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Autore: Ghen    13/02/2021    1 recensioni
Dopo anni dal divorzio, finalmente Eliza Danvers ha accanto a sé una persona che la rende felice e inizia a conviverci. Sorprese e disorientate, Alex e Kara tornano a casa per conoscere le persone coinvolte. Tutto si è svolto molto in fretta e si sforzano perché la cosa possa funzionare, ma Kara Danvers non aveva i fatti i conti con Lena Luthor, la sua nuova... sorella.
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Non solo quello che sembra! AU (no poteri/alieni) con il susseguirsi di personaggi rielaborati e crossover, 'Our home' è commedia, romanticismo e investigazione seguendo l'ombra lasciata da un passato complicato e travagliato, che porterà le due protagoniste di fronte a verità omesse e persone pericolose.
'Our home' è di nuovo in pausa. Lo so, la scrittura di questa fan fiction è molto altalenante. Ci tengo molto a questa storia e ultimamente non mi sembra di riuscire a scriverla al meglio, quindi piuttosto che scrivere capitoli compitino, voglio prendermi il tempo per riuscire a metterci di nuovo un'anima. Alla prossima!
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Kara Danvers, Lena Luthor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ours'
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Buondì! Questo capitolo sarà allegato da una breve prefazione e una notizia buona e una cattiva...
Partiamo con la buona: Our home è tornato! Come dopotutto vedete da soli XD
La notizia cattiva? Sono di nuovo bloccata con la scrittura; è un periodo di alti e bassi e scrivo quando sono dell'umore giusto, ho l'ispirazione buona e così via, quindi tornerò in pausa dopo qualche capitolo. Ma ci ho pensato e magari pubblicare ciò che ho mi aiuterà a continuare, o magari farà l'opposto, chi lo sa, lo scopriremo vivendo...
Quindi nulla, vi lascio alla piccola prefazione… !!Avevo già inserito questa prefazione sotto al capiotolo precedente con un aggiornamento, ma potrebbe essere sfuggito ai più e quindi ripropongo!!


Ho sempre sostenuto che, se si comincia a delineare una trama complessa, o se si scrivono i personaggi in un dato modo, ci dev'essere un perché, un percome, e un inizio. Non mi piacciono i personaggi che si comportano in un certo modo perché sì, né che ci possa essere un'organizzazione criminale nata dal nulla perché deve fare da sfondo alla storia d'amore delle protagoniste e metterle in difficoltà. Poi che ci possa o meno riuscire è un altro paio di maniche, ma non siamo qui per disquisire su questo u_u Dal momento che sono partita a scrivere Our home avevo in mente una trama più complicata e articolata e una più base, e ammetto che quest'ultima mi avrebbe semplificato il mondo, avrei avuto più commenti per capitolo lungo il percorso, e me la sarei sbrigata molto prima, ma ho seguito l'istinto e altre cose, e me la gioco così. Mi rendo conto che molte persone leggono la mia fan fiction solo per la supercorp (e ci mancherebbe, ahahah) e potrebbe non interessare il resto, ma ho un dovere verso questa storia e devo farlo a discapito di tutto. Questa piccola prefazione è per preparavi ai capitoli che verranno! Ricordate che il capitolo 65 sarebbe stato uno stand alone? Non sarà uno stand alone qualsiasi, ma sarà uno stand alone particolare, diviso in sei “minicapitoli” dove potrete leggere l'inizio, passo dopo passo: l'inizio dell'organizzazione. Perché per me non è solo sfondo ma parte integrante di questa fan fiction, proprio come la storia d'amore delle protagoniste.
Cosa posso dire di più? Considerato il tempo trascorso, vi consiglierei di rileggere il capitolo precedente Angel Children's Memorial perché avrà modo di prepararvi a ciò che leggerete ora, non solo per questo stand alone diviso in sei appuntamenti, ma proprio per i capitoli da qui in avanti.
Faremo la conoscenza di personaggi nuovi e altri li conosceremo sotto una nuova luce.
Capire il passato ci aiuta a comprendere e cambiare, chissà, il presente.
Buona lettura!














1963

Qual è il frutto di una tragedia?
