea sempre qualche ritardo!”,
s’inginocchiò
infine Carlo davanti al fratello, quando l’acquavite
fallì il suo scopo
d’intontirne l’ansia. Il ventisettenne patrizio
optò allora di consolare il
minore tramite spiegazione razionale e scientifica, condividendo in
questo modo
anche le conoscenze acquisite dalle numerose letture da lui intraprese,
onde
ammazzare la noia. “Per questo, secondo me, corrisponde ad
una gran cavolata il
non permettere alle donne di partorire accovacciate, come ad esempio
quando
urinano. Infatti, stando a dei recenti studi a Padoa, pare che il
canale
uterino si dilati, aprendosi, più di un quarto rispetto alla
posizione supina e
…”
“Carlino!”,
lo rimbeccò Hironimo leggermente imbarazzato.
“Che?!”
“Zò!”
Roteando
snervato gli occhi, Carlo s’alzò in piedi,
borbottando
rancoroso sul bigotto atteggiamento da farisei dei suoi parenti: un
corpo era
un corpo, che problemi c’era a discuterne a riguardo, specie
se poteva portare
ad un avanzamento del sapere medico? Bah, ridicoli!
“Se
si salva, non giacerò mai più con mia
moglie!”, ruppe Marco in
un pianto assai alticcio, nascondendo il volto tra le mani.
“Hé-oh,
zò che drammi!”, esclamarono all’unisono
i suoi fratelli,
mulinando scettici le mani in aria. Adesso il ventitreenne patrizio
parlava
così; dategli un anno o due ed ecco che ci si sarebbe ridati
appuntamento in
sala d’attesa per il secondo figlio.
Neanche a
farlo apposta, la matriarca di Ca’ Miani usciva proprio
in quel momento, seguita dagli acuti vagiti del neonato, i quali
rallegrarono
assaissimo i presenti, duramente provati da quella lunga e sfibrante
attesa e
anzi, Carlo dovette aiutare Marco ad alzarsi in piedi, le gambe di
questi molli
quanto la ricotta. Inspirando a lungo e dominando il fascio di nervi
qual era
divenuto il suo corpo, madona Leonora abbozzò ad un tremulo
sorriso,
annunciando solenne: “Mascolo! Mascolo! Mascolo!”
Poiché
suo fratello ancora non pareva aver recepito il messaggio,
rimanendosene là imbambolato a bocca aperta, Hironimo
ordinò a Menego di
correre in cantina a pigliare del Recioto della Valpolicella per un
giro di
brindisi. “Al piccolo Anzolo di Marco Miani: salute, denaro e
tempo per
goderseli entrambi!”, augurò al neogenitore,
mentre i servi riempivano i
bicchieri di passito rosso scuro. “Zò, qualchedun
daga ‘no s-ciafon a sto puto
dil mio fradelo: mare de diana, sembra ch’abbia partorito
lui!”, scherzò e in
effetti, un impensierito Carlo aveva incominciato ad elargire lievi
buffetti
sulle gote di suo fratello, non reagendo questi ancora da uomo vivo.
“Oh,
ma che bellino! Tutto rosso arrabbiato!”
“Bone
Jesu, che polmoni!”
“A
chi dici assomiglia?”
“Quando
strilla così: a te, Momolo!”
“Mo’
via, non fai ridere!”
Tutto il
Castello Superiore di Marostica festeggiò in grande
allegria il lieto evento, tra ciambelline e marzimino. Eppure,
scendendo in cucina
per pagare la comare levaressa, Hironimo giurò
d’averla sentita commentare ad
una preoccupata Orsolina: “A me gera parso, chea creatura no
la volesse
nasser.”
“Dasseno?
Cussì mal xela ‘ndà?”
La
levatrice tracannò il suo vino in un ultimo grosso sorso.
“A
sarave mejo, chea patrona non la fasesse fioi per un bel po’
…”, le rivelò
brutalmente onesta il suo parere.
E il
significato di quella conversazione, Hironimo lo comprese
appieno l’anno seguente. Vuoi la fresca passione tra novelli
coniugi, vuoi la sventatezza
della gioventù, Helena neanche il tempo di ritornare a
Venezia che aveva
concepito di nuovo e anche in quell’occasione il parto si
protrasse per
lunghissime ore, alternando urla inumane a momenti
d’angoscioso silenzio. Ciò
impensierì oltre alla famiglia anche l’esperta
levatrice, la quale aveva
appurato quanto il nascituro fosse parecchio pigro e insensibile agli
stimoli
delle contrazioni.
“Non
nasce! Non nasce!”, singhiozzava la greca, stringendo
convulsamente la mano della suocera madona Leonora e di sua sorella
madona
Regina, le quali le sussurravamo dolci parole di conforto, mentre sua
cognata
madona Crestina le tamponava la fronde madida di sudore e pallidissima
e sua
sorella Chiara, assistendo terrorizzata in un angolo, aveva
incominciato a recitare
un misto di preghiere in latino e greche, cattoliche e ortodosse.
“Zerto
che sta creatura ea nasse!”, non s’arrendeva la
comare
levaressa, testarda. “A xé ‘na meampa
(torda,ndr.), che la gh’ha da ser
costreta! Spinzé, patrona, spinzé!”
Helena
s’inarcò in avanti, digrignando i denti e ruggendo
ingolata, per poi cadere sfinita sulle lenzuola sfatte.
Fu allora
che madona Leonora decise d’uscire inaspettatamente
dalla stanza della partoriente, bianca peggio d’un cencio e
serissima in volto,
seguita da un’altrettanto grave Eudokia, sua silente ombra.
Raggiunse a passo
deciso gli uomini di casa, radunatisi in attesa nella sala di
rappresentanza,
ma stavolta la patrizia levò in alto il palmo della mano in
diniego, frenando
la sfilza di domande postale dai presenti e segno che no, non veniva a
portare
la tanto sospirata notizia. “Momolo, una parola”,
chiamò invece il figlio. “No,
Titta”, bloccò il suo fratellastro,
“restate pure accanto a mio figlio vostro
nipote.”
La
nobildonna condusse il ragazzo giù in cucina, con la scusa
di
ordinare alle fantesche di scaldare dell’acqua da portare
alla levatrice. Con
mani tremanti si servì d’un bicchiere di vino,
sospirando affranta. “Voglio che
corri a casa del medico chirurgo Yonah bar Shemu'el e che, con
discrezione, lo
conduci in camera d’Helena. Eudokia” e
indicò la sua personale fantesca, la
quale reggeva un fagotto,
“t’accompagnerà, acciocché
egli si travesta da donna.
Siamo nella settimana della Sensa: nessuno sospetterà
niente.”
Il
significato tra le righe di quell’ordine schiacciò
d’angustia
il cuore d’Hironimo, realizzando e accettando controvoglia lo
scenario, che
fino a quel momento s’era rifiutato di considerare,
sdrammatizzandolo
attraverso le solite battute ed incoraggiamenti ai danni del futuro
padre, mentre
in sala aspettavano l’annuncio ufficiale della nascita.
“In
altre circostanze”, riprese determinata madona Leonora,
“non
avrei permesso ad un uomo di … d’immischiarsi in
tali faccende, per quanto
qualificato e competente. Tuttavia, adesso la questione si riassume
nella
scelta del male minore, se violare per qualche ora la modestia di mia
nuora o
…”, e il labbro inferiore dell’anziana
patrizia tremò, “… o se lasciare che
domani mio figlio seppellisca moglie e piccino.”
“Il
patron Marco non soffrirà per ciò che non
conosce”, sentenziò
pragmatica Eudokia, insistendo sull’importanza di quella
missione. “Meglio
sorbirsi il broncio di madona Helena che il suo funerale.”
“Momolo?”
Hironimo
alzò la testa, rendendosi conto solo in quel momento
d’aver tenuto lo sguardo abbassato, fissando trasognato il
pavimento, incredulo
dinanzi a quell’inaspettato e drammatico giro
d’eventi. Ripensava a quando
aveva incontrato la greca per la prima volta; ai lieti pomeriggi a casa
delle
cugine; ai suoi sorrisi, alle lezioni, ai piccoli concerti …
soprattutto il
ragazzo rivedeva la luce di pura felicità negli occhi di
Marco il dì delle loro
nozze, alla notizia della gravidanza, quando aveva tenuto tra le
braccia il
neonato Anzolo …
“Se
salverà la vita ad Helena, non dirò
niente”, promise il
diciannovenne Miani.
Indossato
il mantello, Hironimo scivolò via furtivamente assieme
ad Eudokia e altrettanto circospetti rincasarono col medico chirurgo
giudeo,
comicamente ingoffato dalle vesti femminili e la barba nascosta dallo
spesso
velo bianco, fermato da una spilla.
“Perché
non mi avete chiamato prima?”, fu la domanda retorica di
Yonah bar Shemu'el, mentre srotolava dalla borsa di cuoio i suoi
arnesi,
scuotendo il capo dinanzi alla condizione deplorevole in cui versava la
partoriente. Si lavò le mani più volte, sfregando
bene tra le dita. “Lavati di
nuovo le mani e poi passa questa lama sulla fiamma viva”,
istruì la comare
levaressa, eletta a sua assistente e tramite, aggiungendo poi
sottovoce:
“Adesso io ti dirò cosa fare e tu esegui alla
lettera, se vuoi che questa
poveraccia arrivi viva a domani.”
La
levatrice annuì velocemente, lanciando una rapida occhiata a
madona Leonora, la quale piegò il capo in assenso. Aveva
previamente congedato
la figliastra, madona Regina e Chiara, invitandole a raggiungere gli
uomini con
la scusa ch’erano in troppe in quella stanza, rubando aria
preziosa ad Helena.
Quanto a lei, sarebbe rimasta fino alla fine con sua nuora, qualsiasi
fosse
stato l’esito.
Un’ora
dopo l’arrivo del medico chirurgo, madona Leonora usciva
per la seconda volta. “Femena! Femena! Femena!” e
con lo sguardo sfidò tutti i
presenti a non gioire di meno per via del sesso della neonata, specie
dopo aver
sottratto la puerpera alla morte per il rotto della cuffia. Il suo
fratellastro
sier Batista e suo genero sier Thomà furono tra i primi a
complimentarsi,
dimostrando quanto aver figlie non corrispondesse in fondo ad una
tragedia.
Hironimo,
dal canto suo, aveva preferito raggiungere sua madre,
insospettito dall’espressione affatto rilassata rispetto al
resto della
famiglia. “Mare, come sta Helena?”
La
patrizia lo afferrò per il braccio, appoggiandosi quasi di
peso
sul suo ultimogenito. “Lo sapremo al
mattino”, mormorò sfinita.
Al
dì della presentazione ufficiale dell’infante
Crestina, detta
Ina, madona Helena dovette ricorrere all’antico trucco di
pizzicarsi le gote,
onde renderle belle vermiglie e segno d’eccellente salute.
Sua suocera e le sue
sorelle Regina e Chiara l’avevano agghindata a guisa di
bambolina nella
speranza di celare il suo aspetto pressoché cadaverico,
rispondendo al posto
suo alla maggior parte delle domande e felicitazioni. Ciononostante,
malgrado i
bisbigli e le previsioni pessimistiche, la puerpera sopravvisse e,
seppur a
fatica, riacquistò gradualmente le forze. Il battesimo
tuttavia venne
ugualmente celebrato in casa.
“Sono
davvero grata che la levatrice abbia risolto … per un attimo
ho creduto sul serio di rendere l’anima
…”, confessò la ragazza un giorno ad
Hironimo, il quale le faceva compagnia, intanto che Marco aiutava la
moglie a
mangiare la minestra d’uovo.
“Avrebbe
potuto sbrigarsi anche prima”, bofonchiò invece
rancoroso
il marito, pulendole l’angolo della bocca. “In
quante erano dentro, tra
levatrice ed assistenti? Tre? Quattro?”
“Quattro”,
rispose la greca e prima che Marco potesse commentare a
riguardo, Hironimo la corresse dolcemente:
“Tre,
Helena, me l’ha confermato la mia siora Mare, tua madona. Si
trattava sempre della medesima assistente, solo che era scesa in cucina
per
prendere dell’altra acqua calda”, mentì
celere, forte del previo stato mentale
della cognata, la quale infatti cedette docile al suo ragionamento,
ammettendo
il suo errore frutto di una memoria confusa.
Dopodiché,
Hironimo inventò una scusa banale per sottrarsi alla
domanda già in procinto d’uscire dalla bocca di
suo fratello, deviando
scaltramente il discorso su altri argomenti.
Trascorsero
gli anni, laddove morte e vita s’alternavano.
Maria
Morexini aveva puntualmente sposato sier Zuanne Querini di
Stampalia e Amorgo, rifiutandosi però di seguirlo
nell’isola greca, adducendo
come scusa la sua celere gravidanza e sier Batista si beò
del suo nipote
Francesco Querini, bello, grasso e in salute perfetta. Peccato che
quando
arrivò il giorno di salpare da Venezia, ecco che la patrizia
era rimasta nuovamente
gravida della piccola Crestina (perché era nata lo stesso
anno della biscugina
Miani) e subito dopo ancora di Fantin, sicché si
rimandò ironicamente alle
calende greche. In realtà, Maria posticipava strategicamente
la partenza,
poiché aveva capito che, una volta attraccato a Stampalia,
ogni sua autorità
sarebbe svanita, costretta a sottostare a quella della suocera Juliana
Malipiero Querini. E poiché la Morexini possedeva la
medesima personalità
focosa, altera e imperiosa degli uomini della sua gens, o finiva per
gettare la
Malipiero giù da uno scoglio o si auto-esiliava ad Amorgo,
prospettiva che non
l’entusiasmava per niente. Di conseguenza, sfruttando le
persuasive arti
seduttive femminili, aveva convinto il consorte a restare a Venezia, a
crearsi
nella capitale utili amicizie e una reputazione invece di languire
semi-dimenticato in uno scoglio del Dodecaneso in mezzo
all’Egeo. Il suo
trionfo corrispose alla promessa di sier Zuanne di trasformare i due
edifici
distinti affacciati sul rio di Santa Maria Formosa in un unico vero e
proprio
palazzo gentilizio.
