Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Hoel    30/01/2021    3 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato l’11.10.2021

***********************************************************************************************************************

 

 

 

 

Capitolo Venticinquesimo

Confiteor

(Non dire falsa testimonianza)

 

 

 

 

 

“In nome della Santissima ed Indivisibile Trinità, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; della gloriosa Maria, santa vergine Madre di Dio; di San Marco, Apostolo ed Evangelista, e dell’intera trionfante corte celeste.

“Sia messo agli atti che il rispettabile missier Dimitri Spandolin di Costantinopoli, cavaliere e tributario del Signor Turco in Costantinopoli e mercante in Venezia, qui solennemente promette di dare la sua figlia legittima madonna Helena in moglie al magnifico missier Marco Miani, figlio legittimo del quondam magnifico missier Anzolo Miani, fu senatore dell’illustrissimo Consiglio dei Pregadi: il qui presente e sopramenzionato missier Marco Miani altrettanto solennemente promette di prendere la sopracitata madonna Helena Spandolin come sua legittima sposa e moglie, come comandato da Dio e dalla Santa Madre Chiesa. Le due parti si sono così accordate: che il missier Dimitri Spandolin per lui fisserà a nome di sua figlia la dote di ducati 5.000 suddivisi nella seguente maniera …”

Hironimo inarcò discreto il collo all’indietro, annoiato a morte dalle stentoree parole del notaio, il quale leggeva senza alcun’allegria il contratto nuziale tra suo fratello Marco ed Helena Spandolin, la misteriosa greca che gli aveva rubato il cuore.

Terminata la Pasqua e i suoi festeggiamenti, i Miani e gli Spandolin s’erano accordati d’incontrarsi al palazzo di quest’ultimi e lì firmare il contratto nuziale, ponendo fine alle trattative, ossia una guerra di logoramento su chi cedeva per primo, se il cavalier Dimitri o il ventiduenne patrizio veneziano. E appunto quest’ultimo dettaglio aveva incuriosito l’intera famiglia di Marco, quando questi aveva di punto in bianco annunciato la sua ferma intenzione d’ammogliarsi: non si capiva in quale modo avesse potuto conoscere la fanciulla costantinopolitana, fornendo pertanto a tutte le sue parenti un eccellente argomento su cui ragionare per interi pomeriggi fino all’essicazione della lingua. A tal riguardo, infatti, Marco era rimasto assai vago, nonostante le insistenti domande di Madre e di Lucha; li aveva piuttosto rassicurati della nobiltà e morigeratezza del casato romeo degli Spandounes e in particolare della giovane Helena. Molto probabilmente – li scriveva Carlo le sue supposizioni da Lonato sul Garda - il loro fratello aveva conosciuto il cavalier Dimitri per vie traverse, o tramite i Da Ponte, avendo sier Antonio q. sier Zuanne sposato una figlia di questi, Regina Spandolin; oppure tramite il protogero, il capo del consiglio degli anziani della comunità greca a Venezia.

In ogni modo, quando Marco si ficcava in testa un obiettivo, sarebbe stato più facile convincere un cane affamato a mollare una bistecca; sicché ottenuto il consenso di Madre e di Lucha, egli aveva dato il via alle trattative col cavaliere greco, senza mediatore e però ugualmente in presenza di terzi, temendo le rispettive famiglie che i due si scannassero a vicenda ante raggiungere un accordo.

Allo Spandolin non piaceva Marco e a Marco lo Spandolin piaceva ancor di meno; tuttavia al ventiduenne patrizio la bella Helena garbava moltissimo, la voleva e l’avrebbe ottenuta, a costo di straziare i nervi del padre, il quale da bravo levantino si credeva furbo e maestro nelle negoziazioni. Peccato ch’egli non avesse calcolato l’ancestrale testa dura miana ed Hironimo aveva giurato udirlo un giorno borbottare a suo figlio Giorgio, uscendo dalla sua casa da statio: Non ho più saliva in gola, parlare con quello là è come pretendere di spaccare un muro di pietre con la testa.

Osservando stanco il pigro scorrere dell’acqua del rio sottostante, Hironimo, tamburellando le dita sulla cornice della finestra, si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, trovando più gusto nello studio dei suoi futuri congiunti, che nell’ascolto dell’inventario della dote della futura cognata.

Al tavolo di noce Dimitri Spandolin sedeva diametralmente opposto a Madre, Lucha e Marco, assieme al figlio Giorgio e a qualche altro parente. Vestivano tutti alla greca, secondo i canoni del loro status nobiliare: similmente agli Albanesi, anche loro usavano barba e mustacchi e indossavano un cappello morbido, di color nero per distinguerli dai mercanti, che ne sfoggiavano al contrario uno celeste. Portavano di sotto e di sopra vesti alla lunga e di panni fini, sempre neri giacché abiti da giorno, e su di essi si stagliava una lunga fila di spessi bottoni, dalla cintura al collo. Le vesti si presentavano non molto larghe da basso e strette ai fianchi, cinti da una rete di seta torta di diversissimi colori, tranne il bianco e il giallo; le maniche di sopra fino al gomito invece erano alquanto larghe.

Considerando l’abito nero dei greci; l’abito nero vedovile di Madre e le toghe nere dei suoi fratelli, Hironimo col suo zipone blu turchese (uno zipone che gli pareva più una gavardina dei tempi dei suoi maggiori, tanto gli stava corto e stretto) balzava all’occhio peggio d’un intruso, in quel gruppo che più che ad un contratto nuziale pareva presenziare alla lettura d’un testamento.

E come il morto anche Helena, dei cui beni si ragionava, mancava fisicamente, ben custodita dal gineceo nell’angolo più remoto della casa.

Quante storie, pensava annoiato il giovane Miani, suo fratello era giunto lì per firmare il contratto e domani ci sarebbe stato il parentà, che male c’era se Helena presenziava? Mica la ingravidava con lo sguardo!

“… e così le due parti sopracitate firmino il qui presente contratto, e noi preghiamo Missier Gesù Cristo acciocché vivano felici, in prosperità e gioia, concedendoli di bearsi della vista dei loro discendenti fino alla terza e quarta generazione, fino alla beatitudine eterna del Paradiso. Amen.”

“Amen!”, risposero in coro gli scocciati presenti, i coccigi distrutti dagli scomodissimi sgabelli pieghevoli. D’ugual avviso si trovava il notaio, che bruscamente solerte girò il foglio al cavaliere greco assieme al calamaio.   

Io, Dimitri Spandolin q. Teodoro, mi dichiaro soddisfatto di quanto concordato e scritto”, lesse ad alta voce l’uomo, intingendo la penna e firmando.

Riottenuta la carta, il notaio la cedette adesso a Marco. “Io, Marco Miani q. Anzolo, mi dichiaro soddisfatto di quanto concordato e scritto”, ripeté la medesima azione il giovane patrizio e il notaio, firmato anch’egli, vi appose i dovuti sigilli siglando il patto nuziale che rendeva Marco ed Helena formalmente novizzi. Il cavalier Dimitri terminò la procedura ordinando al suo famiglio di cedere ai due servitori di Marco il cassone contenente un quarto della dote della sua fidanzata.

Infine, liberati da quella prima incombenza, le due famiglie s’avviarono chiacchierando a Piazza San Marco, ragionando sulle varie date da fissare per lo sponsalicio. Si convenne attorno alla metà d’aprile, così da non cozzare il matrimonio di Marco con quello della sua cugina germana Maria Morexini, programmato per l’anno seguente. Il gruppetto entrò nel cortile di Palazzo Ducale, seguito da una piccola folla di amici e altri parenti da ambedue le parti, lì riunitisi su invito per ascoltare il proclama del banditore, elevando da privato a fatto pubblico il fidanzamento tra il magnifico messer Marco Miani e la magnifica domina Helena Spandolin da Costantinopoli. Tutti applaudirono e si rallegrarono con lo sposo.

“Ci vedremo domani per il parentà, dunque. Per quanto riguarda le visite a casa mia, ci organizzeremo in settimana”, concluse il cavalier Dimitri, tendendo la mano all’ormai quasi-genero, il quale non replicò nulla, limitandosi a reclinare il capo e ad accettare il gesto di congedo. I due se le strinsero neanche desiderassero spaccarsi le rispettive dita.

Forse -  meditava Hironimo osservando l’intera scenetta -  forse si trattava la loro di una naturale antipatia tra suocero e genero, un po’ come lo fu tra gli zii e Padre, sebbene il ragazzo ugualmente non si capacitasse di tanto immotivato astio, visto che ambedue le parti avevano ottenuto ciò che desideravano, il greco un marito veneziano per la figlia e suo fratello una moglie per formare una nuova famiglia. Intimamente il giovane Miani se la rise nel constatare, quanto il cavaliere greco si nascondesse dietro la morigeratezza per tenere i due fidanzati il più separati possibile, almeno fino al dì delle nozze religiose. Ormai a Venezia vigeva l’uso di consumare il matrimonio già dopo aver dato la man, senza aspettare di dar l’anello, evento che poteva avvenire qualche settimana se non addirittura mesi dopo la firma del contratto. Marco si sarebbe rosolato nel lardo dell’impazienza, altroché. 

Similmente al fratello, sebbene per motivi più casti, il ragazzo fremeva adesso dalla voglia di presentarsi alla sua futura cognata, dopo averla conosciuta per mesi solo attraverso le parole di Marco e i litigi col padre di lei, così da scoprire il motivo dietro la testardaggine del maggiore a volerla sposare a tutti i costi.

 

***

 

Il parentà a casa degli Spandolin si svolse in maniera assai semplice e intima, complici i costumi diversi tra le due famiglie. Solitamente, la novizza entrava nella sala di rappresentanza accennando ad un qualche passo di danza, condotta per mano dal suo maestro. Tuttavia, non possedendo Helena né un istruttore né delle sorelle o parenti monache da visitare al termine della cerimonia, ella non poté soddisfare appieno il tradizionale rituale, mancando quindi d’esibirsi vistosamente sia in casa sia in gondola, in trasto, durante il tragitto verso il monastero.

Non che ne avesse bisogno, lei stessa era già uno spettacolo: appena la greca s’affacciò all’uscio della porta, Hironimo immediatamente non riuscì a non notare la vistosissima ed esotica acconciatura della diciottenne fanciulla. Essa era fatta a mo’ di scatola di legni sottili e leggeri, coperta di una teletta d’oro e decorata di scintillanti pietre preziose, la cui sommità terminava a guisa di corona. Dietro scendeva su di un lato soltanto un velo di seta vergato, il resto stretto da un cerchio d’oro massiccio tutto ingioiellato, il quale cadeva dietro le spalle con alcune folte trecce di capelli scuri, una per tempia vicino alle orecchie, incorniciando un viso vago e leggiadro. Il collo morbido e il petto li aveva ornati di collane di perle (tra cui quella della novizza offertale da Madre come dono di fidanzamento) di spille cariche di pietre fini e di catene d’oro, senza un particolare ordine o tema. Le sottili mani Helena le teneva incrociate sopra la sottana di raso dal busto alto, sopra la quale ne portava altre, di ormesino bianco, lunghe e aperte a mezza gamba, cinta da un vivacissimo velo di seta.

Al giovane Miani quell’abito lineare e accollato ricordava quello della Basilissa Irene nella Pala d’Oro così come il medesimo sguardo d’Helena, indecifrabile e compito, quasi severo. Tuttavia, a cerimonia terminata e una volta presentati ufficialmente, dopo l’inchino di circostanza Hironimo catturò l’incuriosito sguardo della ragazza su di lui, la quale lo studiava con altrettanta intensità. Pizzicata, la novizza celò gli occhi dietro le lunghe e seriche ciglia, reclinando appena il capo e lasciando che un verecondo rossore le tingesse le gote. L’esempio perfetto d’un contrito bambino sgridato per una sua marachella, se il diciottenne patrizio non avesse catturato la fuggevole ombra di un civettuolo ricciolo di sorriso sulle labbra carnose della greca.

Gli risultò immediatamente simpatica, accantonando ogni malumore portatosi seco.

Helena emulava in fatto di curiosità il suo antenato Odisseo, tempestando a tavola durante il rinfresco i suoi futuri parenti d’ogni sorta di domanda su Venezia e i suoi costumi, città che conosceva poco, avendo vissuto per lo più a Costantinopoli, nel quartiere greco di Pera; eppure, sosteneva, per magnifico incanto le sembrava di continuare a vivere nel Levante, tanto simili le apparivano l’architettura, il cibo, lo stile di vita.

“Trovo davvero bizzarro quest’uso”, dichiarò ad un certo punto Helena, portando le dita all’altezza del collo e del petto, “che se da una parte le fanciulle nubili debbano andare in giro a viso coperto, dall’altra le scollature siano così generose” e il modo in cui proferì con tale genuino stupore quel suo dubbio, provocò dei divertiti e magnanimi risolini tra le donne, mentre gli uomini si guardavano imbarazzati, incapaci di spiegare l’arcano senza scivolare nel triviale.

La novizza aveva infatti notato per lo più il vestito en donzelon di Maria Morexini, il cui busto assai corto a malapena le copriva buona parte del petto e lasciava nude le morbide spalle. Dal busto fregiato intorno da una lista di tela d’oro e perle fuoriuscivano gli intricati merletti della camicia, neanche volessero ulteriormente incorniciare, risaltandola, la femminile bellezza di quella pelle alabastrina e liscia, invitando l’occhio maschile a guardare e a soffrire.

“Oh bella!”, esclamò Maria, lisciandosi ilare il rocchetto di seta bianca, crespa e trasparente, “Perché andiamo in giro così?” e disegnò nell’aria la curva superiore dei suoi seni, “personalmente, lo ignoro. Però potete chiedere un’opinione a vostro fratello: sicuramente avrà una risposta assai più esauriente della mia!”

Giorgio Spandolin arrossì violentemente, colto in flagrante contemplazione; le sue sorelle Regina e Chiara sghignazzarono forte dinanzi al suo imbarazzo, fino a farsi venire le lacrime agli occhi, ma più di tutte se la rideva Helena, coprendosi vezzosa la bocca con la mano, lo sguardo puntato su Marco quasi a studiarne le reazioni.

“Vedete?”, riprese maliziosetta la giovane Morexini. “Cosicché i nostri uomini pensino soltanto a noi e non a qualche altra italica foresta!”

“Foresta?”, aggrottò Helena la fronte, confusa. “Non comprendo, che significa?” Fino a quel momento la giovane aveva dialogato in un basico veneziano, lentamente, scandendo bene le parole e probabilmente già s’era preparata in precedenza cosa dire. Adesso che deviava dal copione, si trovava in maggior difficoltà e le sue lacune nella lingua rischiavano palesemente d’emerge.

Xeno”, la soccorse sottovoce Hironimo, prima che ci s’accorgesse di come la greca non avesse capito la battuta e si coprisse di ridicolo. Dinanzi al cenno affermativo della sua futura cognata, egli proseguì a voce alta: “Le nostre nobil done, giustamente, non vogliono che corriamo dietro ad altre italiane, straniere” ed enfatizzò che le straniere erano queste gentildonne e non quelle greche, specie se provenienti o dallo Stato da Mar o comunque residenti a Venezia.

“Sono … sono molte belle, le altre donne d’Italia?”, chiese accorta Helena, ansiosa di riparare a quel suo piccolo scivolone. Aveva preso a torcersi le dita, nervosa, d’un tratto temendo di aver dato una pessima impressione di sé.

Hironimo avrebbe voluto porle una mano sopra la sua e rassicurarla, comprendendo la sua agitazione: per maritare le loro figlie a stranieri, i patrizi veneziani non si ponevano grandi problemi; al contrario, ammogliare i propri rampolli a straniere, quello sì che si rivelava un affare complesso e le potenziali candidate dovevano dimostrarsi impeccabili, di virtù ineccepibile, integrate ai valori locali. La pressione di dimostrarsi all’altezza delle aspettative doveva pesare moltissimo sulle spalle di Helena, rendendola particolarmente inquieta dinanzi al più minuscolo errore. Se voleva aspirare, similmente a sua sorella Regina, ad entrare nell’élite, lei doveva rasentare pressoché la perfezione, nessuno sbaglio concesso. E se s’impappinava davanti ai parenti, quale impressione avrebbe dato al Doge e all’intero patriziato, il dì della sua presentazione ufficiale?

“Le altre nobildonne italiane non sono di nostro gusto”, anticipò Marco la risposta di suo fratello minore, “perché noi già possediamo le più incantevoli”, dichiarò sincero, sorridendo allusivamente alla sposa, la quale abbassò vezzosa il capo, rilassandosi e ringraziandolo del complimento. Ciononostante, Hironimo ben s’accorse della sua espressione soddisfatta e pragmatica, simile a quella di un magister, che riceve la risposta esatta da un allievo.

“Riguardo all’abito nuziale”, deviò domina Irene Spandolin la conversazione, acciocché la figlia pigliasse un attimo di tregua. “Pensavo, se non v’incomoda, che al posto della ghirlanda la nostra Helena potrebbe indossare un berrettino di panno d’oro, secondo la nostra tradizione … Questo ovviamente per la cerimonia privata …”

Le spalle della ragazza s’abbassarono, mentre questa cacciava fuori un grosso sospiro, sfinita. Allora Marco, approfittando della distrazione delle genitrici, sotto il tavolo le aveva accarezzato furtivamente il dorso della mano a mo’ di conforto. Gesto che non passò inosservato al guardingo Dimitri Spandolin, che però preferì mangiare e tacere.

“Hieronymos”, lo prese brevemente in disparte Helena a fine visita, nel frattanto che i parenti si salutavano e scambiavano mille raccomandazioni di buona salute, “volevo ringraziarvi …”

“Dammi pure del tu”, la interruppe Hironimo, “fra poco sarai mia sorella e in casa non siamo avvezzi a tante formalità, non tra noi coetanei almeno.”

La greca piegò il capo in consenso, incoraggiata. “Sta bene. Volevo ringraziarti del tuo aiuto. Sarebbe stato assai riprovevole da parte mia, imbarazzare il mio novizzo con la mia torpidezza di spirito”, gli confidò e dietro l’abito pomposo e ricco, Hironimo scorse una diciottenne spaventata e smarrita, costretta in una situazione completamente nuova e senza alcun punto di riferimento.

“Non t’angustiare: la mia germana possiede un senso dell’umorismo, che spiazza anche noialtri”, la rincuorò il giovane Miani. “Hai già conosciuto il mio sior barba suo padre: ugual caratterino!”

Helena ridacchiò nervosamente. “Sì, ho notato. Il kyrie Ioannes Baptistes Morezines è stato molto cortese e gentile: s’è seduto accanto a me e ha impedito che mi si ponessero quesiti complessi.”

“An, lui è gentile e cortese verso qualsiasi bella fanciulla”, grugnì sardonico Hironimo, conoscendo la fama di cottolon di suo zio Batista Morexini. Quand’ecco che si schiaffò la mano alla bocca, conscio della gaffe appena commessa. “Ehm, volevo dire …”, ma si rilassò dinanzi al rassicurante risolino civettuolo della greca, confermando un poco certe dicerie sulla loro natura sensuale al limite dell’impudico.