L'elicottero sovrastava l'aria sopra la statale, abbassandosi lentamente verso il precipizio in modo da aiutare i soccorsi a raggiungere il pullman precipitato. Ottantotto metri. Un catorcio informe di lamiere appiattito dai continui colpi fino a che si era fermato, tra le esposte grosse radici di un albero. Le telecamere si erano assicurate di riprendere ogni particolare della scena dell'incidente: dai segni lasciati dalle ruote dell'autobus sulla strada al guardrail interrotto e piegato dall'impatto, dai pezzetti di vetro persi sull'erba dei finestrini rotti alla scia di rami piegati su cui inizialmente il pullman sembrava essersi fermato. Louie Luthor guardava costantemente quelle immagini che passavano in televisione. Restava piazzato e, ogni volta che ne parlavano, si allungava in modo da avere il naso davanti allo schermo. Continuare a vederle le rendeva man mano più distanti dalla sua realtà; non sembravano vere, non sembrava qualcosa successo a persone che conosceva, ma i pezzi di un puzzle che doveva provare a ricomporre. I suoi occhi chiari analizzavano e, parlando a bassa voce, per sé, ricostruiva gli eventi. Appena incastrava un elemento che gli soddisfaceva, allora sorrideva e un pensiero veloce gli tornava in mente, un volto, un nome, prima di rendersi conto che quell'elemento era parte dell'insieme che, quel volto e quel nome, glielo aveva portato via. E allora le labbra rosa si piegavano, aggrottava la fronte e gridava, gridava così forte che era l'unico momento in cui sua madre si precipitava da lui prima della domestica; lo accoglieva sul suo petto, ignorando le sfuriate per cui doveva lasciarlo andare, e gli passava una mano sul volto per pregargli di non farlo. Louie non poteva gridare, lei glielo diceva sempre e durante quei giorni più che mai. Non poteva permettersi di stressare il suo corpo nato difettoso. Louie Luthor non poteva fare tante delle cose che le altre persone potevano, che ignoravano quanto fossero fortunate nella loro indipendenza e sfrontata normalità. Ma mai niente aveva invidiato agli altri se non una cosa che lo tormentava: la libertà di assimilare un lutto come gli veniva meglio. Anche gridando.





65.1 Riscatto: Perdita


Oggi

Con la testa pesante che sbatteva nella scatola cranica, Megan si alzò dalla sedia posta in corridoio e si avvicinò al vetro che affacciava alla cuccetta dove riposava John Jonzz. Uh, si grattò le braccia: aveva le pieghe sulla pelle lasciate dai braccioli della sedia. Non si era accorta di essersi riaddormentata, doveva avere un aspetto orribile. Cercò il cellulare per chiedere a Kara se avesse dato da mangiare a Nana e trovò un suo messaggio:
Da Supergirl a Me
Nana ha spazzolato la ciotola in un battibaleno! Sto già andando all'Angel Children's Memorial per la riunione: mi farebbe piacere averti lì, quando vuoi, per una boccata d'aria. Sei la benvenuta!
Ripose il telefono nella tasca destra dei jeans e sospirò: nessuna novità, i medici lo controllavano a ogni ora, era tutto sotto controllo. Forse poteva- Una ragazza le si affiancò davanti al vetro e Megan le fece spazio, squadrandola appena: lunghe trecce scure lungo la schiena, poco più alta di lei magari per i tacchi sugli stivaletti, giacchetta in jeans, il fiatone.
«Ho cercato di essere qui il prima possibile, ma con le bambine e il resto…», sussurrò a fiato corto; poi la guardò e riuscì a farle un sorriso, mostrandole una mano per stringergliela. «Sono Miriam, la ex moglie di John. Tu devi essere Megan».
Il cuore le saltò un battito e le strinse la mano cercando anche lei di forzare un sorriso.
«Non avrei voluto che ci conoscessimo in questa circostanza».
«Già».
Si fermarono a guardarlo e si persero a parlare un po' delle sue condizioni e di cos'era successo. Megan non riusciva neppure a capire cosa provasse perché, se da una parte avrebbe voluto conoscerla presto, dall'altra non riusciva a essere a suo agio a farlo in quel contesto, con il loro John in coma.
«Mi ha parlato di te».
A quell'affermazione, Megan sorrise con più gusto, lanciandole uno sguardo sarcastico: «Non è vero».
Anche l'altra rise, portandosi una mano sul viso. «No… non proprio. Ho dovuto fargli sputare io qualcosa con la forza, da lui spontaneamente non esce neanche uno spillo», annuì.
«Scherzi? Sono cose così… confidenziali».
