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Autore: Francine    01/02/2021    3 recensioni
Milo Papadopoulos, rampante chef, re dei social network e host di innumerevoli programmi sulla cucina, ha indetto un concorso per trovare un dolce che incarni la vera essenza di S. Valentino. E un bel giorno nella sua casella di posta elettronica trova la candidatura del Cafè Verse-Eau, elegante locale di Parigi, a Montmartre, a due passi dal Sacro Cuore e dal Carousel des Abbesses.
Peccato che Étienne Arnoul, il giovane proprietario del Cafè, non solo non badi molto alla promozione sui social, affidandosi al traffico di turisti che affollano Montmartre, ma non abbia neppure candidato il proprio locale alla singolare tenzone...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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2.


 

«Scusi, ma aspetto una persona.»

Rodrigo avrebbe voluto dire queste parole al tizio che, con la coda dell'occhio, aveva scorto avvicinarsi barcollando, e che adesso si stava accomodando al suo tavolino, senza neppure avere avuto la decenza di chiedere permesso o per favore. Era questo ad innervosirlo maggiormente. Se fosse stato seduto al lungo tavolo al centro del locale, quello perennemente invaso dagli studenti fuorisede, non avrebbe battuto ciglio. Si sarebbe sistemato il cappotto sulle ginocchia e avrebbe lasciato spazio all’altro. Invece lui aveva scelto di non avvicinarsi neppure al tavolo centrale. Troppo via vai. Troppa gente che l’avrebbe urtato passando. Aveva scelto appositamente un tavolino libero di fronte alla vetrata per godere di qualche raggio di sole, per non doverlo dividere con qualche altro avventore e per pensare un po’ ai fatti suoi mentre rivedeva per l’ennesima volta i propri appunti e confrontava la pletora di fogli volanti, sparpagliati davanti a sé, con quanto appuntato sul laptop.
Per certe cose occorre ordine. Concentrazione. Calma. E la gente ha la deprecabile abitudine di sbirciare oltre il bordo della propria tazza per chiedere di cosa si tratti. Anche i riservatissimi inglesi. Come se chi è in fase di revisione avesse il tempo e la voglia di fare conversazione.
Ma quando Rodrigo alzò lo sguardo, la frase gli morì in gola, restandosene stoicamente attaccata alla punta della sua lingua.

