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Autore: MaikoxMilo    08/02/2021    2 recensioni
La serie principale di Saint Seiya dagli occhi di Sonia, allieva di Milo. La sua vita, il suo percorso, i suoi ricordi che si intersecano e coesistono con la vita dei Cavalieri d'Oro al Santuario di Atene prima, dopo e durante la Battaglia delle 12 case fino ad arrivare al 2011, il nuovo corso per tutti, la conseguente rinascita.
Dal cap. I:
“Ti manca tuo fratello, vero?”
La fisso imbambolata per qualche secondo... giusto, mio fratello Camus! Ecco il perché di questo mio malessere, ecco a cosa stavo pensando prima, a lui... come ho potuto scordarmelo, anche se per pochi, brevi, istanti?!
“Sì, ma tu come lo sai?”
La ragazza mi sorride ancora una volta, sedendosi poi vicino a me.
“Sono tutte uguali le persone che soffrono la perdita di qualcuno, affettiva, o più banalmente fisica, è irrilevante .. si mettono in disparte e guardano il vuoto, sperando di rivedere il volto del proprio caro. Lo capisco bene, sai? Milo era così quando ha perso Camus nella battaglia delle Dodici Case...”
Per comprendere meglio la storia, è necessario aver letto la mia serie principale: "Passato... presente... futuro!", buona lettura!
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Cygnus Hyoga, Kraken Isaac, Nuovo Personaggio, Scorpion Milo
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
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Capitolo 18: Il devastante potere del Kraken

 

 

 

“Che diavolo è successo?! Hyoga! Isaac!” chiese Camus per l’ennesima volta, allarmato, scambiando furtive occhiate agli allievi, mentre adagiava il corpicino di Sonia sul divano e si chinava su di lei, scostandole la frangetta. Si accorse che la mano gli tremava per la paura, cercò di calmarsi.

“N-non lo sappiamo, Maestro! E’ come se… se il ghiaccio fosse imploso da sotto, l-lei è stata colpita dalle schegge di vetro e ha perso i sensi! L’ho afferrata al volo e… e...”

“Da quando il ghiaccio implode da solo, Hyoga, in questa stagione, poi?! Non avete visto nient’altro?!”

Camus sembrava furibondo, probabilmente era preoccupato da morire per la piccola e reagiva con rabbia per averle permesso di farsi così male, il biondo lo sapeva bene, ma continuava a non darsi spiegazioni sull’incidente, sentendosi in colpa per non essere stato in grado di ripararla prima, di fare qualcosa di più concreto, di proteggerla, insomma. Eppure, poco prima che accadesse, l’aveva percepita quell’ombra sinistra che si muoveva sotto i loro piedi, come uno squalo, ma non c’era stato il tempo per nient’altro.

“I-io non lo so, Maestro...” ammise, prostrato oltre l’inverosimile, ricercando difficoltosamente lo sguardo di Isaac, che tuttavia fissava sgomento le manovre di Camus per liberare la piccola dal pesante giaccone.

“Va bene, non ha importanza adesso, andate a prendere delle bende, del disinfettante, qualcosa per tenerla al caldo, veloci!”

I due allievi non se lo fecero ripetere due volte e corsero fuori da soggiorno alla ricerca di quanto richiesto.

Camus si morse il labbro inferiore nel vedere le condizioni della piccola, non sembrava ferita troppo gravemente, ma aveva di sicuro sbattuto la testa e respirava male, affannata, infreddolita. Le manine, tolti i guanti, sembravano già due blocchi di ghiaccio...

“Sonia… Sonia, mi senti?” le chiese, provando ad accarezzarle la guancia per valutare se rispondesse agli stimoli, ma la ragazzina produsse soltanto un debole lamento, quasi del tutto incosciente.

“Maledizione… - sibilò fra i denti Camus, correndo a toglierle il maglione con il collo alto per riuscire a farla respirare meglio, perché boccheggiava – Coraggio, piccola, tu sei forte, lo sei sempre stata!” provò ad incoraggiarla, posizionandole le gambe sopra i cuscini, prima di baciarle teneramente la fronte.

Occorreva un intervento immediato, perché era lampante che la ragazzina avesse subito uno shock non da poco, c’era il rischio che non si riprendesse più. Rifiutando quell’ipotesi con uno spasmo tumefatto, Camus si fece coraggio, apprestandosi a riutilizzare i poteri che gli derivavano dall’essere uno Sciamano Guaritore. Essi lo avrebbero spossato più di quanto già non fosse, ma la posta in gioco era troppo alta, per cui, senza darci peso, privando la piccola dell’ultima maglia, le posò dolcemente una mano sul petto, che si muoveva irregolarmente, prima di chiudere a sua volta gli occhi e far scaturire una lucina dal palmo, che subito irradiò la piccola. Il gesto, come era nelle sue aspettative, mozzò anche il suo di respiro.

Servivano molte energie psico-fisiche per curare un essere umano, in più, con un corpicino così minuto come quello della ragazzina, bisognava stare ancora più attenti. La raccolse con l’altro braccio, tenendole la testa sollevata, stringendosela poi al petto nudo. Le palpebre della piccola si mossero appena, agitate, prima di rilassarsi al contatto con le sue labbra, che si erano di nuovo posate sulla sua pelle. La cullò, cercando di farle percepire il calore del suo corpo, le parlò con voce dolce, quasi melodiosa, ondeggiando appena con il busto per tranquillizzarla.

I danni in sé non sembravano irrimediabili. Il procedimento avrebbe richiesto forse meno tempo se Camus non fosse già stato minato dalle sue precarie condizioni fisiche, che lo fiaccavano non poco… non aveva comunque importanza, il risultato lo avrebbe raggiunto comunque, portando la piccola a rilassarsi e lasciarla abbandonarsi al sonno.

C’era però qualcosa che lo impensieriva in quell’ispezione volta a far star meglio Sonia, e non erano i danni esterni, bensì quelli interni, come se un qualcosa di orrendo e oscuro si fosse avvinghiato alla sua anima e non volesse più lasciarla andare. Quell’essere dai contorni non ben definiti e le movenze sinistre... l’Acquario lo aveva già percepito in altre circostanze, una in particolare. Rabbrividì istantaneamente, percependosi la gola secca e il respiro dispnoico. Lentamente ciò che era davvero successo veniva a galla, rabbuiandogli il viso e irrigidendo di riflesso il suo corpo. Serrò la mascella, sforzandosi di riportarsi al controllo: non era quello il momento per dimostrarsi debole, doveva riprendere in fretta le redini.

“Va’ via!” disse semplicemente, quasi ringhiando, mentre l’oscura presenza, a quelle semplici parole rise di gusto.

Tu non hai abbastanza potere, non qui, non adesso, Camus dell’Acquario… sei troppo debole!

“Va’ via!”

E se non volessi, e se…

“Non sprecherò altre parole con un’oscenità come te, ho detto di andare VIA da lei!” calcò le ultime parole, con una punta di rabbia.

D’accordo… tieniti la piccola, se ci tieni tanto, esigerò ALTRO, di ben più prezioso!

Così disse, dileguandosi istantaneamente. Camus si trovò a trarre un profondo respiro, mentre, con mille e più premure, riadagiava Sonia sul divano, finalmente assopita, la testa e le gambe leggermente sollevate rispetto al busto, il respiro tornato quasi del tutto regolare. Si ritrovò a sorridere stancamente, sentendosi sfinito, rifiutando però di lasciare il suo fianco. Automaticamente le sue dita si mossero verso di lei per accarezzarla e, nello stesso momento, di riflesso, la piccola, avvertendo la sua mano, alzò debolmente il braccio per tentare di stipulare un contatto con lui.

“Sei al sicuro, frugoletta, andrà tutto bene! Dormi ora, al resto ci penso io!” le sussurrò con dolcezza, accompagnandole il braccio giù e girandole delicatamente il volto per farla stare più comoda.

“Ma-maestro, n-noi, ehm...”

Dallo stipite delle porta erano tornati gli allievi, Hyoga addirittura, con in mano una coperta, dei medicinali e dei cerotti, si era permesso di compiere qualche passo verso il divano, salvo poi fermarsi, imbarazzatissimo, appena li aveva scorti.

Camus buttò un occhio prima a lui e poi ad Isaac, ancora dall’ingresso, lo sguardo altrove, le guance imporporate, al pari di Hyoga, che, al culmine del disagio, pensando solo ad essere utile, si era avvicinato senza particolari riguardi, almeno finché non l’aveva vista. Abbassò quindi lo sguardo sulla piccola. E comprese.

Era chiaro e lampante il motivo di quel turbamento improvviso, non c’era bisogno nemmeno di tante spiegazioni, semplicemente ricoprì il corpicino di Sonia con il maglione che aveva precedentemente levato, cercando al contempo di apparire più naturale e pratico possibile.

“Avete portato l’occorrente?”

“S-sì, ehm, tutto ciò che… che c’era in dispensa e...” annaspava il biondo guardando dappertutto e in nessun posto, non sapendo se avvicinarsi o rimanere lì, o ancora tornare indietro e far finta di non aver visto… niente...

“Va bene così, Hyoga, grazie. Mi occuperò io delle sue ferite, voi andate pure in camera vostra!”

“Maestro, non possiamo…?”

“NO, Isaac! - gli era uscito un tono più freddo del normale, mentre il suo sguardo saettava, come avvertimento, verso quello dell’allievo – Hai già fatto abbastanza!”

Poche parole, secche, ma efficaci, l’occhiata tagliente aveva lacerato in pieno il ragazzo, portandolo a fremere e a stringere i pugni. A vuoto.

“Maestro, Isaac voleva solo...” Hyoga tentò di difendere il fratello, percependo la tensione tra loro farsi sempre più accentuata, ma Camus non sembrava affatto disposto a incanalare un dialogo con loro.

“Non occorre il vostro aiuto, la posso medicare da solo, inoltre… - prese una breve pausa, tornando a guardarla per poi discostarle un ciuffo dalla fronte con le dita – è una ragazzina, non è il caso che la vediate nuda. Nessuno di voi è più un bambino, sarebbe estremamente imbarazzante anche per lei sapere di essere stata vista così!”

“Ma… ma voi siete stanco! - gli fece notare ancora il biondo, deciso a scalzare via l’imbarazzo per essere d’aiuto al suo mentore – Non sarebbe il caso di…?”

“Quindi pensi che io non sia in grado di fare da solo perché ferito? E’ questo che vuoi insinuare, Hyoga?!”

Al solito offrire un aiuto a Camus significava colpirlo nell’orgoglio. Era così difficile comunicare con lui...

“N-no, certo che no...”

L’allievo abbassò lo sguardo, colpito dal suo tono di voce. Cercava di controllarsi il più possibile in loro presenza, ma era lampante che qualcosa avesse destabilizzato il maestro, rendendolo a sua volta teso. Hyoga guardò di straforo Isaac, il quale, passato l’imbarazzo, continuava a fissare a vuoto un punto non ben specificato del pavimento, la mente lontana da tutto e tutti. Intestardirsi era sempre riuscito meglio a lui, ma in quel momento appariva vinto, prostrato oltre l’inverosimile, sconfitto su tutti i fronti… ed era una visione estraniante.

“Sei in pensiero per Sonia? Non ti preoccupare, Hyoga, il peggio è passato, non è in pericolo di vita. Su, andate a riposare anche voi, qui ci penso io!” riprese parola poco dopo Camus, con una punta di dolcezza in più.

“Ci chiamerete, se qualcosa non dovesse andare?” insistette, imprimendo il suo sguardo azzurrino in quello blu del maestro.

“Cosa dovrebbe succedere?! Sto bene, sono in forze… grazie a voi… su, andate a riposare!”

Con un leggero cenno di assenso, il biondo seguì quelle semplici istruzioni, portando dietro con sé Isaac e una marea di dubbi che, forse, non avrebbero mai trovato risposta.

Una volta appurato che i due ragazzini erano davvero andati dove richiesto, Camus si permise di sciogliere la muscolatura e di cedere un po’ alla tensione che avvertiva palpabile dentro di sé. Se l’era presa con Hyoga perché aveva provato ad insistere, non avrebbe voluto, ma la consapevolezza, sempre più ferrea, di quello che era appena successo lo aveva scosso nel profondo.

Era stato Isaac a fare quel male alla piccola, ormai non c’era più alcun dubbio, Isaac che aveva cresciuto lui, Isaac e il suo potere incontrollabile che già una volta si era manifestato in sua presenza; non identificato, all’epoca, per colpa della sua stessa inesperienza. Non così in quel momento. Non più. Lo aveva infine riconosciuto.

Isaac era il...

Non lo nominò, arrivò al punto di censurarne perfino il pensiero, ma aveva capito perfettamente, forse, pensò, sarebbe stato meglio non arrivarci mai, vivere nella beata ignoranza, continuare a raccontarsi che il suo Isaac era un semplice adolescente, destinato a grandi imprese, era vero, ma verso l’elevazione, non...

...verso le tenebre più nere, maledizione!

Strinse con foga le palpebre, disperato. Ciò che aveva cercato di combattere con tutto sé stesso per anni, l’impulso distruttivo per eccellenza, stava invece accumulando sempre più potere, di giorno in giorno, in quel ragazzo. La consapevolezza di ciò gli procurava una fitta dolorosa al petto.

Cercò di non lasciarsi condizionare dalle mille e una domande che avevano preso a torturarlo e che, con ogni probabilità, non lo avrebbero fatto dormire. Concentrò invece tutti gli sforzi per far star meglio la piccola, la accudì con le migliori cure necessarie. Disinfettò le ferite, tenne costante la temperatura corporea che tendeva ad alzarsi, gli coprì i tagli con cerotti e bende, prima di imbacuccarla nella pesante coperta che aveva portato Hyoga.

Sonia sembrava ormai serenamente addormentata, ma ebbe comunque l’istinto di prenderla tra le braccia e farle appoggiare la testolina sulla sua spalla nuda. La tenne stretta a sé per un tempo indefinito, preda dei suoi pensieri, mentre la fioca luce del giorno diventava sempre più languida e il sole morente, in un ultimo impulso vitale, permetteva ai ghiacci eterni di risplendere di rubini bagliori un ultima volta. La tenne stretta lì, guardando altrove, sentendosi responsabile delle sue condizioni. Che avrebbe detto a Milo? Come avrebbe potuto perdonarlo, se gli avesse raccontato la verità? La piccola, il bene più prezioso del suo migliore amico, le era stata affidata in quei giorni e lui, non solo si era fatto vedere debole e impotente, ma neanche era stato in grado di accudirla.