«L'agente Jonzz non parla! Scommetto che non ti ha detto di essere stato sposato». Megan la guardò ancora alzando un sopracciglio e si misero a ridere, tanto che Miriam le diede una spallata e furono prontamente rimproverate da un infermiere che passava di lì. «Non è quel tipo di persona».
«Già, lui… Gliel'ho fatto notare», le confidò con orgoglio.
«L'ho fatto spesso anch'io, ma forse a te darà più retta».
Megan scrollò le spalle. «Cosa te lo fa credere?».
«Beh, non mi ha parlato di te, ma lo faceva in altri modi… Quando eri tu a scrivergli lo sapevo perché il suo sguardo cambiava... Non doveva dire niente», arricciò il naso. «Tra me e lui non ha funzionato perché eravamo persone troppo distanti, con te è diverso… Lo vedo che è diverso. Può funzionare».
Megan restò in silenzio, guardando John attraverso il vetro. Mosse appena le labbra, poi le piegò, increspando la fronte: «Non sono pronta a perderlo».
Allora Miriam, come una vecchia amica, la colse per le spalle, offrendole l'appoggio di cui aveva bisogno. Anche Louie Luthor aveva detto lo stesso quando per la prima volta gli avevano comunicato del pullman precipitato. Dopo il momento di incredulità, naturalmente. Poteva succedere una cosa come quella? Non poteva essere vero… Non poteva perderli. Non era pronto a perdere loro. A perdere lui.


1962

«Lui è Mark».
All'interno del salone si erano voltati tutti, lasciando le riviste sul tavolo e i puzzle che facevano durante le pause per passare il tempo. Louie aveva spalancato gli occhi: un nuovo membro?
«Ti troverai bene qui con noi», aveva detto il ragazzo del volontariato a quello nuovo, Mark, presentandolo agli altri.
Gli aveva battuto la spalla sinistra due volte, a un secondo di distanza: Louie si era incantato, esaminando la scena e selezionandola con lo sguardo. Mark aveva i capelli di un biondo cenere, opaco, tirati indietro come uno di quei ragazzi che si potevano vedere solo in televisione; un piccolo ciuffo gli sfuggiva e finiva sopra l'occhio sinistro. Indossava una camicia colorata a righe, col colletto chiuso, e un pantalone color cachi. La sua sedia a rotelle era un vecchio modello, cigolava. Ma non era il solo ad averla in quello stato, nessuno lì amava badare a queste cose. Aveva le guance arrossate e presto i suoi compagni avrebbero scoperto che le avrebbe avute per tutto il periodo dell'anno, con il sole o con la pioggia. Gli occhi color nocciola, grandi, le mani pallide e, avrebbe appreso Louie, sempre fredde. Come le sue. Louie se le aveva guardate subito e, quando il ragazzo del volontariato aveva scortato Mark al loro tavolo per fare amicizia, strisciando quelle ruote cigolanti sulle pianelle appena lavate, aveva scoperto da vicino che erano più grandi rispetto a quelle del nuovo arrivato. Le proprie dita erano affusolate, lunghe, la pelle più rosata, le unghie corte e tonde, quasi bianche. Mark aveva le dita più grosse e corte, le unghie rotte ai bordi, marroni sulle punte: doveva trascinarsi spesso da solo quella sedia. Oh, lo aveva sorpreso a guardarlo e Louie aveva sorriso, mostrandogli il pezzo del puzzle più vicino.
«Duemila pezzi, ci stiamo lavorando da ieri», si era scambiato uno sguardo fiero con i due ragazzi al loro tavolo, scrollando le sopracciglia, «Pensi di starci dietro… Mark?». Loro avevano riso, pregandogli amichevolmente di lasciar in pace il ragazzo nuovo. Louie amava stuzzicare gli altri, specie se in qualche modo riuscivano a incuriosirlo.
Quello nuovo aveva allargato gli occhi e dato un'occhiata al disegno del puzzle, un paesaggio, poi di nuovo al ragazzo. «Sono davvero tanti pezzi… ma non mi tirerò indietro».