«Milo?», chiese invece, gli occhi che si andavano allargando per lo stupore.
«Zitto, per carità!», rispose il diretto interessato da dietro un paio di lenti fumé in aperto contrasto con la giornata uggiosa. «Non mi hanno ancora riconosciuto...»
Rodrigo sbatté le palpebre un paio di volte. Che Milo Papadopoulos fosse un tipo appariscente era cosa nota sin dai tempi dell’università. Lo si sarebbe visto meglio in un gruppo rock, magari come frontman, piuttosto che dietro ai fornelli a cucinare. Eppure, da bravo testardo, Milo aveva dimostrato che c’era un cervello vivo e pulsante sotto quella massa improponibile di capelli, che al momento teneva nascosti - secondo lui - sotto un berrettaccio ai ferri che aveva visto tempi migliori. Era il resto dell’insieme a boicottare senza troppe cerimonie qualsiasi velleità di passare inosservati: trench, pantaloni della tuta, scarpe da ginnastica - spaiate - e pesante sciarpa a righe- stile Quarto Dottore - che gli penzolava senza molta convinzione alle spalle. Come se Milo avesse una coda. Come se fosse un clochard.
«Che ci fai qui?», gli domandò Rodrigo, animato da sincera curiosità. Non doveva prepararsi per l’ennesima registrazione di questo o di quel programma? Non aveva una riunione con quel povero santo martire di Adriano che gli curava il sito ed il blog?
«Mi sono preso una pausa caffè», rispose Milo guardandosi attorno da dietro il bavero alzato del suo trench. «Anzi, permetti?»
Rodrigo allontanò il proprio bicchiere dalla portata dell’altro e sospirò.
«Non dirmi che sei scappato ancora una volta...»
«Non sono scappato!», sibilò Milo.
«Davvero? Perché il linguaggio del tuo corpo dice tutt’altro...»
«Senti, abbiamo poco tempo e io devo parlarti di una cosa seria», gli disse, inchiodandogli lo sguardo con i suoi occhi azzurro carico. Come i tetti delle case affacciate sull’Egeo, in perpetua competizione con le onde del mare e l’immensità del cielo. «Se si accorgono che sono io, è finita. Lo so io e lo sai tu.»
Rodrigo si sfilò gli occhiali, li posò con cura sul legno che profumava di cera d’api e si massaggiò la radice del naso.
«Milo», ribatté, «siamo in uno Starbucks. Quella lì», proseguì, indicando la chiesa bianca in fondo allo slargo su cui si affacciava il locale, «è la cattedrale di Saint Paul.».
«Quindi?»
«Quindi, il tuo piano fa acqua da tutte le parti. Signore Onnipotente! Non potevamo sentirci più tardi?»
«No. Perché tu non rispondi al telefono. Oppure lo lasci staccato. E a casa non ci sei.»
«Non funziona l’ADSL», disse Rodrigo stringendosi nelle spalle. «Potevi mandarmi un messaggio su Whatsapp. Una chiamata vocale.»
«No, non potevo», commentò l’altro. E tu ne avevi le tasche piene di qualsiasi cosa stessi facendo, pensò Rodrigo.«Senti, quest’affare pizzica da morire, io devo parlarti di una cosa importante e abbiamo poco tempo.»
«Perchè? L’Interpol ti sta dando la caccia?»
«No, non l’Interpol.» Pausa. «Shaina.»
Rodrigo deglutì a vuoto. «No, senti, io non voglio andarci di mezzo. Sto lavorando e non voglio che lei scuoi vivo anche me.»
«Nessuno scuoierà nessuno», promise Milo, e la velocità con cui quelle parole uscirono dalla sua bocca convinsero Rodrigo dell’esatto contrario. «Adesso vado a prendermi un caffè. Poi torno qui. Tu mi ascolti. E poi mi fai sapere che ne pensi della mia proposta.»

Quindi Milo si alzò e si diresse a grandi passi verso il bancone. In quel momento, il display dello smartphone di Rodrigo si illuminò e apparve il viso sorridente di Adriano, abbracciato a Shaina.
«Sì?»
«È lì con te?»
«Adriano...»
«Ruy, voglio solo sapere se è lì con te o se non è finito chissà dove a fare chissà quale stronzata.» Pausa. «Shaina lo sta cercando per tutta la città. Non voglio che le venga un...»
«Sì. È qui.», rispose a mezza bocca. «Siamo allo Starbucks davanti a Saint Paul. Dacci mezz’ora, prima di avvisare Shaina, va bene?»
Adriano accettò e riattaccò.
Rodrigo si concesse uno sguardo distratto alla piazza alle sue spalle. Di lavorare, ormai, non se ne parlava, non fino a quando Milo non gli avesse sciorinato la sua ennesima idea - che per i comuni mortali era una richiesta d’aiuto camuffata all’occorrenza - nei minimi dettagli, e lui non l’avesse accontentato.
Sempre se nel frattempo Shaina non fosse piombata nel locale come un’arpia particolarmente incazzata, per afferrarlo per un orecchio e riportarlo ai propri doveri. C’era poco da fare: prima avrebbe ascoltato la sua ennesima follia, prima sarebbe potuto tornare ai suoi appunti. I libri non si revisionano da soli, e se voleva avere anche solo una possibilità di fare una bella figura con la casa editrice a cui voleva proporre il manoscritto, questo doveva essere impeccabile. Curato fin nei minimi dettagli.
Chi mai acquisterebbe una guida turistica raffazzonata?
Chi mai la pubblicherebbe?
Nessuno. Nessuno di abbastanza serio che poi pagherebbe per il lavoro fatto, pensò Rodrigo gettando un’occhiata distratta a Milo, che, in attesa del proprio caffè, sorrideva e scherzava con la cassiera.
E per fortuna che non volevi dare nell’occhio, pensò.
Niente, Milo non ce la faceva proprio a non flirtare. Era nella sua indole. Sarebbe stato come chiedere al sole di non brillare per cinque minuti, o al mare di non battere e levare sul bagnasciuga.
Rodrigo sperò - con tutto il cuore e con tutta l’anima - che Shaina entrasse sul serio nel locale come un'arpia particolarmente incazzata e se lo portasse via di peso. Almeno la sua giornata non avrebbe subito altri contraccolpi. Invece, no. Invece Milo, preso il proprio caffè e inforcati di nuovo gli occhiali da sole, tornò indietro, si sedette e pose le mani sul tavolo.