All’improvviso la ragazza assunse un’espressione seria. “Siete tutti stati così buoni e pazienti nei miei confronti, mi avete fatto sentire subito la benvenuta”, gli confessò sincera e riconoscente, inumidendosi a disagio le labbra, “e anche Márkos mi guarda attraverso gli occhi del cuore, cosa però che non faranno gli altri suoi pari: mia sorella Vassilissa – Regina - mi ha raccontato quanto sia difficile essere accettata, costantemente sotto  scrutinio. Il mio sposo avrà bisogno di una moglie di cui non si possa vergognare, che non lo faccia sfigurare in società. Ammetto la mia ignoranza dei vostri costumi e la vostra lingua non la parlo abbastanza bene da poter conversare agevolmente. Figurarsi poi se debbo pure imparare il volgare italiano … Hieronymos, mi chiedevo se per cortesia tu potessi aiutarmi a migliore il mio veneziano nonché il volgare.”

“Io?”, strabuzzò gli occhi Hironimo, non capacitandosi del suo nuovo e inaspettato ruolo di magister, proprio lui ch’era stato all’unanimità eletto il somaro di famiglia, sin da quando aveva incominciato a studiare. “Sicuramente il tempo non ti mancherà per apprenderlo e Marco …”

“… sarà sempre via, per mare o per terra; in qualche città o a Palazzo Ducale. E il mio Patéras è irremovibile nella sua decisione di tenerci separati fino alle nozze religiose”, gli esplicò concisamente Helena il destino ch’attendeva la coppia, essendo i patrizi veneziani più nomadi dei tuareg del deserto. “Inoltre non voglio importunare la tua Mitéras, né dimostrarmi indegna del mio ruolo ai suoi occhi.”

“Ma tua sorella Regina? Si è ben ambientata …”

“Possiede una famiglia numerosa cui badare, non posso monopolizzarle il tempo.”

Hironimo si morse l’interno della guancia, dubbioso s’esaudire o meno quella singolare richiesta. Da una parte non vi scorgeva alcun tranello – Helena e Marco erano palesemente cotti a puntino l’una dell’altro e figurarsi se lui era così infame da compromettere l’onore di suo fratello. Dall’altra, però, il ragazzo temeva appunto d’impegolarsi in strani malintesi, in fin dei conti non era più un bambino e la sua cognata un’affascinante ed esotica creatura dell’Oriente.

“D’accordo”, cedette, poiché parente o meno a ‘na bea dona no se nega gnente. “Ma a queste condizioni”, frenò l’entusiasmo d’Helena, la quale annuì velocemente. “Primo: che anche le mie germane Anzola, Maria e Querina studino con noi. Fra poco Maria s’accaserà con sier Zuanne Querini di Stampalia e Amorgo e non l’ucciderà migliorare il suo greco; insomma, deve conoscere la lingua dei suoi feudi. Secondo: che non se ne parlerà a chicchessia”, così Helena non avrebbe sfigurato e lui non l’avrebbero sfottuto per l’essersi improvvisato magister. “Sarà il nostro segreto e se ci chiederanno che cosa facciamo, diremo che t’insegno a giocare a scacchi, o a carte o a suonare il liuto.”

“O a provare danze nuove!”, aggiunse la greca, intuendo in fretta il piano. “Così il giorno dello spon-sponsalicio potrò ballare anche io!”

“Corretto. Che ti pare?”

Il volto regolare d’Helena s’illuminò di un sorriso pieno di fossette, lo stesso ch’aveva indubbiamente innamorato Marco. “Come dite voi bene in veneziano? Pulito?”

“Bravissima! Pulito!”

Dopo il parentà era costume per qualche tempo, prima di ricevere l’anello, che le novizze fossero visitate un giorno dai parenti maschi e dagli amici del novizzo, mentre un altro dalle donne della sua futura famiglia, svagandosi assieme in giochi, musica e balli, in modo da eliminare ogni estraneità ed offrire alla sposina la possibilità di socializzare. Era il periodo perfetto per colmare le lacune di Helena.

Convincere Anzola, Maria e Querina a reggere il gioco non avrebbe richiesto grandi sforzi, specie Maria, la sua tremenda germana, la quale avrebbe semplicemente adorato l’idea di partecipare a quel piccolo intrigo, doppiamente disinvolta nel mentire senza arrossire né confondersi e quella piccola tatina della Querina obbediva ciecamente alla sorella maggiore.

Insomma, si trattava pur sempre di un’opera a fin di bene, no?

 

***

 

Purtroppo per Hironimo, quello d’aiutare sua cognata a migliorare le sue competenze linguistiche non sarebbe corrisposto all’unico loro segreto (o sfilza di menzogne a seconda dei punti di vista) bensì una lunga serie destinata a durare per anni, in un continuo accumulo fino a giungere al punto di saturazione.

Come acutamente profetizzato da Helena, per quanto Marco si sforzasse di trascorrere quanto più tempo possibile assieme alla giovane sposa, gli impegni amministrativi e politici lo tenevano spesso e volentieri lontano da casa, sicché era toccato a Madre ed Hironimo il duro compito d’aiutare la greca ad ambientarsi a Ca’ Miani. L’unica pecca di madona Leonora rimaneva la sua età non più incline agli svaghi e all’esuberanza della gioventù, limitandosi ad insegnare alla nuora come gestire le finanze domestiche e in generale la casa.

Invece, a Hironimo, Querina, Anzola e Maria era toccato colmare codesta lacuna e la futura madona Querini offriva costantemente occasioni di divertimento, tra una lezione e l’altra, con la scusa di doversi preparare al suo futuro ruolo di contessa di Stampalia e Amorgo. Il povero maestro di ballo si ritrovò un’allieva in più, nonché un gruppo di scatenati adolescenti vogliosi d’apprendere le ultime danze, in primis lo scandaloso ballo del cappello, laddove le dame, indossando un cappello maschile, aprivano le danze e sceglievano loro il cavaliere, un puro sovvertimento di ogni regola contro cui tuonavano gli anziani. E per questo alla gioventù graditissimo.

Maria, ch’amava tenere banco in ogni circostanza, aggregò al loro gruppo anche Chiara Spandolin sorella di Helena; le cugine Anzola e Magdalena ed infine i suoi fratelli più grandicelli, Nicolò, Carlo, Piero e Hironimo. In letizia assoluta trascorrevano le ore, accoccolati i giovanissimi patrizi ai piedi delle loro dame, cantando e suonando frottole e madrigali al liuto – la musica la loro vita.  Recitavano poesie o leggevano romanzi ad alta voce, improvvisavano commediole pastorali o si cimentavano in lunghe partite di scacchi o a carte. Un dì Maria aveva proposto un antico gioco di corte francese, “Le jeu du Roi qui ne ment pas”, laddove il Re o la Regina ponevano domande d’amore agli altri partecipanti. Soltanto il Re non mentiva, mentre gli altri forse che sì e forse che no ed era lì la sfida, di capire chi simulasse e chi affermasse il vero. Anche Helena nel suo piccolo contribuiva, suonando antiche e nuove canzoni romee della corte dei Basileus, le sottili dita agili sulle corde del suo bouzouki mentre la sua calda voce orientale rievocava gli amori di Atzemiko, le avventure di Ioanne e dei serpenti, il cinguettio sensuale ed erotico del bellissimo Usignolo. Piero Morexini, che come il fratellastro Andrea tra tutti eccelleva nel greco vernacolare, l'accompagnava nel canto, creando piacevoli duetti.

In tal locus amoenus avevano trascorso questi giovani una tra le più belle primavere ed estati, lontano dal cinismo e squallore del mondo reale, relegato alla porta. Sier Batista li osservava di sguincio quando attraversava il loggiato che dava sul giardino, soddisfatto di trovare figli e nipoti in sì lieti spiriti. Avrebbero avuto tempo -  ripeteva alla sua scettica consorte madona Morexina, che non approvava tanta frivolezza -  di rinchiudersi in casa a recitare Paternostri o Avemarie o ad ascoltare frati predicatori e monache veggenti e ogni riferimento all’effettivo passatempo di sua moglie e delle sue cognate madona Ysabeta Morexini Corner e madona Marina Morexini Vituri era puramente casuale. 

Intanto, tanta allegria continuava poi a Ca’ Miani, la quale dopo anni di silenziosa austera castità e morigeratezza s’era riempita dei tipici cinguettii notturni degli innamorati, al punto che ormai tra i fratelli giravano già delle goliardiche scommesse, a quando il grande annuncio. Invece, ne arrivò un altro che rattristò non poco Helena, che aveva appena-appena incominciato ad ambientarsi a Venezia: suo marito Marco era stato eletto podestà di Marostica ed era suo dovere pertanto seguirlo. Fu dura per lei accomiatarsi dai suoi nuovi parenti, in particolare da Maria, temendo infatti di non trovarla più una volta terminato il mandato del consorte, giacché sposatasi e trasferitasi nel frattempo a Stampalia. La giovane greca si consolò tuttavia della compagnia di Hironimo, il quale le aveva promesso di passarla a trovare quanto più possibile e della sorellina Chiara, che la loro madre voleva acquisisse in tutto e per tutti usi e costumi veneziani.

Il 18 agosto 1503, dunque, Marco Miani prestò giuramento come podestà; lo accompagnarono a Marostica il garante sier Hironimo Soranzo, il cancelliere sier Pasqualin di la Croxe da Mestre e il commilitone Synibaldo Brucalido. Nel corteo d’entrata e alla Messa al Duomo assistettero anche Madre, Hironimo e Lucha, venuti apposta per assistere all’insediamento del fratello e per restargli accanto per le prime settimane, giusto per aiutare la coppia ad ambientarsi.

Marostica, nell’agro vicentino, si presentava come una città fortemente murata, costituita da ventun torri e quattro porte: la Vicentina a sud, la Bassanese ad est, la Breganzina a ovest e la Pe’ dil Monte a nord.  In cima al colle Pausolino, sulla pianta di un’antica fortezza romana, sorgeva il Castello Superiore, a base quadrata con quattro torresini ai lati ed una grande torre centrale, voluto nel 1312 dagli Scaligeri di Verona assieme al Castello Da Basso, che si trovava invece a valle. Quest’ultimo, di pianta rettangolare, era costruito a ridosso di un imponente mastio. Di fronte al Castello da Basso si trovava la Rocca di Mezzo, anch’essa affacciata sulla Piazza Maggiore, dove al centro sorgeva una grande fontana costruita sotto le podestarie di sier Andrea da Molin e sier Piero Baxadona e dove il martedì e il venerdì si svolgeva il mercato. La Signoria aveva dato un grande impulso all’edificazione religiosa della città, costruendo la chiesa di San Marco e la Scoletta del Santissimo Sacramento di fronte alla chiesa di Sant’Antonio Abate e la chiesa di San Gottardo nel Borgo; restaurò e ampliò il Duomo e dulcis in fundo, commissionò anche la costruzione del convento di San Sebastiano a est della Pieve di Santa Maria. Sullo sfondo di Marostica, s’ergevano le prealpi vicentine, da Lavarone fino al territorio dei Sette Comuni, montagne che portavano a Trento o nei domini veneziani di Folgaria e Rovereto attraverso le Piccole Dolomiti. Territorio dunque di confine, perennemente sotto la pressione dell’Impero, specie dopo il passaggio dal Ducato di Milano alla Serenissima Repubblica nel 1404.

A Marco l’idea dunque di recarsi in una città così “a rischio” era stranamente piaciuta (tutto suo padre, aveva commentato scherzosamente Madre, mentre Helena aveva ridacchiato nervosa), sia perché amava le sfide sia perché intimamente sperava di distinguersi, come Padre quando gli Austriaci avevano minacciato spavaldi il Feltrino per poi ritornarsene a casa propria con la coda tra le gambe. Il ventiduenne podestà aveva quindi fatto il suo ingresso fiducioso e ottimista, suscitando la sua aria determinata grande ammirazione, così come la sua giovane e bella sposa levantina.

Per Hironimo, Marostica corrispose ad un colpo di fulmine, dapprincipio per l’entusiasmante esperienza di soggiornare in cima al monte nel Castello Superiore, laddove alloggiava appunto il podestà, nonché di esplorare assieme ad Eòo il colle Pausolino sia dentro che fuori le mura e gli altri colli circostanti, lasciando a Lucha l’onore d’istruire Marco sul suo ruolo e le aspettative ad esso connesse. Il ventottenne patrizio aveva ricoperto quattro anni addietro il medesimo incarico e nella medesima città, sicché si era premurato di condividere le sue conoscenze col minore su Marostica, sul suo territorio, la sua economia, l’apparato difensivo, le sue famiglie più in vista e in generale sulla popolazione e le sue necessità. Hironimo, dal canto suo, preferiva trascorrere il tempo con le due cognate, insegnandole a cavalcare e organizzando facili gite fuoriporta su delle docili mule. Lontane dal severo giogo paterno, le due greche si divertivano assaissimo, in particolare Chiara che coraggiosamente osò chiedere, un pomeriggio, di montare a cavallo, dimostrandosi un’amazzone piuttosto discreta.

Settembre sostituì troppo in fretta agosto e il giorno del rientro a Venezia si presentò tanto triste, quanto l’uggiosa giornata di pioggerellina. Helena aveva gli occhi velati di qualche lacrima ribelle, sorridendo forzatamente alla suocera e ai cognati. Il suo viso da qualche giorno appariva pallido e tirato  e la ragazza si teneva a stento in piedi, preoccupando Madre la quale si raccomandò mille volte con Marco, acciocché vegliasse sulla sposa. Personalmente, Hironimo non comprendeva il nesso tra i seri consigli di madona Leonora e la faccia da ebete del fratello, non avendolo mai a sua memoria visto così felice, ogni occasione buona per baciare e cingere per i fianchi la sua sposa, la mano posta per merto o per caso sul ventre. 

Luchin”, aveva egli un giorno avvicinato esitante il maggiore dei Miani, “volevo il tuo permesso, se non t’incomoda, di poter nomare mio figlio come il nostro sior Pare. Poiché sei tu il primogenito, non volevo te ne avessi a male, sentendoti defraudato di questo tuo diritto”. Al che Lucha gli aveva battuto una mano sulla schiena, rassicurando il fratello che il suo consenso glielo dava più che volentieri: Dio solo sapeva quando si sarebbe ammogliato e poi, mica quella era una regola fissa, bastava pensare allo zio Batista, che pur ultimo dei maschi di sier Carlo “da Lisbona”, aveva conferito ai figli il nome paterno, dell’avo paterno e materno, secondo la tradizione. Marco l’aveva allora abbracciato, commosso.

“Perché quel discorso, Luchin?”, cedette Hironimo alla tentazione di chiedere al fratello durante la cena. Si erano fermati a pernottare nella loro casa a Treviso, avendo Madre un poco sofferto il viaggio. “Marchetto parlava come se Helena fosse già incinta.”

Lucha proruppe in una fragorosa risata, affogando per poco il naso nella zuppa. “Te xé svejo chome un indormensà! Helena è già incinta, da un bel po’ anche! Forse addirittura prima di partire per Marostega!”

L’ultimogenito di Ca’ Miani tartagliò qualcosa, sconvolto da tale rivelazione, più che altro per la realizzazione d’aver suggerito ad una donna gravida di cavalcare, azzardo rischiosissimo per lei e la creaturina nel suo ventre. Stupido, come aveva potuto non cogliere i segni? Affanni, nausee, capogiri, appetito gagliardo … Ciononostante, onde evitare l’ennesimo sermone, il diciassettenne tacque, incassando il colpo e concentrandosi sulla sua zuppa alle trippe.  

Madona Leonora non tardò a divulgare la notizia della prossima nascita del suo primo nipote di sangue: spedì la Zanetta e l’Ufemia a chiamare a raccolta amiche e parenti e costoro risposero entusiaste all’appello, imbastendo un vero e proprio Maggior Consiglio muliebre, tra una fetta e l’altra di focaccia dolce con melagrana. 

“Mi sembra quasi surreale ritornare a pronunciare in famiglia il nome Anzolo, dopo tutti questi anni”, confidò madona Crestina alla sua matrigna, mentre porgeva all’undicenne figlia Dionora una fetta di dolce. “Spero l’affare non vi ponga a disagio, siora Mare”, aggiunse sottovoce, timorosa dei brutti ricordi associati a quel nome, quasi vi pendesse sopra una maledizione.

La nobildonna scosse il capo. “E’ giusto così, Tina”, asserì serena, la sua bocca increspatasi in un birbante sorrisetto. “E poi, tra di noi, avevamo i nostri nomi …” e le due donne ridacchiarono complici, ben familiari ai quei segretucci tra marito e moglie.

“E’ un peccato che mia sorella partorisca a Marostica”, asserì madona Regina Spandolin da Ponte. “Abbiamo già avuto una vita così raminga: un poco di stabilità le avrebbe giovato. È sempre stata una ragazza molto sensibile e domestica.”

“Vi recherete a Marostega per il parto, madona Irene?”, domandò Pellegrina Muazzo Miani alla madre di Helena e Regina.

La matrona greca negò, le labbra increspate in una smorfia delusa. “Purtroppo no, ahimè, mio marito deve rimpatriare a Costantinopoli per affari, ovviamente, ed io debbo appunto seguirlo. Tuttavia, Georgios e Vassilissa sono qui a Venetia e la mia Clara a Marostica con sua sorella, pertanto mi dichiaro tranquilla: Eleni non rimarrà sola in questa prova.”

“Forse dovremmo visitare i cugini Marco ed Helena per il battesimo: adoro le feste di presentazione degli infanti, specie se primogeniti maschi! Sicuramente parteciperanno tutte le famiglie nobili locali e ci saranno danze e banchetti, chissà che in quanto podestà Marco non organizzi una giostra!”, propose sognante Maria, immediatamente rampognata da sua madre.

“Contegno, figlia mia! Proprio in quel mese ti mariterai in sier Zuanne Querini! Trovi morale disertare il tuo consorte appena terminate le nozze?”

“E chi l’abbandona? Naturale che verrà con me! Scommetto che gli piacerà visitare la città, le sue mura, i suoi palazzi, chiese e conventi. Perché Marostega è molto bella, nevvero Momolo?”

L’interpellato in questione, seduto in un angolo accanto al seienne nipote Gasparo a leggiucchiare un libro sulla varietà di uccelli rapaci utilizzati nella falconeria, levò confuso lo sguardo verso la cugina. Ultimamente, avevano notato i suoi parenti, da qualche settimana Hironimo se ne stava per conto suo e in inusuale silenzio, indossando i guanti anche in casa, sebbene fossero solo ai primi di ottobre. Il ragazzo s’era giustificato che il suo ruzzolone giù per le scale l’aveva non poco scosso, portandolo a cercare per qualche tempo svaghi più tranquilli. “Scusami?”, sbatté le ciglia, non avendo seguito il filo del discorso.

“Marostega”, ripeté vezzosa Maria. “Dev’essere un posto molto interessante, no? Tu ci sei stato quasi due volte, puoi confermare!”

“Mi piacciono molto i suoi boschi ed i colli. Un vero peccato che abbiamo perso la stagione venatoria.”

“Sì, ma i palazzi? Il Duomo? I conventi? Ho sentito dire che sono davvero notevoli …”, insistette la cugina.

Hironimo scrollò le spalle. “Sono soltanto degli edifici: freddi, immutabili e morti. La natura invece m’affascina appunto perché è caduca, viva e imprevedibile. In una chiesa è come essere vivi in un sepolcro di marmo; in un bosco si è vivi in un mondo vivo.”