Sua madre
madona Morexina, nello stesso anno di nascita delle due Crestine, dava alla luce il suo ultimo figlio, nomato
anch’egli Francesco
e sier Batista, considerata l’età decisamente
avanzata della moglie, giurò
solennemente d’osservare una rigorosa astinenza (dal talamo
nuziale). Sier
Hironimo Morexini “da Lisbona” era lo stesso anno
morto, resuscitato e morto
ancora, sua cognata Ysabeta Erizo arrestata e poi rilasciata e la sua
inconsolabile
moglie madona Laura s’era prontamente risposata, donando
subito un figlio a
sier Ferigo Renier, Zuanne. Un altro Francesco Morexini nacque da sier
Thadio
cognato di sier Batista e da sua moglie Contarina Contarini Morexini,
biscugina
d’Hironimo. Regina Spandolin da Ponte ebbe
l’ennesimo figlio e si celebrarono
molte nozze, tra cui quella di Lugrezia Corner in sier Jacomo Contarini
di sier
Piero.
Sier
Andrea Miani q. sier Vidal morì pure lui nel 1505, alla
veneranda età di centoun anni e ben si poteva vantare di
averle viste davvero
tutte nelle vita. Le sue ultime parole furono che un poco gli era
dispiaciuto
indugiare così a lungo in questa valle di lacrime, avendo
seppellito pressoché
trequarti della sua famiglia originaria, nonché assistere
alle tremende vicende
che spesso assillavano la Signoria, rischiando più volte di
precipitarla nel
baratro. Se n’era morto contento, nel suo letto, ben satollo
dell’ultimo pasto,
confessato, comunicato e unto degli oli santi; circondato da parenti di
cui
manco si ricordava il nome e assistito dall’instancabile sua
nipote Maddaluzza,
ch’aveva visto nascere, crescere e invecchiare zitella.
Quanto ai
fratelli d’Hironimo, ormai erano lanciatissimi nella
vita pubblica e non li si vedeva quasi mai in casa: Lucha era partito
castellano a Brisighella, Carlo castellano alla Garzetta di
Brescia,
mentre Marco si preparava al prossimo incarico.
Soltanto
l’ultimogenito Miani era rimasto tra coloro
ch’erano
sospesi, indeciso su cosa fare della propria esistenza, menato di qua
e di là
dai flutti, senza meta, mentre attorno a lui ciascuno danzava o con
sorella
Morte o con sorella Vita, a seconda del voler di Missier Domeneddio.
Chi
condivideva tal perplessità sul suo destino era sua cognata
Helena. Dopo Anzolo e Crestina non era stata benedetta da alcun altro
pargolo,
malgrado le palesi prove dell’impegno suo e di Marco di
regalare ai due un
terzo fratellino.
Col
passare del tempo, la greca aveva incominciato a manifestare
segni d’afflitta irrequietezza, la medesima che Hironimo le
aveva scorto al
loro primo incontro. Invano la spronava a confidarsi, come una volta,
offrendole il suo supporto: sua cognata scuoteva il capo, cacciando via
le
perenni lacrime che le velavano gli occhi. Al funerale della povera
madona
Pellegrina Muazzo Miani, morta di parto nel dare alla luce il suo
secondogenito
Vidal, Helena aveva singhiozzato più forte del vedovo sier
Alvixe e quando
quest’ultimo morì poco dopo a Rimini, dove si
trovava in qualità di capitano
delle navi della Riviera della Marca, ella avvertì un
pesante malore e svenne
nella cappella funeraria dei Miani a Santo Stefano,
nell’esatto momento in cui
collocarono la bara di sier Alvixe nella sua arca accanto a quella
della
moglie, sigillandola. Maddaluzza Miani l’aveva incoraggiata,
rasserenandola
sulla sorte dei due orfanelli, rimasti orbati anche dello zio Piero Grioni, annegato in mare, credendo che la greca si tormentasse per
loro: non v’angustiate, mi
prenderò cura io del puttino e della
puttina! Non li farò mancar nulla, sarò per loro
padre e madre!, aveva
dichiarato davanti all’intero parentado,
nell’intimo contenta d’avere
finalmente quei figli negatigli dal mancato
matrimonio.
A tali
parole Helena annaspò, reggendosi il ventre si
piegò in due
e pianse più forte.
In ugual
maniera si dannava Marco, non comprendendo
quell’improvvisa malinconia: sua moglie non rideva
più, giungendo talora ad un
inquietante mutismo, lo sguardo perennemente abbassato da cane
bastonato; nulla
la interessava, perdendo gusto di ogni svago, abbandonando perfino le
visite a
madona Maria e alle altre cugine Morexini. Neppure il breve periodo
trascorso
ad Asola le aveva giovato e appena rientrati a Venezia, lei
s’era prontamente
murata viva in casa. Indossando unicamente i larghi
e comodi abiti
della sua terra natale, Helena se ne rimaneva in camera sua senza
vedere e parlare
a chicchessia, tranne alle sorelle Regina e Chiara e ad Hironimo,
l’unico sul
cui petto Zanzi ed Ina si calmavano, suggendo serafici il pollice e
l’altra
manina artigliata o ad una ciocca dei suoi capelli o allo scollo della
camicia.
Crescendo i due bambini avevano cessato di succhiarsi la falange,
però non di
richiedere la presenza del loro barba, al momento di coricarsi a letto
o per
giocare.
Inutilmente
tentava il ragazzo d’ammansire Marco, scopertosi
geloso di quella palese predilezione dei figli – specie il
maschio
- nei confronti dello zio. “Di recente sei
sempre nervoso, agitato,
collerico: Zanzi e Ina lo percepiscono e di
conseguenza si
spaventano”, gli spiegò paziente una sera, quando
il maggiore l’aveva scorto
tenersi in braccio la dormiente nipotina, mentre conduceva a manina
Anzolo da
Helena, acciocché li mettesse a nanna. “Zanzi ed
Ina ti vogliono bene, devi
solo controllare il tuo umore.”
“An,
così saresti un esperto di bambini adesso”,
replicò aspro
Marco, la fronte aggrottata e le mani poste bellicosamente ai fianchi.
“Che
sei? Una femmina travestita?”, lo dileggiò e un
rictus nervoso attraversò
l’occhio sinistro d’un alterato Hironimo.
“Ma
va’ en mona de toa suocera!”, sputò egli
irritato, girando sui
tacchi, sennonché suo fratello
l’agguantò per un braccio, costringendolo a
voltarsi e a guardarlo dritto in faccia.
“Se
tanto ti preme allevare fantolini”, sibilò
furioso, “fanne di
tuoi, non andare in giro a rubare quelli degli altri!”
Hironimo
spalancò la bocca, strabuzzò gli occhi,
imporporandosi
sdegnato, le mani che gli prudevano dalla voglia di scarnificare a
ceffoni le
guance di Marco. “Padre è chi cresce il puto, non
chi lo genera! E non mi fare
il geloso: tu manco la volevi la femmina! Ché non mi sono
accorto della tua
espressione delusa?”, gli rinfacciò astioso,
scrollandosi via di dosso la presa
del maggiore e dirigendosi di filato in camera sua dove
pigliò il suo mantello,
tallonato spietatamente dal fratello. “In tutta
onestà, Marchetto, quanto tempi
trascorri coi tuoi figli?”, l’accusò,
scendendo a due a due le scale. “Eri lì
ad aiutarlo, quando Zanzi ha imparato a camminare? O quando ha
incominciato a
parlare? Gli insegnerai l’abc oppure accamperai
l’ennesima scusa per delegare
l’onore a tua mojer? Ed Ina? Manco t’accorgi
ch’esiste!”
“Scusa?
Quale scusa? Sangue di Cristo, mentre tu ti trovavi qui a
Veniexia a poltrire e a sgavazzare, io guadagnavo il pane per voialtri
come
vice-castellano ad Asola, credi che stia fuori casa a
menarmela?!”, ringhiò
scocciato Marco, braccato infine il minore al portego del pianoterra.
“Guarda
che Mare ed io v’abbiamo tenuto i fantolini,
perché tu non
volevi che Helena li portasse seco! Sul serio possiedi la memoria
corta
dell’ingrato, zò!”, gli
ricordò pedante Hironimo, sistemandosi la gorra in
testa e uscendo dal portone d’ingresso che dava sulla strada:
avrebbe camminato
al primo imbarcadero e lì salito su di una gondola o
sandolo, troppa la sua
impazienza per aspettare i porci comodi del loro pope de casada.
“Non
li ho voluti, perché mi sembrava ovvio quanto fossero troppo
piccini e delicati per compiere un tal viaggio! E comunque, signorino,
non
rigirare la frittata, cambiando discorso: crescere i bambini piccoli
è il
compito della siora mare, non del sior pare. Quindi fatti un tegamino
di cazzi
tuoi e non t’immischiare!”
Hironimo
si fermò in mezzo al ponte, i pugni serrati
convulsamente. Avrebbe voluto urlare tante cose a quel tordo e cieco di
suo
fratello, avrebbe voluto urlargli che se non fosse stato per il suo
sostegno,
Helena avrebbe finito per soccombere dinanzi al peso del suo malessere,
aggravato da quello dell’educazione di Zanzi ed Ina. Non
capiva che sua moglie
non stava bene? Non scorgeva in lei la sofferenza,
l’angoscia, la malinconia
che giorno dopo giorno la stavano consumando dall’interno? Se
Hironimo non
riusciva a cavar di bocca alla cognata la ragione alla base di tal suo
comportamento, almeno poteva sostenerla compartendo il ruolo
d’educatori,
offrendole un po’ di respiro. Perché non riusciva
Marco a comprendere un concetto
così basilare?
La
verità è che per lui aiutare Helena non
corrispondeva ad un
gran sacrificio: adorava Zanzi ed Ina, così come aveva amato
Dionora e Gasparo
prima di loro. Assistere ad ogni piccolo progresso dei nipoti, vederli
spuntare
i dentini, ascoltare la prima lallazione, guidarli nei loro incerti
passettini,
sentire il loro cuoricino accompagnare il battito del suo cuore e la
tiepida
carezza del loro respiro solleticargli la nuca … Hironimo
non capiva perché i
suoi pari preferissero perdere tutto questo in nome di altre sterili
occupazioni, delegando alle mogli e alle balie tali preziosi istanti,
che mai
più si sarebbero ripetuti. C’era tempo per
l’alta carriera politica, tutta la
mezz’età!
Aver
figli suoi … certo, Hironimo l’aveva considerato e
lo progettava
anche, appena se ne fosse presentata l’occasione propizia.
Sognava d’averne
tanti, tantissimi, una marea …
“A
cosa debbo questa tua visita improvvisa?”, la voce della sua
amante lo destò dalle sue rêveries, cullato
com’era dalla mollezza post-amplesso
e il tocco rilassante delle dita di lei, che gli massaggiavano lo
scalpo in
dolci cerchi regolari, finalmente placatasi la tempesta
dell’animo suo. Le era
infatti piombato in casa e, fatto raro per lui solitamente
così amorevole e
premuroso, l’aveva baciata e posseduta con
un’irruenza alla nobildonna
sconosciuta, neppure preoccupandosi di spogliarla, limitandosi ad
alzarle le
sottane e di prenderla contro il muro. Non violento né
minaccioso, bensì alla
stregua d’un condannato a morte che si piglia
l’ultimo piacere terreno.
Hironimo
levò la guancia dall’addome di lei, sorridendole
imbarazzato. “Vi ho fatto male?”,
s’informò un poco ansioso, sospirando
sollevato al cenno di diniego da parte di quell’altra.
Riappoggiò il capo,
tracciando arzigogolati arabeschi sulla pelle bianchissima della
nobildonna,
giocherellando coll’ombelico e strappandole qualche risolino.
“Non desideravo
mancarvi di rispetto poc’anzi: mi perdonate?”, si
scusò, in realtà omettendo la
vera domanda che lo assillava, ossia come avrebbe la sua amante reagito
se un
giorno Hironimo avesse perduto il controllo, se non avesse interrotto
l’amplesso al momento giusto, sfilandoglielo prima di
riempirla del suo seme;
se avessero di conseguenza concepito un figlio. Lei
gliel’avrebbe comunicato e si
sarebbero sposati? Oppure gliel’avrebbe taciuto ed esposto
l’infante alla
ruota, se non direttamente
sbarazzatasi d’esso ingerendo della ruta?
Se quest’ultimo accorgimento lei non lo stesse già
prendendo …
Tanto
facilmente Hironimo chiese ed ottenne il perdono della sua
domina, tanto difficilmente i due fratelli si riconciliarono, due teste
talmente dure da competere con le statue d’Egina, a confronto
fragili balocchi
in terracotta. Senza la presenza mediatrice di Lucha e di Carlo, in
casa loro
erano rimasti gli unici uomini e naturalmente finivano per beccarsi,
incapace
l’ultimogenito Miani d’accettare
l’autorità di chi gli era maggiore di appena
cinque anni.
Sicché,
per non causare inutili questioni, il giovane uomo aveva
deciso di frequentare di più i suoi amici, rimanendo il meno
possibile a casa e
di soffocare quella fitta al cuore, ogniqualvolta ignorava le richieste
di
Zanzi ed Ina di giocare con loro. Forse Marco aveva
ragione: i suoi
nipoti non erano roba sua, al massimo di Madre, loro nonna paterna.
Crescendo i
fantolini si sarebbero dimenticati del loro speciale legame e avrebbero
apprezzato di più la compagnia del loro genitore, come
giusto che fosse.
Scandagliando i suoi ricordi d’infanzia, Hironimo aveva
ammesso che anche Padre
mal sopportava quando suo figlio s’attaccava alla toga del
suo barba Batista,
sollevandolo via di peso e soffiando peggio di una gatta, tra le risate
di
Madre.
“Barba
Momi …”, si sentì il ventiduenne
patrizio punzecchiare
all’improvviso sui fianchi, destandolo dal sonno pesante del
dopo-sbornia.
Maledetto Francesco Contarini e le sue divertentissime feste fino
all’alba,
niente e nessuno avrebbe salvato Hironimo da una lavata di capo per
esser
rincasato ad un orario sì indecente, puzzando peggio
d’una distilleria di grappa
friulana. Manco s’era accorto d’essersi disteso
accanto al gatto Baffo,
ch’aveva occupato il suo posto, anch’egli tornato
dalle sue avventure notturne,
tra cacce ai topi e combattimenti per le femmine. “Sveja!
Barba Momi, su sveja,
sveja …”, non cessò per un istante quel
tormenta-cristiani.
“Va’
en malhorra! Lasseme star!”, grugnì il giovane,
emergendo a
guisa di tartaruga candiota da sotto le coperte, serrando dolorosamente
gli
occhi, feriti dalla vivida luce del mezzodì. Diamine,
quant’aveva dormito?
“Barba
Momi!”, saltellava adesso sul materasso Zanzi, imperioso,
imitato da sua sorella Ina. “Vegni! Vegni! Vegni!”,
ripeteva ad ogni balzo. Il
gatto Baffo, fino a quel momento tranquillo e spaparanzato,
balzò giù irritato,
stiracchiandosi e cercando altrove un posto dove dormire indisturbato.