«Eccoci qui», disse, scoperchiando il bicchiere termico e lasciando che il suo Americano raggiungesse temperature accettabili.
Rodrigo incrociò le braccia. «Sono tutto orecchie.»
«Checcè? Hai fretta?», chiese Milo accavallando le gambe.
Rodrigo gli indicò nell’ordine: i propri appunti; il laptop; i suoi occhiali da lettura. Quindi inarcò le sopracciglia come a dirgli «Secondo te?». E poi lo disse: «Secondo te?» - ché Milo, alle volte, giocava a fare il finto tonto, e in quel caso occorreva usare la scure e andare dritti al sodo.
«Una pausa caffè non ha mai ucciso nessuno.» Non ancora, pensò Rodrigo. Milo prese un sorso, si lasciò scivolare il caffè sulla lingua e l’ingoiò. «Ci voleva...»
Poi, senza porre altro tempo in mezzo, abbassò le lenti e gli incatenò lo sguardo nel suo. «Ho una proposta per te. Una proposta di lavoro. Per cui, stammi a sentire molto attentamente.»
«No.»
«Non ho ancora detto mezza sillaba», gli fece notare Milo.
«So già quello che stai per chiedermi», rispose Rodrigo tamburellando le dita sul tavolo. «Hai bisogno di qualcuno che ti tiri fuori dal pantano in cui ti sei infilato...»
«Il solito esagerato!»
«… ma quel qualcuno non posso essere io.»
Secco e lapidario. Come una pietra tombale.
«Ma perché no, scusa?», chiese Milo, mostrandogli i palmi delle mani, in segno di innocenza.
Rodrigo strinse le dita, come ad invocare pazienza. «Perché sto lavorando. Lo vedi questo casino? Entro fine mese deve essere pronto per essere spedito all’editore. Ti sembra anche solo lontanamente pronto
«Non puoi inviare tutto ad un’agenzia?», domandò Milo, prima di bere un altro sorso di caffè. «Ce ne sono di bravissime che penserebbero a tutto loro. Correzione di bozze, impaginazione...»
«Sì, certo. Come no?», commentò Rodrigo. «Peccato che queste cose costino, e costino anche care. Chi me lo paga, il lavoro di un’agenzia? Tu?»
«Sì.»
Altrettanto secco e altrettanto lapidario.
Rodrigo rimase perplesso a guardarlo mandar giù un altro sorso di caffè. Aveva commesso un errore, lo sapeva. Se lo sentiva sottopelle. Nell’anima. Però la tentazione fu troppo forte lo stesso. «Scusa, come hai detto?», chiese, sapendo di stare entrando nella gabbia del leone colle sue proprie gambe.
«Che ti pago io l’agenzia per la correzione di bozze, l’impaginazione… insomma, quello che ti serve per inviare il manoscritto all’editore.» Sorriso sfrontato, poi aggiunse: «A proposito, cos’è?».
«È quel vecchio progetto», rispose Rodrigo.
«Quello che stavi portando avanti con...»
Milo tacque. Si era spinto troppo in là. Poteva non aver nominato Aiolia, ma il guaio era fatto. Il fantasma dell’ex fidanzato di Rodrigo si era manifestato in mezzo a loro, e Rodrigo ebbe la spiacevole sensazione di percepire il timbro speziato del suo dopobarba.
«Scusami. Non volevo.»
«Lo so», rispose a mezza bocca. «Non c’è niente di cui scusarti», aggiunse, anche se il resto del corpo gridava l’esatto opposto.