Che gli avrebbe raccontato a Milo?! La verità? Che era stato Isaac a…

Fremette a quell’ultimo pensiero, non accettando la sola idea che il suo allievo, perdendo il controllo per un motivo sconosciuto, le avesse fatto così male. Perché, poi?! Inavvertitamente si strinse a lei, percependo, forte, uno spasmo scuoterlo fin dal profondo. Non riuscì a non manifestarlo al di fuori di sé stesso.

“C-Camus?”

La vocina della piccola lo riscosse. Riaprì gli occhi, che aveva serrato, e fissò incredulo la ragazzina che, lentamente, riprendeva coscienza. Era infagottata nella coperta che l’aveva scaldata, con una benda in testa e due cerotti sulla guancia di sinistra, dove era stata colpita da una scheggia di ghiaccio. Sembrava sfinita, ma lo aveva comunque percepito e si era svegliata. Una tempra d’acciaio a dispetto delle apparenze, non c’era che dire!

“Ehi, frugoletta... – disse arrochito, provando a sorriderle – Come ti senti?” le chiese, sistemandosela meglio sulla spalla in modo che percepisse il suo calore corporeo.

“I-intontita e… dolorante” biascicò lei, cercando di estrarre una delle due braccia dalla coperta che la avvolgeva per grattarsi l’occhio. Non riuscendoci.

“Non compiere sforzi vani, sei al sicuro ora!” provò a tranquillizzarla lui, cullandola ancora.

“Dove… dove sono?”

“All’isba, al riparo, ricordi qualcosa di quello che ti è successo?”

“I-io… stavo giocando con Hyoga e poi...”

“E poi?”

“E poi ha cominciato a nevicare quella farina ghiacciata che voi chiamate ‘Polvere di diamanti’ e… e ho avvertito una pressione innaturale sotto il ghiaccio”

La piccola sembrava giustamente spaventata nel rivivere quei ricordi, non era affatto sicura di quel che aveva visto, ed era rimasta traumatizzata. Camus lo capì con un unico sguardo, sebbene lei cercasse di farsi forza e di esprimersi con più chiarezza possibile.

“Non sforzati di ricordare, se...”

“N-no è che… non è possibile quel che ho visto!” balbettò, osservandosi spaesata intorno.

“Cosa credi aver visto?”

“U-una cosa enorme, gigante, come un’isola subacquea e u-un… - si fermò un attimo, rabbrividendo, rannicchiandosi ulteriormente contro il petto del cavaliere, farlo le infondeva coraggio. Prese un profondo respiro, prima di buttare fuori aria – E’ stato un tentacolo a spaccare il ghiaccio da… s-sotto!”

A quelle parole Camus si irrigidì e non poco, mentre lasciava trapelare fuori da sé sin troppe emozioni che, stante la vicinanza, non sfuggirono alla piccola.

“C’è qualcosa che non va? Fai fatica a sorreggermi?”

“N-no, certo che no, piccola, s-solo...”

“Sono diventata grande, sai?! Peso di più e tu sei ferito...”

“Sto bene, non aver timore per me, pensa a riposare, frugoletta!” le ripeté baciandole la fronte un poco sudata, prima di sforzarsi di ricondursi alla calma.

“Non so davvero cosa fosse quell’essere, non...”

“Sonia, l’importante è che sia passato - tranciò di netto il discorso Camus, un poco burbero, come se il solo parlarne lo umiliasse e lo mettesse a disagio. Tuttavia i suoi occhi tornarono ben presto caldi nel guardarla – Dormi ora, piccola, non ci sarà più alcun mostro a farti del male, ci sono io con te!”

“Camus… - Sonia era arrossita vistosamente mentre, discostando lo sguardo, riusciva infine ad estrarre il braccio sinistro. Si sentiva nuda, aveva da poco razionalizzato che probabilmente le erano stati tolti i vestiti, ma per qualche ragione non le importava, non con il ragazzo lì, così vicino – Mi… mi...”

“Cosa c’è? Hai bisogno di qualcosa?” chiese lui, prendendole la manina che si era mossa nella sua direzione e accarezzandogliela lieve con il pollice.

“P-posso dormire sulle tue gambe?”

“Non staresti più comoda sul divano-letto che ti ha già fatto da giaciglio per questi giorni?” domandò a sua volta, intenerito anche se un poco a disagio.

“Io sto bene dove posso sentire il tuo calore! Per favore, solo per poco, il tempo di riaddormentarmi, poi puoi mettermi dove vuoi” insistette lei, sempre più imbarazzata stringendo le dita sulla sua mano.

“Sonia… uff, va bene!” sospirò, unendo poi le ginocchia e facendola adagiare sopra con la testa.

La piccola allungò le gambe per stiracchiarsele un po’, sentendole indolenzite, così facendo le si scoprirono i piedi e parte delle caviglie.

“Attenta a prendere freddo lì, ci vuole un attimo per ammalarsi!” le spiegò pazientemente Camus, allungando la coperta per avvolgerci le estremità.

Sonia annuì comprensiva, prima di fare cenno che voleva girarsi su un fianco e rannicchiarsi vicino al suo ventre, come già faceva di solito con Myrto senza alcun tipo di vergogna. Il giovane uomo era molto più condizionato, rispetto a lei, a mostrare proprio quella zona, la ragazzina sapeva bene che l’unica ragione per cui non si era ancora coperto era che provava ancora un fastidio atroce alla zona addominale, che percepiva ancora contratta e rigida a seguito della disavventura che aveva passato con gli allievi, ma le permise comunque di girarsi, massaggiandole dolcemente i capelli più e più volte per farla assopire.

Lei chiuse gli occhi, rannicchiandosi contro di lui, guidata in principio dalle sue carezze e successivamente dal suono della sua voce, che aveva preso a canticchiare una melodia in un linguaggio strano e arcaico che non aveva mai sentito. Quell’ultima azione, inaspettatamente, le fece riaprire gli occhietti, non vista, perché il volto era nascosto nel suo grembo. Si pregustò quel suono così dolce che sembrava impossibile appartenere ad un uomo. Tremò appena per l’emozione, muovendosi un poco; movimento che però bastò per far terminare quell’incanto.

“S-Sonia, sei s-sveglia?”

Sembrava in vistoso imbarazzo, persino di più che stare a busto scoperto.

“Sì… mi stavo deliziando con la tua canzone, Camus, dove l’hai imparata? Hai un timbro vocale meraviglioso, sembra di perdersi nei suoni nella natura, sotto il chiarore di una aurora… ma non lo fai spesso, non pensavo neanche sapessi cantare!”

“I-io… non sono abituato a cantare in p-presenza di altri, l’ho fatto per… perché pensavo che stessi...”

“...Dormendo? - ridacchiò lei, socchiudendo gli occhi – In effetti stavo cedendo al sonno ma la tua voce mi ha talmente meravigliata che non potevo non svegliarmi!”

“Mi dispiace… volevo che ti sentissi al sicuro, volevo accompagnarti nel sonno, non di certo...”

Ma Sonia sbuffò tiepidamente, lui avvertì distintamente il respiro della piccola solleticargli la pelle del ventre, sensazione che lo imbarazzò ancora di più.

“Ci riesci… a farmi sentire al sicuro!” gli disse prima di chiudere gli occhietti.

Camus tornò ad accarezzarle la chioma con movimenti ritmati, ma aveva smesso di cantare, troppo l’imbarazzo per continuare. La stanchezza stava prendendo anche lui, sempre di più, non lo dava certo a vedere, ma operare ancora una volta come Sciamano, dopo quel che era successo con Zima e i conseguenti danni sul suo corpo, lo aveva fiaccato ancora di più, al punto che le palpebre già calanti si chiusero automaticamente poco dopo e la testa, già un poco ciondolante, si appoggiava allo schienale del divano. La mano continuò il suo percorso ancora per un po’, prima di cedere a sua volta e posarsi sopra la ragazzina come per proteggerla. Il respiro di Camus non ci mise molto a farsi più profondo e cadenzato, segno che il Cavaliere aveva ceduto al sonno.

Sonia sorrise tra sé e sé, la debole luce del sole morente -in Siberia c’erano dei crepuscoli bellissimi, potevano essere cortissimi o lunghissimi per un qualche effetto magico, la abbagliavano!- stava languendo nella stanza, ma era sufficiente per distinguere ancora le cose intorno a lei.

Si guardò un poco intorno, incuriosita, ma poi sentendosi stanca, tornò a rannicchiarsi lì, il ventre di Camus ad un pugno dal naso. I suoi occhietti un poco febbricitanti, ma ancora vispi, vennero immediatamente catturati da quell’ematoma che percorreva l’addome del Cavaliere fino al fianco destro, dove era persistente ancora il segno di una bruciatura che aveva le sembianze di due cuori intersecati. Fortunatamente il colore violaceo del versamento cominciava a ritirarsi ai margini, ingiallendosi, anche se era ancora parecchio esteso. Quasi inconsciamente, come attirata magneticamente, allungò la manina libera in modo da toccargli delicatamente la pelle e solcargliela fino all’ombelico che, contrariamente a quello di Myrto, se ne accorse per la prima volta, non aveva forma ovale ma tondeggiante, ed era coronato da un cappuccio di pelle che lo rendeva curioso e accattivante al tempo stesso. Si accorse che, malgrado la conoscenza, non si era mai soffermata su quello di Milo, così abituato, nel caldo torrido della Grecia a denudarsi senza particolari problemi. La constatazione la meravigliò. Ad ogni modo, era davvero buffo quello di Camus, non perfetto come quello di Myrto ma definito da contorni suoi, mai visti, e un poco profondo, era impossibile non notarlo. Per istinto, allungò un dito nella sua direzione per saggiarne la misura del solco. Il gesto, però, fece sobbalzare Camus che, ridestatosi, quasi dovette trattenere a sé la piccola per non farla cadere.

“Sonia!” la richiamò, improvvisamente rigido, prima di riuscire a sbloccarsi e tornare a guardarla, riprendendo ad accarezzarla.

“Scu-scusami, i-io… non volevo farti del male, n-non...”

La piccola era rammaricata dalla sua reazione, lui, per acquietarla, la girò supinamente, avvolgendola in un leggero abbraccio.

“Non mi hai fatto del male, è che… n-non mi piace essere toccato in quel punto” balbettò, rosso in viso, guardando altrove.

“E’ per via dell’ematoma?”

“N-no… anche in circostanze normali n-non mi piace!”

“Capisco, scusami… - biascicò ancora lei, triste di averlo fatto svegliare così bruscamente – E’ che… ho percepito come...”

“Come…?”

“Come... un qualcosa di palpitante, u-un qualcosa rassomigliante al battito di una vita...” provò a spiegarsi lei, imbarazzata, prima di chiudere gli occhi, guidata ancora una volta dalle sue carezze.

“Il battito di una…?! S-Sonia, sono un uomo...” le fece notare, al limite dell’imbarazzo. La ragazzina ridacchiò, divertita dal tono con cui aveva pronunciato quell’ovvietà. Era un uomo, sì, ma tutt’altro che ordinario.

“Lo so, ma sei speciale...”

Camus lasciò cadere il discorso, concentrandosi invece sui gesti. Certo che, per essere stata colpita dal Kraken, ne aveva di energie, la piccola, e una forza vitale incredibile. Sorrise tiepidamente, accorgendosi che finalmente stava riuscendo a farla assopire. Quello non era comunque clima, né ambiente, per lei, per quanto avesse piacere ad averla all’isba, forse sarebbe stato davvero meglio farla tornare a casa il prima possibile.

“Sonia… domani chiamo Milo per accordarci di venirti a prendere”

“Per-perché?” chiese lei con voce impastata, in allarme. Si stava quasi del tutto rilassando a quelle carezze, ma ora quella notizia, che non gli piaceva per niente. Mise il broncio.

“E’ pericoloso qui, per una ragazzina come te… inoltre devi rimetterti in forze e questo non è il luogo adatto! Qui farà freddo fino ad almeno a giugno, invece a Milos già da marzo potete godere di un clima molto più clemente”

“Ma Hyoga e Isaac stanno qui con te, sopportano il freddo e i rigori invernali con te, loro hanno la mia età e...”

“Ma un percorso diverso dal tuo, piccola, loro sono abituati, tu no!”

“Ma io… voglio stare qui!”

“S-Sonia...”

“C-con te! Mi sei mancato in quest’anno che non ti ho visto!”

Non aveva ancora recuperato le energie, ma, di impulso, estrasse fuori le braccia per stringergli il ventre, nel quale affondò il visetto, chiudendo gli occhi. Camus cercò di non dare peso al disagio che quel gesto gli procurava, né alla stilettata di dolore che lo aveva scosso. Trattenne un mormorio sommesso.

“Ti… ti prometto che verrò presto a trovarti, in primavera, per il rapporto da dare al Grande Sacerdote, passerò da Milos e staremo un po’ insieme”

“Davvero?! Lo prometti?”

La piccola aveva riaperto gli occhi e lo guardava speranzosa di profilo, in quella posizione buffa sembrava un po’ una scimmietta appesa ad un ramo.

“Certo, te lo prometto, bertuccia!”

“Giurin giurello?” tentò ancora lei, alzando il braccio e sollevando l’indice: aveva bisogno di una promessa solenne; una promessa da Cavaliere.

“Puoi contarci! - le disse ancora, intrecciando l’indice con il suo – E ora dorm….”

Si accorse che la ragazzina si era placidamente addormentata di colpo, ancora appoggiata al suo addome, l’indice ancora intrecciato al suo, il viso beato.

Sorrise teneramente Camus dell’Acquario, prima di sistemarla meglio, rimboccarla, e permettersi di lisciarle ancora una volta i capelli. Vi sarebbero state tante questioni da risolvere da lì a quella primavera, prima di tutto Isaac, il cui pensiero gli appesantiva il cuore, ma per il momento la promessa era saldata, avrebbe dovuto mantenerla. Le sfiorò un’ultima volta le guance rosee prima di posarle una mano sopra con fare protettivo e appoggiarsi ancora una volta allo schienale per concedersi un po’ di meritato riposo.

 

Proprio Isaac, la mattina dopo, presto, prestissimo, dopo una notte totalmente insonne, si era diretto in soggiorno, lasciando Hyoga ancora placidamente addormentato. Per tutte le ore precedenti si era torturato psicologicamente su come era stato possibile l’incidente e sul reale significato di quelle immagini fumose che rammentava appena, come un brutto sogno ad occhi aperti.

Ovviamente non aveva trovato risposta, ma lo sforzo di chiederselo gli aveva fatto compagnia per tutto quel tempo, scacciando via il sonno e lasciandolo solo, tra le coperte del letto, gli occhi spalancati al buio della stanza e un senso di colpa sempre più mordace.

Le tenebre prima dell’alba, in Siberia, erano le più forti e coriacee di tutta la notte artica, le sue, probabilmente, quelle dentro di lui e che non gli davano scampo, soffocandolo, ancora di più. Lo attanagliavano.