“Vago,
vago, vago!”, replicò a tono Hironimo,
accomiatandosi dal
tepore del suo letto, lavandosi in fretta ed infilando di malavoglia
camicia,
braghe e zipone. Pigliato per mano i nipotini di rispettivamente tre e
quattro
anni, si lasciò condurre fino alla porta della stanza dei
genitori.
“Mama
xé drento”, gli indicò serissimo il
fantolino.
“El
Tata?”
Zanzi
scrollò le spallucce. “Via”, disse,
cambiando impaziente
peso da una gamba all’altra. Sua sorella Ina
annuì, gli occhioni grigi
spalancati e apprensivi.
Perplesso
da quel bizzarro teatrino, Hironimo bussò educatamente
alla porta, avendola trovata infatti chiusa.
“Helena?”, chiamò la cognata,
alternando ai battiti. “Helena c’è qui
il Zanzi e l’Ina che vorrebbero entrare,
per favore, potresti aprire …?”
La voce
soffocata della greca l’apostrofò snervata:
“Dopo, dopo!
Adesso non posso, ho da fare!”
“Giuro
che non entro, se sei ancora in camicia!”,
sdrammatizzò
Hironimo, contento di non essere l’unico poltrone a
Ca’ Miani. “Ma i tuoi
petussi (pulcini, ndr.) sono qui davvero preoccupati, vero?”
“Sì!”
“Ditelo
alla Mama!”
“Mama!
Mama! Verzi ea … ea …”, e Ina si
portò pensierosa il ditino
alle labbra, scordatosi dalla concitazione il termine giusto.
“Porta”,
le suggerì sottovoce lo zio.
“
… porta!”
“Dopo!”,
ripeté ostinata sua madre, il tono modulato d’un
timbro
sospettosamente isterico. “Perché non lo
capisci?!”
Il
giovane patrizio aspirò l’aria, adesso
genuinamente in ansia
per la cognata. Sicché, appoggiate le mani sulle schiene dei
nipotini,
l’accompagnò tramite moine e promesse in cucina,
affidandolo alle cure di
Zanetta.
Se da una
parte Hironimo avrebbe d’istinto sfondato a spallate la
porta, dall’altra giudicò sciocco lussarsi
l’arto e buttar via i soldi dal
maragon, per sostituirla con una nuova. Non quando l’ognora
previdente Orsolina
conservava un doppione di ogni chiave di casa e di fatti
l’anziana domestica ed
Hironimo così entrarono, per poi gelare sul posto alla vista
d’Helena seduta
per terra, la gonna sollevata abbastanza da intravedere le cosce
insanguinate
mentre la sua fantesca Cleofe le porgeva dei panni puliti. Ambedue le
donne
sobbalzarono impaurite non appena s’accorsero dei nuovi
arrivati, la serva
ponendosi protettivamente tra loro e la padrona.
“Maria
Verzene ora pro nobis”, si segnò Orsolina, subito
girandosi
verso un interdetto Hironimo, che al contrario non aveva capito niente,
tranne
che sua cognata sedeva su di una pozza di sangue. “Patron
Momolo, gh’avé horra
da ussir, ve ciamarò mi co’
gh’avarò finio, saveu?” e lo
sbatté fuori dalla
stanza senza tante cerimonie.
Una volta
riammesso, Helena era stata ripulita e posta a letto, la
camera arieggiata malgrado l’odore ferroso del sangue
indugiasse ancora, seppur
labilmente.
“La
siora vuostra cugnada la gh’ha perduo ea creatura”,
gli
sussurrò all’orecchio Orsolina, la quale teneva in
mano una scatoletta avvolta
in un telo. “Co’ no la gera massa granda, no va far
gran dano”, aggiunse,
rassicurando il padroncino su quel punto. “Mi vago zoso en
cocina, se gh’avé
besogno de mi, ciamème pur.”
Hironimo
annuì distrattamente. Si sedette accanto alla cognata,
stringendo la mano di lei, fredda e umidiccia, tra le sue.
“Come ti senti?”,
inquisì cortese.
Helena
abbozzò ad un sorriso stanco. “Passerà,
non hai ascoltato
l’Orsolina? La creatura era ancora piccina-piccina, neanche
me ne sono accorta
veramente, tranne quando … quando …”,
si voltò dalla parte opposta, soffocando
a stento un singhiozzo. “Perché Theos mi sta
punendo così?”, balbettò tra le
lacrime, la voce soffocata dal pianto.
Deglutendo
a disagio, Hironimo si sforzò di consolarla.
“Forse non
era il caso che nascesse, perché …
perché magari era ammalata e … e molte donne
perdono i figli avanti il parto, sono … sono cose che
capitano … Ma Helena!”,
la consolò, scuotendole la mano. “Sei giovane,
bella, in salute
e Marco ti ama moltissimo! Hai perso questo, ne
avrai altri!
Probabilmente la morte di Alvixe e Pellegrina ti ha scossa
più del dovuto;
questa casa in effetti sembra essa stessa un sepolcro tanto
è divenuta cupa,
silente e soffocante, non aiuta certo! Parlerò con mio
fratello e gli chiederò
di portarti meco a Trevixo, a cambiar aria! E quando ti sarai rimessa,
vedrai
che il prossimo anno organizzeremo un battesimo!”
La greca
negò veementemente, tirando su col naso. “Non ci
riesco
…”, ammise, il viso contratto in una smorfia di
pura agonia. “Dopo Christina …
dopo lei … non sono più stata capace di tenerne
neanche uno …” e la sua mano
libera artigliò la coperta all’altezza del ventre,
quasi volesse scavare e squarciare
il traditore.
Suo
cognato impallidì fino al cinereo. “Non era
… non era il
primo?”, ansimò incredulo e al contempo ogni
tassello di quell’incomprensibile
mosaico s’incastrò perfettamente, conferendo una
perfetta logica dietro ogni
comportamento della giovane donna. Ecco dunque spiegati i malumori, la
magrezza, quell’aria vergognosa di chi nascondeva una grave
colpa, l’eccessivo
dolore ai funerali di madona Pellegrina e del marito …
“Tutti”,
boccheggiò Helena, il respiro irregolare e tremulo,
“tutti da quando abbiamo ripreso a …”
“Marco
n’è al corrente?”
Sua
cognata sbarrò gli occhi, terrorizzata all’idea.
“No, e non
deve saperlo!”, lo supplicò, stringendogli forte
la mano fino a conficcargli le
unghie nella carne.
“Ma
… ma …”, tentò di ribattere
Hironimo, non condividendo
quell’ingiusta omissione ai danni dell’ignaro
fratello, il quale si tormentava
in ugual misura dinanzi all’inspiegabile e improvvisa
selvatichezza della
moglie nei suoi confronti. Meglio che si compartisse la notizia,
acciocché egli
si mettesse l’animo in pace, piuttosto di lasciarlo macerare
nel dubbio di ben
peggiori ipotesi.
Peccato
che la greca non condividesse questo suo parere. “Che se
ne fa Márkos di una moglie difettosa, che non può
partorirgli i figli che le
mette in grembo?”, dichiarò ella angosciata,
piangente. “Cosa si dirà in giro?
Che avrebbe fatto meglio a prendere una del suo paese, non
un’inutile
straniera! Márkos mi ripudierà, non mi
vorrà mai più vedere!”
“Mo’
via, non viviamo più ai tempi degli Ezzelini!”, la
contraddisse
Hironimo, sudando freddo dinanzi a quell’impietoso eppure
realistico scenario,
ché la cattiveria della gente superava di continuo ogni
ardita fantasia.
L’ultimo nipote di Helena, Andrea da Ponte, era nato
sciancato e pertanto
condannato tutta la vita a claudicare, sicché prima ancora
del suo nome di
battesimo aveva ricevuto il soprannome di “Zotto” e
già si speculava sulla sua
malformazione come palese segno di malvagità e natura
diabolica, originaria
forse dall’insincera abiura della fede greco-ortodossa da
parte della madre
levantina.[1]
“Il
vostro matrimonio è più che consumato, avete
avuto due figli
in perfetta salute. Mio fratello non potrà mai ripudiarti,
neanche se lo
volesse e anche in quel caso, lo prenderemo a pugni in testa
affinché rinsavisca!”,
sdrammatizzò Hironimo.
“No,
non capirebbe”, s’intestardì Helena,
scuotendo il capo.
“Vedrebbe in me soltanto un fallimento di madre. Un peso, una
palla al piede.
Mettendo caso” e inconsciamente si segnò
all’ortodossa, privilegiando la spalla
destra invece della sinistra, “Theos e la Parthena Maria non
vogliano, però …
però mettendo caso che Angelos non sopravviva
all’infanzia? Che gli rimanga
solo Christina? Come riuscirà allora mio marito ad ottenere
degli eredi maschi
e legittimi? Certo, se vuole dei figli ne potrà avere o di
naturali o dei filii
de anima, i quali tuttavia non avranno mai il diritto di
sedere a Palazzo
Ducale tra i loro pari! Guarda tuo cugino Andreas di tuo zio Ioannes
Baptistes:
ad Aleppo s’è dovuto installare, perché
qui non ce n’era per lui! E così per
colpa mia e di questo dannato mio ventre, Márkos si
ritroverà condannato a non
aver discendenza maschile e rimpiangerà di non aver
ascoltato la sua gente,
quando l’avvertiva: moglie e buoi dei paesi tuoi! Forse
all’inizio non ci baderà,
ma poi finirà per odiarmi, lo so!”,
gridò, singhiozzando forte, i cancelli
della sua anima finalmente aperti e permettendo al pus cancrenoso delle
sue
insicurezze ed intime paure di fuoriuscire, togliendosi dalle spalle
quel
macigno portatosi per anni addosso.
Per
quanto ingiusti e strazianti, i timori di Helena non
apparivano infondati: similmente alla polis d’Atene, a
Venezia soltanto il
figlio legittimo di due patrizi a loro volta nati legittimi poteva
aspirare
alle cariche politiche, Hironimo ben si sovveniva del giorno in cui
Madre lo
aveva accompagnato in Avogaria Comun per registrarlo alla Barbarella,
confermando sotto giuramento la sua nascita all’interno di
regolare matrimonio
e pure portando a fideiussori i suoi padrini sier Jacopo Barbaro e sier
Beneto
Contarini. [2] In seno alla loro gens viveva poi l’esempio
lampante e pratico
di suo cugino germano Andrea Morexini, soprannominato
“Vendramino” giacché nato
proprio il giorno dell’incoronazione a Doge del fu sier
Andrea Vendramin [3] e
soprattutto quando ancora suo zio Batista risultava scapolo: la zia
Morexina
non aveva biasimato nessuno, accettando di buon grado il figliastro e
crescendolo amorevolmente assieme ai suoi. Ciononostante tutti sapevano
benissimo come Andrea sarebbe stato considerato per sempre un figlio di
seconda
categoria rispetto ai fratellastri legittimi, costretto a cercare
altrove
fortuna e a costruire da sé il proprio posto nel mondo.
In quale
modo avrebbe reagito Marco alla notizia
dell’incapacità
d’Helena, di portare a termine qualsiasi gravidanza futura?
Suo fratello avrà
sì posseduto un caratteraccio, però non
apparteneva alle categorie delle
carogne senza scrupoli, sebbene i suoi recenti comportamenti avessero
spiazzato
non poco Hironimo, anche perché in fin dei conti il maggiore
rimaneva comunque
un ambizioso e qualora gli si fosse balenata in testa l’idea
di presentare una
petizione di separazione al tribunale del Patriarca, indubbiamente
Marco
avrebbe smosso cieli e terra per porre fine al suo matrimonio,
determinato come
pochi.
D’altronde,
Hironimo possedeva occhi per veder e non gli era
sfuggito il disappunto nel volto del fratello, seppur abilmente
dissimulato,
alla notizia d’esser divenuto padre d’una bambina.
Al momento di sceglierle il
nome, Marco aveva optato per Crestina, come sua nonna paterna e la sua
sorellastra, giustificandosi che già sua nipote
s’appellava Leonora e dunque
non desiderava che si creasse ulteriore confusione. In
realtà, scegliendo il
secondo nome femminile più importante, inconsciamente aveva
dimostrato quanto
gli scocciasse il doversi tormentare negli anni a venire di provvedere
a un
decoroso futuro a quella bimba. Avevano buon gioco quegli splendidi dei
suoi
zii a fargli la predica: tanto, loro quattrini per le doti laiche li
avevano e
in abbondanza.
Cingendo
la cognata per le spalle e permettendole di sfogarsi
piangendo contro il suo petto, Hironimo soppesò ogni pro e
contro circa
l’informare suo fratello di tal tremenda novità.
Possibile che la sua famiglia
non potesse trovare un attimo di respiro? Perché Dio si
divertiva a tormentarli
così?
“Innanzitutto”,
esordì, massaggiando le braccia di Helena in
movimenti circolari, “Zanzi gode d’eccellente
salute e sicuramente crescerà nel
più bel giovinotto, che si sia mai visto a Veniexia,
rendendoti nonna di una
cernida di nipotini! Secondo, se anche dovesse rimanere soltanto Ina,
vorrà
dire che diverrà un’ereditiera e
convolerà a nozze importanti, divenendo madre
di un’illustre discendenza. Terzo, non
è detta l’ultima parola:
forse avete ripreso a tentare troppo presto per un terzo figlio, specie
dopo un
parto così difficile. Magari rivolgendoti ad una qualche
baba curandera, si
potrebbe trovare il modo di … di riuscire a portare a
termine la gravidanza.”
Helena
s’asciugò le lacrime col dorso della mano,
ascoltando
attenta e sforzandosi di mantenere uno spirito saldo.
“Quarto”,
continuò Hironimo, accarezzandole i capelli, “devi
dirlo
a Marco: prima o poi lo verrà a sapere e credo che
soffrirà di meno, se
l’apprenderà da te che da terzi.”
“Quando
sarà, gliene parlerò”, convenne
sibillina la greca.
Non
proprio la risposta che suo cognato voleva udire, nondimeno
s’accontentò, reputando prematuro ogni immediato
provvedimento. In questo
momento, la giovane doveva badare a recuperare le forze sia fisiche che
mentali, riappacificandosi con la sua coscienza e
poi forse si
sarebbe confrontata col marito.
“Orsolina!