Sì, il progetto era proprio quello. Era sempre quello. Lo stesso a cui stava lavorando con il suo ormai ex fidanzato. Aiolia. Il ragazzo che aveva vinto le sue reticenze e l’aveva fatto capitolare, per poi scusarsi - con le lacrime agli occhi - di essersi sbagliato ed essersi scoperto clamorosamente, prepotentemente, immarcescibilmente etero. Dopo tre anni e mezzo di relazione, un gatto, due traslochi, ed un progetto editoriale abortito. E me lo chiami sbaglio?, pensò Rodrigo, con una nota di amarezza.
Quanto tempo era passato da che Aiolia aveva fatto i bagagli e se ne era andato a Stoccolma da quella Leaphya, Lydya o come diavolo si chiamava?
Un anno, il giorno di San Valentino.
Ricominciare a vivere era stata durissima. Aiolos lo aveva aiutato, gli aveva fatto da stampella. Ma Aiolia restava prepotentemente annidato nel suo cuore e nella sua vita. Come un fantasma da scacciare - da esorcizzare - una volta per tutte. Altrimenti non avrebbe potuto voltare davvero pagina. Per questo Rodrigo si era deciso a prendere il toro per le corna e a mettere la parola fine a quello stramaledetto progetto. Per chiudere quella parte della sua vita in una scatola assieme ad una cospicua dose di sassi, e gettarla in fondo ad un pozzo, senza la più remota possibilità che un bel giorno potesse tornare a galla.
E anche per dimostrare a se stesso - e a quello stronzo di Aiolia - che lui ce l’aveva fatta.
Che non aveva bisogno di lui. Che poteva campare e avere successo anche - e soprattutto - senza di lui.
Che.
Che.
Che.

«Qual era, la città?», domandò Milo, ricatapultandolo al presente, ad un’uggiosa giornata di fine gennaio, e ad un tavolino invaso di carte, fogli e foglietti in uno Starbucks a due passi dalla Cattedrale di Saint Paul.
«Parigi», soffiò via Rodrigo.

Sulle prime, era sembrata una genialata l’idea di cominciare una serie partendo proprio dalla città più romantica del mondo. La conoscevano come le loro tasche, per via di quei mesi - gli ultimi di felicità, prima che nelle loro vite inciampasse Quella Là - passati da Aiolia nel V arrondissement per quella borsa di studio. Ma poi, uscito di scena - sgattaiolato via - Aiolia, per Rodrigo era stata una vera e propria sfida scrivere qualcosa di accattivante su di una città che avrebbe volentieri raso al suolo in uno schiocco di dita. Non per Parigi in sé, ma perché ogni vicolo, ogni strada, ogni piazza e ogni abbaino blu stinto gli ricordavano Aiolia, il suo modo di ridere, il suo disordine e il sentore del suo dopobarba.
Ecco perché aveva scritto quella guida a distanza. Ecco perché aveva accuratamente evitato di recarsi sul posto, chiedendo ad amici, amici di amici e semplici conoscenti di avvisarlo di eventuali cambiamenti avvenuti in città.

«Perché?»
«Perché possiamo prendere due piccioni con una fava.»

Rodrigo sbatté le palpebre. Sapeva di starsi avventurando in un pertugio troppo stretto, che, anzi, stava infilando di propria sponte il piede nella tagliola che gli avrebbe stretto la caviglia in un abbraccio mortale, fino all’osso; ma non poteva farci niente. E Milo era bravissimo nell’attirare a sé la propria preda. Anche troppo.
Così, Rodrigo chiese: «In che senso?».
E Milo sorrise.
«Nelle prossime tre settimane io devo registrare un programma con Gordon. E partecipare ad una cosa con quel tizio italiano… quello con gli occhiali, hai presente?» Rodrigo fece cenno di no con la testa. «Fa niente. Poi ho le puntate del reality da registrare. Una puntata di Cucinando con le Stelle, due servizi di moda, una comparsata a La Prova del Cuoco, e il sito. Più un’altra mezza dozzina di cose che adesso non ricordo.»
Povera Shaina, pensò Rodrigo, con un moto di genuina simpatia nei confronti di quella ragazza. «Tu lavori troppo», commentò bevendo il proprio caffè, ormai freddo.
«Lo so», ribatté Milo. «Shoko me lo ripeteva in continuazione.»