Le donne lì presenti si sciolsero in tintinnanti risatine. “Ignoravo questo tuo spirito alla Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature”, scosse Maria giocosamente il capo. “Dovresti insegnare agli  stessi Francescani!”

“Le tue risposte sono troppo pepate per una donna, zermana”, la rimbeccò Hironimo, ritornando offeso al suo manuale.

“E per un uomo, possiedi un animo più dolce del latte, zermano”, non si scompose la Morexini, semmai traendo gusto da quel battibecco.

“Forse dovreste recarvi voi stessa a Marostega”, cangiò discorso madona Alba Donado Contarini, rivolgendosi all’amica madona Leonora. “In fin dei conti, siete la matrona di Ca’ Miani ed Helena necessiterà di una figura di riferimento e con esperienza, al di là della comare levaressa.”

“Non vorrei esser di troppo, né sostituirmi a …”, nicchiò la patrizia, scrutando di sottecchi la consuocera.

“Perdiana, non dite assurdità!”, ribatté vivacemente madona Alba, “è vostra nuora, vivete sotto lo stesso tetto; per lei, voi siete una seconda madre. O sbaglio, madona Irene?”

“No, no, affermate il vero. Anzi, despina Lionora, mi fareste un grandissimo favore assistendo la mia Eleni!”

“In tal caso, scriverò a mio figlio Marco che lo raggiungerò assieme ad Hironimo (e forse anche a Carlo) per Natale.” Quand’ecco che l’espressione dell’anziana patrizia s’incupì. “Prego solo la Madonna che tutto vada bene: Helena ha molto sofferto durante i primi mesi, non vorrei le capitasse qualche complicazione al momento del parto …” Non aveva avuto il coraggio di confessare a nessuno quella sua intima pena, lo svantaggio di non possedere in casa sufficienti presenze femminili su cui discutere di certi argomenti.

Crestina strinse incoraggiante la mano della matrigna. “Varé là, siora Mare! Che dite? Helena è giovane, forte … Guardate sua sorella Regina: s’è sgravata tranquillamente, senza alcuna traccia di febbre e anzi, dopo quattro giorni aveva già il viso latte e rosa. Volete che per Helena sia diverso?”

Madona Leonora non rispose, stringendo le labbra in una linea dura: adesso Crestina minimizzava, però anche lei a suo tempo aveva sofferto moltissimo alla sua prima gravidanza, portandola a redigere il suo testamento.

Il nuovo membro della famiglia Miani decise di venire al mondo il 6 marzo 1504 ed era stato un bene che Hironimo avesse già ricevuto il suo battesimo di fuoco, ché le urla infernali di Helena da dietro la porta di camera sua neanche si potevano paragonare a quelle della sua sorellastra Crestina, né della zia Morexina, né di Maria Foscarini Miani moglie del biscugino Zuan Francesco: nessuna delle donne aveva emesso suoni così tremendi, quasi avessero sottoposto sua cognata al peggiore dei supplizi, aprendola e squarciandola a metà senza un attimo di respiro.

Per ovvie ragioni tecniche anatomiche, il primo figlio corrispondeva ognora ad una grande sfida per la primipara, variando i tempi di nascita dalle dieci ore ad una giornata intera. Compito pertanto delle donne era quello di tranquillizzare la futura madre e ai parenti maschi il futuro padre, in un’equa partizione dell’ansia.

Costretti dunque a pazientare nella sala di rappresentanza, Carlo ed Hironimo tenevano bloccato in uno stretto e compatto cerchio il povero Marco, che ad ogni grido scattava in piedi dalla sua sedia, smanioso di soccorrere la moglie.

“Sentate e stà bon!”, gli poneva una mano sulla spalla suo fratello maggiore, costringendolo seduto. “E smettila d’agitarti: se ci muori al primo, che ci fai al secondo? Ascendi in Cielo direttamente dalla tomba? Guarda i nostri siori zii, fanno tutte queste storie quando le loro mogli partoriscono?! Li hai mai visti strapparsi i capelli e piangere peggio d’un puteo?”, sbuffò snervato. Dopodiché, accertatosi che Marco si fosse un poco tranquillizzato: “Capisco la tua ansietà, però credimi che quel che stai provando adesso, l’hanno provato anche i nostri parenti e come vedi sono ancora tutti in piedi, sulle loro gambe!”, lo consolò Carlo, pigliando un bicchiere d’acquavite e costringendo Marco a berlo in un sol sorso. “Presto sarai padre di un bellissimo fantolino e ti getterai queste ore alle spalle, ridendotela alla grossa!”

“Beh, insomma, quasi tutti l’hanno sperimentato, parla per gli ammogliati”, lo corresse Hironimo, zittito immediatamente da un’occhiataccia ammonitrice da parte di Carlo.

Muovendo esagitato la gamba, Marco balbettò terrorizzato: “E allora … allora per-perché ci … ci sta mettendo così … così tanto? È … ormai è quasi sera … se lei … se il bambino …”, e onde impedirgli d’esprimersi in altri incoerenti e tristi presagi, gli si versò solerti del liquore. “Mio figlio sarebbe già dovuto nascere un paio o più d’ore fa!”, guaì disperato, storcendo la bocca dal bicchiere portogli, rifiutandolo schifato.

“Bevi e tasi!”, non dimostrò Carlo alcuna pietà, intanto che Hironimo teneva fermo lo spiritato. “Hai voluto divertirti con la mojer, ecco le conseguenze. La sofferenza che stai provando è niente paragonata alla sua! Ergo, sii uomo e rispetta il suo sforzo comportandoti da tale!”

“Amen!”

“Momolo, ancor na parolla e te dago ‘no stramuson, che te spalmo sul muro!”

“Marchetto, il primo putelo crea sempre qualche ritardo!”, s’inginocchiò infine Carlo davanti al fratello, quando l’acquavite fallì il suo scopo d’intontirne l’ansia. Il ventisettenne patrizio optò allora di consolare il minore tramite spiegazione razionale e scientifica, condividendo in questo modo anche le conoscenze acquisite dalle numerose letture da lui intraprese, onde ammazzare la noia. “Per questo, secondo me, corrisponde ad una gran cavolata il non permettere alle donne di partorire accovacciate, come ad esempio quando urinano. Infatti, stando a dei recenti studi a Padoa, pare che il canale uterino si dilati, aprendosi, più di un quarto rispetto alla posizione supina e …”

“Carlino!”, lo rimbeccò Hironimo leggermente imbarazzato.

“Che?!”

“Zò!”

Roteando snervato gli occhi, Carlo s’alzò in piedi, borbottando rancoroso sul bigotto atteggiamento da farisei dei suoi parenti: un corpo era un corpo, che problemi c’era a discuterne a riguardo, specie se poteva portare ad un avanzamento del sapere medico? Bah, ridicoli!

“Se si salva, non giacerò mai più con mia moglie!”, ruppe Marco in un pianto assai alticcio, nascondendo il volto tra le mani.

“Hé-oh, zò che drammi!”, esclamarono all’unisono i suoi fratelli, mulinando scettici le mani in aria. Adesso il ventitreenne patrizio parlava così; dategli un anno o due ed ecco che ci si sarebbe ridati appuntamento in sala d’attesa per il secondo figlio.  

Neanche a farlo apposta, la matriarca di Ca’ Miani usciva proprio in quel momento, seguita dagli acuti vagiti del neonato, i quali rallegrarono assaissimo i presenti, duramente provati da quella lunga e sfibrante attesa e anzi, Carlo dovette aiutare Marco ad alzarsi in piedi, le gambe di questi molli quanto la ricotta. Inspirando a lungo e dominando il fascio di nervi qual era divenuto il suo corpo, madona Leonora abbozzò ad un tremulo sorriso, annunciando solenne: “Mascolo! Mascolo! Mascolo!”

Poiché suo fratello ancora non pareva aver recepito il messaggio, rimanendosene là imbambolato a bocca aperta, Hironimo ordinò a Menego di correre in cantina a pigliare del Recioto della Valpolicella per un giro di brindisi. “Al piccolo Anzolo di Marco Miani: salute, denaro e tempo per goderseli entrambi!”, augurò al neogenitore, mentre i servi riempivano i bicchieri di passito rosso scuro. “Zò, qualchedun daga ‘no s-ciafon a sto puto dil mio fradelo: mare de diana, sembra ch’abbia partorito lui!”, scherzò e in effetti, un impensierito Carlo aveva incominciato ad elargire lievi buffetti sulle gote di suo fratello, non reagendo questi ancora da uomo vivo.

“Oh, ma che bellino! Tutto rosso arrabbiato!”

“Bone Jesu, che polmoni!”

“A chi dici assomiglia?”

“Quando strilla così: a te, Momolo!”

“Mo’ via, non fai ridere!”

Tutto il Castello Superiore di Marostica festeggiò in grande allegria il lieto evento, tra ciambelline e marzimino. Eppure, scendendo in cucina per pagare la comare levaressa, Hironimo giurò d’averla sentita commentare ad una preoccupata Orsolina: “A me gera parso, chea creatura no la volesse nasser.”

“Dasseno? Cussì mal xela ‘ndà?”

La levatrice tracannò il suo vino in un ultimo grosso sorso. “A sarave mejo, chea patrona non la fasesse fioi per un bel po’ …”, le rivelò brutalmente onesta il suo parere.

E il significato di quella conversazione, Hironimo lo comprese appieno l’anno seguente. Vuoi la fresca passione tra novelli coniugi, vuoi la sventatezza della gioventù, Helena neanche il tempo di ritornare a Venezia che aveva concepito di nuovo e anche in quell’occasione il parto si protrasse per lunghissime ore, alternando urla inumane a momenti d’angoscioso silenzio. Ciò impensierì oltre alla famiglia anche l’esperta levatrice, la quale aveva appurato quanto il nascituro fosse parecchio pigro e insensibile agli stimoli delle contrazioni.

“Non nasce! Non nasce!”, singhiozzava la greca, stringendo convulsamente la mano della suocera madona Leonora e di sua sorella madona Regina, le quali le sussurravamo dolci parole di conforto, mentre sua cognata madona Crestina le tamponava la fronde madida di sudore e pallidissima e sua sorella Chiara, assistendo terrorizzata in un angolo, aveva incominciato a recitare un misto di preghiere in latino e greche, cattoliche e ortodosse.

“Zerto che sta creatura ea nasse!”, non s’arrendeva la comare levaressa, testarda. “A xé ‘na meampa (torda,ndr.), che la gh’ha da ser costreta! Spinzé, patrona, spinzé!”

Helena s’inarcò in avanti, digrignando i denti e ruggendo ingolata, per poi cadere sfinita sulle lenzuola sfatte.

Fu allora che madona Leonora decise d’uscire inaspettatamente dalla stanza della partoriente, bianca peggio d’un cencio e serissima in volto, seguita da un’altrettanto grave Eudokia, sua silente ombra. Raggiunse a passo deciso gli uomini di casa, radunatisi in attesa nella sala di rappresentanza, ma stavolta la patrizia levò in alto il palmo della mano in diniego, frenando la sfilza di domande postale dai presenti e segno che no, non veniva a portare la tanto sospirata notizia. “Momolo, una parola”, chiamò invece il figlio. “No, Titta”, bloccò il suo fratellastro, “restate pure accanto a mio figlio vostro nipote.”

La nobildonna condusse il ragazzo giù in cucina, con la scusa di ordinare alle fantesche di scaldare dell’acqua da portare alla levatrice. Con mani tremanti si servì d’un bicchiere di vino, sospirando affranta. “Voglio che corri a casa del medico chirurgo Yonah bar Shemu'el e che, con discrezione, lo conduci in camera d’Helena. Eudokia” e indicò la sua personale fantesca, la quale reggeva un fagotto, “t’accompagnerà, acciocché egli si travesta da donna. Siamo nella settimana della Sensa: nessuno sospetterà niente.”

Il significato tra le righe di quell’ordine schiacciò d’angustia il cuore d’Hironimo, realizzando e accettando controvoglia lo scenario, che fino a quel momento s’era rifiutato di considerare, sdrammatizzandolo attraverso le solite battute ed incoraggiamenti ai danni del futuro padre, mentre in sala aspettavano l’annuncio ufficiale della nascita.

“In altre circostanze”, riprese determinata madona Leonora, “non avrei permesso ad un uomo di … d’immischiarsi in tali faccende, per quanto qualificato e competente. Tuttavia, adesso la questione si riassume nella scelta del male minore, se violare per qualche ora la modestia di mia nuora o …”, e il labbro inferiore dell’anziana patrizia tremò, “… o se lasciare che domani mio figlio seppellisca moglie e piccino.”

“Il patron Marco non soffrirà per ciò che non conosce”, sentenziò pragmatica Eudokia, insistendo sull’importanza di quella missione. “Meglio sorbirsi il broncio di madona Helena che il suo funerale.”

“Momolo?”

Hironimo alzò la testa, rendendosi conto solo in quel momento d’aver tenuto lo sguardo abbassato, fissando trasognato il pavimento, incredulo dinanzi a quell’inaspettato e drammatico giro d’eventi. Ripensava a quando aveva incontrato la greca per la prima volta; ai lieti pomeriggi a casa delle cugine; ai suoi sorrisi, alle lezioni, ai piccoli concerti … soprattutto il ragazzo rivedeva la luce di pura felicità negli occhi di Marco il dì delle loro nozze, alla notizia della gravidanza, quando aveva tenuto tra le braccia il neonato Anzolo  …

“Se salverà la vita ad Helena, non dirò niente”, promise il diciannovenne Miani.

Indossato il mantello, Hironimo scivolò via furtivamente assieme ad Eudokia e altrettanto circospetti rincasarono col medico chirurgo giudeo, comicamente ingoffato dalle vesti femminili e la barba nascosta dallo spesso velo bianco, fermato da una spilla.

“Perché non mi avete chiamato prima?”, fu la domanda retorica di Yonah bar Shemu'el, mentre srotolava dalla borsa di cuoio i suoi arnesi, scuotendo il capo dinanzi alla condizione deplorevole in cui versava la partoriente. Si lavò le mani più volte, sfregando bene tra le dita. “Lavati di nuovo le mani e poi passa questa lama sulla fiamma viva”, istruì la comare levaressa, eletta a sua assistente e tramite, aggiungendo poi sottovoce: “Adesso io ti dirò cosa fare e tu esegui alla lettera, se vuoi che questa poveraccia arrivi viva a domani.”

La levatrice annuì velocemente, lanciando una rapida occhiata a madona Leonora, la quale piegò il capo in assenso. Aveva previamente congedato la figliastra, madona Regina e Chiara, invitandole a raggiungere gli uomini con la scusa ch’erano in troppe in quella stanza, rubando aria preziosa ad Helena. Quanto a lei, sarebbe rimasta fino alla fine con sua nuora, qualsiasi fosse stato l’esito.

Un’ora dopo l’arrivo del medico chirurgo, madona Leonora usciva per la seconda volta. “Femena! Femena! Femena!” e con lo sguardo sfidò tutti i presenti a non gioire di meno per via del sesso della neonata, specie dopo aver sottratto la puerpera alla morte per il rotto della cuffia. Il suo fratellastro sier Batista e suo genero sier Thomà furono tra i primi a complimentarsi, dimostrando quanto aver figlie non corrispondesse in fondo ad una tragedia.

Hironimo, dal canto suo, aveva preferito raggiungere sua madre, insospettito dall’espressione affatto rilassata rispetto al resto della famiglia. “Mare, come sta Helena?”

La patrizia lo afferrò per il braccio, appoggiandosi quasi di peso sul suo ultimogenito.  “Lo sapremo al mattino”, mormorò sfinita.

Al dì della presentazione ufficiale dell’infante Crestina, detta Ina, madona Helena dovette ricorrere all’antico trucco di pizzicarsi le gote, onde renderle belle vermiglie e segno d’eccellente salute. Sua suocera e le sue sorelle Regina e Chiara l’avevano agghindata a guisa di bambolina nella speranza di celare il suo aspetto pressoché cadaverico, rispondendo al posto suo alla maggior parte delle domande e felicitazioni. Ciononostante, malgrado i bisbigli e le previsioni pessimistiche, la puerpera sopravvisse e, seppur a fatica, riacquistò gradualmente le forze. Il battesimo tuttavia venne ugualmente celebrato in casa.

“Sono davvero grata che la levatrice abbia risolto … per un attimo ho creduto sul serio di rendere l’anima …”, confessò la ragazza un giorno ad Hironimo, il quale le faceva compagnia, intanto che Marco aiutava la moglie a mangiare la minestra d’uovo.

“Avrebbe potuto sbrigarsi anche prima”, bofonchiò invece rancoroso il marito, pulendole l’angolo della bocca. “In quante erano dentro, tra levatrice ed assistenti? Tre? Quattro?”

“Quattro”, rispose la greca e prima che Marco potesse commentare a riguardo, Hironimo la corresse dolcemente:

“Tre, Helena, me l’ha confermato la mia siora Mare, tua madona. Si trattava sempre della medesima assistente, solo che era scesa in cucina per prendere dell’altra acqua calda”, mentì celere, forte del previo stato mentale della cognata, la quale infatti cedette docile al suo ragionamento, ammettendo il suo errore frutto di una memoria confusa.

Dopodiché, Hironimo inventò una scusa banale per sottrarsi alla domanda già in procinto d’uscire dalla bocca di suo fratello, deviando scaltramente il discorso su altri argomenti.

Trascorsero gli anni, laddove morte e vita s’alternavano.

Maria Morexini aveva puntualmente sposato sier Zuanne Querini di Stampalia e Amorgo, rifiutandosi però di seguirlo nell’isola greca, adducendo come scusa la sua celere gravidanza e sier Batista si beò del suo nipote Francesco Querini, bello, grasso e in salute perfetta. Peccato che quando arrivò il giorno di salpare da Venezia, ecco che la patrizia era rimasta nuovamente gravida della piccola Crestina (perché era nata lo stesso anno della biscugina Miani) e subito dopo ancora di Fantin, sicché si rimandò ironicamente alle calende greche. In realtà, Maria posticipava strategicamente la partenza, poiché aveva capito che, una volta attraccato a Stampalia, ogni sua autorità sarebbe svanita, costretta a sottostare a quella della suocera Juliana Malipiero Querini. E poiché la Morexini possedeva la medesima personalità focosa, altera e imperiosa degli uomini della sua gens, o finiva per gettare la Malipiero giù da uno scoglio o si auto-esiliava ad Amorgo, prospettiva che non l’entusiasmava per niente. Di conseguenza, sfruttando le persuasive arti seduttive femminili, aveva convinto il consorte a restare a Venezia, a crearsi nella capitale utili amicizie e una reputazione invece di languire semi-dimenticato in uno scoglio del Dodecaneso in mezzo all’Egeo. Il suo trionfo corrispose alla promessa di sier Zuanne di trasformare i due edifici distinti affacciati sul rio di Santa Maria Formosa in un unico vero e proprio palazzo gentilizio.