Quando Mark sorrideva, gli angoli della bocca gli si alzavano in modo strano, aveva una forma al limite del naturale: così curva da apparire disegnata, sembrava un cartone animato e Louie si era assicurato di farglielo sapere, ovviamente, nei giorni successivi. Si era assicurato di fargli sapere parecchie cose nei giorni successivi, veramente: macchie della pelle, lividi, arrossamenti, un curioso bitorzolo sull'attaccatura dei capelli, un piccolo callo sul palmo della mano destra, se gli stavano bene i capelli bagnati quando andavano a fare esercizio in piscina, un graffio sul naso, aveva i capezzoli diversi, come avrebbe dovuto lasciarsi i capelli al naturale dopo averli lavati, che aveva i piedi davvero grandi per la sua altezza, quando aveva invece le orecchie incredibilmente piccole per la conformità della sua testa, i nei nuovi che scopriva e, se non gli piacevano, gli indicava un medico. Il resto dei ragazzi dell'associazione lo trovavano davvero fastidioso quando ci si metteva, anche se certo dopo mesi a conoscerlo si erano abituati, ma Mark prendeva sul serio ogni cosa che gli diceva o si preoccupava spalancando la bocca disegnata come avrebbe fatto un bambino. Era un anno più grande di Louie ed eppure particolarmente ingenuo. Louie trovava affascinante come Mark riuscisse a sopportarlo.
La loro amicizia era destinata a cambiare quando, dopo aver fatto una lunga serie di esercizi di fisioterapia atta a rinforzare i muscoli delle sue gambe, Louie aveva camminato con le stampelle fino a Mark che lo aspettava, pronto per dirgli qualcosa che, per la prima e unica volta, si sarebbe rimangiato fino alla fine dei suoi giorni:
«Cosa ne dici? Scommetto che ora invidi da morire il fatto che le gambe del mio corpo difettoso possono ancora camminare e le tue no». Si era seduto accanto a lui con fatica, su una panca, stringendo i denti e attento a non piegarsi troppo per non scivolare. Mark non aveva risposto. Una volta sistemato, Louie aveva sospirato e tossito, alzando gli occhi per osservare il suo volto smarrito, immobile, che lo aveva fatto pentire all'istante di aver aperto anche in quel momento quella sua boccaccia. Ma non era pronto per sentire quella risposta:
«Non lo sono per niente, Louie», lo aveva guardato negli occhi, finalmente. «Le mie gambe non possono camminare, è vero, ma godo di ottima salute. Il tuo corpo è così fragile che potrebbe spezzarlo il vento. Se proprio devo dirlo… a me dispiace per te».
Lo aveva fatto sentire così in difetto. Non che avesse voluto ferirlo con quella battuta da sentire il bisogno di proteggersi, né di certo aprire a una discussione più seria, era solo una stupidaggine, una battuta infantile rispedita al mittente con violenza: la verità. Se lo era meritato. Louie lo aveva guardato in modo differente da quel giorno. Ed era stato certo che anche Mark doveva essersi pentito poiché non lo aveva più guardato negli occhi per alcuni giorni. Per fortuna non troppi, non ne avrebbero avuti così tanti a disposizione e il destino, beffardo, aveva già fatto partire il triste conto alla rovescia.

«Dovremmo andarcene», aveva sospirato Mark un giorno, nel cortile dell'associazione intenti a prendere il sole. Aveva il volto puntato verso il cielo e gli occhi chiusi, ma il tono della sua voce suggeriva che era serio.
«E dove?», aveva sorriso un ragazzo del gruppo che, sulla panchina accanto, non faceva che guardarsi le mani incantato, osservando il cambio di colore dalla luce all'ombra. «Sei tutto scemo: noi da soli non dureremmo nulla, lo sai?».
«Non è vero», aveva sbottato allora Louie, zittendo gli altri pronti a prendere parola. «Non avete capito cosa sta succedendo? Il Vietnam è solo l'inizio. Credete che la guerra non ci riguardi?», aveva cercato di inquadrare i volti dei compagni ma nessuno di loro aveva ricambiato. «Siamo responsabili anche noi, o pensate che gli storpi siano esenti?».
Uno di loro lo aveva fissato solo allora, aggrottando lo sguardo. «Io non la volevo mica quella guerra, non l'ho chiesta», aveva stretto un pugno. «Smettila! Noi non siamo nessuno per decidere».
«Ma è quello che vogliono farci credere», aveva ribattuto. «Che siamo scarti, e inutili. Che non abbiamo idea del mondo che ci circonda! Ci hanno messo in un angolo e credono che resteremmo lì per sempre! Dobbiamo farci sentire, invece. Fuori da qui ci trattano come… come se non fossimo persone anche noi», aveva aggrottato lo sguardo severo. «Io a quella guerra dico no. Se anche voi dite no, dovete farvi sentire».