Che ne hai fatto del … della scatola?”, prese in
disparte il Miani l’anziana fantesca appena sceso
giù nelle cucine, sfruttando
la scusa d’avvertire Nardo il cuoco come madona Helena
avrebbe desinato in
camera sua e di prepararle del semplice petto di piccione alle erbette,
giunto
a del pane bianco e niente vino. Madona ha i vermi
allo stomaco, aveva
giustificato la peculiare richiesta.
“La
gh’ho ancor meco”, sussurrò Orsolina,
guardandosi furtiva
attorno. “Co’ vien note, gh’ea buto en
canal.”
Hironimo
aggrottò la fronte, mulinando l’indice in diniego.
“No,
dalla a me. Lo troverò io un posto dove
seppellirla.”
“No
ve molesté, patron Momolo. Nol gh’ha gnanca forma
d’omo”, gli
sconsigliò la domestica, pur sorridendo triste, comprendendo
la motivazione
dietro quel caritatevole gesto.
Testardo,
il ragazzo reiterò: “Ma rimane carne umana, che
merita
una sepoltura da umani, non di finire cibo per seppie e
calamari.” D’altronde,
la creaturina era così piccola, lunga nemmeno un mignolo, un
angolino nascosto
nell’isola di San Michele gliel’avrebbe trovato.
Similmente
a Pandora, durante il tragitto, Hironimo aveva ceduto
alla curiosità e aperto con mani tremanti la scatolina,
contemplando a lungo
quell’esserino: neanche gli pareva un infante,
bensì uno di quei girini scovati
negli stagni, quando da piccolo si divertiva a catturare le rane per
poi
portarle a Nardo acciocché le friggesse. Così
piccino, così … neppure il sesso
poteva determinare, cosa sarebbe stato? Un maschietto? Una femminuccia?
Uno
strano pensiero sorse in mente al giovane: poteva
quell’amorfa creatura
considerarsi abbastanza umana, da venirle negato il
Paradiso? Se ai
bimbi nati morti e senza battesimo, eppure formati, veniva negata la
sepoltura
in terra consacrata, era degno quel girino antropomorfo di finire
sottoterra?
Oppure Orsolina aveva ragione, avrebbe dovuto gettarlo in canale? In
fondo la
natura stessa l’aveva scartato e comunque gli animali
l’avrebbero ugualmente
divorato, indifferentemente se fosse stato o un pesce o un verme.
Hironimo
seppellì suo nipote in un angolo nascosto del giardino
dell’abbazia accanto alla Chiesa di San Michele in Isola. Non
gli era risultata
difficile l’ammissione, anche se apparteneva ad un altro ramo
del casato Miani,
ugualmente i monaci camaldolesi lo avevano accolto ben volentieri,
memori del
generoso lascito di madona Margarita Vituri relicta Miani,
acciocché vi si
costruisse una cappella a Santa Maria Annunziata in memoria del defunto
marito
[4]. Il ragazzo si domandava se le piante lì avrebbero
tratto nutrimento da
quel grasso concime, crescendo rigogliose grazie ad un corpicino troppo
debole
per farlo da sé. Si chiese se ritornando dopo qualche tempo
e annusando i
profumi dei loro fiori, egli avrebbe sentito anche quello del nipote
senza
volto. Dafne, Mirra, Narciso, Giacinto … anche lui aveva le
sue Metamorfosi in
famiglia. Hironimo terminò il lavoro staccando un fiorellino
dal ramo,
posandolo sul tumulo, talmente piccolo da sembrare l'entrata della tana
di una
talpa, semicelato dalla tomba dimenticata di Stefano “il
Postumo” Arpadi,
marito della sua antenata Thomasina Morexini “dalla
Sbarra”, duchessa di
Slavonia e madre del re Andrea III d’Ungheria detto
“il
Veneziano”.[5]
Orsolina,
nuova complice, venne messa al corrente dell’idea del
suo padroncino, di consultare qualche baba curandera onde risolvere il
problema
d’Helena. La massera ci meditò sopra a lungo, per
poi sentenziare che
sicuramente a Venezia di tali fattucchiere ne esistevano in
grand’abbondanza,
tuttavia giudicava più prudente cercare fuori
città, specie se Marco ancora
restava all’oscuro della faccenda (e qui la donna lo
guardò di traverso in
disapprovazione).
La
fantesca pertanto consigliò i due giovani di rivolgersi a
Mamma
Gaia, comare levaressa e in generale fattucchiera di
qualità. La sua
siora Mare – aveva rivelato ad
Hironimo - ha fatto
nascere i vostri fratelli . L’unico
problema rimasto era
persuadere Marco a lasciarli partire alla volta della Marca Trevigiana
senza
porli troppe domande pericolose; a tal proposito giunse provvidenziale
l’intervento di Madre, la quale aveva esplicato al figlio la
sua intenzione di
visitare il santuario di Santa Maria Maggiore e lì pregare
dinanzi al
miracoloso affresco della Devotissima Nicopeia. Il tutto mentre madona
Leonora
fissava severa Hironimo, un’imbarazzata Orsolina alle sue
spalle, tacita
ammissione d’aver spifferato il loro piano alla padrona.
A Treviso
Mamma Gaia abitava poco distante da Porta San Teonisto,
in quel tratto di mura dove scorreva un canale derivato dal Sile e
nomato di
Cantarane. Una casetta modesta, però pulita e accogliente,
dove permaneva un
costante odore d’erbe. Ovviamente Hironimo se n’era
dovuto rimanere fuori ad aspettare,
fintanto che la comare non aveva terminato la sua visita alla cognata.
“Ci
rechiamo alla Madona Granda”, gli annunciò Madre
una volta
uscite, “vieni anche tu?”
“No,
preferisco fare un giro in Piazza”, declinò
l’offerta il
ragazzo, ignorando l’espressione delusa della genitrice, la
quale convenne
mesta, incamminandosi verso il santuario assieme alla nuora e alle
rispettive
fantesche.
“Patron”,
lo chiamò da dietro Mamma Gaia, bloccandolo,
“vistò che
gh’avé spetà fora fin desso,
vegné drento che ve dago un giozzeto d’acquavite
calda. Xé roba bona, saveu?”, gli fece
l’occhiolino la donna, invitandolo ad
accomodarsi davanti ad un modesto caminetto.
Il tepore
della fiamma, unito a quello della bevanda alcolica al
ginepro e miele, riscaldarono ogni fibra del corpo infreddolito
d’Hironimo, non
avendo creduto Treviso così fredda rispetto a Venezia:
l’aria stessa possedeva
il medesimo retrogusto ferroso delle montagne, neanche il giovane
avesse
ingoiate lame. La levaressa girava i ciocchi di legno con
l’attizzatoio,
ravvivando di tanto in tanto la fiamma, la cui luce creava soffusi
chiaroscuri,
conferendole una ieraticità da sacerdotessa e magari nei
tempi antichi
pre-romani l’avrebbero pure considerata tale,
un’ancella della dea madre,
Reitia potnia theron. [6] Doveva essere sulla trentina abbondante,
ciononostante il suo volto non dimostrava affatto la sua
età, giovanile e
indecifrabile, i capelli raccolti da uno stretto sciugatorio, gli occhi
vivaci
e scrutatori, la bocca vermiglia e un seno prepotente a malapena
nascosto dallo
zendale, talmente eretto, pieno e sodo che per un fuggevole istante
Hironimo fu
assai tentato di nascondervi il volto e strizzarglielo fuori dal
corpetto.
Il
giovane uomo deglutì a disagio, girandosi
dall’altra parte e
dandosi mille volte del caprone infoiato.
“M’arecordo
di la vuostra nassita”, ruppe Mamma Gaia il silenzio,
“la siora mia Mare la gera massa vecia par viajar a Feltre,
en autuno po’!
Vossioria gh’aveva ‘na tal pressa d’ussir
fora, che la vuostra siora Mare no la
gh’ha sentio squasi gnente, chome se vu l’amavasse
zà cussì tanto, da no
volerghele dar alcuna pena” e rise mostrando bene una
compatta fila di robusti
denti straordinariamente intatti e il patrizio
s’unì a lei, seppur un pelino
imbarazzato dall’argomento di quella discussione.
“Vuostra sorea, inveze …”,
s’incupì la levaressa, chetandosi bruscamente e
sputando sul fuoco la bacca di
ginepro cadutale per sbaglio nella bevanda.
Hironimo
sapeva d’aver avuto dei fratelli premortigli, del cui
volto non poteva sovvenirsi purtroppo neanche l’ombra di un
sogno, spiriti
leggeri custoditi nel cuore di Madre e di chi poteva ancora ricordarsi
della
loro brevissima esistenza.
“Seu
stà vossioria a consejar a madona di vegnir qua?”
“Siorasì.”
Mamma
Gaia si sporse in avanti verso di lui, puntandogli contro
gli occhi del medesimo colore del Sile, studiando immobile e
imperscrutabile i
lineamenti del volto del ragazzo. “Saveu? Co’ ve
vardo, a me par star davant’a
do omeni, on da ben et on malguajo (malvagio, ndr.), i qualli se ciapan
a crognoli
(pugni, ndr.) per tuorre dominio sora vossioria.”
Hironimo
posò stizzito il bicchiere sul tavolo, interrompendo
quello sconclusionato monologo. “Mia cognata, piuttosto. Sei
riuscita a curare
il suo malanno?”, le chiese spiccio.
Mamma
Gaia abbandonò la sua posa indagatrice, alzandosi dalla
carega e, preso il bicchiere del patrizio, glielo riempì.
“Le gh’ho consejà di
bevar di la camamila, par repossar i nervi. Co’ la mare la
stà serena, el bocia
nasse pì fassilmente. Depì, la gh’ha
d’orar la Devotissima a Santa Maria Mazor,
cognomata de’ Miracoli.”
Un brutto
presentimento raffreddò le viscere del giovane Miani, il
quale manco s’accorse d’essersi ustionato la lingua
nel sorseggiare troppo in
fretta la bevanda calda. Quasi gli leggesse nei pensieri, la comare
levaressa
aggiunse: “Vossioria, no dié la colpa al medego
zudeo: el gh’ha dato ordene de
ras-ciare drento vuostra cugnada a la perfetion, anca massa,
azzò no la
ciapasse niuna infetasion.”
Eliminando
a viva forza ogni immagine mentale provocatagli dalle
schiette e brutali parole della donna, Hironimo osò infine
pronunciare la tanto
temuta domanda: “Ma riuscirà o no a partorire un
figlio vivo?”
“Nol
podevo dir de no a
madona”, fu la secca e al
contempo compassionevole risposta di Mamma Gaia.
“Alla
fine mi sorge il dubbio, se abbia o meno compiuto la scelta
giusta facendo convocare il medico chirurgo”,
confessò all’improvviso madona
Leonora all’ultimogenito, tirandosi su la coperta di lana
sulle ginocchia.
Dopocena,
madre e figlio si erano trasferiti davanti al grande
caminetto della loro casa a Treviso, cucendo la prima e giocherellando
da solo
a carte il secondo. Zanzi ed Ina avevano giocato fino
all’ultimo, ricorrendo il
cagnolino maltese Frisopin e rincorrendosi, finché la nonna
non li aveva ricordato
ch’era giunta l’ora di coricarsi. I due fantolini
allora avevano baciato
l’avia, la quale aveva imposto la mano sulle morbide
testoline. Ottenuta la
benedizione, i due bambini erano balzati addosso allo zio, che li
ricoprì le
gote di rumorosi baci tra una risata e l’altra.
Dopodiché, sbadiglianti e
stropicciandosi gli occhietti stanchi, erano stati condotti da Ufemia
nella
loro cameretta. Rimasti finalmente soli, ecco che madona Leonora aveva
imbastito ciò che si preannunciava una spinosa conversazione.
Il
giovane patrizio si girò di scatto in direzione della stanza
d’Helena, là dove la sfinita cognata
s’era ritirata assieme alla fantesca
Cleofe appena terminato il pasto. “Perché dite
questo, Mare?”
Madona
Leonora cacciò fuori un pesante sospiro, tormentando tra le
dita il filo di lana. “Avrei dovuto consultare Marchetto
prima, si trattava pur
sempre di sua moglie. Forse questa è la punizione di Dio per
la mia arroganza e
per aver usufruito di rimedi non molto conformi alla dottrina cristiana
…”
“Mare,
se fosse così, Dio dovrebbe fulminare l’intera
università
di Padoa, di Bologna e tutti gli atenei dove sezionano cadaveri dalla
mattina
alla sera.”
“Nondimeno,
il parto rimane affare di donne e … e un uomo che si
intromette …”
“Ha
semplicemente diretto quell'incapace della comare levaressa.
Inoltre, se Dio se la piglia per queste piccolezze, non merita
d’esser
pregato.”
“Made,
Momolo!”, l’avvertì perentoria sua
madre, stringendo
arrabbiata gli occhi. Hironimo serrò caparbio la bocca, lo
sguardo duro e fisso
davanti a sé. “Sai bene come la madre di Tina sia
morta di parto”, riprese
madona Leonora la conversazione bruscamente interrotta.
“Certo!”,
replicò aspro suo figlio, incrociando astioso le braccia
al petto. “Così come so pure che al sior Pare non
importò un fico secco, semmai
se la levò convenientemente dai piedi in modo da potervi
sposare.”
“Contrariamente
alle tue malignità, il tuo sior Pare se ne dolse
moltissimo: non l’amava forse appassionatamente,
però non le aveva mai augurato
la morte, non così giovane, a malapena ventiduenne.
Un’esistenza spezzata prima
ancora d’aver propriamente vissuto …”,
la nobildonna abbassò il capo, rivivendo
il momento in cui il feretro d’Andriana Trum Miani era stato
sigillato nella
sua arca. “Ci vollero anni al tuo sior Pare per riuscire a
perdonarsi e per
accettare il fatto che quel triste epilogo non era dipeso da lui
… Quando
nacque tua sorella Emilia, io lo udivo da dietro la porta che si
malediva per
avermi messo nuovamente incinta, malgrado gli ammonimenti sia di Mamma
Gaia che
della tua siora nonna. Mi vegliò giorno e notte durante
l’intera mia degenza …
Il mese successivo, avendo mancato la piccolina di sopravvivere, il tuo
sior
Pare mi domandò perdono per aver preferito la mia vita alla
sua.”
Hironimo
aspirò aria, soffocando il groppone in gola ivi
formatosi. Con la scusa di scacciar via un ricciolo ribelle dalla
fronte,
s’asciugò quella lacrima traditrice che fino
all’ultimo non s’era reso conto
inumidirgli la guancia, sia per la sorte di quella sorella che mai
avrebbe
conosciuto in terra sia per l’inconciliabilità
delle due immagini di Padre,
quella severa e intransigente che lui ricordava e quella umana e
vulnerabile
nei ricordi di Madre. Quanto egli avrebbe desiderato condividere la
seconda
versione, invece della prima!