Non avrebbe voluto farle così tanto male. Mai. Davvero aveva provato solo il desiderio che si allontanasse per ristabilire l’ordine che si era creato nell’isba, quel nido famigliare, a cui lui era affezionatissimo e che avrebbe difeso con le unghie e con i denti. Ma arrivare a ferirla… questo no, mai! Ci aveva pensato e ripensato, soffriva nel riportare alla mente le immagini dell’incidente, senza darsi pace, ragion per cui si era detto di ritornare giù, forse avrebbe potuto fare qualcosa per la piccola. Se fosse stata sveglia le avrebbe chiesto scusa, se fosse stata ancora incosciente avrebbe fatto qualcos’altro. Non sapeva bene cosa, però.

Con la testa gremita di quei pensieri, varcò la soglia della cucina, accendendo la luce e prendendo un bicchiere d’acqua per bagnarsi la gola, prima di procedere. Buttato giù un bel sorso, si rese conto che dal soggiorno provenivano non uno, ma bensì due respiri profondi. Ancora più lentamente si diresse proprio lì, cercando di fare meno rumore possibile, accendendo la lampada vicina al divano.

Il chiarore della luce rivelò le figure di Camus e Sonia piacevolmente addormentati. La ragazzina era rannicchiata vicino al ventre del maestro, il quale aveva ancora una mano sopra di lei, l’altra invece gli era ricaduta al suo fianco. Sembravano sereni. Entrambi. Isaac sospirò di sollievo mentre, cercando di non dar peso al fatto che il suo mentore avesse un’aria così beata, che raramente gli aveva scorto in viso, si chinò verso la piccola, posandole una mano sulla fronte per controllare la temperatura corporea, che sembrava in rialzo. A parte quello, non sembrava più in pericolo di vita, merito dell’intervento del maestro, se ne allietò. Le smosse un poco i capelli sulla fronte, non sapendo cos’altro fare visto che il più era già stato fatto. Si trovava in seria difficoltà, voleva esprimersi ma non ne era in grado, si sentiva un idiota, ma le doveva delle scuse, essendo stata sua la colpa.

“Mi dispiace, scricciola… - si fece coraggio, parlando in tono basso ma chiaro. Aveva utilizzato quel nomignolo perché, a ben vederla, era davvero piccola, se paragonata a lui o Hyoga, era facile affezionarcisi – Non era davvero mia intenzione farti questo, se solo potessi, tornerei indietro per cancellare il male che ti ho fatto!”

Ingoiò a vuoto, la gola secca, sempre più imbarazzato, accucciandosi al fianco del divano e continuando a guardarla.

“I-io non so cosa sia successo, n-non… non me ne capacito pieamente, m-ma, se hai bisogno di qualcosa, non esitare a dirmelo...”

Si sentiva davvero un idiota: la ragazzina dormiva, e lui parlava, neanche fosse stata sveglia. Che aveva nel cervello?! I suricati?! Eppure il parlarle infondeva coraggio più a lui che a lei, ne aveva bisogno, anche se non avrebbe ottenuto risposta, quindi era sproloquiare a vanvera e nient’altro. Sospirò di nuovo, alzandosi in piedi e girandosi di spalle, al limite della vergogna.

 

Non è stata colpa tua… Isaac!

 

La voce della piccola giunse direttamente alle sue orecchie, sconvolgendolo fin nel profondo. Sonia gli aveva parlato mentalmente… o cosa? Era già in grado di utilizzare parte del suo cosmo per comunicare senza essere stata addestrata a farlo?! Che razza di prodigio era?!

Fece quasi per voltarsi verso di lei, ma un’altra voce lo raggiunse da dietro, ben tangibile, non più solo nella sua mente.

“Isa-ac...”

Ecco, quel timbro vocale era peggio di ogni altro, senza ombra di dubbio. Si ritrovò a sussultare mentre, allontanandosi di qualche passo, trovava infine il coraggio di girarsi completamente nella loro direzione.

“Sì, Maestro?” gli uscì un tremito più accentuato del dovuto, ma era così che si sentiva. Voleva sparire. Non desiderava un confronto con Camus, ma lui, probabilmente disturbato dalla sua presenza, aveva aperto gli occhi.

“Cosa fai già in piedi? Il sole non è ancora sorto...”

“I-io avevo sete e...”

“E devi venire fino al soggiorno, per bere?”

Il tono di Camus, nonostante l’impastatura, era un poco rude, segno evidente che, come gli aveva già fatto intendere con la prima occhiata, aveva capito cosa fosse successo realmente, solo che prendeva tempo per rivolgergli la domanda diretta.

Isaac annaspò, guardando ovunque tranne che nella sua direzione. Avrebbe voluto nascondersi, non si sentiva in forma, affatto, e troppo vulnerabile, ma sapeva bene che il maestro non lo avrebbe perdonato tanto facilmente. Non dopo aver compreso l’accaduto. Non dopo aver dato nome a quella cosa intessuta dentro di lui, dopo che per anni aveva combattuto contro il suo principio.

“Ero venuto a vedere come stavate, ora me ne vado” disse, laconico, prima di voltarsi in direzione nella porta e fare per andarsene, in un atteggiamento che tradiva il suo nervosismo a stento controllato.

“Mmmh” mormorò Camus, non aggiungendo per il momento nient’altro.

Ma gli occhi erano puntati sulla sua schiena, Isaac lo sapeva bene, li percepiva.

Fa’ che non lo tiri fuori adesso… che non lo tiri fuori adesso, per favore! Che non…

“Perché… lo hai fatto?”

Ad Isaac sarebbe pure potuto crollare il mondo addosso in quel momento, sarebbe stato comunque meglio che rispondere a quella domanda. Si irrigidì ulteriormente ma, contrariamente alle aspettative, una calma ferrea, plumbea, lo avvolse, dandogli le energie per tornare a guardarlo dritto in faccia.

Gli occhi di Camus non erano più puntati verso la sua direzione, era a sua volta incapace di sostenere lo sguardo dell’allievo e, ancora di più, di sostenerlo in tutto per tutto. Fissava la piccola con sguardo accigliato e preoccupato, sistemandosela meglio tra le gambe, carezzandole il capo e poi le guance, prima di proseguire, continuando tuttavia a NON guardarlo.

“Perché lo hai fatto? - chiese ancora con più insistenza, fremendo impercettibilmente – Non avevi alcuna ragione per farlo, Isaac! Non ero in pericolo di vita, lei non è una nemica, non ha fatto niente di male… e allora perché?”

“In tutta franchezza? - controbatté lui, con una calma gelida che però veniva tradita dal tremore del suo corpo, dalla sua espressione dolente – E’ perché si è avvicinata troppo a voi...”

A quelle parole Camus lo guardò quasi con orrore, prima di rendersi conto dell’occhiata indicibile che aveva inferto all’allievo e tramutarla in una più accettabile. Stava perdendo il controllo di nuovo, dopo che per anni aveva raccomandato all’allievo la temperanza. Fremette.

“Non volevo farlo, Maestro, non volevo, davvero! E’ che… è che… non lo so neanche io! E’ qualcosa al di fuori di me, qualcosa che non riesco minimamente a… a tenere a freno!”

Se la stava raccontando, ne era consapevole, ma la verità era chiara davanti agli occhi di entrambi.

“Non è al di fuori di te, ma dentro… per questo non riesci!” taglio la questione Camus, in tono strozzato e freddo, da far accapponare la pelle.

“Non volevo, Maestro, mi dispiace tanto...”

“...Ed io l’ho capito troppo tardi; ho capito troppo tardi… che eri già perso!”

Secco, lapidale, persino più di Elisey. Dopo quella frase, che era in tutto e per tutto una condanna, Camus sostò ancora con lo sguardo sulla piccola per rifuggire a quello dell’allievo, che aveva un bisogno disperato di essere sostenuto, lo percepiva bene, ma non poteva permetterselo, nondimeno, non ne era in grado.

“N-no, Maestro, q-quello non sono io, lo sapete, mi avete cresciuto voi, c-conoscete il vero me stesso!”

“Credevo di conoscerlo, Isaac, ma ora questo… ti rendi conto di ciò che hai fatto? Ti rendi conto di ciò che hai assecondato, nonostante i miei insegnamenti?!”

“I-io non volevo...”

“Lo so che non volevi, ma lo hai fatto, e questi sono i danni. Avrebbe potuto andare a finire molto peggio, se non fosse intervenuto Hyoga! - lo redarguì, severo, in un tono che permetteva ad Isaac di percepire tutto il suo enorme disappunto – Pensa se fosse finita in acqua, lei, così piccola, sarebbe morta per ipotermia nel giro di pochissimo...”

Il ragazzo incassò il colpo, l’aria cominciava a mancargli nei polmoni, mentre una rabbia cieca, impetuosa, tornava a scorrere in lui. Strinse con foga i pugni, provò quasi l’istinto incontrollabile di scagliarsi anche su di lui, la persona più importante della sua vita e che tuttavia non lo capiva. Il solo pensiero lo spaventò selvaggiamente, riportandolo alla ragione. Davvero c’era qualcosa di oscuro in lui, in tumulto, lo percepiva sempre di più di giorno in giorno e ne aveva il terrore; aveva il terrore… di perdere il controllo, andando contro i precetti dell’insegnante.

“Quando eri ancora un bambino ed è accaduto il fatto Lisakki… - Camus prese un’enorme pausa, prima di continuare, ferito nel riportare alla luce le memorie del suo secondo allievo, ormai defunto – Hai avuto un impulso simile... i-io, all’epoca, non ero in grado di riconoscerlo, complice la mia giovane età e la mia poca esperienza, m-ma… aveva senso, allora...”

Prese un nuovo, più profondo respiro, il suo corpo ormai tremava esaustivamente anche da distante, impossibile celarlo.

“Lisakki ti era stato ucciso davanti e… e tu… quando hai sprigionato quella forza, prima di svenire per i danni che avevi riportato, eri… n-non eri in te, Isaac. Mi spaventai: non avevo mai percepito un cosmo così colossale provenire da un bambino dopo soli pochi mesi di allenamento. Di certo ben superiore al cosmo di in Cavaliere di Bronzo, forse persino superiore a me, che sono il tuo maestro. Mi chiesi e mi richiesi come fosse possibile, chi fossi in realtà, ma tu stavi male dopo quel fatto, non potevo esitare e quindi operai nel disperato tentativo di guarirti non solo a livello fisico, ma anche, e soprattutto, al livello spirituale – altra pausa, persino più lunga delle precedenti – Pensavo di doverti guarire, Isaac, non pensavo certo che tu fossi quell’impulso cosmico e maligno...”

“I-io… io non sono malvagio, Maestro, l-lo dovreste s-sapere… - cercava il bisogno di giustificarsi, sebbene qualcosa gli si muovesse dentro – S-sono il vostro Isaac...”

Ma Camus negò con la testa, sembrava piuttosto sofferente anche lui.

“Hai ragione, non sei tu ad essere malvagio, il Kraken lo è… e tu… tu sei il Kraken, Isaac!” arrivò alla conclusione, serrando le palpebre, come se fosse una sconfitta sua personale.

“I-io non sono… - provò ad opporsi lui, ma le parole nel suo cuore vennero spazzate via da una consapevolezza sempre più concreta, quasi una sentenza lapidale. Scrollò il capo, vinto – E’ così perché voi non mi supportate, è così perché...”

...perché sono solo davanti a questa enorme energia, voi cercate di esorcizzarla, ma lei cresce sempre di più, mi sta quasi afferrando, ed io… cosa mi resta, se non mi porgete la mano?!

Questo avrebbe voluto dirgli, di vivo cuore, per poi chiedergli aiuto, ma tutto venne spazzato via dalla reazione violenta del mentore.

“Cosa dovrei supportare, Isaac?! Il Kraken?! Un’aberrazione naturale?! Lo hai dimostrato quest’oggi! Che ragione avevi di attaccare la piccola Sonia, che ragione...”

“Che ragione avevate voi per affezionarvi così a lei?!?” ribatté il ragazzo, in tono alto, impedendogli di finire il discorso. L’atmosfera si stava scaldando. Un solo passo e sarebbe precipitato tutto.

“Non sono… fatti tuoi!”

“Lo sono, invece! Non è vostra allieva, non avete un vissuto così intimo insieme, e allora perché vi fa quest’effetto?! Non vi ho mai visto così con qualcuno, né con Jacob né con nessuno degli abitanti di Kobotec, eppure sono sicuro che avete passato molto più tempo con loro che non con la stessa Sonia, e allora perché?!”

Camus assottigliò le palpebre, scrutando l’allievo, che si stava agitando più del necessario su quel discorso apparentemente di poca importanza. Finalmente cominciava a comprendere la ragione, peraltro stupida, della sua nefasta emanazione cosmica nei confronti della ragazzina.

“Non… sono… fatti tuoi!” gli ripeté sibilando, a mo’ di avvertimento.

“Lo sono, invece, perché...

“...Perché sei geloso, Isaac? E’ per questo che l’hai attaccata?!” gli chiese a bruciapelo, con una brutalità che raramente lasciava trapelare.

“I-io non sono… uff, la gelosia è un sentimento stupido già di per sé, n-non posso certo provarla… nei vostri confronti!” balbettò, in vistoso disagio, arrestando per un attimo la sua furia. Di fatto una conferma. Quindi era stata davvero un quisquilia simile a farlo agire in maniera così spietata.

Sarebbe stata un’occasione per fermare la discussione lì, ma Camus, con una punta di spietatezza, decise di andare fino in fondo, nonché… dritto al sodo!

“Molto bene… perché non sono affari tuoi i rapporti che stringo al di fuori di quest’isba, ti è chiaro, Isaac? Tu e Hyoga non siete il mio mondo, siete soltanto miei allievi, null’altro!”

Isaac dovette tenersi (e trattenersi) forte per evitare di cadere in seguito a quell’ultima frase che gli aveva causato un male atroce, incommensurabile. Eh, sì, che il maestro sapeva bene dove colpire per far tacere il contendente, per dare un freno al dialogo quando sentiva che l’argomento lo esponeva troppo, ma in quel caso era stato proprio stronzo a zittirlo, così, dopo tutto quello che avevano passato insieme e che lui cercava di continuare a mascherare in maniera quasi esasperata.

Il fatto era che Isaac, per la collera che provava, avrebbe potuto pure urlare, avventarcisi contro, strepitare, gridare fino a ledersi le corde vocali, prendere a pugni il muro per poi sfondarlo, ma quelle ultime parole gli avevano prosciugato persino la rabbia, mentre i ricordi di quanto avevano passato i giorni prima si stampavano ancora più nella sua mente, spingendolo invece a sorridere mestamente, il capo chino, gli occhi spenti. Una reazione che di certo Camus non si aspettava e che lo portò a comprendere di aver ancora una volta esagerato; di aver ancora una volta infierito su di lui, immeritatamente, altro che temperanza!