Un ragazzo aveva scosso la testa e alzato gli occhi al cielo come se avesse appena sentito la più grande scemenza della sua vita, ma Louie ci credeva davvero a quello che aveva detto e, se anche il resto del gruppo faticava a prenderlo sul serio, Mark vedeva le stesse cose che vedeva lui. E ci sperava.
«Hai sentito di quel movimento?», gli aveva chiesto solo poco più tardi, rientrando nell'edificio. «Ripudiano la guerra, criticano il sistema corrotto! Se riesco ad andarmene, voglio farlo con loro».
«Gli hippy! Oh sì», aveva sorriso Louie, «ti ci vedrei bene un fiore tra i capelli, per dargli un po' di colore».
Lui aveva subito riso. «Scemo… Ti prendevo sul serio». Pensava che la discussione fosse chiusa, ma…
«Ero serio. Vengo anche io a fare l'hippy con te. I fiori stanno bene anche sui miei di capelli, non crederti l'unico fortunello».
Suo padre era un grande sostenitore della guerra in Vietnam, al contrario. Dopotutto, essendo proprietario dell'unica fabbrica di armi di National City, non poteva essere altrimenti. La sfortuna, o forse fortuna, voleva che non avessero un rapporto che andava al di là del loro augurarsi la buonanotte o il buongiorno e non dovevano discuterci. In ogni caso, era sua madre a sedare le discussioni sul nascere per non stressarlo. Lei non aveva posizione in merito, non voleva averla perché suo marito l'aveva per lei. Sua sorella Lara non ci pensava; se ne stava chiusa nella sua camera a scrivere lettere, oppure a ideare qualche piano di vendita per l'azienda che il loro padre non avrebbe mai letto. E Levi, invece, era troppo impegnato a fare da scudo al mondo per la creatura che la sua povera moglie portava in grembo per preoccuparsi del resto del mondo. Dopo aver perso una gravidanza un anno prima e tanto provarci, non avrebbe mai dato nulla per scontato.
«Io sono figlio unico», gli aveva confessato Mark in attesa della fisioterapia giornaliera. «Com'è avere dei fratelli?».
«Non lo so, abbiamo troppi anni di differenza», aveva fatto una smorfia, rigettando dietro la fronte un ricciolo dei capelli scuri. «Non passiamo insieme molto tempo. Preferisco passarlo con te».
Gli aveva sorriso e Mark, di scatto, era arrossito, poiché era la prima volta che si era messo a dirgli qualcosa di carino.
«I miei genitori invece sono… genitori», si era fermato per tossire. «Minacciano sempre di portarmi via da qui perché non vedono miglioramenti, ma loro non cercano miglioramenti, loro cercano…», aveva abbassato gli occhi, «il miracolo. Non esistono i miracoli».
«Io credo nei miracoli, Louie».
«Non dire scemenze, scemo», lo aveva prontamente sbeffeggiato: lo diceva in quel modo così sicuro che lo avrebbe preso in giro per l'eternità, se l'eternità glielo avrebbe permesso.
«No, ci credo davvero! Quando ho avuto l'incidente pensavo sarei morto, ma un miracolo mi ha salvato».
«Ti ha portato via l'uso delle gambe».
«Ma mi ha salvato».
Lui aveva scosso la testa, portando le dita lunghe e affusolate in mezzo ai ricci dei suoi capelli mal pettinati. «E allora che miracolo c'è stato con me?», lo aveva guardato, mostrando i suoi occhi freddi come mai prima.
Mark aveva esitato. «Sei vivo… Louie. Sei qui davanti a me e sei… sei un bel ragazzo, sei…», aveva sorriso imbarazzato, giocando con le dita tozze delle mani, «intelligente, sei… tu il miracolo, Louie».
Era stato ad ascoltarlo; sapeva che quelle parole gli sarebbero entrate dentro con la forza perché non avrebbe voluto perderle nel tempo. Il corridoio era deserto, erano in attesa, l'unico rumore nell'aria era il continuo gocciolare di un secchio lasciato troppo pieno in attesa di lavare il pavimento. Louie Luthor si era avvicinato al suo volto con il proprio e lo avrebbe baciato, lo avrebbe fatto, se la signora delle pulizie non sarebbe apparsa da una porta all'improvviso per portare il bastone con lo straccio. Louie si era tirato indietro subito.