“Ecco
ciò che io ho rivisto quella sera”,
proseguì Madre, il volto
pallidissimo e tirato, le mani intorcolate tra di loro, “e
per nulla al mondo
volevo tale destino per Marchetto, ancor di più
perché lui ama la sua Helena.
Perciò, mi sono detta: se esiste al mondo la
benché minima possibilità di
salvarla, opterò per quella soluzione! Non
permetterò che mio figlio
seppellisca la sua adorata moglie e il loro pargolo, biasimandosi poi
fino alla
fine dei suoi giorni. Perché anche qualora dovesse
risposarsi, quel dolore gli
rimarrà per sempre, attutito forse, ma mai completamente
scomparso. Ogni volta
che guarderà suo figlio, ripenserà alla sua
perduta Helena.” Si passò una mano
sugli occhi rossi e gonfi di lacrime non sparse. “Ho
sbagliato?”, invocò soccorso
al suo ultimogenito, il quale la vide così piccola e
indifesa, povera donna
schiacciata da tante disgrazie.
Hironimo
le coprì le mani con le sue, appoggiandosi delicatamente
sul petto materno. “La nostra unica colpa, Mare, sono le
continue menzogne che
stiamo rifilando a Marchetto. Ha il diritto di sapere quanto sta
succedendo. Il
male peggiore glielo abbiamo scampato, ma non possiamo costringerlo a
vivere
felicemente ignaro in un mondo fantasmagorico, costruito su
falsità dopo
falsità, nelle quali s’illude di generare figli
che non riuscirà mai a veder
nascere. L’ignoranza lo farà soffrire
più della conoscenza. Almanco, se ne farà
una ragione.”
“Mi
trovi d’accordissimo, però allo stesso tempo
questa
rivelazione deve venire da Helena, non da noialtri”, gli
accarezzò il capo
madona Leonora, assai scoraggiata. “Conosci bene tuo
fratello: la prenderebbe
malissimo se fossimo noi a confidargli il segreto di sua moglie, invece
di
quest’ultima. Rischierebbero di non fidarsi mai
più l’un dell’altro, vivendo da
morti, il che sarebbe una prospettiva assai peggiore di quella iniziale
contro
cui abbiamo lottato.”
“Anche
questo è vero”, convenne stancamente Hironimo,
socchiudendo
le palpebre e lasciandosi cullare dal ritmico scoppiettio del fuoco e
il sordo
ululare del vento.
***
Afferma
il proverbio: il medico pietoso fa la piaga cancrenosa.
Indirettamente,
tramite allusioni, frecciatine, strabuzzamenti
d’occhi e torsioni del collo, madona Leonora ed Hironimo
spronavano in
continuazione Helena ad intavolare con Marco quella dovuta
conversazione,
liberandolo da dubbi e ansie sull’anomalo comportamento della
moglie.
La
giovane donna invece rimandava alle calende greche,
approfittando del rientro di Lucha e di Carlo dai rispettivi incarichi
per
spingere subdolamente il marito a concentrarsi altrove, invece che su
di lei.
L’annuncio del matrimonio a marzo tra Marina Morexini q. sier
Orsato e di
Jacomo Corner del cavalier Zorzi le offrì
un’ottima scusa per assentarsi da
casa ed evitare così il consorte.
Per
carità, da una parte Marco manifestava sollievo nel
constatare
quella ritrovata energica allegria in Helena, accordandole di buon
grado ogni
visita a casa della novizza, assieme a madona Maria Morexini Querini e
a madona
Querina, maritatasi l’anno addietro in sier Daniel Zustignan
q. Francesco.
Dall’altra, però, i suoi occhi scrutavano
attentissimi ogni movimento della
greca, quasi temessero un inganno e talora pareva che i due si fossero
scambiati gli umori, lei solare ed espansiva mentre lui incupito e
scontroso.
D’altronde Helena sì aveva ritrovato il buonumore,
tuttavia evitava la
compagnia dello sposo, parlandogli il minimo indispensabile e stando ai
pettegolezzi tra le domestiche, lei dormiva in un’altra
stanza e questo senza
aver consultato per niente Marco, mettendolo di fronte a decisione
presa.
Non
trovando quindi quasi mai la consorte a Ca’ Miani e appurato
quanto l’infastidisse la sua compagnia, il patrizio aveva
incominciato
anch’egli a disertarla, rincasando spesso e volentieri
tardissimo, quasi in
contemporanea ad Hironimo, cui si giustificava ch’era dovuto
trattenersi a
Palazzo Ducale; ch’era stato invitato a cena da degli amici,
etc. etc. tutte
scuse perché l’odore di vino nell’alito
suo fratello minore lo riconosceva
assai bene, indugiando egli stesso in tali sgavazzi notturni.
Inesorabilmente,
tra Marco ed Helena s’impose uno spaventevole
gelo, il che rattristò non poco i loro famigliari,
così contenti d’aver
appaiato due giovani tanto innamorati l’uno
dell’altro e che adesso sembravano
essersi trasformati in due perfetti sconosciuti. Non litigavano, no,
sebbene il
Miani esibisse certe espressioni inquietanti, ogniqualvolta sua moglie
gli
annunciava una sua visita alle cugine acquisite o alle sorelle, sempre
accompagnata da Hironimo, da lei schiavizzato a perpetuo paggio.
“Uscite?”,
da un po’ di tempo Marco aveva ripreso a dare del voi
ad Helena, per sommo chagrin di quest’ultima, la quale
afflosciò
impercettibilmente le spalle, delusa.
“Sì,
mia sorella Vassilissa mi ha invitato a cena”, gli
spiegò
concisa la greca, aggiustandosi nervosamente lo zendale in testa.
“Non ti … non
vi preoccupate, Momolo mi fa da scorta”, tentò
ella in maniera goffa di
rassicurare il marito, indicandole suo fratello che già
varcava la soglia della
porta d’acqua per salire in gondola.
Se
un’occhiata avesse potuto uccidere, Marco quanto a ferocia
avrebbe equiparato il fu Vlad III di Valacchia, detto
l’Impalatore. “Una di
queste sere dovreste invitare madona Da Ponte e la sua famiglia da noi,
a cena.
Non sia mai ci accusino d’abusare della loro gentilissima
ospitalità, visto che
tanto ricchi non sono …”, sibilò
velenoso l’uomo, risalendo le scale verso il
piano nobile.
Helena,
pur captandola, non si premurò di rispondere alla
frecciatina del consorte, anche per non adirarlo ulteriormente. Avrebbe
molto
volentieri desiderato contraccambiare sua sorella Regina,
però si vergognava e
temeva che quest’ultima captasse la disastrosa deriva, che
stava prendendo il
suo matrimonio.
“In
ogni modo anch’io farò tardi, perciò
non aspettatemi
stanotte”, giunse dall’alto la voce di Marco,
facendo sobbalzare la greca, che
corse all’inizio delle scale, incerta se raggiungerlo o meno.
“Neanche
per un’ora?”
Silenzio.
“Vedremo.”
La
giovane donna si morse il labbro inferiore, tormentandosi a
disagio le dita. “Allora … allora divertitevi.
Fate piano nel rincasare, non
vorrei si svegliassero Angelos e Christina di
soprassalto …”
“Non
mancherò”, rispose atono suo marito.
“Servo vostro, patrona”
e chiuse in via definitiva la penosa conversazione.
“Sì,
sì, servo vostro …”, ripeté
amareggiata Helena, sospirando
profondamente. Sedutasi accanto ad Hironimo all’interno della
felze, si passò
una mano sulla fronte, per poi pizzicarsi esausta la radice del naso.
“Ma che
gli è preso?”, fu la sua domanda retorica.
Ché lei conosceva benissimo la
risposta.
Anche
Hironimo intuiva quali pensieri stessero tormentando suo
fratello; dopo tanto ed inteso ragionare, finalmente aveva capito dove
avesse
già contemplato quel suo sguardo arcigno e al contempo
sofferente: sul volto
del loro parente alla lontana, sier Christofal Moro, ogniqualvolta si
menzionava sua moglie la madona Istriana Pasqualigo Moro, di cui si
mormorava
egli fosse terribilmente geloso e possessivo al punto che,
quand’era ritornato
vedovo da Cipro delle cui fortezze era luogotenente e capitano della
flotta
contro i Turchi, i pettegolezzi l’avevano indicato come
potenziale assassino
della povera donna, strangolata nel sonno - si raccontava - con tale
arte da
farla credere morta di cause naturali. Chiacchiere, ovviamente, salvo
il
dettaglio dell’ossessiva gelosia del luogotenente, quella
sì che corrispondeva
al vero e adesso Marco sguazzava nel medesimo sentimento.
Contrariamente
però al Moro, suo fratello non dirigeva né
sfogava
mai la sua frustrazione contro Helena, bensì puntava
direttamente all’origine
delle sue disgrazie (o che lui presumeva tale), sicché
Hironimo pagò di
conseguenza per tutti, così come avvenne al rientro a
Ca’ Miani a seguito del
fastoso sponsalicio tra Marina Morexini e Jacomo Corner, tenutosi il 25
marzo
1509.
Sentendosi
leggermente assetato per via delle numerose spezie
utilizzate nelle abbondanti portate e maledicendo la sua tonteria per
non aver
ordinato ai servi di lasciargli in camera una brocca d’acqua,
un Hironimo
scalzo e in camicia da notte era sceso sbadigliando nelle cucine,
sobbalzando
dalla sorpresa nel trovarvi lì Marco, ancora completamente
vestito e dinanzi al
caminetto scoppiettante.
“Forse
dovresti metterla giù”, consigliò
scherzando Hironimo al
maggiore di posare il bicchiere, dal cui odore fruttato sospettava
trattarsi di
vin bianco. “Al banchetto hai già alzato a
sufficienza il gomito” e come suo
fratello fosse riuscito a camminare dritto fino alla gondola senza
incespicare,
rimaneva un gran mistero. Perché vin rosso fa sangue, ma vin
bianco batte alla
testa.
“Embè?”,
scrollò le spalle Marco, sottraendo il bicchiere dalla
presa del minore, anzi, riempiendoselo di nuovo. “Non sei il
custode della mia
anima.”
Sospirando
snervato, Hironimo si sedette accanto a lui sulla panca
di legno, portando le ginocchia al petto in modo da scaldare sotto la
camicia i
piedi infreddoliti. “Ascolta, che noi veneziani siamo
rinomati per le nostre
abitudini beverecce, l’è cosa notanda in
tutt’Italia. Ciononostante, credo di
saper riconoscere chi beve per divertirsi e chi per affogare i propri
dispiaceri. Marchetto”, gli appoggiò una mano
sull’avambraccio, provocando un
irritato arcuare di sopracciglio nel maggiore, “per favore
dimmi cosa ti turba.
Madre l’ha notato, Luchin e Carlino l’hanno notato.
Ci stai preoccupando,
soprattutto Helena.”
Alla
menzione della moglie, Marco grugnì sardonico.
“An, sì? Lo
dimostra malissimo, credevo non l’importasse nulla di
me.”
“Mare
de diana, che follie vai mai cianciando?”,
schioccò uno
scocciato Hironimo la lingua, scuotendo il capo. “Ti vuole
tanto bene e
s’impensierisce per te.”
“Osa
affermare il contrario!”, lo sfidò veemente il
fratello,
sporgendosi bellicoso in avanti verso di lui. “Se veramente
Helena mi volesse
bene, non mi fuggirebbe neanche fossi un appestato! Mia moglie evita la
mia
compagnia; non mi parla o cerca sempre di terminare in fretta la
conversazione.
Piaghe di Cristo, ha perfino disertato il mio letto!” e qui
le orecchie del
minore s’infiammarono, non attendendosi tanta schietta
confidenza. “E per cosa
questo? Che le ho fatto? In quale modo l’ho offesa? Mi sono
comportato male, le
ho mai mancato di rispetto? L’ho sempre lasciata libera di
fare ciò che più le
piaceva!”, sfogò infine Marco mesi e mesi di bile
amara ingurgitata, provocando
feroci e colpevoli crampi nello stomaco d’Hironimo,
ch’ammetteva la sua buona
dose di complicità in quell’assurda situazione
creatasi. “Forse ho sbagliato
io”, riprese feroce suo fratello, tracannando a grosse
sorsate il vino, “forse
mi sono fidato troppo, le ho concesso eccessiva libertà.
Avrei dovuto vigilare
meglio: come affermato dal barba Batista, la femmina cade se
l’uomo attua da
macaco!”
Il minore
dei Miani incrociò scettico le braccia al petto.
“Il
sior Barba possiede una grande esperienza del mondo e sa molte cose, ma
non
tutto ciò che dice è necessariamente vero, giusto
e buono!”, contro-argomentò
il ragazzo. “Questi ultimi tempi, capisco esser stati per voi
due difficili,
nondimeno …”
“Lei
mi tradisce, ne sono certo”, arrivò la secchiata
d’acqua
gelida, che lasciò intontito Hironimo per qualche istante
abbondante, la bocca
spalancata a causa della sua incredulità verso tale stupida
supposizione.
Attraverso quale assurdo e contorto ragionamento era Marco giunto a tal
altrettanto bislacca conclusione? Helena si struggeva per lui,
sopportando
stoicamente in silenzio la sua pena per non provocarne alcuna al
consorte. E
quest’ultimo invece d’esigere magari una
spiegazione finalmente chiara e tonda,
si perdeva nell’Empireo delle congetture paradossali?
“E
con chi, sentiamo?”, lo sfidò aspramente Hironimo,
in pronta
difesa della cognata. “È sempre in compagnia di
noialtri”, aggiunse onde
sottolineare l’improbabilità
dell’adulterio.
Peccato,
che la sua affermazione ottenne il risultato opposto e un
luccichio poco raccomandabile guizzò negli occhi nerissimi
di Marco, il quale
piegò la bocca in una smorfia tra il ferino e il trionfante.
“Tu … ho notato
che tu spendi molto tempo assieme a lei …”, alluse
in un sordo ringhio. “Ogni
volta che Helena esce di casa, sei sempre ad accompagnarla. Anche
quella volta
a Trevixo … Mi pare che con te, lei si comporti in maniera
molto più rilassata
… e aperta … ”
“E
dunque? Cosa stai insinuando?”, sibilò seccato il
minore,
imporporandosi le guance di sdegno. “Cospetto, non ci
crederai mica la versione
veneziana di Paolo e Francesca, adesso?”,
ridacchiò sardonico, incapace di
concepire tale grottesco paragone e sperando in una pronta smentita da
parte
del fratello, che invece rimase serissimo, seguitando a scrutarlo
bellicosamente. “Oh Sacramento, lo pensi sul
serio?”, ansimò sgomento Hironimo,
sentendosi le budella attorcigliare.