Sua madre madona Morexina, nello stesso anno di nascita delle due Crestine, dava alla luce il suo ultimo figlio, nomato anch’egli Francesco e sier Batista, considerata l’età decisamente avanzata della moglie, giurò solennemente d’osservare una rigorosa astinenza (dal talamo nuziale). Sier Hironimo Morexini “da Lisbona” era lo stesso anno morto, resuscitato e morto ancora, sua cognata Ysabeta Erizo arrestata e poi rilasciata e la sua inconsolabile moglie madona Laura s’era prontamente risposata, donando subito un figlio a sier Ferigo Renier, Zuanne. Un altro Francesco Morexini nacque da sier Thadio cognato di sier Batista e da sua moglie Contarina Contarini Morexini, biscugina d’Hironimo. Regina Spandolin da Ponte ebbe l’ennesimo figlio e si celebrarono molte nozze, tra cui quella di Lugrezia Corner in sier Jacomo Contarini di sier Piero.

Sier Andrea Miani q. sier Vidal morì pure lui nel 1505, alla veneranda età di centoun anni e ben si poteva vantare di averle viste davvero tutte nelle vita. Le sue ultime parole furono che un poco gli era dispiaciuto indugiare così a lungo in questa valle di lacrime, avendo seppellito pressoché trequarti della sua famiglia originaria, nonché assistere alle tremende vicende che spesso assillavano la Signoria, rischiando più volte di precipitarla nel baratro. Se n’era morto contento, nel suo letto, ben satollo dell’ultimo pasto, confessato, comunicato e unto degli oli santi; circondato da parenti di cui manco si ricordava il nome e assistito dall’instancabile sua nipote Maddaluzza, ch’aveva visto nascere, crescere e invecchiare zitella.

Quanto ai fratelli d’Hironimo, ormai erano lanciatissimi nella vita pubblica e non li si vedeva quasi mai in casa: Lucha era partito castellano a Brisighella, Carlo castellano alla Garzetta di Brescia, mentre Marco si preparava al prossimo incarico.

Soltanto l’ultimogenito Miani era rimasto tra coloro ch’erano sospesi, indeciso su cosa fare della propria esistenza, menato di qua e di là dai flutti, senza meta, mentre attorno a lui ciascuno danzava o con sorella Morte o con sorella Vita, a seconda del voler di Missier Domeneddio.

Chi condivideva tal perplessità sul suo destino era sua cognata Helena. Dopo Anzolo e Crestina non era stata benedetta da alcun altro pargolo, malgrado le palesi prove dell’impegno suo e di Marco di regalare ai due un terzo fratellino.

Col passare del tempo, la greca aveva incominciato a manifestare segni d’afflitta irrequietezza, la medesima che Hironimo le aveva scorto al loro primo incontro. Invano la spronava a confidarsi, come una volta, offrendole il suo supporto: sua cognata scuoteva il capo, cacciando via le perenni lacrime che le velavano gli occhi. Al funerale della povera madona Pellegrina Muazzo Miani, morta di parto nel dare alla luce il suo secondogenito Vidal, Helena aveva singhiozzato più forte del vedovo sier Alvixe e quando quest’ultimo morì poco dopo a Rimini, dove si trovava in qualità di capitano delle navi della Riviera della Marca, ella avvertì un pesante malore e svenne nella cappella funeraria dei Miani a Santo Stefano, nell’esatto momento in cui collocarono la bara di sier Alvixe nella sua arca accanto a quella della moglie, sigillandola. Maddaluzza Miani l’aveva incoraggiata, rasserenandola sulla sorte dei due orfanelli, rimasti orbati anche dello zio Piero Grioni, annegato in mare, credendo che la greca si tormentasse per loro: non v’angustiate, mi prenderò cura io del puttino e della puttina! Non li farò mancar nulla, sarò per loro padre e madre!, aveva dichiarato davanti all’intero parentado, nell’intimo contenta d’avere finalmente quei figli negatigli dal mancato matrimonio.  

A tali parole Helena annaspò, reggendosi il ventre si piegò in due e pianse più forte.

In ugual maniera si dannava Marco, non comprendendo quell’improvvisa malinconia: sua moglie non rideva più, giungendo talora ad un inquietante mutismo, lo sguardo perennemente abbassato da cane bastonato; nulla la interessava, perdendo gusto di ogni svago, abbandonando perfino le visite a madona Maria e alle altre cugine Morexini. Neppure il breve periodo trascorso ad Asola le aveva giovato e appena rientrati a Venezia, lei s’era prontamente murata viva in casa. Indossando unicamente i  larghi e comodi abiti della sua terra natale, Helena se ne rimaneva in camera sua senza vedere e parlare a chicchessia, tranne alle sorelle Regina e Chiara e ad Hironimo, l’unico sul cui petto Zanzi ed Ina si calmavano, suggendo serafici il pollice e l’altra manina artigliata o ad una ciocca dei suoi capelli o allo scollo della camicia. Crescendo i due bambini avevano cessato di succhiarsi la falange, però non di richiedere la presenza del loro barba, al momento di coricarsi a letto o per giocare. 

Inutilmente tentava il ragazzo d’ammansire Marco, scopertosi geloso di quella palese predilezione dei figli – specie il maschio -  nei confronti dello zio. “Di recente sei sempre nervoso, agitato, collerico: Zanzi  e Ina lo percepiscono e di conseguenza si spaventano”, gli spiegò paziente una sera, quando il maggiore l’aveva scorto tenersi in braccio la dormiente nipotina, mentre conduceva a manina Anzolo da Helena, acciocché li mettesse a nanna. “Zanzi ed Ina ti vogliono bene, devi solo controllare il tuo umore.”

“An, così saresti un esperto di bambini adesso”, replicò aspro Marco, la fronte aggrottata e le mani poste bellicosamente ai fianchi. “Che sei? Una femmina travestita?”, lo dileggiò e un rictus nervoso attraversò l’occhio sinistro d’un alterato Hironimo.

“Ma va’ en mona de toa suocera!”, sputò egli irritato, girando sui tacchi, sennonché suo fratello l’agguantò per un braccio, costringendolo a voltarsi e a guardarlo dritto in faccia.

“Se tanto ti preme allevare fantolini”, sibilò furioso, “fanne di tuoi, non andare in giro a rubare quelli degli altri!”

Hironimo spalancò la bocca, strabuzzò gli occhi, imporporandosi sdegnato, le mani che gli prudevano dalla voglia di scarnificare a ceffoni le guance di Marco. “Padre è chi cresce il puto, non chi lo genera! E non mi fare il geloso: tu manco la volevi la femmina! Ché non mi sono accorto della tua espressione delusa?”, gli rinfacciò astioso, scrollandosi via di dosso la presa del maggiore e dirigendosi di filato in camera sua dove pigliò il suo mantello, tallonato spietatamente dal fratello. “In tutta onestà, Marchetto, quanto tempi trascorri coi tuoi figli?”, l’accusò, scendendo a due a due le scale. “Eri lì ad aiutarlo, quando Zanzi ha imparato a camminare? O quando ha incominciato a parlare? Gli insegnerai l’abc oppure accamperai l’ennesima scusa per delegare l’onore a tua mojer? Ed Ina? Manco t’accorgi ch’esiste!”

“Scusa? Quale scusa? Sangue di Cristo, mentre tu ti trovavi qui a Veniexia a poltrire e a sgavazzare, io guadagnavo il pane per voialtri come vice-castellano ad Asola, credi che stia fuori casa a menarmela?!”, ringhiò scocciato Marco, braccato infine il minore al portego del pianoterra.

“Guarda che Mare ed io v’abbiamo tenuto i fantolini, perché tu non volevi che Helena li portasse seco! Sul serio possiedi la memoria corta dell’ingrato, zò!”, gli ricordò pedante Hironimo, sistemandosi la gorra in testa e uscendo dal portone d’ingresso che dava sulla strada: avrebbe camminato al primo imbarcadero e lì salito su di una gondola o sandolo, troppa la sua impazienza per aspettare i porci comodi del loro pope de casada.

“Non li ho voluti, perché mi sembrava ovvio quanto fossero troppo piccini e delicati per compiere un tal viaggio! E comunque, signorino, non rigirare la frittata, cambiando discorso: crescere i bambini piccoli è il compito della siora mare, non del sior pare. Quindi fatti un tegamino di cazzi tuoi e non t’immischiare!”

Hironimo si fermò in mezzo al ponte, i pugni serrati convulsamente. Avrebbe voluto urlare tante cose a quel tordo e cieco di suo fratello, avrebbe voluto urlargli che se non fosse stato per il suo sostegno, Helena avrebbe finito per soccombere dinanzi al peso del suo malessere, aggravato da quello dell’educazione di Zanzi ed Ina. Non capiva che sua moglie non stava bene? Non scorgeva in lei la sofferenza, l’angoscia, la malinconia che giorno dopo giorno la stavano consumando dall’interno? Se Hironimo non riusciva a cavar di bocca alla cognata la ragione alla base di tal suo comportamento, almeno poteva sostenerla compartendo il ruolo d’educatori, offrendole un po’ di respiro. Perché non riusciva Marco a comprendere un concetto così basilare?

La verità è che per lui aiutare Helena non corrispondeva ad un gran sacrificio: adorava Zanzi ed Ina, così come aveva amato Dionora e Gasparo prima di loro. Assistere ad ogni piccolo progresso dei nipoti, vederli spuntare i dentini, ascoltare la prima lallazione, guidarli nei loro incerti passettini, sentire il loro cuoricino accompagnare il battito del suo cuore e la tiepida carezza del loro respiro solleticargli la nuca … Hironimo non capiva perché i suoi pari preferissero perdere tutto questo in nome di altre sterili occupazioni, delegando alle mogli e alle balie tali preziosi istanti, che mai più si sarebbero ripetuti. C’era tempo per l’alta carriera politica, tutta la mezz’età!

Aver figli suoi … certo, Hironimo l’aveva considerato e lo progettava anche, appena se ne fosse presentata l’occasione propizia. Sognava d’averne tanti, tantissimi, una marea …

“A cosa debbo questa tua visita improvvisa?”, la voce della sua amante lo destò dalle sue rêveries, cullato com’era dalla mollezza post-amplesso e il tocco rilassante delle dita di lei, che gli massaggiavano lo scalpo in dolci cerchi regolari, finalmente placatasi la tempesta dell’animo suo. Le era infatti piombato in casa e, fatto raro per lui solitamente così amorevole e premuroso, l’aveva baciata e posseduta con un’irruenza alla nobildonna sconosciuta, neppure preoccupandosi di spogliarla, limitandosi ad alzarle le sottane e di prenderla contro il muro. Non violento né minaccioso, bensì alla stregua d’un condannato a morte che si piglia l’ultimo piacere terreno.

Hironimo levò la guancia dall’addome di lei, sorridendole imbarazzato. “Vi ho fatto male?”, s’informò un poco ansioso, sospirando sollevato al cenno di diniego da parte di quell’altra. Riappoggiò il capo, tracciando arzigogolati arabeschi sulla pelle bianchissima della nobildonna, giocherellando coll’ombelico e strappandole qualche risolino. “Non desideravo mancarvi di rispetto poc’anzi: mi perdonate?”, si scusò, in realtà omettendo la vera domanda che lo assillava, ossia come avrebbe la sua amante reagito se un giorno Hironimo avesse perduto il controllo, se non avesse interrotto l’amplesso al momento giusto, sfilandoglielo prima di riempirla del suo seme; se avessero di conseguenza concepito un figlio. Lei gliel’avrebbe comunicato e si sarebbero sposati? Oppure gliel’avrebbe taciuto ed esposto l’infante alla ruota, se non direttamente sbarazzatasi  d’esso ingerendo della ruta? Se quest’ultimo accorgimento lei non lo stesse già prendendo …

Tanto facilmente Hironimo chiese ed ottenne il perdono della sua domina, tanto difficilmente i due fratelli si riconciliarono, due teste talmente dure da competere con le statue d’Egina, a confronto fragili balocchi in terracotta. Senza la presenza mediatrice di Lucha e di Carlo, in casa loro erano rimasti gli unici uomini e naturalmente finivano per beccarsi, incapace l’ultimogenito Miani d’accettare l’autorità di chi gli era maggiore di appena cinque anni.

Sicché, per non causare inutili questioni, il giovane uomo aveva deciso di frequentare di più i suoi amici, rimanendo il meno possibile a casa e di soffocare quella fitta al cuore, ogniqualvolta ignorava le richieste di Zanzi  ed Ina di giocare con loro. Forse Marco aveva ragione: i suoi nipoti non erano roba sua, al massimo di Madre, loro nonna paterna. Crescendo i fantolini si sarebbero dimenticati del loro speciale legame e avrebbero apprezzato di più la compagnia del loro genitore, come giusto che fosse. Scandagliando i suoi ricordi d’infanzia, Hironimo aveva ammesso che anche Padre mal sopportava quando suo figlio s’attaccava alla toga del suo barba Batista, sollevandolo via di peso e soffiando peggio di una gatta, tra le risate di Madre.

“Barba Momi …”, si sentì il ventiduenne patrizio punzecchiare all’improvviso sui fianchi, destandolo dal sonno pesante del dopo-sbornia. Maledetto Francesco Contarini e le sue divertentissime feste fino all’alba, niente e nessuno avrebbe salvato Hironimo da una lavata di capo per esser rincasato ad un orario sì indecente, puzzando peggio d’una distilleria di grappa friulana. Manco s’era accorto d’essersi disteso accanto al gatto Baffo, ch’aveva occupato il suo posto, anch’egli tornato dalle sue avventure notturne, tra cacce ai topi e combattimenti per le femmine. “Sveja! Barba Momi, su sveja, sveja …”, non cessò per un istante quel tormenta-cristiani.

“Va’ en malhorra! Lasseme star!”, grugnì il giovane, emergendo a guisa di tartaruga candiota da sotto le coperte, serrando dolorosamente gli occhi, feriti dalla vivida luce del mezzodì. Diamine, quant’aveva dormito?

“Barba Momi!”, saltellava adesso sul materasso Zanzi, imperioso, imitato da sua sorella Ina. “Vegni! Vegni! Vegni!”, ripeteva ad ogni balzo. Il gatto Baffo, fino a quel momento tranquillo e spaparanzato, balzò giù irritato, stiracchiandosi e cercando altrove un posto dove dormire indisturbato.

“Vago, vago, vago!”, replicò a tono Hironimo, accomiatandosi dal tepore del suo letto, lavandosi in fretta ed infilando di malavoglia camicia, braghe e zipone. Pigliato per mano i nipotini di rispettivamente tre e quattro anni, si lasciò condurre fino alla porta della stanza dei genitori.

“Mama xé drento”, gli indicò serissimo il fantolino.

“El Tata?”

Zanzi scrollò le spallucce. “Via”, disse, cambiando impaziente peso da una gamba all’altra. Sua sorella Ina annuì, gli occhioni grigi spalancati e apprensivi.

Perplesso da quel bizzarro teatrino, Hironimo bussò educatamente alla porta, avendola trovata infatti chiusa. “Helena?”, chiamò la cognata, alternando ai battiti. “Helena c’è qui il Zanzi e l’Ina che vorrebbero entrare, per favore, potresti aprire …?”

La voce soffocata della greca l’apostrofò snervata: “Dopo, dopo! Adesso non posso, ho da fare!”

“Giuro che non entro, se sei ancora in camicia!”, sdrammatizzò Hironimo, contento di non essere l’unico poltrone a Ca’ Miani. “Ma i tuoi petussi (pulcini, ndr.) sono qui davvero preoccupati, vero?”

“Sì!”

“Ditelo alla Mama!”

“Mama! Mama! Verzi ea … ea …”, e Ina si portò pensierosa il ditino alle labbra, scordatosi dalla concitazione il termine giusto.

“Porta”, le suggerì sottovoce lo zio.

“ … porta!”

“Dopo!”, ripeté ostinata sua madre, il tono modulato d’un timbro sospettosamente isterico. “Perché non lo capisci?!”

Il giovane patrizio aspirò l’aria, adesso genuinamente in ansia per la cognata. Sicché, appoggiate le mani sulle schiene dei nipotini, l’accompagnò tramite moine e promesse in cucina, affidandolo alle cure di Zanetta.

Se da una parte Hironimo avrebbe d’istinto sfondato a spallate la porta, dall’altra giudicò sciocco lussarsi l’arto e buttar via i soldi dal maragon, per sostituirla con una nuova. Non quando l’ognora previdente Orsolina conservava un doppione di ogni chiave di casa e di fatti l’anziana domestica ed Hironimo così entrarono, per poi gelare sul posto alla vista d’Helena seduta per terra, la gonna sollevata abbastanza da intravedere le cosce insanguinate mentre la sua fantesca Cleofe le porgeva dei panni puliti. Ambedue le donne sobbalzarono impaurite non appena s’accorsero dei nuovi arrivati, la serva ponendosi protettivamente tra loro e la padrona.

“Maria Verzene ora pro nobis”, si segnò Orsolina, subito girandosi verso un interdetto Hironimo, che al contrario non aveva capito niente, tranne che sua cognata sedeva su di una pozza di sangue. “Patron Momolo, gh’avé horra da ussir, ve ciamarò mi co’ gh’avarò finio, saveu?” e lo sbatté fuori dalla stanza senza tante cerimonie.

Una volta riammesso, Helena era stata ripulita e posta a letto, la camera arieggiata malgrado l’odore ferroso del sangue indugiasse ancora, seppur labilmente.

“La siora vuostra cugnada la gh’ha perduo ea creatura”, gli sussurrò all’orecchio Orsolina, la quale teneva in mano una scatoletta avvolta in un telo. “Co’ no la gera massa granda, no va far gran dano”, aggiunse, rassicurando il padroncino su quel punto. “Mi vago zoso en cocina, se gh’avé besogno de mi, ciamème pur.”

Hironimo annuì distrattamente. Si sedette accanto alla cognata, stringendo la mano di lei, fredda e umidiccia, tra le sue. “Come ti senti?”, inquisì cortese.

Helena abbozzò ad un sorriso stanco. “Passerà, non hai ascoltato l’Orsolina? La creatura era ancora piccina-piccina, neanche me ne sono accorta veramente, tranne quando … quando …”, si voltò dalla parte opposta, soffocando a stento un singhiozzo. “Perché Theos mi sta punendo così?”, balbettò tra le lacrime, la voce soffocata dal pianto.

Deglutendo a disagio, Hironimo si sforzò di consolarla. “Forse non era il caso che nascesse, perché … perché magari era ammalata e … e molte donne perdono i figli avanti il parto, sono … sono cose che capitano … Ma Helena!”, la consolò, scuotendole la mano. “Sei giovane, bella, in salute e  Marco ti ama moltissimo! Hai perso questo, ne avrai altri! Probabilmente la morte di Alvixe e Pellegrina ti ha scossa più del dovuto; questa casa in effetti sembra essa stessa un sepolcro tanto è divenuta cupa, silente e soffocante, non aiuta certo! Parlerò con mio fratello e gli chiederò di portarti meco a Trevixo, a cambiar aria! E quando ti sarai rimessa, vedrai che il prossimo anno organizzeremo un battesimo!”

La greca negò veementemente, tirando su col naso. “Non ci riesco …”, ammise, il viso contratto in una smorfia di pura agonia. “Dopo Christina … dopo lei … non sono più stata capace di tenerne neanche uno …” e la sua mano libera artigliò la coperta all’altezza del ventre, quasi volesse scavare e squarciare il traditore.