Mark invece non si era mosso e lo aveva guardato di straforo. «La…», aveva ripreso, «La mia fidanzata… è stata lei a convincermi che i miracoli esistono».
Louie aveva spalancato gli occhi di ghiaccio: fidanzata? Mark aveva una fidanzata? Non sapeva neppure perché, a conti fatti, la cosa lo aveva colto di sorpresa così tanto: uno come lui come poteva non aver già trovato con chi passare la vita insieme?
«Tu… Tu non hai ancora una fidanzata, Louie?».
Era stato facile innamorarsi di Mark, difficile sarebbe stato accettarlo. D'altronde, quando aveva conosciuto Kristen, la fidanzata di Mark, comprendeva quanto fosse fortunato. E non voleva di certo portarlo via da lei, avrebbe voluto solo… non lo sapeva. Forse non lo aveva mai saputo.

Si era fatto aiutare da sua madre a lavare i capelli, si era sistemato i ricci davanti allo specchio che continuavano a ricaderli sugli occhi, così ci aveva spruzzato sopra della lacca per tenerli ordinati e sua sorella l'aveva prontamente sgridato perché era sua, prendendo la sedia a rotelle con lui sopra per schiaffarlo in camera sua. Si era guardato davanti allo specchio per minuti interi, immobile, aspettando chissà quale idea brillante. Poi aveva cercato di pettinarseli, non soddisfatto. Aveva sentito l'alito e aveva setacciato casa in cerca di una caramella alla menta, facendo impazzire la domestica. Infine, si era sistemato le pieghe del maglioncino così tante volte da consumarlo, in attesa, vicino alla porta di casa. Mark doveva andare da lui quel giorno, Kristen lo avrebbe accompagnato. Era in fibrillazione. E aveva aspettato, aspettato. Sua madre aveva cercato di convincerlo ad andare a sdraiarsi un po', ma lui aveva continuato ad aspettare piantato lì. La pancia gli aveva iniziato a brontolare a un certo punto, ma non si sarebbe arreso, restando ad aspettare. Poi si era fatto più stanco e aveva chiuso gli occhi.
«Storpio! Ehi, storpio».
Louie aveva aperto gli occhi piano, inquadrando sua sorella Lara in piedi davanti a lui.
«È ora riposare, il tuo amico non verrà».
Tristemente, aveva dovuto darle ragione. L'indomani non gli aveva rivolto parola, anche se Mark aveva cercato di chiedergli scusa spesso e insistentemente, aspettando l'attimo giusto per parlare e venendo sempre interrotti. Entrare in bagno dopo di lui doveva essergli sembrata una bella occasione, sgattaiolando con la sua sedia a rotelle cigolante dai volontari ed educatori impegnati, aspettando che il ragazzo che aveva accompagnato Louie si fosse allontanato, eppure quest'ultimo aveva alzato gli occhi al cielo, mettendo su il broncio appena lo aveva visto davanti alla porta.
«Sto cercando di chiederti scusa».
«E io di ignorarti! Stai ostacolando il mio intento, lo sai?».
Mark lo aveva guardato attentamente mentre si fregava le mani con insistenza sotto l'acqua calda, tentando di grattare via dalle dita chissà quale sporco che vedeva solo lui. Allora si asciugava e si lavava di nuovo, non soddisfatto. Era costretto a farlo più e più volte dai suoi pensieri che lo facevano prigioniero, non gli lasciavano respiro finché continuava a sentirsi sporco, e Mark aveva sospirato: adesso sapeva perché il ragazzo che lo accompagnava al bagno lasciava sempre che finisse da solo. «Sono pulite… Louie».
«No, non lo so-», aveva stretto i denti, mettendo altro sapone.
«Ti aspetto».
«No», aveva girato il collo verso di lui, «Vai, non stare fermo lì, mi dà sui nervi».
«Io ti do sui nervi».
«Anche tu, è ovvio. Oh, ci sei arrivato?». Aveva preso una grossa boccata d'aria: dannate mani! Non erano mai abbastanza pulite! Continuava ad appoggiarle sul lavandino, sporcandole di nuovo. Non ce la faceva più. Doveva stare attento: bagnarle, insaponarle, tenere d'occhio la distanza col piano del lavandino, risciacquarle e… Avrebbe dovuto usare le mani per girare il pomello e chiudere l'acqua, sporcandole di nuovo. Era abituato a farlo con le maniche del maglione tirate fino alle dita, ma avrebbe dovuto farlo una volta asciutte. Si era voltato, sentendo le ruote cigolanti di Mark avvicinarsi. Aveva chiuso lui l'acqua. Che vergogna. Ora non avrebbe più avuto il coraggio di guardarlo negli occhi. «Non avevo bisogno che-».