“Io
non penso niente!”, ruggì Marco, battendo il
bicchiere con
tale foga sul tavolo, da spaccarne il fondo.
“Bugiardo!”,
s’inalberò Hironimo, balzando giù dalla
panca, i
pugni serrati e vibrando di collera da capo a piedi. “Avanti
dillo! Guardami
dritto in faccia e abbi i coglioni di chiedermi se mi scopo tua
moglie!”, lo
provocò fuori di sé. Sciocco!
Avrebbe dovuto immaginarlo, avrebbe
dovuto leggere lo sguardo torvo e obliquo del maggiore, la fronte
aggrottata
fino ad unire le sopracciglia in un’unica linea,
nonché il modo in cui
s’ingobbiva simile ad un ghepardo pronto a balzare
sull’ignara preda. In quante
occasioni aveva contemplato quell’espressione assassina,
ogniqualvolta Marco
s’appropinquava all’attacco?
Di fatti
Hironimo, pur possedendo riflessi eccellenti, si ritrovò
sbattuto contro il muro, l’avambraccio di suo fratello sulla
gola. “Ed è
vero?!”, sbraitò, le iridi nerissime che
cambiavano incessantemente di
posizione, quasi stessero leggendo avide e disperate ogni minuscolo
rictus
facciale del ragazzo, in cerca di conferma o smentita. “Lo
fai?!”, ripeté e
soltanto perché il maggiore era palesemente alticcio e
perché in fin dei conti
avrebbe potuto scansarlo con un pugno allo stomaco, che Hironimo si
calmò,
rispondendogli serissimamente ironico:
“Certo!
Mi scopo tua moglie davanti a Madre, a Tina, ai nostri e
suoi parenti, davanti a tutta la fottuta servitù per
intrattenerli! Elencami
ogni circostanza, in cui lei ed io abbiamo potuto rimanere soli!
Avanti!”, e
non ricevendo alcuna risposta – perché non
sussisteva – egli delicatamente
afferrò l’arto di Marco, sciogliendosi senza
fatica da quella presa.
Riaccompagnò suo fratello accanto al caminetto, porgendogli
stavolta un
bicchiere d’acqua e servendosene anch’egli. Solo in
quel momento s’accorse di
come le sue mani stessero tremando. “Mi addolora sapermi da
te così poco
stimato, da giudicarmi capace di tal tradimento nei tuoi
confronti!”, gli
confessò mestamente, umiliato da quella mancanza di fiducia.
Non lo si poteva
di sicuro descrivere un ragazzo d’oro, un figlio modello, ma
insidiare la
cognata no, quella carognata neppure sotto tortura l’avrebbe
il giovane Miani
compiuta. Amava troppo Marco per pugnalarlo così alle spalle
e verso la greca
provava unicamente l’innocente affetto riservato ad una
sorella.
Leggendovi
null’altro che sincerità negli occhi del minore,
Marco
perse ogni slancio aggressivo, sgonfiandosi quasi sulla panca e
coprendosi il
viso con le mani. “Perdonami, non stavo ragionando
lucidamente”, ammise in un
sospiro, massaggiandosi le tempie.
“Questo
mi pare ovvio”, sbuffò Hironimo. “Ti sei
calmato?”
Suo
fratello lo ignorò, vociando il dubbio che lo tormentava da
un
bel po’ di tempo: “Helena mi nasconde qualcosa, lo
sento.”
“Forse
lei si è semplicemente stufata delle tue ingiustificate
gelosie! Non vuol trasformarti in motivo di pettegolezzo, come sier
Christofal
Moro.”
“Ti
ha mai confidato qualcosa?”, giunse la non tanto inaspettata
domanda, la quale in verità sarebbe stato auspicabile fosse
stata posta
direttamente alla moglie, che a suo fratello minore.
Oddio,
Hironimo era assai tentato di spifferare la faccenda per
intero a Marco e così salvare capre, cavoli e matrimonio e
ritornare a respirare
liberamente. Ciononostante si ricordò della promessa fatta
ad Helena, del
discorso di Madre circa una futura perdita di fiducia del maggiore nei
confronti della consorte. Inoltre egli avrebbe dovuto anche confidargli
del
motivo del viaggio a Treviso, dei problemi fisici della moglie,
nonché
dell’intervento segreto del medico giudeo, una sfilza di
menzogne e omissioni
concatenatesi tra di loro fino a formare un soffocante cappio al collo.
Se
stupidamente il giovane Miani aveva permesso di lasciarsi coinvolgere
tra le
loro beghe, doveva perlomeno mantenere una sicura neutralità.
“Riguardo
a ciò che l’affligge, non mi ha rivelato nulla a
riguardo.”
Sicché
Hironimo tacque e mentì, augurandosi d’aver optato
per la
soluzione migliore.
***
Giunse la
tremenda guerra, la quale come arrivò a distruggere per
un soffio Venezia, ugualmente rischiò di minare il
matrimonio di Marco ed
Helena fino al punto di non ritorno.
Già
durante i mesi precedenti al conflitto, il patrizio aveva
cessato ogni gelosa ostilità nei confronti della moglie,
intensificando le ore
fuori casa e addirittura dalla città lagunare, con la scusa
di valutare alcune
terre nell’entroterra miranese, ch’aveva intenzione
d’acquistare. Il suo
atteggiamento in generale s’era di molto tranquillizzato e
anzi, manifestava
un’oscura soddisfazione che non garbava affatto ad Hironimo,
ché gli ricordava
fin troppo bene la medesima compiaciuta espressione, quando da
ragazzino Marco
gongolava trionfante a seguito di una marachella particolarmente
crudele e riuscita
alla perfezione ai danni del malcapitato di turno. Ma
certo che sto
bene, perché non dovrei?, gli rispondeva
innocentino e beffardo, in quelle
occasioni in cui il minore s’informava della salute del suo
spirito. Almeno,
pareva essersi riconciliato di facciata con Helena, dimostrandosi
sempre
gentile e cortese verso di lei, eppure l’intero concerto
suonava falso,
stonato.
“Lo
sospettavo da qualche tempo, ma ormai ne sono sicuro”,
sentenziò sier Batista Morexini, eseguendo un gambetto di
donna sulla scacchiera.
Quel pomeriggio, non sopportando più l’aria
mefitica a Ca’ Miani, Hironimo
aveva cercato rifugio nel palazzo dello zio, onde distrarsi.
Sennonché, alla
fine, lo stesso aveva finito per discutere del fratello, esplicando al
parente
i suoi dubbi.
“Cosa,
sior Barba?”
“Ch’el
Marchetto gh’ha la soa pezzetta” (ha
l’amante/mantenuta,
ndr.)
Hironimo
si bloccò fulminato, rimanendo comicamente col gomito a
mezz’aria e il cavallo gli scivolò dalle dita,
rimbalzando sulla scacchiera e
rotolando per terra. “Avete … avete la sua
confidenza?”, la buttò pateticamente
sul ridere, la gola invece secca e il cuore che gli batteva la chamade
in
petto. Come aveva potuto Marco? Una pugnalata in pieno petto avrebbe
doluto
meno ad Helena, una volta appresa la squallida notizia.
“Non
ho bisogno d’essere il suo confessore per capirlo”,
replicò
ineffabile il senatore, raccogliendo il pezzo perduto e cedendolo al
nipote.
“Tra criminali ci si riconosce”, asserì
pragmatico, da vero esperto in materia.
Il
giovane abbassò il capo, stordito e rifiutandosi di credere
della bassezza di quel gesto. Perché lo sapeva che Marco non
tradiva sua moglie
per lussuria, lo conosceva più di se stesso. No, si trattava
di una vendetta
bell’e buona, per umiliare la moglie che, secondo lui,
l’aveva rifiutato.
E mentre
sier Batista in neanche tre mosse gli faceva scacco
matto, lamentandosi della distrazione del nipote, Hironimo
indugiò in quella
sua indecisione, se giudicare suo fratello o estremamente puerile o
straordinariamente crudele. Pregò ardentemente che non si
trattasse di madona
Maria Baxadona da Molin, zia della giovane sposa di suo cugino Carlo
Morexini,
Maria da Molin. La moglie di sier Hironimo da Molin q. Antonio e Marco
erano
stati tra i più tenaci sostenitori di quelle nozze tra il
Morexini e la
fanciulla, nipote per via di madre del celebre letterato sier Alvixe
Foscarini
ed unica erede del fu sier Amadio da Molin q. sier Antonio,
un’unione che
avrebbe combinato prestigio culturale con prestigio economico. Forse
gli occhi
di Hironimo erano foderati di malizia, ma aveva notato
un’eccessiva complicità
tra madona Maria Baxadona da Molin e Marco, dietro la scusa ufficiale
di
persuadere il recalcitrante cugino Carlo a sposarsi.
Sarebbe
stata una prospettiva orribile, ritrovarsi non solo
l’amante in casa, ma pure legata a vincoli di parentela,
rovinando in un colpo
solo ben tre matrimoni. Per fortuna Padova dissipò questa
sua angoscia,
trovando conferma inoltre nella sua seconda teoria, che Marco tradisse
la
moglie più per ripicca che per altri lascivi sentimenti.
Certo,
Hironimo stesso in quel periodo non nutriva particolari
sentimenti cavallereschi verso il gentil sesso, ferito e umiliato dal
tradimento della sua domina, sicché non giudicò
la donna cui suo fratello
s’accompagnava, non all’inizio almeno. In fin dei
conti si trovavano in guerra,
ogni giorno poteva corrispondere all’ultimo,
perché non godersi quei pochi
piaceri rimastigli e al diavolo tutto il resto?
Poi,
però, osservando meglio la coppia adulterina, Hironimo
sospettò in quei due una complicità nata ben
prima di Padova. Non era strano
che alcuni patrizi si fossero portati le prostitute o le concubine da
Venezia –
meglio un lupo familiare ad uno nuovo - ma il modo
in cui Marco
interagiva con la sua ganza, in cui la baciava e se la
stringeva, manifestavano
una confidenza di vecchia data e più profonda del classico
rapporto
fornitore-cliente. Era dunque lei, lo strumento della rivalsa su Helena?
Ipotesi
che, una volta rientrati vittoriosi nella città lagunare,
si rivelò fondata, poiché Marco seguitava a
frequentare quella donna anche
quando, tecnicamente, i suoi servigi non erano più
richiesti. Hironimo tuttavia
si disinteressò in parte a tale questione, più
impegnato prima ad organizzare i
rinforzi richiesti da Lucha, poi a consolare una disperata Madre quando
giunse
la notizia della caduta di La Scala e della cattura del primogenito da
parte
delle truppe spagnole, che l’avevano ceduto ai tedeschi al
fine di deportarlo
prigioniero in Alemagna.
Soltanto
durante una notte particolarmente ventosa di fine
ottobre, il giovane patrizio osò menzionare ad alta voce i
suoi sospetti a
Marco, nell’intimità dello studio di Padre.
Naturalmente
suo fratello si scocciò, neppure degnandosi di
sollevare lo sguardo chino sulle missive che stava compilando.
“Quali sono le
tue priorità, Momolo?”,
s’informò laconico. “Arrangiare il
riscatto per nostro
fratello o discutere su chi mi porto a letto?”
“Dimmi
almanco che non si tratta della Baxadonna …”
“Della
chi?”, fece genuinamente confuso suo fratello.
Dopodiché
avvampò. “Non osare infangare così la
reputazione di Marietta, come ti perm- …”
“Oh-oh,
senti, senti. Della Marietta non
sapevo
che foste già arrivati ai diminutivi. Quindi oltre alla tua
ganza, ti scopi
anche la moglie del povero sier Hironimo? Magari quando vi recate in
visita
dalla loro nipote Maria … Mi immagino la faccia della zia
Morexina – tutta
Messe e rosari - quando apprenderà in che
razza di bordello le
abbiate trasformato la casa!”
“Taci,
idiota! Non sai niente e ti permetti pure di parlare? L’unica
ragione, per la quale m’atteggio cortesemente verso Mariet-
madona da Molin, è
per convincerla a fidanzare sua figlia Catharina con Anzolo.
È lei che comanda
in casa: se ottengo il suo beneplacito, mio figlio otterrà
per sé una moglie
molto ricca. Quindi sì, non nego di esser sembrato forse un
po’ troppo in
confidenza con madona Maria, ma non mai ho iniziato con lei alcun
disonesto
commerzio!”
“Ah
no? T’ho visto con che occhio lubrico la guardi, tutto
cicci-coccò, galante, spiritoso e pure la prendi per mano
quando sale
dall’imbarcadero! Le miagoli dietro melenso e lusinghiero,
peggio del gatto
quando scorge un uccellino sul balcone! Credi che venga da
Mazorbo?”
“Ti
giuro che non l’ho sfiorata neppure con la punta delle dita!
Voleva
ch’io persuadessi nostro cugino Carlo a sposare sua nipote
Maria, perché devi
sempre pensar male?”
“E
la femena a Padoa?”
“Un
altro discorso.”
“An!
Quindi confermi di aver tradito Helena? Per quale motivo,
poi, visto che non hai prove della sua infedeltà nei tuoi
…”
“Non
giudicarmi”, lo crocifisse feroce Marco cogli occhi.
“Anche
tu sei un adultero, non te lo dimenticare”, gli
ricordò pungente, chetando in
via definitiva Hironimo, il quale si morse l’interno della
guancia, colto in
fallo, scordatosi infatti del piccolo dettaglio di come anche la sua
Lena fosse
stata sposata. “Sussiste una ragione, per la quale il nostro
sior Barba
cornifica dalla mattina alla sera la nostra siora Amia?”
“Non
certo per vendicarsi di lei.”
Marco
appoggiò la penna, intrecciando le dita sotto il mento.
“E
se ti dicessi che la mia amante è incinta?”
“Ti
risponderei che sei un pezzo di merda”, ribatté
prontamente
Hironimo, le nocche bianche a causa dei pugni serrati, irritato dalla
nonchalance con cui suo fratello pronunciava quell’annuncio,
quasi si trattasse
di una piccola stravaganza e non invece di una stilettata a quella
povera donna
di sua moglie.
“Perché?”,
inquisì dolcemente velenoso suo fratello, il medesimo
tono usato nella Sala del Tormento verso gli indagati e i testimoni.