Suo cognato impallidì fino al cinereo. “Non era … non era il primo?”, ansimò incredulo e al contempo ogni tassello di quell’incomprensibile mosaico s’incastrò perfettamente, conferendo una perfetta logica dietro ogni comportamento della giovane donna. Ecco dunque spiegati i malumori, la magrezza, quell’aria vergognosa di chi nascondeva una grave colpa, l’eccessivo dolore ai funerali di madona Pellegrina e del marito …

“Tutti”, boccheggiò Helena, il respiro irregolare e tremulo, “tutti da quando abbiamo ripreso a …”

“Marco n’è al corrente?”

Sua cognata sbarrò gli occhi, terrorizzata all’idea. “No, e non deve saperlo!”, lo supplicò, stringendogli forte la mano fino a conficcargli le unghie nella carne.

“Ma … ma …”, tentò di ribattere Hironimo, non condividendo quell’ingiusta omissione ai danni dell’ignaro fratello, il quale si tormentava in ugual misura dinanzi all’inspiegabile e improvvisa selvatichezza della moglie nei suoi confronti. Meglio che si compartisse la notizia, acciocché egli si mettesse l’animo in pace, piuttosto di lasciarlo macerare nel dubbio di ben peggiori ipotesi.

Peccato che la greca non condividesse questo suo parere. “Che se ne fa Márkos di una moglie difettosa, che non può partorirgli i figli che le mette in grembo?”, dichiarò ella angosciata, piangente. “Cosa si dirà in giro? Che avrebbe fatto meglio a prendere una del suo paese, non un’inutile straniera! Márkos mi ripudierà, non mi vorrà mai più vedere!”

“Mo’ via, non viviamo più ai tempi degli Ezzelini!”, la contraddisse Hironimo, sudando freddo dinanzi a quell’impietoso eppure realistico scenario, ché la cattiveria della gente superava di continuo ogni ardita fantasia. L’ultimo nipote di Helena, Andrea da Ponte, era nato sciancato e pertanto condannato tutta la vita a claudicare, sicché prima ancora del suo nome di battesimo aveva ricevuto il soprannome di “Zotto” e già si speculava sulla sua malformazione come palese segno di malvagità e natura diabolica, originaria forse dall’insincera abiura della fede greco-ortodossa da parte della madre levantina.[1]

“Il vostro matrimonio è più che consumato, avete avuto due figli in perfetta salute. Mio fratello non potrà mai ripudiarti, neanche se lo volesse e anche in quel caso, lo prenderemo a pugni in testa affinché rinsavisca!”, sdrammatizzò Hironimo.

“No, non capirebbe”, s’intestardì Helena, scuotendo il capo. “Vedrebbe in me soltanto un fallimento di madre. Un peso, una palla al piede. Mettendo caso” e inconsciamente si segnò all’ortodossa, privilegiando la spalla destra invece della sinistra, “Theos e la Parthena Maria non vogliano, però … però mettendo caso che Angelos non sopravviva all’infanzia? Che gli rimanga solo Christina? Come riuscirà allora mio marito ad ottenere degli eredi maschi e legittimi? Certo, se vuole dei figli ne potrà avere o di naturali o dei filii de anima, i quali tuttavia non avranno mai il diritto di sedere a Palazzo Ducale tra i loro pari! Guarda tuo cugino Andreas di tuo zio Ioannes Baptistes: ad Aleppo s’è dovuto installare, perché qui non ce n’era per lui! E così per colpa mia e di questo dannato mio ventre, Márkos si ritroverà condannato a non aver discendenza maschile e rimpiangerà di non aver ascoltato la sua gente, quando l’avvertiva: moglie e buoi dei paesi tuoi! Forse all’inizio non ci baderà, ma poi finirà per odiarmi, lo so!”, gridò, singhiozzando forte, i cancelli della sua anima finalmente aperti e permettendo al pus cancrenoso delle sue insicurezze ed intime paure di fuoriuscire, togliendosi dalle spalle quel macigno portatosi per anni addosso.

Per quanto ingiusti e strazianti, i timori di Helena non apparivano infondati: similmente alla polis d’Atene, a Venezia soltanto il figlio legittimo di due patrizi a loro volta nati legittimi poteva aspirare alle cariche politiche, Hironimo ben si sovveniva del giorno in cui Madre lo aveva accompagnato in Avogaria Comun per registrarlo alla Barbarella, confermando sotto giuramento la sua nascita all’interno di regolare matrimonio e pure portando a fideiussori i suoi padrini sier Jacopo Barbaro e sier Beneto Contarini. [2] In seno alla loro gens viveva poi l’esempio lampante e pratico di suo cugino germano Andrea Morexini, soprannominato “Vendramino” giacché nato proprio il giorno dell’incoronazione a Doge del fu sier Andrea Vendramin [3] e soprattutto quando ancora suo zio Batista risultava scapolo: la zia Morexina non aveva biasimato nessuno, accettando di buon grado il figliastro e crescendolo amorevolmente assieme ai suoi. Ciononostante tutti sapevano benissimo come Andrea sarebbe stato considerato per sempre un figlio di seconda categoria rispetto ai fratellastri legittimi, costretto a cercare altrove fortuna e a costruire da sé il proprio posto nel mondo.

In quale modo avrebbe reagito Marco alla notizia dell’incapacità d’Helena, di portare a termine qualsiasi gravidanza futura? Suo fratello avrà sì posseduto un caratteraccio, però non apparteneva alle categorie delle carogne senza scrupoli, sebbene i suoi recenti comportamenti avessero spiazzato non poco Hironimo, anche perché in fin dei conti il maggiore rimaneva comunque un ambizioso e qualora gli si fosse balenata in testa l’idea di presentare una petizione di separazione al tribunale del Patriarca, indubbiamente Marco avrebbe smosso cieli e terra per porre fine al suo matrimonio, determinato come pochi.

D’altronde, Hironimo possedeva occhi per veder e non gli era sfuggito il disappunto nel volto del fratello, seppur abilmente dissimulato, alla notizia d’esser divenuto padre d’una bambina. Al momento di sceglierle il nome, Marco aveva optato per Crestina, come sua nonna paterna e la sua sorellastra, giustificandosi che già sua nipote s’appellava Leonora e dunque non desiderava che si creasse ulteriore confusione. In realtà, scegliendo il secondo nome femminile più importante, inconsciamente aveva dimostrato quanto gli scocciasse il doversi tormentare negli anni a venire di provvedere a un decoroso futuro a quella bimba. Avevano buon gioco quegli splendidi dei suoi zii a fargli la predica: tanto, loro quattrini per le doti laiche li avevano e in abbondanza.

Cingendo la cognata per le spalle e permettendole di sfogarsi piangendo contro il suo petto, Hironimo soppesò ogni pro e contro circa l’informare suo fratello di tal tremenda novità. Possibile che la sua famiglia non potesse trovare un attimo di respiro? Perché Dio si divertiva a tormentarli così?

“Innanzitutto”, esordì, massaggiando le braccia di Helena in movimenti circolari, “Zanzi gode d’eccellente salute e sicuramente crescerà nel più bel giovinotto, che si sia mai visto a Veniexia, rendendoti nonna di una cernida di nipotini! Secondo, se anche dovesse rimanere soltanto Ina, vorrà dire che diverrà un’ereditiera e convolerà a nozze importanti, divenendo madre di un’illustre discendenza. Terzo,  non è detta l’ultima parola: forse avete ripreso a tentare troppo presto per un terzo figlio, specie dopo un parto così difficile. Magari rivolgendoti ad una qualche baba curandera, si potrebbe trovare il modo di … di riuscire a portare a termine la gravidanza.”

Helena s’asciugò le lacrime col dorso della mano, ascoltando attenta e sforzandosi di mantenere uno spirito saldo.

“Quarto”, continuò Hironimo, accarezzandole i capelli, “devi dirlo a Marco: prima o poi lo verrà a sapere e credo che soffrirà di meno, se l’apprenderà da te che da terzi.”

“Quando sarà, gliene parlerò”, convenne sibillina la greca.

Non proprio la risposta che suo cognato voleva udire, nondimeno s’accontentò, reputando prematuro ogni immediato provvedimento. In questo momento, la giovane doveva badare a recuperare le forze sia fisiche che mentali,  riappacificandosi con la sua coscienza e poi forse si sarebbe confrontata col marito.

“Orsolina! Che ne hai fatto del … della scatola?”, prese in disparte il Miani l’anziana fantesca appena sceso giù nelle cucine, sfruttando la scusa d’avvertire Nardo il cuoco come madona Helena avrebbe desinato in camera sua e di prepararle del semplice petto di piccione alle erbette, giunto a del pane bianco e niente vino. Madona ha i vermi allo stomaco, aveva giustificato la peculiare richiesta.

“La gh’ho ancor meco”, sussurrò Orsolina, guardandosi furtiva attorno. “Co’ vien note, gh’ea buto en canal.”

Hironimo aggrottò la fronte, mulinando l’indice in diniego. “No, dalla a me. Lo troverò io un posto dove seppellirla.”

“No ve molesté, patron Momolo. Nol gh’ha gnanca forma d’omo”, gli sconsigliò la domestica, pur sorridendo triste, comprendendo la motivazione dietro quel caritatevole gesto.

Testardo, il ragazzo reiterò: “Ma rimane carne umana, che merita una sepoltura da umani, non di finire cibo per seppie e calamari.” D’altronde, la creaturina era così piccola, lunga nemmeno un mignolo, un angolino nascosto nell’isola di San Michele gliel’avrebbe trovato.

Similmente a Pandora, durante il tragitto, Hironimo aveva ceduto alla curiosità e aperto con mani tremanti la scatolina, contemplando a lungo quell’esserino: neanche gli pareva un infante, bensì uno di quei girini scovati negli stagni, quando da piccolo si divertiva a catturare le rane per poi portarle a Nardo acciocché le friggesse. Così piccino, così … neppure il sesso poteva determinare, cosa sarebbe stato? Un maschietto? Una femminuccia? Uno strano pensiero sorse in mente al giovane: poteva quell’amorfa creatura considerarsi abbastanza umana, da  venirle negato il Paradiso? Se ai bimbi nati morti e senza battesimo, eppure formati, veniva negata la sepoltura in terra consacrata, era degno quel girino antropomorfo di finire sottoterra? Oppure Orsolina aveva ragione, avrebbe dovuto gettarlo in canale? In fondo la natura stessa l’aveva scartato e comunque gli animali l’avrebbero ugualmente divorato, indifferentemente se fosse stato o un pesce o un verme.

Hironimo seppellì suo nipote in un angolo nascosto del giardino dell’abbazia accanto alla Chiesa di San Michele in Isola. Non gli era risultata difficile l’ammissione, anche se apparteneva ad un altro ramo del casato Miani, ugualmente i monaci camaldolesi lo avevano accolto ben volentieri, memori del generoso lascito di madona Margarita Vituri relicta Miani, acciocché vi si costruisse una cappella a Santa Maria Annunziata in memoria del defunto marito [4]. Il ragazzo si domandava se le piante lì avrebbero tratto nutrimento da quel grasso concime, crescendo rigogliose grazie ad un corpicino troppo debole per farlo da sé. Si chiese se ritornando dopo qualche tempo e annusando i profumi dei loro fiori, egli avrebbe sentito anche quello del nipote senza volto. Dafne, Mirra, Narciso, Giacinto … anche lui aveva le sue Metamorfosi in famiglia. Hironimo terminò il lavoro staccando un fiorellino dal ramo, posandolo sul tumulo, talmente piccolo da sembrare l'entrata della tana di una talpa, semicelato dalla tomba dimenticata di Stefano “il Postumo” Arpadi, marito della sua antenata Thomasina Morexini “dalla Sbarra”, duchessa di Slavonia e madre del re Andrea III d’Ungheria detto “il Veneziano”.[5]  

Orsolina, nuova complice, venne messa al corrente dell’idea del suo padroncino, di consultare qualche baba curandera onde risolvere il problema d’Helena. La massera ci meditò sopra a lungo, per poi sentenziare che sicuramente a Venezia di tali fattucchiere ne esistevano in grand’abbondanza, tuttavia giudicava più prudente cercare fuori città, specie se Marco ancora restava all’oscuro della faccenda (e qui la donna lo guardò di traverso in disapprovazione).

La fantesca pertanto consigliò i due giovani di rivolgersi a Mamma Gaia, comare levaressa e in generale fattucchiera di qualità. La sua siora Mare – aveva rivelato ad Hironimo  - ha fatto nascere i vostri fratelli .  L’unico problema rimasto era persuadere Marco a lasciarli partire alla volta della Marca Trevigiana senza porli troppe domande pericolose; a tal proposito giunse provvidenziale l’intervento di Madre, la quale aveva esplicato al figlio la sua intenzione di visitare il santuario di Santa Maria Maggiore e lì pregare dinanzi al miracoloso affresco della Devotissima Nicopeia. Il tutto mentre madona Leonora fissava severa Hironimo, un’imbarazzata Orsolina alle sue spalle, tacita ammissione d’aver spifferato il loro piano alla padrona.

A Treviso Mamma Gaia abitava poco distante da Porta San Teonisto, in quel tratto di mura dove scorreva un canale derivato dal Sile e nomato di Cantarane. Una casetta modesta, però pulita e accogliente, dove permaneva un costante odore d’erbe. Ovviamente Hironimo se n’era dovuto rimanere fuori ad aspettare, fintanto che la comare non aveva terminato la sua visita alla cognata.

“Ci rechiamo alla Madona Granda”, gli annunciò Madre una volta uscite, “vieni anche tu?”

“No, preferisco fare un giro in Piazza”, declinò l’offerta il ragazzo, ignorando l’espressione delusa della genitrice, la quale convenne mesta, incamminandosi verso il santuario assieme alla nuora e alle rispettive fantesche.

“Patron”, lo chiamò da dietro Mamma Gaia, bloccandolo, “vistò che gh’avé spetà fora fin desso, vegné drento che ve dago un giozzeto d’acquavite calda. Xé roba bona, saveu?”, gli fece l’occhiolino la donna, invitandolo ad accomodarsi davanti ad un modesto caminetto.

Il tepore della fiamma, unito a quello della bevanda alcolica al ginepro e miele, riscaldarono ogni fibra del corpo infreddolito d’Hironimo, non avendo creduto Treviso così fredda rispetto a Venezia: l’aria stessa possedeva il medesimo retrogusto ferroso delle montagne, neanche il giovane avesse ingoiate lame. La levaressa girava i ciocchi di legno con l’attizzatoio, ravvivando di tanto in tanto la fiamma, la cui luce creava soffusi chiaroscuri, conferendole una ieraticità da sacerdotessa e magari nei tempi antichi pre-romani l’avrebbero pure considerata tale, un’ancella della dea madre, Reitia potnia theron. [6] Doveva essere sulla trentina abbondante, ciononostante il suo volto non dimostrava affatto la sua età, giovanile e indecifrabile, i capelli raccolti da uno stretto sciugatorio, gli occhi vivaci e scrutatori, la bocca vermiglia e un seno prepotente a malapena nascosto dallo zendale, talmente eretto, pieno e sodo che per un fuggevole istante Hironimo fu assai tentato di nascondervi il volto e strizzarglielo fuori dal corpetto.

Il giovane uomo deglutì a disagio, girandosi dall’altra parte e dandosi mille volte del caprone infoiato.

“M’arecordo di la vuostra nassita”, ruppe Mamma Gaia il silenzio, “la siora mia Mare la gera massa vecia par viajar a Feltre, en autuno po’! Vossioria gh’aveva ‘na tal pressa d’ussir fora, che la vuostra siora Mare no la gh’ha sentio squasi gnente, chome se vu l’amavasse zà cussì tanto, da no volerghele dar alcuna pena” e rise mostrando bene una compatta fila di robusti denti straordinariamente intatti e il patrizio s’unì a lei, seppur un pelino imbarazzato dall’argomento di quella discussione. “Vuostra sorea, inveze …”, s’incupì la levaressa, chetandosi bruscamente e sputando sul fuoco la bacca di ginepro cadutale per sbaglio nella bevanda.

Hironimo sapeva d’aver avuto dei fratelli premortigli, del cui volto non poteva sovvenirsi purtroppo neanche l’ombra di un sogno, spiriti leggeri custoditi nel cuore di Madre e di chi poteva ancora ricordarsi della loro brevissima esistenza.

“Seu stà vossioria a consejar a madona di vegnir qua?”

“Siorasì.”

Mamma Gaia si sporse in avanti verso di lui, puntandogli contro gli occhi del medesimo colore del Sile, studiando immobile e imperscrutabile i lineamenti del volto del ragazzo. “Saveu? Co’ ve vardo, a me par star davant’a do omeni, on da ben et on malguajo (malvagio, ndr.), i qualli se ciapan a crognoli (pugni, ndr.) per tuorre dominio sora vossioria.”

Hironimo posò stizzito il bicchiere sul tavolo, interrompendo quello sconclusionato monologo. “Mia cognata, piuttosto. Sei riuscita a curare il suo malanno?”, le chiese spiccio.

Mamma Gaia abbandonò la sua posa indagatrice, alzandosi dalla carega e, preso il bicchiere del patrizio, glielo riempì. “Le gh’ho consejà di bevar di la camamila, par repossar i nervi. Co’ la mare la stà serena, el bocia nasse pì fassilmente. Depì, la gh’ha d’orar la Devotissima a Santa Maria Mazor, cognomata de’ Miracoli.”

Un brutto presentimento raffreddò le viscere del giovane Miani, il quale manco s’accorse d’essersi ustionato la lingua nel sorseggiare troppo in fretta la bevanda calda. Quasi gli leggesse nei pensieri, la comare levaressa aggiunse: “Vossioria, no dié la colpa al medego zudeo: el gh’ha dato ordene de ras-ciare drento vuostra cugnada a la perfetion, anca massa, azzò no la ciapasse niuna infetasion.”

Eliminando a viva forza ogni immagine mentale provocatagli dalle schiette e brutali parole della donna, Hironimo osò infine pronunciare la tanto temuta domanda: “Ma riuscirà o no a partorire un figlio vivo?”

“Nol podevo dir de no a madona”, fu la secca e al contempo compassionevole risposta di Mamma Gaia.

“Alla fine mi sorge il dubbio, se abbia o meno compiuto la scelta giusta facendo convocare il medico chirurgo”, confessò all’improvviso madona Leonora all’ultimogenito, tirandosi su la coperta di lana sulle ginocchia.

Dopocena, madre e figlio si erano trasferiti davanti al grande caminetto della loro casa a Treviso, cucendo la prima e giocherellando da solo a carte il secondo. Zanzi ed Ina avevano giocato fino all’ultimo, ricorrendo il cagnolino maltese Frisopin e rincorrendosi, finché la nonna non li aveva ricordato ch’era giunta l’ora di coricarsi. I due fantolini allora avevano baciato l’avia, la quale aveva imposto la mano sulle morbide testoline. Ottenuta la benedizione, i due bambini erano balzati addosso allo zio, che li ricoprì le gote di rumorosi baci tra una risata e l’altra. Dopodiché, sbadiglianti e stropicciandosi gli occhietti stanchi, erano stati condotti da Ufemia nella loro cameretta. Rimasti finalmente soli, ecco che madona Leonora aveva imbastito ciò che si preannunciava una spinosa conversazione.