“Isaac...” avrebbe voluto proseguire nel discorso, tranquillizzarlo, ma era tardi, ormai.

Niente era più come prima, lo sapevano perfettamente entrambi, quello stringersi la mano sotto le coperte, quel breve dialogo che c’era stato tra loro dopo il suo risveglio, quel ritrovarsi ancora una volta, non più come maestro e allievo, ma come padre e figlio... nulla era più come prima, la consapevolezza di ciò spaventava Camus più di molti nemici, persino più dello stesso Kraken.

“Non siamo il vostro mondo, ma voi siete il nostro...”

...O, almeno, siete il mio; il mio universo, il mio sostegno, la mia forza… e non ve ne rendente neanche pienamente conto!

Camus a quelle parole pronunciate a cuore aperto, senza un minimo di imbarazzo, trasalì nel percepire gli occhi dell’allievo imprimersi nei suoi, che tuttavia continuavano a rifuggirlo.

“Isaac… è pericoloso quanto stai dicendo, non dovresti...”

“Cosa?! Dovrei negare l’evidenza? Così è!”

“E’… è sbagliato, mio inesperto allievo, è troppo… oltre!”

“E quindi dovrei rifiutarlo? Rifiutare una verità che il mio cuore ha già percepito?”

“Isaac...”

“Il punto è che non ci riesco! N-non riesco a fare finta che non sia successo niente: avete rischiato di morire, Maestro Camus, il v-vostro cuore si è fermato e… e… - ingoiò a vuoto, cercando di trattenersi, perché il tono gli usciva sempre più tremante – Allo stesso modo ci siamo presi cura di voi, vi abbiamo asciugato il sudore, stretto la mano quando vi agitavate nel sonno, cambiato la flebo e...e qualcos’altro, anche...”

Lasciò la frase in sospeso, ben sapendo quanto quell’ultimo particolare lo avrebbe fatto vergognare e desiderare di nascondersi sotto terra.

“Non riesco a far finta di niente, n-non riesco a non ricordare che vi ho finalmente chiamato con il nome che vi è sempre spettato...”

“N-non… ora non è il caso di...”

“Semplicemente non ci riesco… papà! - buttò tutto fuori in un soffio, arrossendo a dismisura. Il tempo sembrò cristallizzarsi per una serie di secondi, prima di ripartire con il doppio della velocità, al ritmo dei loro cuori, che, in quel momento, battevano all’unisono, colti dalla stessa accelerazione – E’ questo che sei per me… lo sai!”

Papà… Camus lo fissava incredulo, la bocca aperta, le labbra tremanti; tremanti per il desiderio di parlare e per il suo non essere in grado di mostrare a sua volta le proprie emozioni come invece stava facendo l’allievo, ben più maturo di lui da quel punto di vista.

Allievo, poi… Camus avrebbe tanto voluto dirgli che non era vero, che non era un semplice discepolo, ma un figlio. Gli avrebbe voluto dire che lo aveva percepito, quando stava male, aveva udito la sua voce pronunciare quel nome un po’ altisonante, papà, che lo spaventava e inorgogliva al tempo stesso. Che era stato grazie a lui che non si era arreso, che l’unica certezza in quell’inferno di dolore era la mano di Isaac, il suo ometto, che stringeva la sua; la sua stessa presenza, unita a quella di Hyoga, che gli sussurrava di non arrendersi.

No, Isaac e Hyoga non erano dei semplici allievi, erano molto di più, ma non riusciva… proprio non riusciva a dirglielo.

Isaac riuscì a sostenere il suo sguardo solo per una serie di secondi, terminati i quali, forse per la vergogna, forse per le forti emozioni, si voltò dall’altra parte, correndo via, rintanandosi nuovamente al piano di sopra.

Camus lo seguì a vista finché poté, un nodo nel petto, un altro in gola, che si tramutava in magone crescente. Insopportabile. Non disse nient’altro, semplicemente prese tra le braccia la piccola, che gli ricordava tanto la sorellina minore, e se la strinse al petto, affondando il viso tra i suoi capelli dove stette con gli occhi chiusi e il respiro rotto, nuovamente aritmico.

“I-Isaac, lo sei anche per me, come… come un figlio!” ammise infine, a bassissima voce, trattenendo a stento le emozioni che lo scuotevano nel profondo.

 

 

* * *

 

 

12 febbraio 2011, tarda mattinata

 

 

Sonia continuava a fare strani sogni circa quello che le era successo il giorno precedente; strani sogni in cui un essere di dimensioni considerevoli serpeggiava sotto il ghiaccio, minaccioso, per poi colpirla con un tentacolo e proiettarla indietro. Un secondo dopo, la sua visuale veniva sostituita da Isaac, in piedi davanti a lei, in un universo di bianco, l’espressione carica di disappunto. Poi di nuovo quel mostro delle fattezze di una piovra gigante, che tentava di avvolgerla nei suoi tentacoli, per portarla sott’acqua e farla affogare. La sensazione di soffoco, già provata, la paura viscerale di morire, la disperazione, finché non si risvegliava tra le braccia di un devastato Isaac, completamente bagnato, scosso, vicino a lei, il respiro affannoso, il petto ansante. Lei provava così a chiamarlo per avvicinarsi a lui, nonostante il freddo intenso che provava, ma lui la scacciava via, allontanandosi a sua volta.

Devi stare lontana da me… sono pericoloso!” le diceva, a corto di fiato, strizzando gli occhi come se cercasse di trattenersi con tutte le sue forze.

Ma tu stai male...” provava lei, testarda, ricevendo come risposta uno scuotimento di testa.

Non ha importanza… - asseriva quindi lui a fatica, assomigliando paurosamente al maestro – Va’ via di qui, risvegliati!”

E il sogno così finiva, portando lei a sbarrare gli occhi e alzare istintivamente il braccio in avanti, come a volerlo afferrare, come a volerlo abbracciare.

 

“Aaaaaaaaaah!!!” gridò, spaventata, mentre i contorni intorno a lei, la debole luce, riaffioravano e si stampavano nella cornea.

Isaac. Il Kraken. Davvero erano la stessa essenza che, malgrado l’intervento di Camus, non si era del tutto dissociata dal suo spirito, nascondendosi nell’ombra, non vista. I suoi poteri quindi, complice la debolezza, non erano stati del tutto sufficienti a scacciare via quel mostro, ci aveva pensato lo stesso Isaac, in qualche modo, guarendola e purificandola del tutto in una maniera che alla ragazzina sfuggiva. Era stato lui, stava combattendo disperatamente per non far prevaricare quell’essere, nonostante le sue pulsioni.

Le supposizioni di Camus erano quindi corrette, ciò che non sapeva però, era che il suo allievo stava facendo di tutto, se non oltre, per opporsi, e aveva bisogno di un disperato aiuto, perché da solo non ce l’avrebbe fatta, quell’essenza soverchiante era impossibile da imbrigliare senza l’aiuto di qualcuno.

Ma questo, a Camus, sfuggiva…

“Ehi, piccoletta, sono qua, non ti agitare!”

Sonia trasalì a quella voce, che riconobbe all’istante, il cuore le iniziò a battere a mille. Poco dopo una chioma violacela, ribelle, che contornava un viso gioviale e sempre sorridente, entrò nel suo campo visivo, facendole luccicare gli occhi.

“Milo!!! Sei qui, sei tornato!” esclamò, divincolandosi come una forsennata per togliersi d’impiccio le coperte, che la avvolgevano completamente, impedendole i movimenti. Calciò due tre volte a vuoto, estraendo anche le braccia per uscire dal garbuglio.

“E-ehi, no… no, stai ferma, non sei ancora...”

Ma la ragazzina era riuscita a liberarsi, buttando a terra le coperte e lanciandosi con tutte le sue forze ad abbracciare il Cavaliere, il quale, con riflessi rallentati per motivi a lei sconosciuti, si ritrovò ben presto la piccola ad abbracciarlo con impeto, mentre l sue manine gli passavano sulla schiena, facendolo irrigidire per il dolore. Quel particolare non le sfuggì.

“M-Milo, che cosa hai, perché…?”

“Oh santo cielo, Sonia, ma sei nuda con gli appena 13° raggiunti come temperatura interna di quest’isba!!! - esclamò lui, stringendola a sé un po’ impacciato, perché il suo seno, appena pronunciato, gli premeva sul petto celato dal maglione, facendolo imbarazzare non poco – Aspetta un attimo, frugoletta, che recupero la coperta! Non dovresti sprecare così le poche energie che hai recuperato!” la rimproverò poi bonariamente, tastando al suo fianco per afferrare l’estremità del plaid.

Ma la ragazzina non diede peso a quel movimento, rifiutando quel suo gesto e rimanendo invece lì, ancorata a lui, scrutandolo con preoccupazione negli occhi. Ora che lo vedeva così da vicino, i suoi timori si erano fatti più consistenti, gettandola nel panico. Milo pronunciava le parole in un tono strascicato e sofferente, in più il pallore sul suo viso, la pelle umida di sudore, in un ambiente così fresco, non era affatto normale.

“Milo, c-cosa hai?” chiese la piccola, protraendo la la mano nella sua direzione per toccargli la fronte, ma il suo gesto andò a vuoto perché lo Scorpione, per deviarsi dalla traiettoria, aveva piegato il collo in modo da riprendere le coperte e avvolgere la ragazzina nello spesso feltro.

“Io non ho niente, Sonia, sei tu che a momenti finivi ibernata!” ribatté lui, sistemandosela meglio sul petto ma avviluppandola nella coperta in maniera che non potesse più muoversi.

Ancora un trattamento da bambina, Sonia non ne poteva più, gonfiò le gote, prima di esplodere.

“IO STO BENE! Sei tu che… Cough! Cough!” non riuscì a finire la frase che una tosse potente e spietata la colse, facendole bruciare la gola. Si rannicchiò sul corpo del Cavaliere, ferita nell’amor proprio.

“Ecco, lo vedi? - sospirò, affranto, battendole pacche sulla schiena – Non strafare!”

“M-Milo, io...”

Voleva parlargli dell’incubo che l’aveva sconvolta pochi giorni prima, di lui che veniva frustato al Santuario, se gli avessero fatto davvero quel male e perché coloro che dovevano difendere la pace sulla Terra erano così spietati con un Cavaliere come lui. Voleva chiedergli un sacco di cose, manifestare le sue paura. Lo aveva sentito irrigidirsi quando lo aveva abbracciato, anche se non si era ritratto al suo gesto, ma le parole vennero troncate da un nuovo sciame di colpi di tosse e dal dolore ancora più forte al petto, nonché dall’arrivo in soggiorno di Camus, seguito a breve distanza dagli allievi.

Lo osservò debolmente, nascondendosi la bocca con la manina e ansimando appena: teneva in mano un lungo bicchiere di vetro che conteneva una sostanza rossa, a giudicare dal modo di camminare e dalla rigidità dei suoi muscoli, l’addome, che teneva ancora scoperto, gli doveva fare ancora molto male e, del resto, quella notte era sempre stato con lei, l’aveva tenuta in grembo fino al mattino, non abbandonando il suo fianco. Non di certo una panacea, considerando il suo stato di salute!

“C-Camus...” lo chiamò a stento, tentando di sorridergli alla ben meglio mentre il ragazzo, accarezzandole teneramente i capelli, si chinava difficoltosamente verso di lei, porgendole il bicchiere.

“Milo ha portato delle arance rosse direttamente dalla Grecia, io ci ho aggiunto un po’ di zenzero ed erbe che dovrebbero aiutarti a guarire dal raffreddamento che hai avuto. Bevi, coraggio!”

“Se bevo mi riaddormenterò come prima… vero?” chiese lestamente Sonia, rifiutando in un primo momento il liquido. Era sempre stata una ragazzina molto sveglia.

“Sì...”

“Non voglio!” si oppose, sbuffando, nascondendo il visino nel petto di Milo.

“Ma ti serve per guarire più velocemente. Una bella dormita e poi...”

“Così mi addormento e mi risveglio sull’isola di Milos, vero? Non ci casco di nuovo! Lo avete già fatto questo trucchetto di spostarmi quando dormo per non farmi piangere. Non voglio! E non sono più una bambina!”

Milo e Camus si scambiarono un’occhiata colpevole, per un attimo parvero tornati due fanciulli beccati a mettere le mani su un dolce proibito. Si ricomposero il più in fretta possibile, tossicchiando, prima di tentare di spiegare la situazione alla piccola.

“Sonia, come ti ho accennato ieri sera, questo non è il clima giusto per te, hai bisogno di rimetterti il più in fretta possibile da questa brutta esperienza. – asserì Camus in tono pacato – Per questo è importante che tu torni in Grecia, lì il clima è temperato, ti aiuterà a rimetterti dal principio di polmonite che hai in questo momento”

Sonia sbatté più volte le palpebre: quindi si era ammalata? Camus, che si era prodigato di lei, aveva già fatto il possibile per non far evolvere ulteriormente la malattia, ma serviva un clima più dolce e molto riposo, a quanto asseriva.

“Ma tu mi hai curato...”

“Ho fatto il possibile, frugoletta, ma… non sono totalmente in forze, non posso fare più di così, mi daresti una grandissima mano se tornassi a Milos, almeno per il momento” ammise, sebbene gli costasse non poco. Effettivamente i suoi poteri da Sciamano per guarirla gli erano costati fatica, non lo diceva, tanto meno con gli allievi lì presenti, ma anche a lui una brutta tosse aveva preso a scuoterlo, minando il respiro che tentava comunque di rendere più regolare possibile per non far spaventare gli altri.

“E se mi abituassi a questo clima e mi curaste qui?” insistette Sonia, gli occhioni lucidi.

“Sonia...”

“Insomma, ora c’è anche Milo con noi, e i tuoi allievi, Camus, manca solo Myrto. Facciamo venire anche lei e… e sarò felice, guarirò subitissimo!”

Il Cavaliere di Aquarius si ritrovò a sospirare, intenerito dalla sua vocetta, scrollando tiepidamente il capo prima di tornare ad accarezzarle i capelli. Nascose perfino il brivido che lo aveva colto nell’immaginarsi quella donna lì all’isba. Che incubo!

“Non è possibile, piccola, lo sai… abbiamo dei doveri!”

“Ma… ma...”

“Sonia, non… ti piace più l’isola di Milos?” chiese Milo, un poco dispiaciuto da quella decisione della piccola, eppure aveva cercato di non farle mai mancare nulla.