Perché
per anni tua moglie mi ha pianto sulla spalla, visitando in
pellegrinaggio ogni chiesa in ginocchio per un improbabile miracolo e
dannandosi l’anima per te, perché teme di
deluderti, di provocarti un dolore
acutissimo semmai tu dovessi scoprire che lei non può portar
a termine alcuna
gravidanza.
“Che
decisione hai preso riguardo al bambino?”, chiese infine
Hironimo, imponendosi la calma, il respiro irregolare
dall’ira che gli
graffiava dentro il petto.
“Lo
prenderò in casa, ti pare? È mio figlio, non
voglio cresca tra
la plebe.”
“Ti
supplico di non farlo.”
“Preferisci
che l’abbandoni alla Pietà?”
Il
ragazzo scosse il capo. “Non potrebbe piacerti la reazione
d’Helena.”
“Pensi
che mi spaventino gli strilli di una donna?”, rise malevolo
Marco, intingendo il pennino nel calamaio e riprendendo la scrittura
interrotta.
“Non
strafare nella vendetta, potrebbe ritorcerti contro”,
l’avvertì sibillino Hironimo e suo fratello
assunse un’espressione genuinamente
confusa. “Presenta l’infante come mio, tanto oramai
sono ufficialmente la
pecora nera di famiglia, non si stupiranno in caso dovessi portare un
illegittimo a casa …”, tentò debolmente
di sdrammatizzare, ottenendo purtroppo
l’effetto contrario, ché il viso di Marco si
rabbuiò, torvo.
“Non
giocare al martire, adesso.”
Da
complice involontario della cognata, Hironimo si ritrovò di
punto in bianco a dover mentire anche per il fratello, in uno spietato
fuoco
incrociato. Servitore di due padroni, per non far torto a nessuno,
soffriva lui
per ambedue.
“Che
ore sono?”, chiese d’un tratto Helena, tenendo
l’orecchio
all’eco lontano della campana della chiesa di San Vidal.
“Le
cinque di notte”, (circa le 23 attuali,
ndr.)
rispose prontamente Madre.
La greca
chiuse il ventaglio di carte che teneva in mano,
mordicchiandosi infelice il labbro inferiore. Un’altra notte
disertata dal
marito ed Hironimo sapeva benissimo perché.
“Momolo, ti ha detto per caso …?”
“An
… forse, forse sarà andato a casa di sier
Nicolò Trivixan,
sai, il novizzo di tua sorella Chiara …”,
mentì celere suo cognato, fissando
tanto intensamente le figure delle sue carte, che sembrava volerle
bucare con
lo sguardo.
“Mi
pareva d’aver sentito, che invece fosse ospite di vostro
cugino Carlo; sua moglie ha invitato il suo barba sier Hironimo da
Molin e la
sua bellissima moglie, madona Maria …”,
commentò allusiva Maddaluzza
Miani, sorridendo eloquentemente ad Hironimo, che la crocifisse feroce.
“Donca
è vero quel che si dice: che siete sorda e udite il
contrario di tutto!”, soffiò ostile, pigliandosi
un pronto rimprovero da sua
madre.
“Capisco”,
sospirò mesta Helena. E sforzandosi di sorridere:
“Se
non v’incomoda, io mi ritirerei, sono molto
stanca”, annunciò tramite un
teatrale sbadiglio e si pose velocemente in piedi, senza neppure
premurarsi di
contare i punti ottenuti nella partita.
“Ma
che diamine sta succedendo tra loro due? Pensavo avessero
chiarito”, si sfogò Lucha – liberato nel
frattempo e rimpatriato a Venezia da
qualche settimana – mentre Hironimo lo aiutava a svestirsi e
ad indossare la
camicia da notte, i nervi del gomito destro spezzati e giacente
pertanto
l’intero braccio immobile ed inutilizzabile.
“Marchetto
aspetta un figlio da una sua amante.”
Lucha si
voltò di scatto verso il minore. “Cosa?!
È impazzito?”,
si soffocò per poco con la sua medesima saliva.
“Come … come …?”
“Che
ne so io?”, lo interruppe snervato Hironimo, contento in
parte d’alleviare quel suo gran peso dallo stomaco.
“S’è ficcato in testa di
punire a tutti i costi la freddezza d’Helena, ignorando che
così danneggia
soltanto se stesso!”
“Ma
… ma … perché? Non comprendo. Parevano
così felici …”
Hironimo
invece capiva e avrebbe tanto voluto cercare consiglio
nel maggiore. “Le spezzerà il cuore.”
“E
lei gli spezzerà l’osso del collo”,
commentò sarcastico Lucha,
salendo cautamente sul letto. “D’altronde, chi
è causa del suo mal, pianga se
stesso”, dichiarò e si tirò su la
coperta con la mano sinistra, forse alludendo
alla ferita di guerra, la quale l’avrebbe reso un invalido
fino alla fine dei
suoi giorni. “Come sta la Tina? L’ho vista tanto
dimagrita e pallida …”
“Non
molto bene; non riesce né a mangiare né a dormire
di notte.
Se soltanto non fossimo in guerra … potremmo mandarla a
curarsi alle terme di
Abano …”
“Domani,
di ritorno da Palazzo Ducale, andrò a visitarla.”
“T’accompagno,
se vuoi.”
“Perché
no? Sono talmente stufo di vedere queste facce da funerale
… E nostro fratello non aiuta.”
Perché
per piangere, sarebbero di sicuro scorsi fiumi di lacrime,
altroché.
Hironimo
fu il primo a tenere Scipio tra le braccia, innamoratosi
speditamente di quella faccina grinzosa nei cui lineamenti ritrovava
una copia
sputata di Marco, tranne negli occhi grigi ch’erano quelli di
Padre. Si chiese
se i nipotini abortiti naturalmente da Helena gli sarebbero
assomigliati,
avessero avuto l’opportunità di sopravvivere.
Da quanto
appreso, la madre della puerpera non le aveva neanche
concesso di vedere il neonato, acciocché non
s’affezionasse e dunque evitando
di soffrire per la separazione. A giudicare dalla borsa di denaro
appoggiata
sul tavolo e dall’espressione soddisfatta della donna, questa
aveva concesso a
Marco di divertirsi con sua figlia dietro solenne promessa di
procurarle una
dote e, ç’allait sans dire, d’allevare
il pargolo nato da quella relazione
extraconiugale.
Cullando
lievemente il nipotino e coprendolo bene sotto la
pelliccia, Hironimo si dispiacque che una creaturina così
bella dovesse esser
stata concepita per motivi così gretti. Gli promise di
amarlo e di supportarlo
ora e per sempre, anche se l’intera Ca’ Miani
avesse finito per odiarlo, in
primis la sua matrigna.
“Piange
troppo”, osservò apprensivo Marco, seduto di
fronte al
fratello e al figlio, il quale suggeva iroso e affamato il mignolo
offertogli
dallo zio. “Non vorrei corrispondesse ad un segno di poca
salute …”
“Macché,
ha semplicemente ereditato il tuo caratteraccio. Scoltame
ben: poiché questo putelo strilla più imperioso
d’un generale, già ch’è un
Aemilianus perché non lo chiamiamo Scipio?”, gli
propose invece Hironimo e
miracolosamente il piccino si calmò, pur fissando di
traverso i due uomini,
accusandoli di negargli la meritata pappa.
“Scipio
mi piace assaissimo”, convenne Marco e il minore
ritrovò
sul suo volto la medesima contentezza ed orgoglio, che gli aveva letto
la prima
volta che gli era stato messo in braccio Zanzi. Il neopadre
accarezzò col dorso
dell’indice la guanciotta paffuta e morbida del suo
terzogenito, anch’egli
rimasto inesorabilmente vittima dell’incantesimo del coccolo
puttino.
Perché
il destino s’era accanito così crudelmente,
impedendo che
Scipio nascesse da Helena? Quanti anni di amarezze li sarebbero stati
risparmiati!
Lucha e
Carlo, alla vista del nipote, l’accolsero ben volentieri,
sebbene biasimando nel loro intimo il fratello per i suoi modi poco
ortodossi
di procurarsi quel terzogenito che la moglie si rifiutava di dargli.
Madona
Leonora, dal canto suo, sorreggeva estasiata l’infante, cui
non parve vero
d’appoggiare finalmente la testolina sul petto di una donna:
perlomeno si
facevano progressi e presto quei gaglioffi gli avrebbero offerto una
gonfia
poppa da cui suggere. Ciononostante, Madre seguitava ad osservare
ansiosa il
figlio, meditando sulla reazione della nuora e indecisa sul da farsi,
giacché
mai trovatasi in una situazione simile: l’unico illegittimo
(riconosciuto) suo
fratello Batista l’aveva portato in casa da scapolo, ergo
evitando questioni
con la consorte; pace all’anima sua, Anzolo in questo le
aveva dimostrato
fedeltà assoluta. Come avrebbe reagito, in caso si fosse
trovata nei panni
d’Helena?
Certamente
madona Leonora non sarebbe stata così stoica e
composta, quando la giovane greca venne presentata al figliastro.
Pallidissima
in volto e torcendosi le dita manco volesse spezzarle, Helena aveva
ascoltato
in silenzio assoluto le circostanze della nascita di Scipio, per poi
rintanarsi
nelle sue stanze e l’eco dei suoi singhiozzi
riecheggiò fino alle fondamenta di
Ca’ Miani e la cosa andò avanti per un paio di
giorni, al punto che da fuori ci
si chiedeva se fosse morto qualcuno in casa.
“Perché?
Perché mi hai dovuto fare questo?!”
“Perché?
E me lo chiedi? Dopo quello che tu per
anni hai fatto a me?”
Al terzo
giorno, i pianti si tramutarono in urla, che si
definirono in feroci accuse in un misto tra greco e veneziano e nessuno
osava
mettersi in mezzo ai due furiosi contendenti, i quali oltre che al
rivale
accusavano anche i supposti complici di doppiezza e abiezione delle
più
nefande, incuranti del veleno sputato a destra e a manca, il loro unico
scopo
rimaneva quello di ferire quanto più possibile, fregandosene
altamente
dell’eventuali conseguenze sull’unica vittima del
loro dissapore.
“Io
non so di che cosa tu mia stia colpevolizzando … Ti sono
sempre stata devota e
leale; quest’umiliazione non me la
meritavo!
Come hai potuto?! Mi hai giurato fedeltà nel corpo e
nell’anima! Dannato
spergiuro! Schifoso puttaniere!”
“Bugiarda,
lurida gattamorta levantina! Vuoi davvero conoscere la
tua colpa? Dunque ascolta bene e non m’interrompere: tu mi
hai rinnegato come
sposo, mi hai ridicolizzato davanti a tutta Veniexia e magari pure ti
sei
divertita a decorarmi la testa!”
“Non
è vero! … Crudele, non è vero
… ti amo, ti ho sempre amato …
non puoi pensarlo veramente … Ti ho dato
due figli! … ”
“Bel
modo d’esprimere il tuo amore! Non ne hai più
voluto sapere
di me, lo neghi forse? E siccome non sono quel genere di marito, che
con la
forza si prende i suoi diritti coniugali, pure ti permetti di lagnarti
che ho
preferito un’amante alla violenza?”
“Avresti
potuto dirmelo … Ne avremmo potuto discutere
…”
“Tu
per prima non l’hai voluto fare!”
“Tu
non capisci!”
“E
FAMMI CAPIRE PERDIO!”
Ché
se Scipio se ne stava ignaro e beato tra le braccia robuste
della balia o nella sua cuna, Zanzi ed Ina erano quelli abbastanza
maturi da
ascoltare e in parte capire le cattiverie scagliatesi contro tra i
genitori. In
più occasioni Hironimo aveva scovato i nipoti accoccolati
dietro la porta da
dove provenivano le grida furiose di Marco ed Helena, tappandosi il
cinquenne
bimbetto le orecchie, gli occhioni nerissimi colmi di lacrime. La
quattrenne
sorellina lo fissava inebetita, chiedendo soccorso con lo sguardo,
incapace di
consolare il maggiore. Allora, lo zio si inginocchiava e li abbracciava
forte
entrambi, Zanzi che gli inumidiva lo zipone ed Ina che si aggrappava a
lui
mentre li conduceva in cucina, lontani da quell’inferno.
“Perché
si devono dire queste brutte cose?”, gli singhiozzava il
fantolino contro il petto. “Perché non fanno la
pace? Perché Mama non vuole
vedere il nostro fratellino?”
Perché
i vostri genitori si sono comportati da deficienti ed io
dal Re dei Deficienti per aver taciuto la verità fin
dall’inizio, gli
spiegò
mentalmente il giovane Miani, accarezzandogli il capo e baciandoglielo
a mo’ di
scusa per il male fatto indirettamente all’adorato nipote.
“Ed
io no, sior barba?”, gonfiò le guance Ina, il suo
immaturo
cuoricino già distratto dalla gelosia verso le attenzioni
rivolte al fratello.
“A
te due, perché sei la principessa di casa!”,
l’accontentò
Hironimo, accomodandola sulle ginocchia, ritrovandosi ben presto
oberato dal
peso di Zanzi, che pure lui non voleva esser da meno.
“Tu
lo sapevi.”
Hironimo
sospirò stancamente: bene, al fine Helena aveva
confessato e come in ogni processo, dopo gli imputati ora toccava ai
testimoni.
A seguito
di una visita informale da parte del Signore di Notte
del sestiere di San Marco, allertato per via degli immondi schiamazzi
provenienti da Ca’ Miani e venuto ad accertarsi che nessuno
si stesse
ammazzando, i due coniugi avevano cessato di gridarsi dietro ogni
genere di
recriminazione, piombando di conseguenza il palazzo in un inquietante
silenzio.
L’inarrestabile malattia di madona Crestina e le pratiche per
la supplica di
Lucha d’ottenere dal Maggior Consiglio la castellania di
Castelnuovo di Quero
avevano impedito ai fratelli Miani di discutere oltre
sull’argomento,
rimandandolo a data da destinarsi.
“Hai
già interrogato Mare, Luchin e Carlino?”, si
sedette annoiato
Hironimo di fronte a Marco, sfinito dalla triste visita alla
sorellastra
Crestina, ogni giorno sempre più magra e patita, perfino il
semplice parlare le
risultava stancante.
Dal modo
in cui suo fratello tamburellava nervosamente le dita sul
tavolo, intuì di sì. “Tu sapevi tutto,
più di chiunque altro. Perché non me
l’hai detto?”, non gli addolcì Marco il
farmaco, ponendogli brutalmente secco
quella domanda sortagli immediatamente in testa, dopo la confessione
della
moglie. “Il medico giudeo; gli aborti naturali; perfino la
visita alla comare
levaressa a Trevixo … Eri al corrente di ogni cosa, in
sostanza quasi il suo
confessore …”
“E
come tale, legato al vincolo di segretezza.”