Il giovane patrizio si girò di scatto in direzione della stanza d’Helena, là dove la sfinita cognata s’era ritirata assieme alla fantesca Cleofe appena terminato il pasto. “Perché dite questo, Mare?”

Madona Leonora cacciò fuori un pesante sospiro, tormentando tra le dita il filo di lana. “Avrei dovuto consultare Marchetto prima, si trattava pur sempre di sua moglie. Forse questa è la punizione di Dio per la mia arroganza e per aver usufruito di rimedi non molto conformi alla dottrina cristiana …”

“Mare, se fosse così, Dio dovrebbe fulminare l’intera università di Padoa, di Bologna e tutti gli atenei dove sezionano cadaveri dalla mattina alla sera.”

“Nondimeno, il parto rimane affare di donne e … e un uomo che si intromette …”

“Ha semplicemente diretto quell'incapace della comare levaressa. Inoltre, se Dio se la piglia per queste piccolezze, non merita d’esser pregato.”

“Made, Momolo!”, l’avvertì perentoria sua madre, stringendo arrabbiata gli occhi. Hironimo serrò caparbio la bocca, lo sguardo duro e fisso davanti a sé. “Sai bene come la madre di Tina sia morta di parto”, riprese madona Leonora la conversazione bruscamente interrotta.

“Certo!”, replicò aspro suo figlio, incrociando astioso le braccia al petto. “Così come so pure che al sior Pare non importò un fico secco, semmai se la levò convenientemente dai piedi in modo da potervi sposare.”

“Contrariamente alle tue malignità, il tuo sior Pare se ne dolse moltissimo: non l’amava forse appassionatamente, però non le aveva mai augurato la morte, non così giovane, a malapena ventiduenne. Un’esistenza spezzata prima ancora d’aver propriamente vissuto …”, la nobildonna abbassò il capo, rivivendo il momento in cui il feretro d’Andriana Trum Miani era stato sigillato nella sua arca. “Ci vollero anni al tuo sior Pare per riuscire a perdonarsi e per accettare il fatto che quel triste epilogo non era dipeso da lui … Quando nacque tua sorella Emilia, io lo udivo da dietro la porta che si malediva per avermi messo nuovamente incinta, malgrado gli ammonimenti sia di Mamma Gaia che della tua siora nonna. Mi vegliò giorno e notte durante l’intera mia degenza … Il mese successivo, avendo mancato la piccolina di sopravvivere, il tuo sior Pare mi domandò perdono per aver preferito la mia vita alla sua.”

Hironimo aspirò aria, soffocando il groppone in gola ivi formatosi. Con la scusa di scacciar via un ricciolo ribelle dalla fronte, s’asciugò quella lacrima traditrice che fino all’ultimo non s’era reso conto inumidirgli la guancia, sia per la sorte di quella sorella che mai avrebbe conosciuto in terra sia per l’inconciliabilità delle due immagini di Padre, quella severa e intransigente che lui ricordava e quella umana e vulnerabile nei ricordi di Madre. Quanto egli avrebbe desiderato condividere la seconda versione, invece della prima!

“Ecco ciò che io ho rivisto quella sera”, proseguì Madre, il volto pallidissimo e tirato, le mani intorcolate tra di loro, “e per nulla al mondo volevo tale destino per Marchetto, ancor di più perché lui ama la sua Helena. Perciò, mi sono detta: se esiste al mondo la benché minima possibilità di salvarla, opterò per quella soluzione! Non permetterò che mio figlio seppellisca la sua adorata moglie e il loro pargolo, biasimandosi poi fino alla fine dei suoi giorni. Perché anche qualora dovesse risposarsi, quel dolore gli rimarrà per sempre, attutito forse, ma mai completamente scomparso. Ogni volta che guarderà suo figlio, ripenserà alla sua perduta Helena.” Si passò una mano sugli occhi rossi e gonfi di lacrime non sparse. “Ho sbagliato?”, invocò soccorso al suo ultimogenito, il quale la vide così piccola e indifesa, povera donna schiacciata da tante disgrazie.

Hironimo le coprì le mani con le sue, appoggiandosi delicatamente sul petto materno. “La nostra unica colpa, Mare, sono le continue menzogne che stiamo rifilando a Marchetto. Ha il diritto di sapere quanto sta succedendo. Il male peggiore glielo abbiamo scampato, ma non possiamo costringerlo a vivere felicemente ignaro in un mondo fantasmagorico, costruito su falsità dopo falsità, nelle quali s’illude di generare figli che non riuscirà mai a veder nascere. L’ignoranza lo farà soffrire più della conoscenza. Almanco, se ne farà una ragione.”

“Mi trovi d’accordissimo, però allo stesso tempo questa rivelazione deve venire da Helena, non da noialtri”, gli accarezzò il capo madona Leonora, assai scoraggiata. “Conosci bene tuo fratello: la prenderebbe malissimo se fossimo noi a confidargli il segreto di sua moglie, invece di quest’ultima. Rischierebbero di non fidarsi mai più l’un dell’altro, vivendo da morti, il che sarebbe una prospettiva assai peggiore di quella iniziale contro cui abbiamo lottato.”

“Anche questo è vero”, convenne stancamente Hironimo, socchiudendo le palpebre e lasciandosi cullare dal ritmico scoppiettio del fuoco e il sordo ululare del vento.

 

***

 

Afferma il proverbio: il medico pietoso fa la piaga cancrenosa.

Indirettamente, tramite allusioni, frecciatine, strabuzzamenti d’occhi e torsioni del collo, madona Leonora ed Hironimo spronavano in continuazione Helena ad intavolare con Marco quella dovuta conversazione, liberandolo da dubbi e ansie sull’anomalo comportamento della moglie.

La giovane donna invece rimandava alle calende greche, approfittando del rientro di Lucha e di Carlo dai rispettivi incarichi per spingere subdolamente il marito a concentrarsi altrove, invece che su di lei. L’annuncio del matrimonio a marzo tra Marina Morexini q. sier Orsato e di Jacomo Corner del cavalier Zorzi le offrì un’ottima scusa per assentarsi da casa ed evitare così il consorte.

Per carità, da una parte Marco manifestava sollievo nel constatare quella ritrovata energica allegria in Helena, accordandole di buon grado ogni visita a casa della novizza, assieme a madona Maria Morexini Querini e a madona Querina, maritatasi l’anno addietro in sier Daniel Zustignan q. Francesco. Dall’altra, però, i suoi occhi scrutavano attentissimi ogni movimento della greca, quasi temessero un inganno e talora pareva che i due si fossero scambiati gli umori, lei solare ed espansiva mentre lui incupito e scontroso. D’altronde Helena sì aveva ritrovato il buonumore, tuttavia evitava la compagnia dello sposo, parlandogli il minimo indispensabile e stando ai pettegolezzi tra le domestiche, lei dormiva in un’altra stanza e questo senza aver consultato per niente Marco, mettendolo di fronte a decisione presa.

Non trovando quindi quasi mai la consorte a Ca’ Miani e appurato quanto l’infastidisse la sua compagnia, il patrizio aveva incominciato anch’egli a disertarla, rincasando spesso e volentieri tardissimo, quasi in contemporanea ad Hironimo, cui si giustificava ch’era dovuto trattenersi a Palazzo Ducale; ch’era stato invitato a cena da degli amici, etc. etc. tutte scuse perché l’odore di vino nell’alito suo fratello minore lo riconosceva assai bene, indugiando egli stesso in tali sgavazzi notturni.

Inesorabilmente, tra Marco ed Helena s’impose uno spaventevole gelo, il che rattristò non poco i loro famigliari, così contenti d’aver appaiato due giovani tanto innamorati l’uno dell’altro e che adesso sembravano essersi trasformati in due perfetti sconosciuti. Non litigavano, no, sebbene il Miani esibisse certe espressioni inquietanti, ogniqualvolta sua moglie gli annunciava una sua visita alle cugine acquisite o alle sorelle, sempre accompagnata da Hironimo, da lei schiavizzato a perpetuo paggio.

“Uscite?”, da un po’ di tempo Marco aveva ripreso a dare del voi ad Helena, per sommo chagrin di quest’ultima, la quale afflosciò impercettibilmente le spalle, delusa.

“Sì, mia sorella Vassilissa mi ha invitato a cena”, gli spiegò concisa la greca, aggiustandosi nervosamente lo zendale in testa. “Non ti … non vi preoccupate, Momolo mi fa da scorta”, tentò ella in maniera goffa di rassicurare il marito, indicandole suo fratello che già varcava la soglia della porta d’acqua per salire in gondola.

Se un’occhiata avesse potuto uccidere, Marco quanto a ferocia avrebbe equiparato il fu Vlad III di Valacchia, detto l’Impalatore. “Una di queste sere dovreste invitare madona Da Ponte e la sua famiglia da noi, a cena. Non sia mai ci accusino d’abusare della loro gentilissima ospitalità, visto che tanto ricchi non sono …”, sibilò velenoso l’uomo, risalendo le scale verso il piano nobile.

Helena, pur captandola, non si premurò di rispondere alla frecciatina del consorte, anche per non adirarlo ulteriormente. Avrebbe molto volentieri desiderato contraccambiare sua sorella Regina, però si vergognava e temeva che quest’ultima captasse la disastrosa deriva, che stava prendendo il suo matrimonio.

“In ogni modo anch’io farò tardi, perciò non aspettatemi stanotte”, giunse dall’alto la voce di Marco, facendo sobbalzare la greca, che corse all’inizio delle scale, incerta se raggiungerlo o meno.

“Neanche per un’ora?”

Silenzio.

“Vedremo.”

La giovane donna si morse il labbro inferiore, tormentandosi a disagio le dita. “Allora … allora divertitevi. Fate piano nel rincasare, non vorrei si svegliassero Angelos  e Christina di soprassalto …”

“Non mancherò”, rispose atono suo marito. “Servo vostro, patrona” e chiuse in via definitiva la penosa conversazione.

“Sì, sì, servo vostro …”, ripeté amareggiata Helena, sospirando profondamente. Sedutasi accanto ad Hironimo all’interno della felze, si passò una mano sulla fronte, per poi pizzicarsi esausta la radice del naso. “Ma che gli è preso?”, fu la sua domanda retorica. Ché lei conosceva benissimo la risposta.

Anche Hironimo intuiva quali pensieri stessero tormentando suo fratello; dopo tanto ed inteso ragionare, finalmente aveva capito dove avesse già contemplato quel suo sguardo arcigno e al contempo sofferente: sul volto del loro parente alla lontana, sier Christofal Moro, ogniqualvolta si menzionava sua moglie la madona Istriana Pasqualigo Moro, di cui si mormorava egli fosse terribilmente geloso e possessivo al punto che, quand’era ritornato vedovo da Cipro delle cui fortezze era luogotenente e capitano della flotta contro i Turchi, i pettegolezzi l’avevano indicato come potenziale assassino della povera donna, strangolata nel sonno - si raccontava - con tale arte da farla credere morta di cause naturali. Chiacchiere, ovviamente, salvo il dettaglio dell’ossessiva gelosia del luogotenente, quella sì che corrispondeva al vero e adesso Marco sguazzava nel medesimo sentimento.

Contrariamente però al Moro, suo fratello non dirigeva né sfogava mai la sua frustrazione contro Helena, bensì puntava direttamente all’origine delle sue disgrazie (o che lui presumeva tale), sicché Hironimo pagò di conseguenza per tutti, così come avvenne al rientro a Ca’ Miani a seguito del fastoso sponsalicio tra Marina Morexini e Jacomo Corner, tenutosi il 25 marzo 1509.

Sentendosi leggermente assetato per via delle numerose spezie utilizzate nelle abbondanti portate e maledicendo la sua tonteria per non aver ordinato ai servi di lasciargli in camera una brocca d’acqua, un Hironimo scalzo e in camicia da notte era sceso sbadigliando nelle cucine, sobbalzando dalla sorpresa nel trovarvi lì Marco, ancora completamente vestito e dinanzi al caminetto scoppiettante.

“Forse dovresti metterla giù”, consigliò scherzando Hironimo al maggiore di posare il bicchiere, dal cui odore fruttato sospettava trattarsi di vin bianco. “Al banchetto hai già alzato a sufficienza il gomito” e come suo fratello fosse riuscito a camminare dritto fino alla gondola senza incespicare, rimaneva un gran mistero. Perché vin rosso fa sangue, ma vin bianco batte alla testa.

“Embè?”, scrollò le spalle Marco, sottraendo il bicchiere dalla presa del minore, anzi, riempiendoselo di nuovo. “Non sei il custode della mia anima.”

Sospirando snervato, Hironimo si sedette accanto a lui sulla panca di legno, portando le ginocchia al petto in modo da scaldare sotto la camicia i piedi infreddoliti. “Ascolta, che noi veneziani siamo rinomati per le nostre abitudini beverecce, l’è cosa notanda in tutt’Italia. Ciononostante, credo di saper riconoscere chi beve per divertirsi e chi per affogare i propri dispiaceri. Marchetto”, gli appoggiò una mano sull’avambraccio, provocando un irritato arcuare di sopracciglio nel maggiore, “per favore dimmi cosa ti turba. Madre l’ha notato, Luchin e Carlino l’hanno notato. Ci stai preoccupando, soprattutto Helena.”

Alla menzione della moglie, Marco grugnì sardonico. “An, sì? Lo dimostra malissimo, credevo non l’importasse nulla di me.”

“Mare de diana, che follie vai mai cianciando?”, schioccò uno scocciato Hironimo la lingua, scuotendo il capo. “Ti vuole tanto bene e s’impensierisce per te.”

“Osa affermare il contrario!”, lo sfidò veemente il fratello, sporgendosi bellicoso in avanti verso di lui. “Se veramente Helena mi volesse bene, non mi fuggirebbe neanche fossi un appestato! Mia moglie evita la mia compagnia; non mi parla o cerca sempre di terminare in fretta la conversazione. Piaghe di Cristo, ha perfino disertato il mio letto!” e qui le orecchie del minore s’infiammarono, non attendendosi tanta schietta confidenza. “E per cosa questo? Che le ho fatto? In quale modo l’ho offesa? Mi sono comportato male, le ho mai mancato di rispetto? L’ho sempre lasciata libera di fare ciò che più le piaceva!”, sfogò infine Marco mesi e mesi di bile amara ingurgitata, provocando feroci e colpevoli crampi nello stomaco d’Hironimo, ch’ammetteva la sua buona dose di complicità in quell’assurda situazione creatasi. “Forse ho sbagliato io”, riprese feroce suo fratello, tracannando a grosse sorsate il vino, “forse mi sono fidato troppo, le ho concesso eccessiva libertà. Avrei dovuto vigilare meglio: come affermato dal barba Batista, la femmina cade se l’uomo attua da macaco!”

Il minore dei Miani incrociò scettico le braccia al petto. “Il sior Barba possiede una grande esperienza del mondo e sa molte cose, ma non tutto ciò che dice è necessariamente vero, giusto e buono!”, contro-argomentò il ragazzo. “Questi ultimi tempi, capisco esser stati per voi due difficili, nondimeno …”

“Lei mi tradisce, ne sono certo”, arrivò la secchiata d’acqua gelida, che lasciò intontito Hironimo per qualche istante abbondante, la bocca spalancata a causa della sua incredulità verso tale stupida supposizione. Attraverso quale assurdo e contorto ragionamento era Marco giunto a tal altrettanto bislacca conclusione? Helena si struggeva per lui, sopportando stoicamente in silenzio la sua pena per non provocarne alcuna al consorte. E quest’ultimo invece d’esigere magari una spiegazione finalmente chiara e tonda, si perdeva nell’Empireo delle congetture paradossali?

“E con chi, sentiamo?”, lo sfidò aspramente Hironimo, in pronta difesa della cognata. “È sempre in compagnia di noialtri”, aggiunse onde sottolineare l’improbabilità dell’adulterio.

Peccato, che la sua affermazione ottenne il risultato opposto e un luccichio poco raccomandabile guizzò negli occhi nerissimi di Marco, il quale piegò la bocca in una smorfia tra il ferino e il trionfante. “Tu … ho notato che tu spendi molto tempo assieme a lei …”, alluse in un sordo ringhio. “Ogni volta che Helena esce di casa, sei sempre ad accompagnarla. Anche quella volta a Trevixo … Mi pare che con te, lei si comporti in maniera molto più rilassata … e aperta … ”

“E dunque? Cosa stai insinuando?”, sibilò seccato il minore, imporporandosi le guance di sdegno. “Cospetto, non ci crederai mica la versione veneziana di Paolo e Francesca, adesso?”, ridacchiò sardonico, incapace di concepire tale grottesco paragone e sperando in una pronta smentita da parte del fratello, che invece rimase serissimo, seguitando a scrutarlo bellicosamente. “Oh Sacramento, lo pensi sul serio?”, ansimò sgomento Hironimo, sentendosi le budella attorcigliare.

“Io non penso niente!”, ruggì Marco, battendo il bicchiere con tale foga sul tavolo, da spaccarne il fondo.

“Bugiardo!”, s’inalberò Hironimo, balzando giù dalla panca, i pugni serrati e vibrando di collera da capo a piedi. “Avanti dillo! Guardami dritto in faccia e abbi i coglioni di chiedermi se mi scopo tua moglie!”, lo provocò fuori di sé.  Sciocco! Avrebbe dovuto immaginarlo, avrebbe dovuto leggere lo sguardo torvo e obliquo del maggiore, la fronte aggrottata fino ad unire le sopracciglia in un’unica linea, nonché il modo in cui s’ingobbiva simile ad un ghepardo pronto a balzare sull’ignara preda. In quante occasioni aveva contemplato quell’espressione assassina, ogniqualvolta Marco s’appropinquava all’attacco?

Di fatti Hironimo, pur possedendo riflessi eccellenti, si ritrovò sbattuto contro il muro, l’avambraccio di suo fratello sulla gola. “Ed è vero?!”, sbraitò, le iridi nerissime che cambiavano incessantemente di posizione, quasi stessero leggendo avide e disperate ogni minuscolo rictus facciale del ragazzo, in cerca di conferma o smentita. “Lo fai?!”, ripeté e soltanto perché il maggiore era palesemente alticcio e perché in fin dei conti avrebbe potuto scansarlo con un pugno allo stomaco, che Hironimo si calmò, rispondendogli serissimamente ironico:

“Certo! Mi scopo tua moglie davanti a Madre, a Tina, ai nostri e suoi parenti, davanti a tutta la fottuta servitù per intrattenerli! Elencami ogni circostanza, in cui lei ed io abbiamo potuto rimanere soli! Avanti!”, e non ricevendo alcuna risposta – perché non sussisteva – egli delicatamente afferrò l’arto di Marco, sciogliendosi senza fatica da quella presa. Riaccompagnò suo fratello accanto al caminetto, porgendogli stavolta un bicchiere d’acqua e servendosene anch’egli. Solo in quel momento s’accorse di come le sue mani stessero tremando. “Mi addolora sapermi da te così poco stimato, da giudicarmi capace di tal tradimento nei tuoi confronti!”, gli confessò mestamente, umiliato da quella mancanza di fiducia. Non lo si poteva di sicuro descrivere un ragazzo d’oro, un figlio modello, ma insidiare la cognata no, quella carognata neppure sotto tortura l’avrebbe il giovane Miani compiuta. Amava troppo Marco per pugnalarlo così alle spalle e verso la greca provava unicamente l’innocente affetto riservato ad una sorella.