“Non è così, mi piace, ma qui siamo più lontani dal… dal Santuario! Non voglio tornare!” tentò di farsi capire, stringendolo con più forza. Non aveva avuto il tempo di chiedergli più niente, ma era sempre più sicura che quel luogo cattivo avesse fatto del male gratuitamente a Milo. Li odiava. Odiava il Grande Tempio che veniva nominato sempre più frequentemente. Odiava il mostro che lo abitava.

“S-Sonia, perché dici q...”

La voce di Hyoga giunse alle orecchie della ragazzina. Sembrava ambiguo, un tono non suo, come se fosse ‘sul chi vive’, ma non ebbe il tempo nemmeno di guardarlo che prese parola Isaac, invadendo il suo campo visivo.

“In ogni caso, là è molto più sicuro che qui, credimi!” la avvertì, scuro in volto, guardandola come l’aveva guardata nel sogno di quella notte. Sonia si sentì premere il petto con forza, rivivendo l’incubo in un moto di paura.

“I-Isaac, i-io… Cough! Cough!” la tosse non le dava quasi più requie, non le permetteva neanche di comunicare.

“Ah, questo è poco ma sicuro, là non c’è nessuno che le farebbe del male!”

Camus era saltato su, innervosito da qualcosa e, sebbene non filasse l’allievo di striscio, non guardandolo neppure, qualcosa era passato velocemente nei suoi occhi; qualcosa che fece sussultare la piccola: non vi era più nulla della dolcezza di prima, sembrava forzatamente glaciale per soffocare un qualche tipo di impulso interno che lo angustiava. Ne fu talmente colpita che, con un cenno della mano, gli fece capire di aiutarla a bere. Finalmente Aquarius (perché era difficile accostare quella figura al Camus che conosceva lei), tornò padrone delle sue emozioni, che era riuscito infine a sopperire, avvicinandole il bicchiere alle labbra e premendo con l’altra mano sulla testolina per farla bere. Sonia deglutì con ampie boccate, socchiudendo gli occhi e sentendosi accaldata. La piega che aveva preso il loro dialogo non le era piaciuta affatto, non riconosceva più quella manifestazione di Camus che faceva paura, e che non aveva mai riscontrato nel ragazzo che aveva conosciuto diversi anni prima. Quante sfaccettature poteva avere Camus dell’Acquario?! Quante ne conosceva lei?!

Isaac era rimasto in disparte, non aveva energie per obiettare, né per cominciare una nuova discussione, si sentiva semplicemente avvilito.

“Hyoga! Isaac!”

Fu la vocetta della piccola a riscuoterlo, portandolo a raddrizzarsi, mentre il biondo spalancava gli occhi in attesa del seguito.

“Mi promettete che, un giorno, giocheremo ancora a palle di neve?” chiese, ingenuamente, adagiandosi sulla spalla di Milo e chiudendo gli occhi, perché si stava assopendo.

“Ma certo- sorrise Hyoga, prendendo parola per poi avvicinarsi a lei e sfiorarle i capelli – Datti il tempo per rimetterti, poi potrai tornare quando vuoi e giocare a palle di neve con noi, è una promessa!” disse, coccolandola un poco.

Anche Isaac, pur con un po’ più di riluttanza, accennò qualche passo nella sua direzione nel tentare un primo approccio, ma il suo cammino fu interrotto da Camus che, alzandosi in piedi, pur continuando a non osservarlo in faccia, si frappose tra loro.

“Isaac, state perdendo anche fin troppo tempo con gli allenamenti, domani ricomincerete con me, per il momento occupatene tu come al solito. Andate fuori!” gli ordinò, secco, sebbene tentasse di far trasparire un minimo di calore dalla sua voce.

Il ragazzo lo osservò per una serie interminabile di secondi nella speranza che il suo sguardo, sempre fiero, si posasse su di lui e si illuminasse del consueto orgoglio nel guardarlo, ma non successe. Era lampante che Camus non volesse rischiare che lui si avvicinasse troppo alla piccola nella paura di perdere nuovamente il controllo e farle male. Sospirò.

“D’accordo, Maestro, mi occuperò io degli allenamenti per oggi! - si limitò ad annuire, cercando di non far trasparire troppo la delusione nel suo tono di voce – Andiamo, Hyoga, Camus ha ragione, stiamo perdendo fin troppo tempo!”

Il biondo annuì comprensivo e, dopo un’ultima carezza alla piccola, ora con gli occhietti chiusi e il respiro ritmico, lo precedette, preparandosi all’addestramento.

Isaac si trovava quasi dall’uscio della porta quando qualcuno lo richiamò indietro.

“Ragazzo...”

Non era la voce del Maestro Camus ma quella di Milo dello Scorpione, si voltò nella sua direzione, inclinando interrogativamente la testa di lato, quasi fremendo. Il Cavaliere incontrò così i suoi occhi lucidi, anche se tentava di celarli.

“Serbi ancora dentro di te il desiderio di diventare un difensore della giustizia?” lo interrogò serio, meravigliandolo un poco.

“C-certo!”

“Hai ben chiari nella tua mente i tuoi propositi?”

“Sempre!”

“Sei disposto a tutto per perseguirli, dando tutto te stesso?”

“Sì!”

L’espressione di Milo, pallido in volto ma sempre risoluto, si sciolse in un sorriso sincero che lo incoraggiò non poco: era ciò di cui aveva bisogno.

“Allora non hai nulla di cui temere, giovane Isaac, questo tu sei, e solo questo, sei ciò che vuoi essere, nessuno può togliertelo!”

Se Isaac non avesse ereditato un po’ di temperanza da Camus, la compostezza tipica dei Cavalieri che governavano il ghiaccio, probabilmente si sarebbe precipitato ad abbracciarlo, ringraziandolo per quelle sue poche parole che pure gli avevano risollevato l’umore, salvandolo quasi. Avrebbe potuto ribattere in mille più modi, in mille e più gesti, ma decise di stringere forte i pugni e guardarlo dritto negli occhi, determinato come non mai, l’espressione nuovamente decisa, come per troppi giorni non era più stata. In quell’istante, Isaac comprese cosa avrebbe dovuto fare, annuì con orgoglio, prima di buttare fuori aria. Per il momento si sarebbe concentrato solo sugli allenamenti senza più alcun tentennamento, sarebbe diventato più forte a tutti i costi!

Una volta usciti i due ragazzi, Milo si sistemò meglio Sonia in grembo, che si era finalmente appisolata, accarezzandole teneramente la testolina e la schiena, pur infagottata tra le pesanti coperte. Camus non aveva più detto niente, si era limitato ad affacciarsi alla finestra, una mano a trattenersi il ventre, l’altra sul davanzale. Osservava i suoi due allievi che si allontanavano nel bianco dei ghiacci perenni, un fremito lo scosse nel pensare al loro futuro; un fremito di paura, una sensazione di certo da padre, non da maestro. Per un istante si augurò che nessuno dei due diventasse Cavaliere, nessuno dei due meritava di condividere con lui un destino di sofferenza, un altro atteggiamento di certo non da insegnante, ed era un grandissimo errore!

“Cosa succede tra te e Isaac, Camus?” la domanda dello Scorpione, che già aleggiava nell’aria, giunse alle sue orecchie.

“Nulla...”

“Non lo guardi neanche in faccia...”

“Ah, sì? Non me ne sono nemmeno accorto… si vede che sono ancora arrabbiato con lui per… per quello che ha fatto a Sonia!”

Milo sorrise, scrollando la testa, osservando brevemente la piccola: il suo migliore amico era sempre il solito, caso perso su tutti i fronti.

“No, non è questo...”

“Fammi capire… - Camus lo scrutò di profilo, assottigliando le palpebre – Mi fai una domanda, io ti rispondo, e tu, siccome non è la risposta che volevi, ripari dicendomi che non è questo? E’ il gioco delle tre tavolette o cosa, Milo?”

“E’ che ti conosco troppo bene, Cam! Di certo sei arrabbiato, anche se non credo che Isaac lo abbia fatto apposta, è un bravo ragazzo, del resto… - spiegò, serio in volto, prima di chiudere e aprire gli occhi- Ma non è questa la ragione per cui non lo degni di uno sguardo...”

“Non c’è nulla che non vada tra me e Isaac...”

“Bene, perché non era da te trattarlo in quella maniera, è davvero avvilito e… si è preso cura di te quando stavi male, Cam, un minimo di gratitudine non guasterebbe...”

“Credi che non lo sappia?! - sibilò improvvisamente Camus, voltandosi di scatto, ma dovendo subito ripiegare perché l’addome gli faceva ancora dannatamente male. Tentò di celare il dolore, sebbene con una mano continuasse a massaggiarsi il ventre e a tracciare la ferita procurata da Elisey – Non occorre che tu me lo dica, anf, Milo!”

“E allora cosa?”

“Lui… arf, niente!”

“Cam, per Atena, parla, e dire che conosci quante, cinque o sei lingue? Eppure non riesci a comunicare in nessuna di queste!”

Camus si prese una serie di secondi per soppesare la richiesta, era in vistosa difficoltà, di certo la faccenda era piuttosto importante per lui, se non la riusciva ad esprimere. Passeggiò di fianco al divano, ancora la mano premuta sulla pancia, prima di appoggiarsi sullo stipite della porta.

“Lui... il mio Isaac mi ha chiamato...”

“Sì?”

“Mmmh… p-p… uff!”

“P-p cosa, Cam?”

“Pa-pà...”

Milo strabuzzò gli occhi, prima di affogare dentro di sé una risata troppo chiassosa che gli avrebbe lasciato un dolore indicibile e più ancora avrebbe svegliato la piccola tra le sue braccia.

“Pffff, no, aspe… aspetta, che qui mi trattengo a stento e non vorrei disturbare Sonia - si tratteneva a malapena, in effetti, mentre accompagnava la ragazzina sul divano, sistemandola comoda, per poi rialzarsi con una smorfia di dolore, perché piegare la schiena gli faceva male – Quindi… ti ha chiamato papà?!?” saltò poi su, a viva voce mentre si dirigeva verso la cucina seguito da Camus.

“Mmmh, s-sì...” biascicò l’altro, a disagio. Non gli disse quanto quel nome bislacco gli riscaldasse il cuore, facendolo battere più velocemente, e non gli disse neanche che a lui, alla voce dell’allievo, che era come un figlio, si era aggrappato quando la vita gli stava sfuggendo via insieme al sangue e al calore. Un qualcosa che lui avrebbe creduto di non sperimentare mai, vista la sua esistenza, e invece...

Papà… era un nome così bello, così intenso e delicato al tempo stesso… e così sbagliato in un frangente simile!

“Complimenti, Cam! Credo tu abbia battuto tutti i record, a 19 anni hai già due figlioletti che ti chiamano babbo, SUBLIME!” commentò lo Scorpione, appoggiandosi alla credenza per sorreggersi e regalargli successivamente un largo, quanto tiratissimo, sorriso.

“E’ tutto sbagliato, Milo...”

“E chi lo dice?”

“Ciò che sono, ciò che loro dovranno diventare. Questi stupidi sentimentalismi li stanno indebolendo, distogliendoli dai loro doveri. Un Cavaliere non può permettersi queste distrazioni, non può permettersi di stringere legami così… intensi!”

“E allora cosa facciamo, li uccidiamo perché hanno osato entrare così nel tuo cuore? Perché Isaac ha fatto così bene breccia dentro di te da cambiarti fin nel profondo? E’ questo che vuoi dire?!”

“N-no, certo che no, ma… come posso fare? C’è un modo per…?”

“Non mi starai chiedendo un modo per rompere il vostro legame, vero? Saresti un vero idiota!”

“...”

“Che razza di traumi hai avuto, da piccolo, per finire così?”

“Sono il loro maestro...”

“E sei anche colui che li ha fatti crescere, sì, soprattutto Isaac, è normale che si sia affezionato così a te”

“Sto indebolendo il ragazzo...”

...E sto indebolendo anche me stesso, perché tutto questo non lo dovrei nemmeno provare, perché è tutto sbagliato, perché sto giocando con il fuoco, e prima o poi mi scotterò, o peggio, farò bruciare lui!

“Tu sei proprio un caprone, non c’è che dire! Un’intelligenza sprecata, un uomo straordinario che si pone simili problemi. Ora sembra un peccato affezionarsi alle persone, per quanto vuoi rifuggire da tutto questo, Cam?!”

“...”

“Tu ti vuoi costringere a non provare cose che, in realtà, stai già provando… è troppo tardi, Cam! Isaac è penetrato nella tua corazza, non si torna più indietro!”

“...”

“E rispondi, per una buona volta, accidenti, che non serve a niente startene lì, a fissarmi con sguardo colpevole, mentre ti torturi le labbra per non sapere cosa dir… urgh!”

“Milo! Che ti succede?”

Si era scaldato un po’ troppo probabilmente, perché, nel movimento repentino di raddrizzarsi, la schiena era stata percorsa da un dolore atroce. Annaspò, tentando di recuperare il fiato.

Camus si ricordò del sogno di Sonia, delle parole dure che gli aveva rivolto Myrto e della sensazione di soffoco che lo aveva invaso. Il suo migliore amico amava crogiolarsi al sole nelle belle giornate, laddove il calore lo permettesse, ragion per cui era sempre stato più scuro di lui, di pelle, ma il Milo che era giunto dopo essere stato chiamato, era sopraggiunto pallido ed emaciato, visibilmente stanco, con gli occhi un poco segnati dalle occhiaie. Quello lo aveva messo in allarme, ma non c’era stato il tempo di chiedergli ulteriori delucidazioni.

“Ti hanno fatto… qualcosa?” chiese di getto in apprensione, tentando comunque di mantenere un tono più neutro possibile.

Milo ringraziò di essere piegato in avanti e il viso nascosto dai capelli ribelli, altrimenti avrebbe scorto il cambio della sua espressione. Si affrettò a simulare un colpo di tosse, sforzandosi di rimettersi dritto.

“N-no, deve essere stato questo freddo ad avermi fatto ammalare, tutto d’un tratto.

“Sicuro?” Camus non sembrava affatto convinto.

“Non mi chiamo Camus, ma Milo! - gli sorrise, cercando di alleggerire la tensione e al contempo cambiare il discorso – Tu, piuttosto, non sembri ancora molto in forma...”

“Passerà...”

“Ti stai trattando l’ematoma?”

“Sì, ma la perdita di sangue è stata ingente e...”

“E il taglio, invece, quello...”

“Passerà!” ribadì l’Acquario, glissando l’argomento pertinente alla sua salute.

“Come ogni cosa!”

Anche se, a ben guardare, quel taglio molto vicino alla zona inguinale sembrava ben lontano dal guarire.

Era stato così vicino alla morte, e Isaac lo aveva chiamato ‘papà’, dandogli coraggio e forza, e quello scemo che aveva davanti stava cercando un modo per tornare indietro. Lo Scorpione sbuffò, sospirando: proprio tipico di Aquarius!