“Siamo
fratelli”, gli ricordò Marco, stranamente senza
astio.
“Ed
ambedue stupidi”, ammise amaramente Hironimo, umettandosi le
labbra secche. “Io più di te. Hai ragione: non
dovevo mentirti, avrei dovuto
informati su quanto stava accadendo. Ti ho stoltamente sottovaluto,
avrei
dovuto nutrire più fiducia nei tuoi confronti. Ma ti giuro
che non l’ho fatto
per malizia, bensì per proteggerti da una grave ingiustizia,
che nessun
genitore dovrebbe mai soffrire. Non lo capivo allora, l’ho
compreso grazie a
Mare”, disse, contemplando i palmi delle sue mani. Ovvero
di seppellire
un figlio, tuo figlio.
Marco
allungò il braccio, afferrandogli il polso delicatamente.
“Helena mi ha domandato perdono per il suo comportamento e
oggi, per la prima
volta, ha preso in braccio Scipio. Mi pare si piacciano e anche Zanzi
ed Ina
sono contenti della nostra riappacificazione”, gli
confidò malinconico. “Ho
rassicurato mia moglie, che non ha nulla di cui rimproverarsi,
piuttosto che
fosse lei ad accettare le mie scuse. Mi sono comportato da puerile
idiota, ho
peccato d’adulterio, intraprendendo un’inutile
quanto imbarazzante vendetta,
contro cosa, poi? Contro ombre partorite dalla mia mente”, si
fustigò impietoso
e mollò la presa dal polso del minore, intrecciando
nuovamente le dita. “Vi ho
accusato ingiustamente e me ne pento. Voi volevate soltanto
risparmiarmi un
grande dolore.”
Hironimo
s’esibì in un sorriso tirato. “Siamo
fratelli”, ripeté le
parole pronunciate poc’anzi da Marco. “E tra
fratelli ci si perdona tutto, no?
Anch’io posseggo la mia buona dose di colpa in questa vicenda
e vorrei aver
parlato prima, evitando così di farti soffrire inutilmente e
perdere tempo
prezioso.”
E
pronunciato il suo mea culpa, l’ultimogenito Miani
ritornò a
studiare le sue mani, ch’avevano scavato furtive e rapide
nella nuda terra una
buca dove posare quella scatoletta, ricoprendola e livellandolo
l’humus finché
il dislivello non era stato appianato. Ogni anno Hironimo si recava al
monastero di San Michele in Isola, accarezzando le piante che
crescevano sopra
la piccolissima tomba improvvisata, staccando un dente di leone o una
margherita selvatica e portandosela seco, interpretandolo come un
regalo del
nipote sconosciuto, un modo per ricordarsi di ciò che poteva
esser stato.
Avrebbe
dovuto confessarlo a Marco? Oppure lasciargli immaginare
il destino di quel figlio mai nato?
Osservando,
mesi dopo, dalle finestre di Castelnuovo di Quero la
primavera sbocciare e ricoprire di scarmigliati fiori gli alberi, le
rive della
Piave e i prati del Cesen, Hironimo giunse alla conclusione
ch’era meglio così:
inutile oberare suo fratello, da lui ferito per l’ennesima
volta, di un
ulteriore peso specie riguardo ad una creatura, che nulla possedeva
d’umano,
almeno nell’aspetto fisico.
Quella
tristezza, quel magone, quel rimpianto verso una vita
sfumata senza possibilità di vivere e mettersi alla prova,
egli li avrebbe
affrontati da solo a monito e penitenza per le sue bugie.
Continua
…
***************************************************************************************************
Questo
è la terzultima digressione del Nostro, arrivando
così alla
conclusione del suo percorso di meditazione su di sé e del
suo passato.
Sulle
dinamiche coniugali di Marco ed Elena Miani abbiamo
chiaramente romanzato,
poiché
poco o niente si conosce, specie sulla vita della greca, di cui
è riportata
soltanto la data di matrimonio (1503) e che è morta prima
del
1519. Sua sorella Regina sarà la madre
del futuro Doge Nicolò da
Ponte (per maggiori informazioni, vedi note cap.16)
Dall’unione
della coppia nacquero due figli, Angelo il Giovane e
Cristina, mentre Marco ebbe un illegittimo appellato Scipione, di cui
però
s’ignora la data precisa di nascita, ma stando al testamento
del padre, quando
quest’ultimo fece testamento per la prima volta non doveva
aver ancora compiuto
i 18 anni. In caso Scipione dovesse esser nato dopo la morte di Elena,
mi scuso
allora con Marco per come l’ho trattato in questo capitolo
^^’ Ma questo è quel
che si merita, per non averci fatto reperire l’esatta data di
morte di sua
moglie …
Quanto
alla nascita di Cristina, non ho trovato alcuna data, però
ho
ipotizzato essere figlia di primo letto, poiché nel
testamento Marco scrive: la (la seconda moglie) prego etiam li sia ricomandato Anzolo et Crestina.
Fosse stata
Cristina figlia di secondo letto, trovo decisamente incomprensibile che
dovesse
raccomandarla a sua madre.
Inoltre,
ho ipotizzato essere stata la ragazza in età da marito al
momento della morte di Marco: infatti, nelle prime versioni, egli
voleva che o
si facesse monaca o che vivesse da “pizochera”
(cioè da zitella beghina) per
non pesare economicamente sulla famiglia, per via della dote laica, e
ciò il
prima possibile. Poi però, Cristina dovette esser cresciuta
in una bella
signorina e Marco, forse sentendosi in colpa, istruì il
figlio Angelo di a)
darle una piccola rendita di 25 ducati annuali se fosse rimasta nubile;
b) 300
ducati di dote religiosa se avesse preso i voti; c) 1000 ducati in
contanti se
si fosse sposata. Quale delle tre opzioni Cristina scelse, purtroppo
rimarrà un
mistero.
Anche
storicamente vera è l’antipatia tra Dimitri
Spandolin e
Marco, giunta allo zenit con una causa del suocero contro il genero,
quando
questi gli fece confiscare tutte le merci trasportate da
Costantinopoli,
assieme all’altro genero dello Spandolin, Nicolò
Trevisan.
Riguardo
alla questione di Maria Basadonna, noi vogliamo fino alla
fine credere che sia stata solo una collaborazione a fin di bene (il
matrimonio
della nipote Maria da Molin e del cugino Carlo Morosini) e
null’altro, sebbene
ammettiamo che non si possa escludere l’ipotesi che, ad un
certo punto, lei e
Marco Miani fossero stati amanti.
Più
che scoprire, infatti, come Maria Basadonna fosse la zia di
Maria da Molin Morosini (nulla di strano, oggi come allora mogli e
mariti si
trovano più facilmente nel cerchio delle conoscenze) a
sconcertarci furono le
parole di Carlo Morosini, ossia che fu “ben astretto da ser
Marco Miani et la
moglie di ms. Hieronimo da Molin” a sposarsi. (E poi dicono
che erano le
ragazze quelle sempre prigioniere nei matrimoni combinati.) Capisco
l’ansia
della zia di contrarre nozze vantaggiose per la nipote, ma Marco che
c’entra in
tutto questo? Perché lui e la Basadonna hanno insistito?
Coincidenza? Forse sì,
forse no, perché, rimasto vedovo di Elena Spandolin attorno
al 1517-18, Marco
Miani si risposerà proprio con Maria Basadonna, rimasta
anch’ella nel frattanto
vedova. Tuttavia, appena divenuto diciottenne, suo figlio Angelo si
sposerà con
la sorellastra Caterina da Molin, ereditando un cospicuo patrimonio,
essendo
rimaste infatti solo lei e sua cugina Maria da Molin Morosini le uniche
eredi
dei da Molin. Tanta fretta di ammogliare il figlio ci ha fatto credere
che
Marco avesse già da tempo in progetto
quest’unione, unendo l’utile al
dilettevole e sposandosi la vedova così d’avere
sia la dote di Maria sia in
custodia Caterina, sottraendola ad altri eventuali pretendenti. Due
piccioni
con una fava, insomma. Curiosamente, tale procedura alla famiglia da
Molin non
era estranea, giacché la nonna di Caterina da Molin Miani
(Caterina da Canal)
era stata anche la sorellastra del nonno Antonio da Molin, figlia di
primo
letto della matrigna di quest'ultimo, Cristina Franceschi.
Un
po’ di noticine:
[1] Andrea da Ponte, detto il
“Zotto”,
fratello minore del futuro Doge Nicolò da Ponte (1491-1585)
divenne assieme
a Carlo Corner, Alvise Malipiero, Alvise Bembo e
Marco Antonio da Canal uno
dei più attivi diffusori della Riforma Protestante a
Venezia. Malgrado la
palese protezione del fratello Nicolò –
anch’egli di posizioni anticlericali e
antiromano convito, specialmente infastidito dall’Indice dei
Libri Proibiti più
per il danno economico inferto alle case editrici veneziane, che per
vera e
propria ortodossia – Andrea da Ponte venne tuttavia troppe
volte inquisito dal
Sant’Uffizio da soprassedere all’infinito e la sua
abiura al cattolicesimo lo
costrinse infine nel 1560 ad espatriare nella calvinista Ginevra dove
morì nel
1585, poco prima del fratello maggiore. Per la sua fuga e le sue idee
protestanti, il Da Ponte subì una pesante damnatio memoriae,
utilizzando i suoi
avversari la sua malformazione fisica per sottolineare la sua natura
diabolica
ed eretica.
[2] A conferma della fiscalità circa la
legittimità del sangue dei rampolli patrizi, presentiamo
degli estratti di
documenti relativi al Nostro:
Doc
1: “Anno 1506, giorno 1 dicembre. La
nobildonna
Leonora Morosini, vedova del nobile sier Angelo Emiliani q. sier Luca,
presentò
e fece inscrivere al concorso della palla d’oro, per
intervenire al Maggior
Consiglio, il nobil giovine Girolamo suo figlio, nato da essa e dal
predetto
suo legittimo consorte, e giurò essere egli
dell’età di vent’anni compiuti, ed
essere suo figlio legittimo nato come sopra; sotto le pene stabilite
dalle
leggi tanto per l’età come per la
legittimità, se risultasse diversamente.
Inoltre i nobili uomini sier Jacopo Barbaro q. sier Bartolomeo e sier
Benedetto
Contarini q. sier Ambrogio giurano la legittima nascita del detto
giovine per
pubblica voce e fama dal legittimo matrimonio dei predetti coniugi.
Questo alla
presenza dei magnifici missieri e Avogadori di Comune Taddeo Contarini,
Giovanni Corner e Giovanni Badoer, dottore e cavaliere.”
E
malgrado tutto, fin quasi al 1919 si pensò esser nato il
nostro
nel 1481 (a Venezia la targa commemorativa porta questa data),
confondendo la
data con quella di suo fratello Marco … sigh …
[3] Andrea Vendramin divenne doge il 5 marzo 1476,
data che noi ci siamo presi la licenza poetica d’attribuire
alla nascita del
figlio naturale di Battista Morosini. Andrea Morosini era veramente
soprannominato “Vendramino”, come riportato dal
Sanudo in occasione della sua
morte nel 1526.
Ora, se
costui agli inizi del Cinquecento era un mercante già
affermato in Siria e addirittura amico dello Shah di Persia, molto
probabilmente
era nato prima del matrimonio del padre, avvenuto nel 1481. Quindi,
c’è chi
crede alle coincidenze e chi non ci crede, ma guarda caso
c’è un doge ante l’81
che si chiama “Andrea Vendramin” e il nostro uomo
si chiama “Andrea” e fa
“Vendramino” di soprannome. Un omaggio al Doge?
Mancanza di fantasia? A meno
che lo zio Battista non abbia fatto il furbetto con una delle numerose
figlie
del Doge, leggasi: Felicita, Orsa, Clara, Taddea, Angela ed Elena,
sebbene sia
improbabile come ipotesi giacché le signore erano o
più anziane del Morosini o
al massimo sue coetanee. Il Titta s’è portato il
segreto nella tomba, mi sa.
[4] Nel suo testamento Margherita Vitturi
Miani del ramo di San Cassiano (per niente imparentati coi Miani di San
Vitale,
anzi lo stemma è pure diverso) aveva lasciato presso i
Procuratori una grossa
somma da donare all’abbazia dell’isola di San
Michele, acciocché costruissero
una cappella dedicata alla Vergine Annunziata in memoria del defunto
marito
Giovanni (o Giambattista) Miani. La donna morì nel 1455,
però la “Cappella
Miani/ Emiliani” verrà costruita soltanto nel 1528
su progetto di Guglielmo dei
Grigi detto Bergamasco e restaurato da Jacopo Sansovino nel 1560.
È una
cappella esterna a pianta esagonale con una cupola in pietra
d’Istria, con
all’interno tre altari ornato ciascuno da tre pale in
marmo: Annunciazione,
Adorazione dei Magi, Adorazione dei Pastori ad opera
dello scultore
Giovanni Battista da Carona, il quale scolpì anche le statue
di Santa
Margherita e San Giovanni Battista, collocate nelle nicchie esterne
alla
cappella.
[5]
Tommasina Morosini “dalla Sbarra” (1250 –
1300) era la figlia di Michele Morosini e di Agnese Corner di Andrea;
nel 1264
sposò Stefano “il
Postumo” Arpadi, figlio di Beatrice
d’Este e
d’Andrea II d’Ungheria (colui che
spodestò Ladislao figlio di Costanza
d’Aragona, poi moglie di Federico II di Svevia). Stefano
morì nel 1271 a
Venezia e venne seppellito a San Michele in Isola. Il figlio suo e di
Tommasina, Andrea III detto “il Veneziano”, assunse
il potere nel 1290 e chiamò
tre anni dopo la madre come amministratrice della Croazia, Dalmazia e
Slavonia.
Tommasina morì improvvisamente nel 1300, forse avvelenata.
Uno dei suoi
fratelli, Giovanni Morosini, fu il padre di Tommasina Morosini moglie
del Doge
Pietro Gradenigo e suocera del primo signore di Padova, Giacomo I da
Carrara,
che aveva sposato sua figlia Elisabetta Gradenigo. Giovanni Morosini
sarà
inoltre il capostipite del ramo da cui discende Leonora Morosini, madre
del
Nostro.
[6] Reitia potnia theron =
Reitia
signora degli animali era il corrispettivo della grande Dea Madre
presso i
Paleoveneti, molto venerata e i cui templi molto spesso sorgevano
presso i
fiumi.