«Eri in difficoltà, volevo aiutarti».
«Non ne ho bisogno: posso fare almeno questo, da solo?».
Mark aveva sospirato. «Possiamo parlare?», gli aveva chiesto, «Prima che arrivino a cercarci, ti prego».
«No».
«Louie».
«No», aveva digrignato i denti, stando attento a non agitarsi troppo. «Devi andartene».
«Perché? Sei arrabbiato perché i miei genitori non mi hanno fatto andare a casa tua ieri o perché ti ho visto lavarti le mani? Cosa me ne importa, testa di rapa? Ti fissi, ripeti le cose, a volte sembri scacciare via pensieri negativi, visualizzi tanto i dettagli come se… come se li rigirassi nella testa e… sei ossessivo», aveva sorriso, guardandolo abbassare gli occhi infastidito. «È solo una cosa in più».
«Cosa in più?», finalmente era riuscito ad alzare la testa, mordicchiandosi un labbro. «Che sono-?».
«Strano?», Mark aveva scrollato le spalle. «Te ne vergogni, adesso? Hai mai notato che siamo tutti strani, qui dentro? Siamo diversi, strani, reietti, l'ultimo vagone del treno», aveva sorriso e le sue guance rosse dovevano essere sembrate ancor più rosse. «Lo so che vorresti dirti che sei il peggiore perché ami metterti in mostra, ma non ti darò questa soddisfazione».
Louie aveva pensato che non sarebbe più riuscito a guardarlo negli occhi, ma si sbagliava: lo aveva fissato a lungo e si era alzato dalla sedia per essergli più vicino, facendosi forza e resistendo al suo peso tanto per abbassarsi verso di lui; Mark lo aveva tenuto per non cadere e Louie si era sorretto sui braccioli della sua sedia a rotelle cigolanti. I suoi occhi non erano totalmente nocciola: nell'iride aveva delle chiazze più chiare intorno alle pupille, e altre più scure, più piccole. Louie si era abbassato ancora, rischiando di perdere forza. Le sue iridi sembravano il mosaico della vetrata di una chiesa che, al centro, custodiva un buco nero. Erano bellissimi, ma non poteva restare a fissarli oltre, sentendo la fredda mano destra di Mark posarsi sul suo volto. Allora gli aveva guardato le labbra: lisce, rosa; molto diverse dalle sue spaccate. Così si erano baciati la prima volta.


***


Non avrebbero avuto molto tempo, a due mesi dal primo bacio sarebbe accaduto l'irreparabile. Una piccola gita fuori casa con l'inganno dei genitori per conoscere un gruppo di hippy si sarebbe rivelata l'inizio della fine: Louie si era sentito male ed era svenuto; Kristen, la fidanzata di Mark con loro per accompagnarli, aveva cercato aiuto; visto l'accaduto e non riscontrando miglioramenti nel figlio, i signori Luthor avevano deciso di spostarlo in un'altra struttura, privata, sperando sarebbe stato seguito a dovere. Louie e Mark avrebbero avuto sempre meno tempo per rivedersi, prima della fine.
«Ci hanno tagliato i fondi», gli aveva detto Mark una sera. Kristen lo aveva accompagnato a casa Luthor, era riuscita a convincere i genitori: allora i Luthor erano una famiglia benestante piuttosto malvista da alcuni, a causa di quella fabbrica di armi. «Stiamo raschiando il fondo del barile, ma ce la faremo. Lo sai che non è da noi arrenderci».
Louie avrebbe tanto voluto fare qualcosa per loro, magari con qualche soldo in più si sarebbero risollevati, ma suo padre non voleva ascoltarlo. Aveva chiesto a sua sorella Lara ma lei, impegnata a scrivere un'altra di quelle lettere, lo aveva sbattuto fuori. Allora si era rivolto a suo fratello Levi, l'unico che il genitore considerava veramente, dopotutto, che gli aveva promesso che ci avrebbe parlato. Felice della cosa, Louie era riuscito a convincere sua madre a lasciar andare a casa tutti i suoi amici dell'associazione, purché se ne sarebbero andati via presto per non causargli stress, e avevano festeggiato con bibite e dolcetti. Almeno per la maggior parte di loro.