Leggendovi null’altro che sincerità negli occhi del minore, Marco perse ogni slancio aggressivo, sgonfiandosi quasi sulla panca e coprendosi il viso con le mani. “Perdonami, non stavo ragionando lucidamente”, ammise in un sospiro, massaggiandosi le tempie.

“Questo mi pare ovvio”, sbuffò Hironimo. “Ti sei calmato?”

Suo fratello lo ignorò, vociando il dubbio che lo tormentava da un bel po’ di tempo: “Helena mi nasconde qualcosa, lo sento.”

“Forse lei si è semplicemente stufata delle tue ingiustificate gelosie! Non vuol trasformarti in motivo di pettegolezzo, come sier Christofal Moro.”

“Ti ha mai confidato qualcosa?”, giunse la non tanto inaspettata domanda, la quale in verità sarebbe stato auspicabile fosse stata posta direttamente alla moglie, che a suo fratello minore.

Oddio, Hironimo era assai tentato di spifferare la faccenda per intero a Marco e così salvare capre, cavoli e matrimonio e ritornare a respirare liberamente. Ciononostante si ricordò della promessa fatta ad Helena, del discorso di Madre circa una futura perdita di fiducia del maggiore nei confronti della consorte. Inoltre egli avrebbe dovuto anche confidargli del motivo del viaggio a Treviso, dei problemi fisici della moglie, nonché dell’intervento segreto del medico giudeo, una sfilza di menzogne e omissioni concatenatesi tra di loro fino a formare un soffocante cappio al collo. Se stupidamente il giovane Miani aveva permesso di lasciarsi coinvolgere tra le loro beghe, doveva perlomeno mantenere una sicura neutralità.

“Riguardo a ciò che l’affligge, non mi ha rivelato nulla a riguardo.”

Sicché Hironimo tacque e mentì, augurandosi d’aver optato per la soluzione migliore. 

 

***

 

Giunse la tremenda guerra, la quale come arrivò a distruggere per un soffio Venezia, ugualmente rischiò di minare il matrimonio di Marco ed Helena fino al punto di non ritorno.

Già durante i mesi precedenti al conflitto, il patrizio aveva cessato ogni gelosa ostilità nei confronti della moglie, intensificando le ore fuori casa e addirittura dalla città lagunare, con la scusa di valutare alcune terre nell’entroterra miranese, ch’aveva intenzione d’acquistare. Il suo atteggiamento in generale s’era di molto tranquillizzato e anzi, manifestava un’oscura soddisfazione che non garbava affatto ad Hironimo, ché gli ricordava fin troppo bene la medesima compiaciuta espressione, quando da ragazzino Marco gongolava trionfante a seguito di una marachella particolarmente crudele e riuscita alla perfezione ai danni del malcapitato di turno. Ma certo che sto bene, perché non dovrei?, gli rispondeva innocentino e beffardo, in quelle occasioni in cui il minore s’informava della salute del suo spirito. Almeno, pareva essersi riconciliato di facciata con Helena, dimostrandosi sempre gentile e cortese verso di lei, eppure l’intero concerto suonava falso, stonato.

“Lo sospettavo da qualche tempo, ma ormai ne sono sicuro”, sentenziò sier Batista Morexini, eseguendo un gambetto di donna sulla scacchiera. Quel pomeriggio, non sopportando più l’aria mefitica a Ca’ Miani, Hironimo aveva cercato rifugio nel palazzo dello zio, onde distrarsi. Sennonché, alla fine, lo stesso aveva finito per discutere del fratello, esplicando al parente i suoi dubbi.

“Cosa, sior Barba?”

“Ch’el Marchetto gh’ha la soa pezzetta” (ha l’amante/mantenuta, ndr.)

Hironimo si bloccò fulminato, rimanendo comicamente col gomito a mezz’aria e il cavallo gli scivolò dalle dita, rimbalzando sulla scacchiera e rotolando per terra. “Avete … avete la sua confidenza?”, la buttò pateticamente sul ridere, la gola invece secca e il cuore che gli batteva la chamade in petto. Come aveva potuto Marco? Una pugnalata in pieno petto avrebbe doluto meno ad Helena, una volta appresa la squallida notizia.

“Non ho bisogno d’essere il suo confessore per capirlo”, replicò ineffabile il senatore, raccogliendo il pezzo perduto e cedendolo al nipote. “Tra criminali ci si riconosce”, asserì pragmatico, da vero esperto in materia.

Il giovane abbassò il capo, stordito e rifiutandosi di credere della bassezza di quel gesto. Perché lo sapeva che Marco non tradiva sua moglie per lussuria, lo conosceva più di se stesso. No, si trattava di una vendetta bell’e buona, per umiliare la moglie che, secondo lui, l’aveva rifiutato.

E mentre sier Batista in neanche tre mosse gli faceva scacco matto, lamentandosi della distrazione del nipote, Hironimo indugiò in quella sua indecisione, se giudicare suo fratello o estremamente puerile o straordinariamente crudele. Pregò ardentemente che non si trattasse di madona Maria Baxadona da Molin, zia della giovane sposa di suo cugino Carlo Morexini, Maria da Molin. La moglie di sier Hironimo da Molin q. Antonio e Marco erano stati tra i più tenaci sostenitori di quelle nozze tra il Morexini e la fanciulla, nipote per via di madre del celebre letterato sier Alvixe Foscarini ed unica erede del fu sier Amadio da Molin q. sier Antonio, un’unione che avrebbe combinato prestigio culturale con prestigio economico. Forse gli occhi di Hironimo erano foderati di malizia, ma aveva notato un’eccessiva complicità tra madona Maria Baxadona da Molin e Marco, dietro la scusa ufficiale di persuadere il recalcitrante cugino Carlo a sposarsi.

Sarebbe stata una prospettiva orribile, ritrovarsi non solo l’amante in casa, ma pure legata a vincoli di parentela, rovinando in un colpo solo ben tre matrimoni. Per fortuna Padova dissipò questa sua angoscia, trovando conferma inoltre nella sua seconda teoria, che Marco tradisse la moglie più per ripicca che per altri lascivi sentimenti.

Certo, Hironimo stesso in quel periodo non nutriva particolari sentimenti cavallereschi verso il gentil sesso, ferito e umiliato dal tradimento della sua domina, sicché non giudicò la donna cui suo fratello s’accompagnava, non all’inizio almeno. In fin dei conti si trovavano in guerra, ogni giorno poteva corrispondere all’ultimo, perché non godersi quei pochi piaceri rimastigli e al diavolo tutto il resto?

Poi, però, osservando meglio la coppia adulterina, Hironimo sospettò in quei due una complicità nata ben prima di Padova. Non era strano che alcuni patrizi si fossero portati le prostitute o le concubine da Venezia – meglio un lupo familiare ad uno nuovo -  ma il modo in cui Marco interagiva con la sua ganza, in cui la baciava e se la stringeva,  manifestavano una confidenza di vecchia data e più profonda del classico rapporto fornitore-cliente. Era dunque lei, lo strumento della rivalsa su Helena?

Ipotesi che, una volta rientrati vittoriosi nella città lagunare, si rivelò fondata, poiché Marco seguitava a frequentare quella donna anche quando, tecnicamente, i suoi servigi non erano più richiesti. Hironimo tuttavia si disinteressò in parte a tale questione, più impegnato prima ad organizzare i rinforzi richiesti da Lucha, poi a consolare una disperata Madre quando giunse la notizia della caduta di La Scala e della cattura del primogenito da parte delle truppe spagnole, che l’avevano ceduto ai tedeschi al fine di deportarlo prigioniero in Alemagna.

Soltanto durante una notte particolarmente ventosa di fine ottobre, il giovane patrizio osò menzionare ad alta voce i suoi sospetti a Marco, nell’intimità dello studio di Padre.

Naturalmente suo fratello si scocciò, neppure degnandosi di sollevare lo sguardo chino sulle missive che stava compilando. “Quali sono le tue priorità, Momolo?”, s’informò laconico. “Arrangiare il riscatto per nostro fratello o discutere su chi mi porto a letto?”

“Dimmi almanco che non si tratta della Baxadonna …”

“Della chi?”, fece genuinamente confuso suo fratello. Dopodiché avvampò. “Non osare infangare così la reputazione di Marietta, come ti perm- …”

“Oh-oh, senti, senti. Della Marietta non sapevo che foste già arrivati ai diminutivi. Quindi oltre alla tua ganza, ti scopi anche la moglie del povero sier Hironimo? Magari quando vi recate in visita dalla loro nipote Maria … Mi immagino la faccia della zia Morexina – tutta Messe e rosari -  quando apprenderà in che razza di bordello le abbiate trasformato la casa!”

“Taci, idiota! Non sai niente e ti permetti pure di parlare? L’unica ragione, per la quale m’atteggio cortesemente verso Mariet- madona da Molin, è per convincerla a fidanzare sua figlia Catharina con Anzolo. È lei che comanda in casa: se ottengo il suo beneplacito, mio figlio otterrà per sé una moglie molto ricca. Quindi sì, non nego di esser sembrato forse un po’ troppo in confidenza con madona Maria, ma non mai ho iniziato con lei alcun disonesto commerzio!”

“Ah no? T’ho visto con che occhio lubrico la guardi, tutto cicci-coccò, galante, spiritoso e pure la prendi per mano quando sale dall’imbarcadero! Le miagoli dietro melenso e lusinghiero, peggio del gatto quando scorge un uccellino sul balcone! Credi che venga da Mazorbo?”

“Ti giuro che non l’ho sfiorata neppure con la punta delle dita! Voleva ch’io persuadessi nostro cugino Carlo a sposare sua nipote Maria, perché devi sempre pensar male?”

“E la femena a Padoa?”

“Un altro discorso.”

“An! Quindi confermi di aver tradito Helena? Per quale motivo, poi, visto che non hai prove della sua infedeltà nei tuoi …”

“Non giudicarmi”, lo crocifisse feroce Marco cogli occhi. “Anche tu sei un adultero, non te lo dimenticare”, gli ricordò pungente, chetando in via definitiva Hironimo, il quale si morse l’interno della guancia, colto in fallo, scordatosi infatti del piccolo dettaglio di come anche la sua Lena fosse stata sposata. “Sussiste una ragione, per la quale il nostro sior Barba cornifica dalla mattina alla sera la nostra siora Amia?”

“Non certo per vendicarsi di lei.”

Marco appoggiò la penna, intrecciando le dita sotto il mento. “E se ti dicessi che la mia amante è incinta?”

“Ti risponderei che sei un pezzo di merda”, ribatté prontamente Hironimo, le nocche bianche a causa dei pugni serrati, irritato dalla nonchalance con cui suo fratello pronunciava quell’annuncio, quasi si trattasse di una piccola stravaganza e non invece di una stilettata a quella povera donna di sua moglie.

“Perché?”, inquisì dolcemente velenoso suo fratello, il medesimo tono usato nella Sala del Tormento verso gli indagati e i testimoni.

Perché per anni tua moglie mi ha pianto sulla spalla, visitando in pellegrinaggio ogni chiesa in ginocchio per un improbabile miracolo e dannandosi l’anima per te, perché teme di deluderti, di provocarti un dolore acutissimo semmai tu dovessi scoprire che lei non può portar a termine alcuna gravidanza.

“Che decisione hai preso riguardo al bambino?”, chiese infine Hironimo, imponendosi la calma, il respiro irregolare dall’ira che gli graffiava dentro il petto.

“Lo prenderò in casa, ti pare? È mio figlio, non voglio cresca tra la plebe.”

“Ti supplico di non farlo.”

“Preferisci che l’abbandoni alla Pietà?”

Il ragazzo scosse il capo. “Non potrebbe piacerti la reazione d’Helena.”

“Pensi che mi spaventino gli strilli di una donna?”, rise malevolo Marco, intingendo il pennino nel calamaio e riprendendo la scrittura interrotta.

“Non strafare nella vendetta, potrebbe ritorcerti contro”, l’avvertì sibillino Hironimo e suo fratello assunse un’espressione genuinamente confusa. “Presenta l’infante come mio, tanto oramai sono ufficialmente la pecora nera di famiglia, non si stupiranno in caso dovessi portare un illegittimo a casa …”, tentò debolmente di sdrammatizzare, ottenendo purtroppo l’effetto contrario, ché il viso di Marco si rabbuiò, torvo.

“Non giocare al martire, adesso.”

Da complice involontario della cognata, Hironimo si ritrovò di punto in bianco a dover mentire anche per il fratello, in uno spietato fuoco incrociato. Servitore di due padroni, per non far torto a nessuno, soffriva lui per ambedue.

“Che ore sono?”, chiese d’un tratto Helena, tenendo l’orecchio all’eco lontano della campana della chiesa di San Vidal.

“Le cinque di notte”,  (circa le 23 attuali, ndr.) rispose prontamente Madre.

La greca chiuse il ventaglio di carte che teneva in mano, mordicchiandosi infelice il labbro inferiore. Un’altra notte disertata dal marito ed Hironimo sapeva benissimo perché. “Momolo, ti ha detto per caso …?”

“An … forse, forse sarà andato a casa di sier Nicolò Trivixan, sai, il novizzo di tua sorella Chiara …”, mentì celere suo cognato, fissando tanto intensamente le figure delle sue carte, che sembrava volerle bucare con lo sguardo.

“Mi pareva d’aver sentito, che invece fosse ospite di vostro cugino Carlo; sua moglie ha invitato il suo barba sier Hironimo da Molin e la sua bellissima moglie, madona Maria …”, commentò  allusiva Maddaluzza Miani, sorridendo eloquentemente ad Hironimo, che la crocifisse feroce.

“Donca è vero quel che si dice: che siete sorda e udite il contrario di tutto!”, soffiò ostile, pigliandosi un pronto rimprovero da sua madre.

“Capisco”, sospirò mesta Helena. E sforzandosi di sorridere: “Se non v’incomoda, io mi ritirerei, sono molto stanca”, annunciò tramite un teatrale sbadiglio e si pose velocemente in piedi, senza neppure premurarsi di contare i punti ottenuti nella partita.

“Ma che diamine sta succedendo tra loro due? Pensavo avessero chiarito”, si sfogò Lucha – liberato nel frattempo e rimpatriato a Venezia da qualche settimana – mentre Hironimo lo aiutava a svestirsi e ad indossare la camicia da notte, i nervi del gomito destro spezzati e giacente pertanto l’intero braccio immobile ed inutilizzabile.

“Marchetto aspetta un figlio da una sua amante.”

Lucha si voltò di scatto verso il minore. “Cosa?! È impazzito?”, si soffocò per poco con la sua medesima saliva. “Come … come …?”

“Che ne so io?”, lo interruppe snervato Hironimo, contento in parte d’alleviare quel suo gran peso dallo stomaco. “S’è ficcato in testa di punire a tutti i costi la freddezza d’Helena, ignorando che così danneggia soltanto se stesso!”

“Ma … ma … perché? Non comprendo. Parevano così felici …”

Hironimo invece capiva e avrebbe tanto voluto cercare consiglio nel maggiore. “Le spezzerà il cuore.”

“E lei gli spezzerà l’osso del collo”, commentò sarcastico Lucha, salendo cautamente sul letto. “D’altronde, chi è causa del suo mal, pianga se stesso”, dichiarò e si tirò su la coperta con la mano sinistra, forse alludendo alla ferita di guerra, la quale l’avrebbe reso un invalido fino alla fine dei suoi giorni. “Come sta la Tina? L’ho vista tanto dimagrita e pallida …”

“Non molto bene; non riesce né a mangiare né a dormire di notte. Se soltanto non fossimo in guerra … potremmo mandarla a curarsi alle terme di Abano …”

“Domani, di ritorno da Palazzo Ducale, andrò a visitarla.”

“T’accompagno, se vuoi.”

“Perché no? Sono talmente stufo di vedere queste facce da funerale … E nostro fratello non aiuta.”

Perché per piangere, sarebbero di sicuro scorsi fiumi di lacrime, altroché.

Hironimo fu il primo a tenere Scipio tra le braccia, innamoratosi speditamente di quella faccina grinzosa nei cui lineamenti ritrovava una copia sputata di Marco, tranne negli occhi grigi ch’erano quelli di Padre. Si chiese se i nipotini abortiti naturalmente da Helena gli sarebbero assomigliati, avessero avuto l’opportunità di sopravvivere.

Da quanto appreso, la madre della puerpera non le aveva neanche concesso di vedere il neonato, acciocché non s’affezionasse e dunque evitando di soffrire per la separazione. A giudicare dalla borsa di denaro appoggiata sul tavolo e dall’espressione soddisfatta della donna, questa aveva concesso a Marco di divertirsi con sua figlia dietro solenne promessa di procurarle una dote e, ç’allait sans dire, d’allevare il pargolo nato da quella relazione extraconiugale.

Cullando lievemente il nipotino e coprendolo bene sotto la pelliccia, Hironimo si dispiacque che una creaturina così bella dovesse esser stata concepita per motivi così gretti. Gli promise di amarlo e di supportarlo ora e per sempre, anche se l’intera Ca’ Miani avesse finito per odiarlo, in primis la sua matrigna.

“Piange troppo”, osservò apprensivo Marco, seduto di fronte al fratello e al figlio, il quale suggeva iroso e affamato il mignolo offertogli dallo zio. “Non vorrei corrispondesse ad un segno di poca salute …”

“Macché, ha semplicemente ereditato il tuo caratteraccio. Scoltame ben: poiché questo putelo strilla più imperioso d’un generale, già ch’è un Aemilianus perché non lo chiamiamo Scipio?”, gli propose invece Hironimo e miracolosamente il piccino si calmò, pur fissando di traverso i due uomini, accusandoli di negargli la meritata pappa.

“Scipio mi piace assaissimo”, convenne Marco e il minore ritrovò sul suo volto la medesima contentezza ed orgoglio, che gli aveva letto la prima volta che gli era stato messo in braccio Zanzi. Il neopadre accarezzò col dorso dell’indice la guanciotta paffuta e morbida del suo terzogenito, anch’egli rimasto inesorabilmente vittima dell’incantesimo del coccolo puttino.

Perché il destino s’era accanito così crudelmente, impedendo che Scipio nascesse da Helena? Quanti anni di amarezze li sarebbero stati risparmiati!

Lucha e Carlo, alla vista del nipote, l’accolsero ben volentieri, sebbene biasimando nel loro intimo il fratello per i suoi modi poco ortodossi di procurarsi quel terzogenito che la moglie si rifiutava di dargli. Madona Leonora, dal canto suo, sorreggeva estasiata l’infante, cui non parve vero d’appoggiare finalmente la testolina sul petto di una donna: perlomeno si facevano progressi e presto quei gaglioffi gli avrebbero offerto una gonfia poppa da cui suggere. Ciononostante, Madre seguitava ad osservare ansiosa il figlio, meditando sulla reazione della nuora e indecisa sul da farsi, giacché mai trovatasi in una situazione simile: l’unico illegittimo (riconosciuto) suo fratello Batista l’aveva portato in casa da scapolo, ergo evitando questioni con la consorte; pace all’anima sua, Anzolo in questo le aveva dimostrato fedeltà assoluta. Come avrebbe reagito, in caso si fosse trovata nei panni d’Helena?