“Milo… - di nuovo la voce del migliore amico, un poco tremante – Me lo diresti se, per dire, ti avessero fatto qualcosa per essere venuto a soccorrermi, vero?”

Dannata intuizione! Camus sapeva essere pedante a volte, e assolutamente inopportuno, quanto… straordinariamente intelligente e percettivo!

“Ce-certo! Non sono Camus, ma Milo!” gli ripeté con una tacca di incertezza, che tuttavia nascose velocemente. Gli fece l’occhiolino, facendogli capire che stava bene, anche se tutto quel bene non sentiva.

L’Acquario parve rilassarsi a quell’ultima frase, mentre, riaccompagnandolo in soggiorno, lo aiutò a prendere le cose di Sonia.

“Le ho promesso che sarei tornato a primavera per il rapporto al Grande Sacerdote, è una promessa da Cavaliere!” lo avvisò, accarezzando teneramente la testa della ragazzina, che nel frattempo Milo aveva preso in braccio.

“Ah, sarebbe perfetto, è da più di un anno che non ti fai vedere da quelle parti, le sei mancato molto...”

“Lo so… - ammise, facendosi corrucciato – I doveri mi bloccano qui!”

“I doveri e gli affetti, Cam, i doveri e gli affetti!” ripeté Milo, scrollando il capo come a dire che era davvero senza speranza.

“Che dir si voglia! - si raschiò la gola, imbarazzato, prima di accennargli un sorriso – Donc, à bientot, mon amie!”

“Sì, a bientuat...”

“Vedo che la tua abilità di storpiare una lingua non è cambiata affatto da quando eravamo piccoli!” commentò, un poco rilassato.

“Neanche la tua di rifuggire i legami!” gli fece notare l’altro.

Camus scosse la testa, ancora più imbarazzato, guardando altrove.

“Domani riprendo gli allenamenti, sarà come prima… io un maestro e loro gli allievi!”

“Non sarà più come prima, smettila di cantartela, Cam!”

Camus si irritò a quell’ultima frase, allontanandosi da lui peri guardare nuovamente fuori dalla finestra, distante, anzi distantissimo: “Ricondurrò a forza tutto all’ordinarietà, lo faccio per il loro bene, Milo!”

“...e per il tuo male, Cam! Ma tanto so che sei un testone inarrivabile, fai quindi come meglio credi!” disse, piccato, prima di prepararsi ad usare la velocità della luce per tornare in Grecia con la piccola e sparire in un lampo.

Camus rimase silente a guardare l’atmosfera ovattata fuori, la poca luce che irradiava i contorni e il vento che sferzava le persiane.

“Sì, sarà… tutto come prima!” ripeté, tentando di convincere sé stesso.

 

 

* * *

 

 

Isaac stava passando la seconda notte completamente insonne, c’era da aspettarselo! Le parole del maestro gli continuavano a ronzare nelle orecchie e, insieme ad esse, quella spiacevole sensazione di perdita che, ogni giorno, acquistava sempre più campo in lui. Non lo avrebbe mai ammesso, perché si reputava grande, ormai, ma aveva paura; una viscerale paura, in larga parte ingiustificata, si ripeteva, di perdere nuovamente la famiglia che si era difficoltosamente trovato. Si avvolse ancora di più nelle coperte, rannicchiandosi nel percepire quel calore confortevole che lo cullava, sentendosi davvero fortunato ad essere lì, con loro, al sicuro. Provò ad addormentarsi a quei pensieri, ma non bastavano, si percepiva comunque irrequieto, il giovane cuore scalpitante nel petto, senza nemmeno saperne il motivo. Infine si mise seduto, accompagnando le coperte in grembo e lasciandosi calmare dal respiro cadenzato di Hyoga, che invece dormiva della grossa nell’altro letto. Beato lui, davvero! Dovunque si adagiasse prendeva subito sonno, una dote che gli era rimasta fin dall’età infantile. Infine decise di alzarsi e scendere le scale a piedi nudi, nonostante il freddo. Aveva un viscerale bisogno di andare in camera di Camus, come quando, da piccolo, dopo un incubo atroce in cui i suoi genitori gli morivano ancora una volta davanti agli occhi, si rifugiava tra le coperte del letto del suo mentore. Certo, quelle erano cose da poppanti, non le avrebbe più fatte, ma aveva comunque il bisogno di stare vicino a lui, osservarlo, per imprimersi ogni più piccolo particolare della sua fisionomia.

Quell’ultimo pensiero lo spaventò, mentre, accelerando l’andatura, si dirigeva in camera sua. Tutto quel bisogno di stargli vicino… che davvero il tempo da trascorrere insieme stesse volgendo al termine?! No! Nessuno gli avrebbe più strappato altro, NESSUNO!

Il respiro cadenzato e ritmico di Camus lo accolse appena varcata la soglia della stanza e lo rasserenò almeno un poco, mentre, con la mano un poco tremante, accendeva la luce. Il maestro non si mosse dalla sua posizione difficoltosamente raggiunta, ma le palpebre si strinsero appena, prima di rilassarsi nuovamente. Era stremato, non c’era alcun dubbio.

Isaac sorrise appena nel constatare le condizioni del letto, la trapunta disordinata, le lenzuola sparse, atte ad indicare tutte le baruffe che il maestro aveva compiuto prima di addormentarsi.

Camus era infine riuscito a prendere sonno sdraiato su un fianco, il sinistro, il suo preferito, nonostante tutto il dolore che certamente ancora provava alla pancia. Le coperte non lo coprivano che dall’addome in giù, disfatte, una mano protratta in avanti, il palmo semi-aperto e l’altra piegata vicino al petto, come a volerselo coprire; i capelli sparsi sul cuscino, l’espressione non del tutto lieta, ancora un poco sofferente, nonostante il gonfiarsi del suo petto fosse privo di scossoni o di segni di particolare pena. Respirava con regolarità… stante ciò che aveva vissuto quel febbraio sembrava la cosa più bella a cui assistere: il lento alzarsi e abbassarsi del suo petto, come era naturale che fosse. Gli vennero gli occhi lucidi nel ricordare quei momenti terribili, quell’immobilità che lo aveva sconvolto, mentre percepiva la sua vita scivolare via senza che ci potesse fare nulla. In fretta, celò un singhiozzo dentro di sé, serrando le labbra, mentre istintivamente gli accarezzava i capelli ribelli. Essi gli ricadevano sulla fronte dopo il suo passaggio, cosicché Isaac ripeté il gesto varie volte, come un rituale. Ancora Camus non si mosse, da quanto fosse fisicamente e psicologicamente provato, il che era un bene per il ragazzo, che si sarebbe vergognato ad avere un altro raffronto con lui, l’ennesimo. Sospirò, mentre, con gli occhi attenti, percorreva tutto il suo corpo fino ad arrivare a dove la coperta celava l’addome, lasciandogli così scoperto metà ombelico e, soprattutto, quell’ematoma che, nonostante i giorni passati, continuava ad essere testardamente viola, in paurosa opposizione con la sua pelle candida. I lividi del braccio, invece, più piccoli, erano già in vistoso assorbimento, essendo virati sul giallo.

Quasi inconsciamente la mano libera di Isaac si mosse verso il suo basso ventre, scostandogli la coperta fino all’inguine in modo da poter vedere, ancora una volta, l’incisione procurata da Elisey, arrossata nei margini. Gliela sfiorò delicatamente con l’indice, mentre si accorgeva che il respiro di Camus, forse percependo un’intrusione, si faceva un poco più accelerato nonostante il sonno profondo. Il giovane allievo lasciò quindi quella zona per dirigersi verso la mano tesa in avanti che strinse, l’altra ancora tra i capelli del maestro, mentre, alzandogli ancora una volta i ciuffi, gli scoprì la fronte, dove posò un leggero bacio.

“Ti voglio bene, papà...” gli sussurrò, sostando un po’ lì, quasi palpitante, nella paura che quei momenti gli potessero venire strappati per sempre. Socchiuse gli occhi, percependo tutto l’affetto che provava per lui. Gli ultimi avvenimenti avevano cambiato tutto, niente era più come prima, entrambi lo sapevano, ma Camus era più bravo di lui a celarlo. Non se ne meravigliò affatto, anche se era difficile da digerire.

“ Mmh, Is..a...ac”

Sussultò nell’udire il suo nome, mentre si sentì stringere la mano che aveva intrecciato la sua, una stretta fioca, perché Camus era ancora addormentato, ma riusciva comunque a percepirlo debolmente per cui lo aveva chiamato. Si emozionò.

“Perd-onami...” biascicò poco dopo, quasi sospirando, muovendosi appena per sistemarsi meglio sul cuscino.

Isaac non riusciva a capire a cosa si riferisse, se alla loro discussione avvenuta prima o a motivi più profondi, ma non importava, la sua voce lo aveva raggiunto e tranquillizzato, come solo lui sapeva fare, come quando era piccolo. Si ricordò le parole di Hyoga, a proposito del fatto che il loro legame non si sarebbe mai spezzato.

“Non hai nulla di cui rimproverarti, hai fatto del tuo meglio, Camus...” gli disse, tornando ad accarezzargli la chioma, gli occhi lucidi.

“N-on meri-to di es-sere chiamato pa-pà, d-da te...”

“E invece lo sei, Camus… lo sei sempre stato, ma mi vergognavo a dirtelo fino a qualche giorno fa, quando… ho rischiato di perderti per sempre! – si bloccò tremante, nel rivivere per la milionesima volta quei ricordi atroci, e così la paura – Sono sciocco anche io, vedi?” ironizzo poi, continuando ad accarezzarlo, perché sembrava che avesse piacere a percepire il suo tocco sulla sua pelle.

Durante gli allenamenti avrebbe dovuto tornare forzatamente al ‘Voi’ e appellarlo nuovamente ‘maestro”, ma in quel momento d’intimità, in cui, pur giacendo addormentato e sofferente, gli aveva stretto la mano, poteva permettersi più confidenza.

Camus si era nuovamente lasciato andare, ripiombando a dormire, forse un poco meno dolorante di prima; il ragazzo gli lasciò la mano, tornando di nuovo sul basso ventre che gli ricoprì con le coperte, tirandogliele su fino all’altezza del braccio.

“Dormi ora… devi recuperare le energie perse. Non ti preoccupare per me, tornerò prima dell’alba!” lo salutò, permettendosi di passare la mano un’ultima volta tra i suoi capelli, prima di raddrizzarsi, la testa concentrata sui suoi obiettivi. I suoi occhi si illuminarono in una scintilla di determinazione, mentre, senza più esitazione alcuna, lasciava quella camera, indossava le scarpe e usciva dall’isba per dirigersi fuori, al gelo che li circondava.

La lunga notte artica era rischiarata dalle Luci del Nord, dall’Aurora Boreale, che sembrava quasi possedere vita propria da quanto fosse sfavillante. I bagliori verdi sembravano quasi indicare un percorso tra cielo e terra, creando fasci luminosi che percorrevano la volta celeste, formando percorsi, vie, perfino universi diversi. Sembrava quasi collegare il suo piccolo battito, il suo appena accelerato respiro al Grande Tutto.

I passi di Isaac erano sicuri sul ghiaccio, non ancora al livello di quelli del Maestro Camus, no, ma neanche come quelli stentati di quando era piccolo. Sapeva benissimo dove andare, i suoi occhi in quegli anni di addestramento si erano mitigati al buio, permettendogli così di destreggiarsi perfino nelle tenebre più fitte. Non aveva bisogno di altro per tracciare il suo cammino che non delle Luci del Nord, che lo guidavano, e di quel richiamo che percepiva, che lo attirava verso una meta conosciuta.

Camminò per una buona oretta, non disdegnando la fatica né la lieve accelerazioni dei battiti cardiaci. L’ultimo tratto da percorrere era in salita, quello fu un poco più difficile dei precedenti, perché il piede sotto, quello di appoggio, a contatto con il ghiaccio franava in giù, sbilanciandolo. Finalmente raggiunse la cima del picco ghiacciato, scorgendovi una figura girata di spalle intenta a sollevare il braccio in direzione dell’ampio cielo. In quell’istante, gli occhi di Isaac furono riempiti di una luce quasi accecante color verde smeraldo, che delineò ancora di più i contorni intorno a lui, nonché dell’entità che aveva davanti e che indossava una veste lunga, pendente, dei pantaloni larghi e degli stivali pesanti, foderati di pelliccia. L’aurora sempre più abbagliante, che ora formava strane sagome sulla volta celeste, delineò per lui, nella sua concretezza, la figura del vecchio Sciamano.

“Ti stavo cercando… Elisey!” lo salutò, accennando un passo.

“...Ed io ti stavo aspettando, Isaac! - gli rispose lui, voltandosi nella sua direzione dopo aver abbassato il braccio – Anche se pensavo arrivassi da me molto prima...” aggiunse, sorridendo leggermente.

Indossava una veste sacerdotale, pesante, in testa un copricapo a mo’ di fascia, con alcune piume azzurre quasi mistiche. Nella mano destra, ben saldo, il bastone, mentre nella sinistra un tamburo: era la prima volta che Elisey si mostrava nella sua tenuta da Sciamano, anche se Isaac lo aveva sempre visto vestirsi in maniera piuttosto eccentrica.

“Tu aspettavi me? E da quando?! Ci siamo visti l’altro giorno!” chiese delucidazioni il ragazzo, inarcando un sopracciglio, accennando altri due passi nella sua direzione.

“Sapevo semplicemente che questo giorno sarebbe arrivato, me lo hanno riferito gli spiriti superiori” si limitò a dire, dando un’occhiata al trionfo di luci in cielo.

“Certo, gli spiriti che ti parlano… meno droghe la prossima volta, Elisey! - commentò scettico Isaac, nel consueto tono irriverente – Ad ogni modo, ho bisogno del...”

“...mio aiuto, lo so, ma, se non ci credi, cosa sei venuto a fare?!”

“Disperazione e… - borbottò, un poco burbero, prima di alleggerire il tono – e ti ho visto comunque operare come Sciamano”

“La tua richiesta sarebbe quindi…?”

“La dovresti sapere, se parli con il Grande Tutto!”

“La voglio udire con queste mie orecchie, ragazzo...”

“Uff, liberami da questa cosa, Elisey, non… non riesco più a trattenerla, ogni giorno è sempre più difficile, per poco ci mancava che...”

“...che accoppassi un’innocente, anche questo lo so!”

Isaac lo guardò incredulo, costernato, prima di riportarsi forzatamente alla calma.

“Ho bisogno del… tuo aiuto… ti… p-prego! Non ce la faccio davvero più...” ammise infine, sebbene gli costasse una grande fatica per il suo orgoglio.