Fu la volta di Rodrigo di chiedere scusa. Shoko. Capelli rossi, aria sbarazzina, grandi occhi sognanti e carattere di ferro. Se ne era andata all’improvviso, tre anni prima, falciata da un motociclista mentre attraversava la strada, e se il dolore aveva un colore, era quello degli occhi di Milo ogni volta che si parlava di lei. La sua personalissima cicatrice. Quella che riprendeva a fare male e a tirare quando lui meno se l’aspettava, quando credeva di non pensarci più; quando s’illudeva di esserne ormai guarito. Magari in una notte di pioggia disperata, o quando il sole splendeva tiepido nei pomeriggi di aprile.
Milo fece un gesto, come a scacciare via una mosca fastidiosa.
«Senza contare la promozione del libro che uscirà a tra due giorni.» Milo sospirò. «Adesso capisci perché avevo bisogno di questa pausa caffè?»
«Sicuro», rispose l’altro. «Ma io che c’entro in tutto questo? Il libro te l’ho scritto, e...»
«Non si tratta del libro. Quello è una bomba, e tutto grazie a te.» Milo gli piazzò lo sguardo dritto nel suo, e Rodrigo non potè fare altro che annegare in quel mare azzurrissimo e limpidissimo. «Si tratta del concorso. Quello mensile. Per quanto Adriano si occupi del sito e Shaina mi tenga in carreggiata, non ho il dono dell’ubiquità. Non ancora.»
«Quindi?»
«Quindi, che ne diresti di una vacanza di tre settimane a Parigi? Tutto spesato, s’intende», aggiunse, prima che l’altro potesse anche solo pensare di aprire bocca. «Sai come funziona, no? Tu vai lì, vedi l’ambiente, scrivi le recensioni e le invii ad Adriano. I locali sono tutti e tre nello stesso quartiere...»
«Arrondissement», Rodrigo si sentì in dovere di correggerlo; e Milo seppe che era fatta. Bastava poco, pochissimo; una spintarella appena.
«Al resto, penso io.»
«E come farei con il libro?»
Milo si strinse nelle spalle.
«Quello che fai nel tuo tempo libero non è affar mio. Io ti pago per andare in ricognizione al posto mio», ribatté. «E poi, vuoi mettere raccogliere notizie di primissima mano sul posto?»
«Quelli di Albatros...»
«Albatros! Bah!», esclamò Milo, dando una manata sul tavolo. Qualche testa si voltò nella loro direzione, per sincerarsi che fosse tutto a posto. E per fortuna che eri in incognito, pensò l’altro. «Quella casa editrice colerà a picco entro l’anno. Lasciali perdere.»
Rodrigo fu tentato di chiedergli cosa mai ne sapesse lui, ma si limitò ad assottigliare lo sguardo e a fissarlo con insistenza.
«Non mi sono impicciato perché sei testardo come un mulo», rispose Milo. «E se non ci sbatti le corna contro, non sei contento. Ora, io te l’ho detto, poi sta a te. Nei tuoi panni, lascerei perdere la Albatros Edizioni e cercherei qualcos’altro.»
«E chi, sentiamo?», lo rimbeccò Rodrigo. «Non c’è la fila alla mia porta, nel caso non l’avessi notato...»
«Può occuparsene Shaina», e l’espressione di genuina sincerità sul volto di Milo assicurò a Rodrigo che aveva fatto i compiti a casa e si era premurato di trovare una casa editrice interessata al suo progetto. Altrimenti non avrebbe messo in piedi tutto questo casino, pensò Rodrigo. «Noi ti mettiamo in contatto con loro, poi ve la vedete da soli. Tanto per mettere le cose in chiaro.»
Altrimenti non avrei mai accettato, vero?, si disse Rodrigo. Si sporse in avanti, fissò Milo dritto nelle palle degli occhi e poi, sottovoce, ribatté: «Chiarissimo. Ora, prima che arrivi Shaina e ci scuoi vivi, a tutti e due, mi racconti cosa vuoi che faccia? Esattamente. Nei minimi dettagli.».


   
 
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