Certamente madona Leonora non sarebbe stata così stoica e composta, quando la giovane greca venne presentata al figliastro. Pallidissima in volto e torcendosi le dita manco volesse spezzarle, Helena aveva ascoltato in silenzio assoluto le circostanze della nascita di Scipio, per poi rintanarsi nelle sue stanze e l’eco dei suoi singhiozzi riecheggiò fino alle fondamenta di Ca’ Miani e la cosa andò avanti per un paio di giorni, al punto che da fuori ci si chiedeva se fosse morto qualcuno in casa.

“Perché? Perché mi hai dovuto fare questo?!”

“Perché? E me lo chiedi? Dopo quello che tu per anni hai fatto a me?”

Al terzo giorno, i pianti si tramutarono in urla, che si definirono in feroci accuse in un misto tra greco e veneziano e nessuno osava mettersi in mezzo ai due furiosi contendenti, i quali oltre che al rivale accusavano anche i supposti complici di doppiezza e abiezione delle più nefande, incuranti del veleno sputato a destra e a manca, il loro unico scopo rimaneva quello di ferire quanto più possibile, fregandosene altamente dell’eventuali conseguenze sull’unica vittima del loro dissapore.

“Io non so di che cosa tu mia stia colpevolizzando … Ti sono sempre stata devota e leale;  quest’umiliazione non me la meritavo! Come hai potuto?! Mi hai giurato fedeltà nel corpo e nell’anima! Dannato spergiuro! Schifoso puttaniere!”

“Bugiarda, lurida gattamorta levantina! Vuoi davvero conoscere la tua colpa? Dunque ascolta bene e non m’interrompere: tu mi hai rinnegato come sposo, mi hai ridicolizzato davanti a tutta Veniexia e magari pure ti sei divertita a decorarmi la testa!”

“Non è vero! … Crudele, non è vero … ti amo, ti ho sempre amato … non puoi pensarlo veramente …  Ti ho dato due figli! … ”

“Bel modo d’esprimere il tuo amore! Non ne hai più voluto sapere di me, lo neghi forse? E siccome non sono quel genere di marito, che con la forza si prende i suoi diritti coniugali, pure ti permetti di lagnarti che ho preferito un’amante alla violenza?”

“Avresti potuto dirmelo … Ne avremmo potuto discutere …”

“Tu per prima non l’hai voluto fare!”

“Tu non capisci!”

“E FAMMI CAPIRE PERDIO!”

Ché se Scipio se ne stava ignaro e beato tra le braccia robuste della balia o nella sua cuna, Zanzi ed Ina erano quelli abbastanza maturi da ascoltare e in parte capire le cattiverie scagliatesi contro tra i genitori. In più occasioni Hironimo aveva scovato i nipoti accoccolati dietro la porta da dove provenivano le grida furiose di Marco ed Helena, tappandosi il cinquenne bimbetto le orecchie, gli occhioni nerissimi colmi di lacrime. La quattrenne sorellina lo fissava inebetita, chiedendo soccorso con lo sguardo, incapace di consolare il maggiore. Allora, lo zio si inginocchiava e li abbracciava forte entrambi, Zanzi che gli inumidiva lo zipone ed Ina che si aggrappava a lui mentre li conduceva in cucina, lontani da quell’inferno.

“Perché si devono dire queste brutte cose?”, gli singhiozzava il fantolino contro il petto. “Perché non fanno la pace? Perché Mama non vuole vedere il nostro fratellino?”

Perché i vostri genitori si sono comportati da deficienti ed io dal Re dei Deficienti per aver taciuto la verità fin dall’inizio, gli spiegò mentalmente il giovane Miani, accarezzandogli il capo e baciandoglielo a mo’ di scusa per il male fatto indirettamente all’adorato nipote.

“Ed io no, sior barba?”, gonfiò le guance Ina, il suo immaturo cuoricino già distratto dalla gelosia verso le attenzioni rivolte al fratello.

“A te due, perché sei la principessa di casa!”, l’accontentò Hironimo, accomodandola sulle ginocchia, ritrovandosi ben presto oberato dal peso di Zanzi, che pure lui non voleva esser da meno.

“Tu lo sapevi.”

Hironimo sospirò stancamente: bene, al fine Helena aveva confessato e come in ogni processo, dopo gli imputati ora toccava ai testimoni.

A seguito di una visita informale da parte del Signore di Notte del sestiere di San Marco, allertato per via degli immondi schiamazzi provenienti da Ca’ Miani e venuto ad accertarsi che nessuno si stesse ammazzando, i due coniugi avevano cessato di gridarsi dietro ogni genere di recriminazione, piombando di conseguenza il palazzo in un inquietante silenzio. L’inarrestabile malattia di madona Crestina e le pratiche per la supplica di Lucha d’ottenere dal Maggior Consiglio la castellania di Castelnuovo di Quero avevano impedito ai fratelli Miani di discutere oltre sull’argomento, rimandandolo a data da destinarsi.

“Hai già interrogato Mare, Luchin e Carlino?”, si sedette annoiato Hironimo di fronte a Marco, sfinito dalla triste visita alla sorellastra Crestina, ogni giorno sempre più magra e patita, perfino il semplice parlare le risultava stancante.

Dal modo in cui suo fratello tamburellava nervosamente le dita sul tavolo, intuì di sì. “Tu sapevi tutto, più di chiunque altro. Perché non me l’hai detto?”, non gli addolcì Marco il farmaco, ponendogli brutalmente secco quella domanda sortagli immediatamente in testa, dopo la confessione della moglie. “Il medico giudeo; gli aborti naturali; perfino la visita alla comare levaressa a Trevixo … Eri al corrente di ogni cosa, in sostanza quasi il suo confessore …”

“E come tale, legato al vincolo di segretezza.”

“Siamo fratelli”, gli ricordò Marco, stranamente senza astio.

“Ed ambedue stupidi”, ammise amaramente Hironimo, umettandosi le labbra secche. “Io più di te. Hai ragione: non dovevo mentirti, avrei dovuto informati su quanto stava accadendo. Ti ho stoltamente sottovaluto, avrei dovuto nutrire più fiducia nei tuoi confronti. Ma ti giuro che non l’ho fatto per malizia, bensì per proteggerti da una grave ingiustizia, che nessun genitore dovrebbe mai soffrire. Non lo capivo allora, l’ho compreso grazie a Mare”, disse, contemplando i palmi delle sue mani. Ovvero di seppellire un figlio, tuo figlio

Marco allungò il braccio, afferrandogli il polso delicatamente. “Helena mi ha domandato perdono per il suo comportamento e oggi, per la prima volta, ha preso in braccio Scipio. Mi pare si piacciano e anche Zanzi ed Ina sono contenti della nostra riappacificazione”, gli confidò malinconico. “Ho rassicurato mia moglie, che non ha nulla di cui rimproverarsi, piuttosto che fosse lei ad accettare le mie scuse. Mi sono comportato da puerile idiota, ho peccato d’adulterio, intraprendendo un’inutile quanto imbarazzante vendetta, contro cosa, poi? Contro ombre partorite dalla mia mente”, si fustigò impietoso e mollò la presa dal polso del minore, intrecciando nuovamente le dita. “Vi ho accusato ingiustamente e me ne pento. Voi volevate soltanto risparmiarmi un grande dolore.”

Hironimo s’esibì in un sorriso tirato. “Siamo fratelli”, ripeté le parole pronunciate poc’anzi da Marco. “E tra fratelli ci si perdona tutto, no? Anch’io posseggo la mia buona dose di colpa in questa vicenda e vorrei aver parlato prima, evitando così di farti soffrire inutilmente e perdere tempo prezioso.”

E pronunciato il suo mea culpa, l’ultimogenito Miani ritornò a studiare le sue mani, ch’avevano scavato furtive e rapide nella nuda terra una buca dove posare quella scatoletta, ricoprendola e livellandolo l’humus finché il dislivello non era stato appianato. Ogni anno Hironimo si recava al monastero di San Michele in Isola, accarezzando le piante che crescevano sopra la piccolissima tomba improvvisata, staccando un dente di leone o una margherita selvatica e portandosela seco, interpretandolo come un regalo del nipote sconosciuto, un modo per ricordarsi di ciò che poteva esser stato.

Avrebbe dovuto confessarlo a Marco? Oppure lasciargli immaginare il destino di quel figlio mai nato?

Osservando, mesi dopo, dalle finestre di Castelnuovo di Quero la primavera sbocciare e ricoprire di scarmigliati fiori gli alberi, le rive della Piave e i prati del Cesen, Hironimo giunse alla conclusione ch’era meglio così: inutile oberare suo fratello, da lui ferito per l’ennesima volta, di un ulteriore peso specie riguardo ad una creatura, che nulla possedeva d’umano, almeno nell’aspetto fisico.

Quella tristezza, quel magone, quel rimpianto verso una vita sfumata senza possibilità di vivere e mettersi alla prova, egli li avrebbe affrontati da solo a monito e penitenza per le sue bugie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

***************************************************************************************************

Questo è la terzultima digressione del Nostro, arrivando così alla conclusione del suo percorso di meditazione su di sé e del suo passato.

Sulle dinamiche coniugali di Marco ed Elena Miani abbiamo chiaramente romanzato, poiché poco o niente si conosce, specie sulla vita della greca, di cui è riportata soltanto la data di matrimonio (1503) e che è morta prima del 1519.  Sua sorella Regina sarà la madre del futuro Doge Nicolò da Ponte (per maggiori informazioni, vedi note cap.16)

Dall’unione della coppia nacquero due figli, Angelo il Giovane e Cristina, mentre Marco ebbe un illegittimo appellato Scipione, di cui però s’ignora la data precisa di nascita, ma stando al testamento del padre, quando quest’ultimo fece testamento per la prima volta non doveva aver ancora compiuto i 18 anni. In caso Scipione dovesse esser nato dopo la morte di Elena, mi scuso allora con Marco per come l’ho trattato in questo capitolo ^^’ Ma questo è quel che si merita, per non averci fatto reperire l’esatta data di morte di sua moglie …

Quanto alla nascita di Cristina, non ho trovato alcuna data, però ho ipotizzato essere figlia di primo letto, poiché nel testamento Marco scrive: la  (la seconda moglie) prego etiam li sia ricomandato Anzolo et Crestina. Fosse stata Cristina figlia di secondo letto, trovo decisamente incomprensibile che dovesse raccomandarla a sua madre.

Inoltre, ho ipotizzato essere stata la ragazza in età da marito al momento della morte di Marco: infatti, nelle prime versioni, egli voleva che o si facesse monaca o che vivesse da “pizochera” (cioè da zitella beghina) per non pesare economicamente sulla famiglia, per via della dote laica, e ciò il prima possibile. Poi però, Cristina dovette esser cresciuta in una bella signorina e Marco, forse sentendosi in colpa, istruì il figlio Angelo di a) darle una piccola rendita di 25 ducati annuali se fosse rimasta nubile; b) 300 ducati di dote religiosa se avesse preso i voti; c) 1000 ducati in contanti se si fosse sposata. Quale delle tre opzioni Cristina scelse, purtroppo rimarrà un mistero.

Anche storicamente vera è l’antipatia tra Dimitri Spandolin e Marco, giunta allo zenit con una causa del suocero contro il genero, quando questi gli fece confiscare tutte le merci trasportate da Costantinopoli, assieme all’altro genero dello Spandolin, Nicolò Trevisan.

Riguardo alla questione di Maria Basadonna, noi vogliamo fino alla fine credere che sia stata solo una collaborazione a fin di bene (il matrimonio della nipote Maria da Molin e del cugino Carlo Morosini) e null’altro, sebbene ammettiamo che non si possa escludere l’ipotesi che, ad un certo punto, lei e Marco Miani fossero stati amanti.

Più che scoprire, infatti, come Maria Basadonna fosse la zia di Maria da Molin Morosini (nulla di strano, oggi come allora mogli e mariti si trovano più facilmente nel cerchio delle conoscenze) a sconcertarci furono le parole di Carlo Morosini, ossia che fu “ben astretto da ser Marco Miani et la moglie di ms. Hieronimo da Molin” a sposarsi. (E poi dicono che erano le ragazze quelle sempre prigioniere nei matrimoni combinati.) Capisco l’ansia della zia di contrarre nozze vantaggiose per la nipote, ma Marco che c’entra in tutto questo? Perché lui e la Basadonna hanno insistito? Coincidenza? Forse sì, forse no, perché, rimasto vedovo di Elena Spandolin attorno al 1517-18, Marco Miani si risposerà proprio con Maria Basadonna, rimasta anch’ella nel frattanto vedova. Tuttavia, appena divenuto diciottenne, suo figlio Angelo si sposerà con la sorellastra Caterina da Molin, ereditando un cospicuo patrimonio, essendo rimaste infatti solo lei e sua cugina Maria da Molin Morosini le uniche eredi dei da Molin. Tanta fretta di ammogliare il figlio ci ha fatto credere che Marco avesse già da tempo in progetto quest’unione, unendo l’utile al dilettevole e sposandosi la vedova così d’avere sia la dote di Maria sia in custodia Caterina, sottraendola ad altri eventuali pretendenti. Due piccioni con una fava, insomma. Curiosamente, tale procedura alla famiglia da Molin non era estranea, giacché la nonna di Caterina da Molin Miani (Caterina da Canal) era stata anche la sorellastra del nonno Antonio da Molin, figlia di primo letto della matrigna di quest'ultimo, Cristina Franceschi.

 

 

Un po’ di noticine:

[1] Andrea da Ponte, detto il “Zotto”, fratello minore del futuro Doge Nicolò da Ponte (1491-1585) divenne assieme a Carlo Corner, Alvise Malipiero, Alvise Bembo e Marco Antonio da Canal uno dei più attivi diffusori della Riforma Protestante a Venezia. Malgrado la palese protezione del fratello Nicolò – anch’egli di posizioni anticlericali e antiromano convito, specialmente infastidito dall’Indice dei Libri Proibiti più per il danno economico inferto alle case editrici veneziane, che per vera e propria ortodossia – Andrea da Ponte venne tuttavia troppe volte inquisito dal Sant’Uffizio da soprassedere all’infinito e la sua abiura al cattolicesimo lo costrinse infine nel 1560 ad espatriare nella calvinista Ginevra dove morì nel 1585, poco prima del fratello maggiore. Per la sua fuga e le sue idee protestanti, il Da Ponte subì una pesante damnatio memoriae, utilizzando i suoi avversari la sua malformazione fisica per sottolineare la sua natura diabolica ed eretica.

[2] A conferma della fiscalità circa la legittimità del sangue dei rampolli patrizi, presentiamo degli estratti di documenti relativi al Nostro:

Doc 1: “Anno 1506, giorno 1 dicembre. La nobildonna Leonora Morosini, vedova del nobile sier Angelo Emiliani q. sier Luca, presentò e fece inscrivere al concorso della palla d’oro, per intervenire al Maggior Consiglio, il nobil giovine Girolamo suo figlio, nato da essa e dal predetto suo legittimo consorte, e giurò essere egli dell’età di vent’anni compiuti, ed essere suo figlio legittimo nato come sopra; sotto le pene stabilite dalle leggi tanto per l’età come per la legittimità, se risultasse diversamente. Inoltre i nobili uomini sier Jacopo Barbaro q. sier Bartolomeo e sier Benedetto Contarini q. sier Ambrogio giurano la legittima nascita del detto giovine per pubblica voce e fama dal legittimo matrimonio dei predetti coniugi. Questo alla presenza dei magnifici missieri e Avogadori di Comune Taddeo Contarini, Giovanni Corner e Giovanni Badoer, dottore e cavaliere.”

E malgrado tutto, fin quasi al 1919 si pensò esser nato il nostro nel 1481 (a Venezia la targa commemorativa porta questa data), confondendo la data con quella di suo fratello Marco … sigh …

[3] Andrea Vendramin divenne doge il 5 marzo 1476, data che noi ci siamo presi la licenza poetica d’attribuire alla nascita del figlio naturale di Battista Morosini. Andrea Morosini era veramente soprannominato “Vendramino”, come riportato dal Sanudo in occasione della sua morte nel 1526.

Ora, se costui agli inizi del Cinquecento era un mercante già affermato in Siria e addirittura amico dello Shah di Persia, molto probabilmente era nato prima del matrimonio del padre, avvenuto nel 1481. Quindi, c’è chi crede alle coincidenze e chi non ci crede, ma guarda caso c’è un doge ante l’81 che si chiama “Andrea Vendramin” e il nostro uomo si chiama “Andrea” e fa “Vendramino” di soprannome. Un omaggio al Doge? Mancanza di fantasia? A meno che lo zio Battista non abbia fatto il furbetto con una delle numerose figlie del Doge, leggasi: Felicita, Orsa, Clara, Taddea, Angela ed Elena, sebbene sia improbabile come ipotesi giacché le signore erano o più anziane del Morosini o al massimo sue coetanee. Il Titta s’è portato il segreto nella tomba, mi sa.

[4] Nel suo testamento Margherita Vitturi Miani del ramo di San Cassiano (per niente imparentati coi Miani di San Vitale, anzi lo stemma è pure diverso) aveva lasciato presso i Procuratori una grossa somma da donare all’abbazia dell’isola di San Michele, acciocché costruissero una cappella dedicata alla Vergine Annunziata in memoria del defunto marito Giovanni (o Giambattista) Miani. La donna morì nel 1455, però la “Cappella Miani/ Emiliani” verrà costruita soltanto nel 1528 su progetto di Guglielmo dei Grigi detto Bergamasco e restaurato da Jacopo Sansovino nel 1560. È una cappella esterna a pianta esagonale con una cupola in pietra d’Istria, con all’interno tre altari ornato ciascuno da tre pale in marmo: Annunciazione, Adorazione dei Magi, Adorazione dei Pastori ad opera dello scultore Giovanni Battista da Carona, il quale scolpì anche le statue di Santa Margherita e San Giovanni Battista, collocate nelle nicchie esterne alla cappella.

[5] Tommasina Morosini “dalla Sbarra” (1250 – 1300) era la figlia di Michele Morosini e di Agnese Corner di Andrea; nel 1264 sposò Stefano “il Postumo” Arpadi, figlio di Beatrice d’Este e d’Andrea II d’Ungheria (colui che spodestò Ladislao figlio di Costanza d’Aragona, poi moglie di Federico II di Svevia). Stefano morì nel 1271 a Venezia e venne seppellito a San Michele in Isola. Il figlio suo e di Tommasina, Andrea III detto “il Veneziano”, assunse il potere nel 1290 e chiamò tre anni dopo la madre come amministratrice della Croazia, Dalmazia e Slavonia. Tommasina morì improvvisamente nel 1300, forse avvelenata. Uno dei suoi fratelli, Giovanni Morosini, fu il padre di Tommasina Morosini moglie del Doge Pietro Gradenigo e suocera del primo signore di Padova, Giacomo I da Carrara, che aveva sposato sua figlia Elisabetta Gradenigo. Giovanni Morosini sarà inoltre il capostipite del ramo da cui discende Leonora Morosini, madre del Nostro.

[6] Reitia potnia theron = Reitia signora degli animali era il corrispettivo della grande Dea Madre presso i Paleoveneti, molto venerata e i cui templi molto spesso sorgevano presso i fiumi.

 

 

  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Hoel