Elisey tacque, scrutandolo nel profondo, i suoi occhi brillavano intensamente sotto quell’aurora, quasi lampeggiavano, regalandogli un’aura di magnificenza e di potenza cui era impossibile rimanere indifferenti. Sembrava davvero così vigoroso, così sublime, quasi abbagliante, impossibile da contenere. Forse davvero il vecchio Sciamano avrebbe potuto fare qualcosa per lui, spezzare quell’entità che non lo faceva più dormire, obbligandolo a vivere nella paura di perdere i suoi affetti, la sua famiglia, di nuovo. Come un eterno ritorno.

“Non ne posso niente, mi dispiace...”

Quelle parole, pronunciate in un tono pentito, lo folgorarono, gettandolo nella più nera disperazione. Isaac si fece forza nel non crollare a terra, sul permafrost, ingoiando a vuoto prima di rigettare con tutte le sue forze quella sentenza che sembrava capitale.

“Ma... hai salvato Camus da morte certa!”

“Non sono stato io, ma Zima… Zima che si è collegata a te! Tu lo hai salvato!”

“Ma… ma… hai comunque operato magistralmente per farlo stare meglio, hai combattuto per mantenerlo in vita, io l’ho v-visto!”

“Isaac, non ne posso niente, perché… - prese una breve pausa, chiudendo gli occhi e rimanendo lì in attesa per qualche secondo, prima di riaprirli – non è una mera possessione curabile con un esorcismo, la tua, sei tu!”

“Io… sarei… cosa?!”

“L’eone, il Kraken! Sei tu, ragazzo, è intessuto dentro di te, è nato con te, mi intendi?”

“N-no, non è possibile, io sono… umano!” provò a ribattere, con convinzione, cominciando però a vacillare.

“Sei un umano con questo principio dentro di te. Ricordi quando ti ho parlato di Zima, sulla sua decisione di fare un patto con gli uomini, dal quale dipendono i suoi stessi poteri?”

“S-sì!”

“Si crea un legame molto profondo tra lo Sciamano e il suo Eone, l’uno dipende dall’altro, l’uno non può essere separato dall’altro, è un qualcosa di assoluto...”

“I-io non ho mai fatto alcun...” tentò nuovamente Isaac, sgranando gli occhi, mentre una consapevolezza atroce prendeva possesso di lui.

“...Questo vale per Zima e per moltissimi altri, ma a volte lo spirito, o Eone, è talmente potente, talmente desideroso di vivere, a prescindere, che non ha bisogno di chiedere il permesso, semplicemente si lega all’anima di un bambino nascente e rimane dentro di lui per sempre. Separarlo è impossibile, le due entità sono talmente compenetrate una nell’altra che forse neanche la morte può dividerli!”

“I-io… n-no… NO!”

“E’ il tuo caso, Isaac! Tu sei il Kraken, non posso separarti in alcun modo da lui!”

Le ginocchia del ragazzo cedettero, facendolo cadere a terra, livido e tremante. La cosa più terribile di quelle rivelazioni, si accorse, era che lui le sapeva già, dentro di sé, come verità sempre celata nella parte più profonda del suo essere.

“I-io… io sono destinato a diventare Cavaliere di Atena, n-non preda di questa cosa, di questo… obbrobrio!”

“Mi dispiace, ragazzo...”

Quelle parole furono sufficienti a farlo scattare in piedi, nuovamente furioso. Non poteva arrendersi, Camus gli aveva insegnato di non gettare mai la spugna, non lo avrebbe fatto, nemmeno quella volta.

“Che ne sai tu, Elisey, dimmelo! Non ci siamo mai visti prima che il maestro ci facesse conoscere, come pretendi di sapere, con così tanta dovizia di particolari, cose antecedenti al mio addestramento?!”

“Credi che ti stia mentendo?” il tono del vecchio Sciamano si era fatto glaciale.

“I-io… non lo so!” biascicò, prostrato, non sapendo più cosa dire. Continuava a guardarsi intorno, per terra, sul terreno che sembrava ammantato di diamanti, oppure ai contorni delle cose che avevano quella luce verdolina sgargiante, ma non riusciva a fissarlo negli occhi. Si accorse di avere paura.

“Isaac… - la voce di Elisey lo destò dal torpore, la sua mano sulla sua spalla lo fece sobbalzare, si era avvicinato fin troppo a lui e ora lo scrutava con quegli occhi neri e profondi che luccicavano – Ora chiudi gli occhi!” lo avvertì prima di posare la sua fronte su di lui.

Il ragazzo avvertì una scossa invadere il suo corpo. Ebbe freddo, il respiro si troncò sul nascere, mentre la mente veniva portata lontana, a quel nefasto giorno, che avrebbe desiderato seppellire per sempre...

 

Isaac!”

Il bambino sussultò al suono della voce della propria madre, intenta nuovamente a riprenderlo.

Cosa è tutto questo pasticcio?! Tra poco tuo padre ritorna e gli sembrerà di trovarsi su un campo di battaglia!”

Mamma, è un campo di battaglia! Questi sono gli alleati e quelli i nemici – spiegò il piccolo indicando orgogliosamente le statuine dei soldatini – Loro hanno ucciso le nostre famiglie, i nostri affetti, e invaso le nostre case, noi non possiamo fare altro che difendere e combattere per ciò in cui crediamo! Ci hanno privato della nostra libertà, LI STERMINEREMO TUTTI!” disse con convinzione, un largo sorriso a solcargli le guanciotte. Già, avrebbe difeso ciò in cui credeva, il suo ideale di giustizia, le persone che amava, SEMPRE!

Il piccolo Isaac si aspettava un complimento, una carezza, pur sapendo che sua madre non era il tipo, ma ciò che ottenne fu solo un lungo sospiro e una tirata di orecchie di quelle più terribili. Mamma non era come papà che lo capiva e lo apprezzava, qualunque cosa facesse!

Ahi, fai male, ahiiiii!” si lagnò, sforzandosi di alzarsi in piedi, recalcitrante, con il muso lungo, ribelle come era nel suo carattere.

Ora facciamo un altro giochino, Isaac: se entro 10 minuti tutto questo non sparisce dalla mia vista, farai pulizie per un’intera settimana, va bene?”

No, le pulizie no, mamma!!!” tentò di divincolarsi lui, dimenando le braccia e i piedi.

Perfetto, allora abbiamo un accordo! - sorrise amabilmente la donna, riadagiandolo per terra – Fai sparire tutto e sarai graziato!” lo avvertì, prima di sparire in cucina.

Isaac sbuffò, aspettandosi che si voltasse per farle le boccacce. Sua madre era veramente irritante, non lo capiva, non lo apprezzava, invece di essere orgoglioso di lui. Suo padre invece… il piccolo sorrise nel rimettere in ordine i giochi nel pregustarsi l’arrivo di suo padre, che molto probabilmente lo avrebbe accarezzato e guardato con quei due occhi fieri e dolci al tempo stesso.

Al solo pensiero di quello sguardo ricolmo di orgoglio, persino il riordino era un po’ meno pesante. Sorrise ancora una volta.

Isaac, manca un minuto!” lo avvertì sua madre, dalla cucina, nello stesso momento in cui l’ultimo contenitore veniva richiuso.

Ecco, ho finito, mam...”

TOC! TOC!

Qualcuno aveva bussato alla porta della casa, suo padre era solito aprire con le chiavi, lo sapeva bene, ma l’orario era di rientro era quello, non c’era alcun dubbio, Il giovane cuore gli si accelerò nel petto, mentre, emozionatissimo, si recava dall’uscio con tutte le intenzioni di abbracciarlo e di essere preso in braccio, come era solito fare. Non stava più nella pelle!

Bentornato, pap...”

La manina si era protratta verso la maniglia, si era alzato sulle punte per arrivarci, ma la porta si era aperta prima di arrivarci. Una ventata di gelo lo investì immediatamente -era inverno inoltrato- facendolo ritrarre su sé stesso, in tempo per scansare un qualcosa di grosso che tonfava per terra, come un peso morto.

Gli occhi di Isaac, che si erano chiusi, brucianti, per il gelo, si riaprirono, stagliandosi su altre due orbite, spalancate a vuoto, perse in chissà quale universo esterno. Un attimo.

Un altro attimo dopo il suo sguardo si era spostato oltre, verso un ghigno mortale, e ancora più in giù, al...

Non vedeva nient’altro che rosso. Tale colore si impresse dentro di lui con veemenza.

Il piccolo Isaac non capiva cosa fosse tutto quel rosso che rimbalzava nelle pareti del suo cervello, incidendosi sempre di più dentro di lui, o forse… non voleva capirlo. Rimase fermo e immobile a quella visione, la mano tremante si protrasse istintivamente verso l’uomo che giaceva ad un passo da lui, vuoto.

P-papà?” chiese ancora, mentre con la manina gli accarezzava la fronte ancora calda e i capelli.

Papà!!!” insistette, non scorgendone alcuna reazione. E l’abbraccio? E quel suo prenderlo in braccio e metterlo sulle spalle? Perché non arrivavano, perché stava così immobile, scomposto, le orbite vuote e…

Ad Isaac venne un conato di vomito nello scorgere la sua gola tagliata di netto, dalla giugulare, in un mare rosso rubino che continuava a stagliarsi nel suo cervello, facendogli male.

Infine capì. Suo padre non l’avrebbe più preso in braccio, mai più.

Provò l’impulso di precipitarsi ad abbracciarlo, di scuoterlo, ma l’unica cosa che gli riusciva era di continuare a fissarlo con sguardo assente, perso.

Alle sue orecchie giunse appena il suono di stivali che penetravano nella sua casa, distruggendola per sempre.

Non importava. Ciò che stava succedendo non aveva davvero importanza, nulla aveva più senso. Due figure scure, vestite di nero, avevano definitivamente varcato la soglia, frantumando irreversibilmente il suo nido.

CAROOOOOOOOOOOOOOOO!!!”

Anche l’urlo angosciato di sua madre lo raggiunse appena, mentre dei guanti spietati lo afferravano, sollevandolo con brutalità. Non reagì, come un bambolotto, il suo cervello non era più in grado di elaborare alcunché.

Siamo venuti a pareggiare i conti, Petra!”

Sentì appena una voce caustica, qualcuno che estraeva un coltello, puntandoglielo contro, forse anche tagliandolo. Non avvertì nulla. Nulla aveva davvero importanza. Nulla.

Inaspettatamente sua madre, probabilmente per disperazione, si avventò contro di loro con un coltello da cucina, forse ferendone uno, si sentì il tonfare di un pugnale, poi uno sparo -avevano anche delle armi da fuoco?! Perché stava accadendo a loro?!- non ben definito. Tutto era molto confuso, insensato, spietato.

Uno dei due malviventi cadde a terra, imprecando, la presa ferrea che stringeva il piccolo Isaac scemò fino a scomparire, il bambino si sentì cadere, prima di essere acciuffato da qualcun altro che però cadde a sua volta, impedendo comunque a lui di farsi male.

Maledetta troia!”

Un urlo, qualcosa si inceppò, altre imprecazioni. Tutto sembrò congelarsi per qualche secondo.

Isaac si sentì quel rosso addosso, era rovente, gli scivolava sul corpo, mentre qualcuno lo teneva stretto, cercando di dargli calore, avvolgendolo con il grembiule. Un rantolio sommesso... lungo tutti quegli istanti.

Si udì uno scatto, il fucile nuovamente puntato verso di loro, Isaac ne percepì appena il movimento, quasi al rallentatore. Fuori nevicava e la neve era a sua volta imbrattata di rosso, ma qualcuno lo stava abbracciando e, quel gesto, era caldo, profumava di amore. E l’amore, gli era stato detto, poteva salvare tutti. Bugia. Non tutti potevano essere salvati… Isaac lo capì in quell’istante.

Mam-ma...” la chiamò in un filo di voce, vedendola insanguinata e in lacrime, mentre si posizionava sopra di lui, la mano dietro la sua nuca nell’intento di proteggerlo fino all’ultimo.

Mamma e papà ti vorranno sempre bene, Isaac, non dimenticarlo mai! Vivi! Continua a vivere anche per noi, piccolo!”

Il resto fu solo una crivellata di colpi. Tutto si fece buio.

 

“Nooooooooooooooooooooo!!!”

Isaac aveva preso a dimenarsi in lacrime, le mani nei capelli, desiderando quasi strapparli, mentre un dolore troppo grande per essere tollerato si irradiava a tutto il corpo. Ebbe l’impulso di sbattere la testa contro il terreno, di dimenticare tutto quello che gli veniva nuovamente impresso come marchio, si sentì di impazzire, ma Elisey lo aveva abbracciato e ora lo teneva stretto a sé, la testa appena appoggiata su di lui, le mani ferme per trattenerlo. Il ragazzo si sentì irradiare da qualcosa di infinitamente potente che lentamente lo placò, ma non i suoi singhiozzi, che invece trapelavano fuori, impossibili da trattenere. Ricambiò difficoltosamente il gesto.

“Calmati… In verità non si fece tutto buio, tu reagisti, Isaac…” gli disse con fermezza amalgamata a qualcosa di ben più dolce: calore.

Gli occhi di Isaac si spalancarono al vuoto nel rammentare ancora e ancora quelli spenti di suo padre, ma il tutto venne scalzato via dalle luci dell’aurora, che sembravano dargli coraggio e forza. Da tutto quel verde, che profumava di vita, dall’amore, quello perso della sua vecchia famiglia, quello avuto da Camus e Hyoga, concreto, così concreto, da salvarlo.

“I-io...”

“Tu reagisti, Isaac!” ripeté Elisey, accarezzandogli delicatamente la schiena, lasciandolo prendere boccate d’aria contro la sua spalla, in un atteggiamento che non aveva mai manifestato con lui. Isaac se ne sentì pervaso.

“Io… ho reagito!” ripeté, e quella consapevolezza si fece largo in lui.

 

Il moccioso respira ancora...”

E ammazzalo, no? Io sono un po’ impegnato, non mi vedi?! Quella dannata megera mi ha tranciato quasi l’arteria femorale!”

Uhmpf, colpa tua che ti sei fatto sorprendere!”

Voltò la donna con un calcio, schifato da tutto quel sangue che lordava il pavimento e le pareti. Lei era morta crivellata dai colpi del fucile, ma era riuscita a salvare quel piccolo demonietto che era suo figlio, il quale, pur completamente lordato dal sangue della madre e incosciente, stava ancora respirando. Si fermò un attimo a guardarlo con circospezione.

Sei ancora lì? Uccidilo e tanti saluti, devo farmi medicare!”

E se lo vendessimo?” propose lui, guardandolo il complice di sottecchi.

Chi cazzo vuoi che lo voglia un bambino orfano di 6 anni?! Ammazzalo e poniamo fine a questa storia, oltretutto facciamo un favore al mondo così, lo sai!”

Che spreco… - commentò ancora, tirando nuovamente fuori il pugnale per affondarlo nella gola del moccioso. Lo avrebbe sgozzato come un animale, in modo che anche il suo sangue si miscelasse a quello dei suoi defunti genitori – Così andrete insieme all’altro mondo!” ghignò, prima di procedere.

Nel frattempo l’altro era uscito da quella casa, zoppicando. Il sangue non ne voleva sapere di fermarsi. Merda! Forse quella troia gli aveva davvero danneggiato l’arteria, doveva sbrigarsi, se non voleva tirare le cuoia anche lui. Lo irritò la lentezza del suo collega, che perdeva tempo. Davvero che cazzo c’era da esitare così tanto?! Rientrò in quelle quattro mura, sempre più furioso.

Ehi, dico, ma ti vuoi muovere?! Abbiamo già ucciso a sangue freddo e ora esiti per un marmocchio? Ti sei fatto venire una coscienza tutta ad un tratto?!” rimbeccò l’altro che era ancora inginocchiato davanti al moccioso.

Nessuna risposta.

Ehi, dico, sei sordo?! - arrancò verso di lui, con stizza – Oppure mi stai pigliando per il culo?! Dai, muovit...”

Non ebbe il tempo di finire il discorso, semplicemente il corpo del compagno, la sua integrità, si dissolse, come poltiglia sanguinolenta. Un getto di fluidi non ben definiti lo investì, facendogli sbattere la testa e rantolare per terra. Provò ad urlare ma non trovò appigli, semplicemente cadde come corpo morto. Ma era vivo, ancora, ferito gravemente ma vivo. Sbatté le palpebre nel constatare la sua completa immobilità. Cosa diavolo gli era successo?! Cosa..?

Il rumore di alcuni passi lo raggiunse, mentre una figura minuta si accucciò al suo fianco, le orbite spalancate, ma non vuote, più piene che mai; piene di una energia incommensurabile che lo paralizzava completamente, gettandolo nel terrore. Era inerme. Ebbe appena la forza di metterlo a fuoco, di guardarlo un’ultima volta, preda del terrore.

Tu… tu sei davvero un mostro!” biascicò, quasi in trance, mentre la mano del bambino, senza esitazione alcuna, calò, trapassandogli da parte a parte il cuore che smise istantaneamente di battere.

Non più di quanto lo siate voi...” gli uscì una voce gutturale, mentre quella forza sovrumana che lo aveva pervaso, cessava di avvolgerlo, facendolo precipitare nell’incoscienza.

 

“Tieni un fazzoletto per pulirti la bocca...” disse semplicemente Elisey, porgendoglielo. Isaac lo accolse con un moto di gratitudine, mentre, ancora tossendo, lo teneva sulle labbra, tentando di controllare la nuova ondata di vomito che lo aveva invaso. Il resto della cena era già sul permafrost, tributo oltraggioso che lordava quel biancore candido.

“Io arrivai poco dopo… - continuò Elisey, non guardandolo direttamente per rispetto verso la sua condizione – Mi era stato riferito di questa entità che si aggirava nei pressi del tuo villaggio, mi sarei aspettato un eone imbizzarrito, un mostro, ma trovai te e… ciò che rimaneva dei tuoi genitori...”

Isaac avrebbe voluto dire qualcosa, ma così, ginocchioni per terra, piegato in due dalla sofferenza e dagli spasmi del suo stomaco, non riusciva a produrre altro che colpi di tosse sempre più intensi.

“Eri a terra sull’uscio della tua casa, che era stata profanata, sporco di sangue. Ti credetti morto, del resto eri freddo come il ghiaccio e sembravi non respirare neppure, ma ti presi comunque in braccio, entrando nell’abitazione nella speranza di trovarvi qualcuno vivo… - prese una breve pausa, carica di tensione – Per terra c’erano i poveri resti di tua madre e tuo padre, mentre quei due… beh, erano ridotti in poltiglia sanguinolenta, come se qualcosa li avesse fatti a pezzi e smembrati… tu, o meglio, il Kraken...”

“...”

“Ciò che era successo mi fu subito chiaro, non c’era altra spiegazione, l’eone a cui davo la caccia, il Kraken, era veramente impazzito, ma talmente intessuto nel tuo essere da non poter essere diviso. Tuttavia era debole a causa di ciò che aveva fatto, non sarebbe quindi potuto intervenire una seconda volta, era quindi un’ottima occasione per… distruggerlo, o meglio, disintegrare la sua emanazione corporea: tu. Esitai... - il tono di Elisey si era fatto ancora più grave – Sapevo che il tempo per agire non era molto, il Kraken è profondamente instabile, Isaac, nonché potente, è un principio distruttivo incontrollabile, con una energia vitale praticamente inesauribile, avrei dovuto smembrare il tuo corpo, pur sapendo che l’eone si sarebbe incarnato in qualcun altro prima o poi, ma...”

“M-ma…?” chiese a stento Isaac, il respiro ancora affannoso.

Elisey sorrise mestamente, scrollando la testa, e Isaac giurò, per un solo istante, di vedere una lacrima solcargli una ruga del viso per poi sparire nel collo: “Ma in quell’istante apristi gli occhi, afferrandomi debolmente la mano. Avevi una strana luce in quegli occhietti, non c’era solo la distruzione, ma anche… qualcosa di speciale… che non seppi definire in altro modo che l’attaccarsi disperatamente alla vita, come le radici degli alberi che, strenue, si conficcano nel terreno. L’istante dopo scoppiasti a piangere, chiamando a squarciagola i tuoi genitori...”

“E quindi non mi uccisi… ebbi compassione di me!”

“Già, non sono riuscito a… ucciderti! Ti presi con me, dopo aver sepolto i tuoi, furono giorni di febbre molto alta e deliri. Ti portai con me in Siberia, ti affidai a Pavel, il marito di Leila...”

“...Che mi affidò al Maestro Camus!”

“Esattamente!”

Isaac era finalmente riuscito a rialzarsi in piedi, le guance ancora bagnate dalle lacrime, in bocca un retrogusto amaro. Strinse i pugni, osservando vacuo i dintorni appena rischiarati dall’aurora.

“Io avevo... altri ricordi… di quel giorno!” disse, con gran fatica.

“Non me ne meraviglio, hai subito un grosso trauma...”

Isaac strinse con ancora più foga i pugni, serrando la mascella.

“Quindi quando Camus mi ha presentato a te, tu...”

“Ti conoscevo già, esatto, ma ho fatto finta di vederti per la prima volta, del resto tu non ti rammentavi di me, e forse è stato meglio così… beh, ad essere onesti, anche io ho contribuito personalmente nella, possiamo dire, manomissione delle tue memorie!”

“E’ inconcepibile tutto questo! I-io… io li ho uccisi, io, con queste mie mani!” biascicò, mentre una sensazione agrodolce lo investiva. Era quindi stata fatta giustizia, ma questo rendeva lui allo stesso livello di quei mostri.

Elisey non rispondeva più, lasciava il tempo al ragazzo di far attecchire questa nuova verità su sé stesso. Ad un certo punto lo avvertì rabbrividire, mentre si voltava nella sua direzione, gli occhi sbarrati, come a voler chiedere ancora qualcos’altro.

“Cosa c’è, Isaac?” lo incentivò, raspando brevemente sul terreno.

“Se questo… mostro… è dentro di me, perché non è intervenuto prima?! Prima che anche mia madre fosse barbaramente trucidata?! A-avrei potuto salvarla, a-avrei potuto...”

“Il Kraken preserva sé stesso, e quindi te, non è interessato a salvare anche i tuoi affetti, non è di così nobili intenti, Isaac!”

“Ma… ma prima...”

Il ragazzo si ritrovò a mordersi il labbro inferiore, ricordando l’incidente avuto con Sonia. Quindi quel mostro dentro di lui l’aveva reputata un pericolo per sé stesso?! Se fosse stato davvero così... allora perché si era sentito l’artefice primo, riuscendo infine a scacciarlo? Cosa c’entrava la sua gelosia? Che il Kraken dipendesse… dalle sue emozioni, più ancora di reagire ad un istinto di autoconservazione?! Sì, era vero, con i suoi era intervenuto solo quando lui aveva rischiato di morire, ma con Lisakki, per esempio…

Isaac si illuminò. Con Lisakki aveva avuto un impulso simile, incontrollabile, ma gli era scaturito dal vedere l’amico morto, non di certo per altro motivo… sì, era così! Il Kraken, forse, pur partendo come principio a sé stante dentro di lui, stava venendo contaminato dalle sue emozioni, dai suoi impulsi, dalla sua stessa volontà. Forse… c’era davvero un modo per… imbrigliarlo!

“Elisey, questa cosa non può essere estirpata da me, giusto?”

“No...”

“C’è un modo per controllarla?”

“E’ difficile, ragazzo… non è un Eone qualsiasi!”

“Ma… il modo c’è?”

“Sto facendo ricerche da anni su questa cosa, per il momento sono in alto mare, ma...”

“Ma non hai detto di no, quindi sussiste una speranza!”

“Forse! Che intenzioni hai, ragazzo?”

“Sublimarla!”

“Da solo?”

“U-un modo lo devo trovare, io… SARO’ CAVALIERE DI ATENA! Sono nato per combattere al fianco del Maestro Camus e riportare la giustizia su questa bella Terra! Non permetterò più che accada ad altri ciò che ho patito io!!!”

Elisey si permise di osservarlo. Sembrava tornato l’Isaac di sempre, nonostante la disavventura avvenuta con Camus, nonostante non avesse la minima idea di dove andare a sbattere, nonostante il ricordo autentico fosse tornato, tramortendolo. Aveva tutte le intenzioni di combatterlo, il che era un bene, se c’era qualcuno in grado di farlo era proprio lui ma -si chiese- a quale prezzo? Preferì non pensarci.

“Se questo è il percorso che vuoi per te, procedi, solo tu puoi condurre la bussola e sapere dove andare!”

“Elisey...” Isaac si permise di sorridergli con gratitudine, vagamente risollevato nello spirito.

“Ma...”

“E ti pareva che non ci fosse un ma!” sbuffò, nel distinguere il suo cambio di espressione.

“… stai lontano il più possibile dal mare!”

“Devo stare lontano il più possibile dal..? Perché?!”

Elisey lo guardò gravemente, una leggera piega delle labbra, gli occhi seri come non mai, acuminati come pugnali.

“Il Kraken è essenzialmente un mostro marino, in acqua è più forte. Lui… ti potrebbe portare esattamente dove vuole andare. Non ci sarà sempre Camus a vegliare su di te!”

“A-andiamo, Elisey, io… so nuotare piuttosto bene, e poi...”

“Stai attento al mare, ragazzo! Stacci lontano!” ribadì, secco.

“Uff, va bene starò attento al mare! - affermo, deciso, guardandosi comunque spaesato intorno, non abituato a tutte quelle attenzioni che il vecchio rivolgeva a lui – In fondo, al di là degli allenamenti, basta non buttarsi tra le sue correnti, no?” tentò di sdrammatizzare, accennando una breve risata che tuttavia non fu seguita da quella di Elisey, ancora rigido nelle sua posizione.

Quella raccomandazione, velata da una certa preoccupazione appena distinguibile, pareva tanto… una malaugurata profezia!

 

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

E con questo capitolo si conclude l’arco narrativo legato alla Siberia, a Zima ed Elisey. Questi personaggi continueranno ad apparire in questa storia, percorrendo insieme il cammino che li condurrà verso gli eventi della serie classica ma, per il momento, dal prossimo capitolo, il focus tornerà su Milos e su una situazione… beh, un po’ bollente, diciamo! XD

So bene che ultimamente ho puntato molto su questa storia, ma volevo chiudere quest’arco prima di passare alle altre, presto torneranno anche i mini-gold, Zima e i 5 Pilastri, non la Melodia della neve che, per il momento, è in pausa. :)

Dunque, ci sarebbero molte cose da dire su questo capitolo, io ne scelgo una, anche perché poi non vorrei essere troppo pesante anche qui e il capitolo è già sufficientemente lungo: la figura di Camus come Maestro e padre.

Come sapete, Camus è il mio personaggio preferito, è un simbolo, un emblema, mi piace da morire la caratterizzazione che ha nel manga (meno quella dell’anime che, per me, ha rovinato il personaggio), ma in questo capitolo parlo di lui in veste più che altro “critica”, ovvero che Camus, essenzialmente, come Maestro, fallisce. Fallisce con Hyoga nella Battaglia delle 12 Case; fallisce anche con Isaac, ed io voglio sottolineare questo fatto: la non comprensione fra i due, il fatto essenzialmente che Camus voglia esorcizzare il Kraken, il suo principio distruttivo, invece di comprenderlo, di comprendere Isaac, lasciandolo così solo contro questa entità. Un peso, di certo che avrà poi per tutta la vita, stante il profondissimo rapporto che c’è tra i due e che, nella Melodia della neve, tenterà anche di spiegare a Marta. Come si sente Camus? Come si sentirà quando, lo sappiamo, a settembre l’allievo sparirà nelle correnti oceaniche?! Questo si vedrà bene… anche se alcuni accenni ci sono già sparsi qui e là perle fic.

A tal proposito, ancora una volta, più risolutivi di lui sono Milo e lo stesso Elisey. A Milo bastano poche parole per far sentire meglio Isaac, ad arrivare dove Camus non riesce ad arrivare, perché ha un muro davanti, ha paura di avere un legame così profondo con qualcuno; un legame che, anche questo lo sappiamo, lo distruggerà dalle fondamenta quando lo perderà. Milo è un ottimo maestro, forse più di Camus, lo si vede bene anche nella serie originale, con Hyoga, e ho voluto riproporlo anche con Isaac. Elisey, d’altro canto, condivide un’esperienza con il ragazzo, riportando alla luce le vere memorie della violentissima perdita dei genitori. Elisey è lampante sappia qualcosa, abbia un sinistro sentore, lo si capisce dall’avvertimento finale.

Camus, quindi, come maestro, secondo la mia visione, fallisce. Fallisce con Hyoga, con Isaac, in entrambi i casi sbaglia totalmente approccio ma trovo che questo renda il personaggio ancora più meraviglioso e umano, i suoi fallimenti, i suoi sbagli, che lo porteranno, vi anticipo, nelle mie storie a cambiare e maturare sotto molti punti di vista.

Farà di tutto, se non di più, per non ripetere gli stessi errori con Marta, Michela e Francesca; con Hyoga la partita è ancora aperta, chi segue le altre storie sa che questi due personaggi sono fratturati in seguito agli avvenimenti contro Nero Priest, ma anche qui, lo vedremo, la situazione, in qualche modo si risolverà, avvicinando ulteriormente i due personaggi.

Grazie a tutti come sempre e alla prossima! :)

 

 

 

  
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