A un certo punto, facendo l'occhiolino a Mark, Louie aveva fatto tintinnare un bicchiere per prendere l'attenzione del gruppo. Sua madre lo aveva ammonito da lontano e lui aveva cercato di ignorarla. «Questa è una festa per il futuro. Il nostro futuro. Dunque, signori, sognate in grande e confidatemi le vostre sfrenate ambizioni». Tutti lo avevano fissato e lui aveva sorriso con fierezza, alzando il mento: «Cosa volete fare da grandi? Salvare il mondo? Ditemi». Non avrebbe accettato pessimismi, quella volta. Ma nessuno sembrava sapere cosa dire, così era stato Mark a sciogliere il ghiaccio:
«Io sarò un tassista». Tutti a parte Louie si erano messi a ridere e Mark era arrossito ancora. «Credete che non potrei riuscirci? Quando sarò adulto, la sedia a rotelle non sarà più un ostacolo e le macchine saranno facili da guidare. Potrei vedere tanti posti nuovi solo accompagnando le persone da un posto a un altro e rendendole felici».
«Magari le macchine voleranno», aveva suggerito Louie e Mark gli aveva sorriso.
I ragazzi erano stati in silenzio solo altri pochi istanti, sorridendosi a vicenda.
«I-Io un giorno sarò u-un maestro», aveva confidato a quel punto uno di loro, nascondendo il sorriso imbarazzato dietro una mano ricurva.
«Io magari il parrucchiere», aveva preso voce un altro, «Le mie gambe non vanno, ma le mie mani…».
«Io ancora non lo so», aveva fatto una smorfia con la bocca un altro ragazzo, appiattendosi al tavolo.
«Tu potresti fare l'artista», gli aveva suggerito Louie, indicandolo con orgoglio. «Le tue dita sono storte, ma disegni lo stesso, no? Lo fai sempre, hai già trovato cosa fare e i tuoi dipinti sono bellissimi».
Il ragazzo aveva sorriso, arrossito, girando le dita per aria e fissandole.
E c'era chi avrebbe voluto fare il sub, chi il ballerino, chi avrebbe voluto lavorare nel piccolo negozietto di famiglia come i fratelli più grandi, chi avrebbe voluto essere padre. Il desiderio aveva aperto la strada ad altre tipo di ambizioni e i ragazzi si erano scatenati fino a tirare fuori le cose più assurde, come chi avrebbe voluto essere un fiocco di neve solo per sapere come ci si sentiva a volare giù dal cielo. Louie era stanco ma soddisfatto: era stata la giornata più bella di tutta la sua vita.
«Voi, amici miei, cambierete il mondo», aveva detto a testa alta a festa finita e le famiglie erano passate a prenderli.
Anche Kristen era andata a prendere Mark. «Grazie per la bella serata, da parte sua», si era fermata per parlargli, davanti alla porta.
Louie aveva notato come la ragazza si attorcigliasse una ciocca dei capelli scuri e lisci con le dita: ripeteva all'infinito quel processo ogni volta che parlava con lui; era imbarazzata.
«Mark è sempre felice con te e non c'è miglior regalo che potresti fargli se non restargli vicino. Ti ringrazio». Si era sistemata la coroncina gialla e aveva preso a spingere la carrozzina del suo fidanzato, dopo avergli dato un bacio. I due ragazzi si erano guardati a lungo, prima che la signora Luthor chiudesse la porta per far andare a riposare il figlio.
Qualche giorno dopo, Levi aveva mantenuto la promessa fatta al fratello minore e aveva parlato a suo padre per aiutare l'associazione, ma lui, non convinto, lo aveva lasciato andare dicendogli che ci avrebbe pensato. Sarebbe stato troppo tardi e, una mattina di quelle, una scarpata avrebbe portato via tutti i loro sogni.



































***


Sono bastate queste poche pagine per farmi shippare Louie e Mark all'ennesima potenza, mentre scrivevo, ma così com'è finita è terribile…
Come state, people?
Ci tengo prima di tutto a precisare una cosa: il termine “storpio” è usato solo ed esclusivamente in questo contesto, e non esiste altro modo in cui verrà utilizzato: Louie lo usa su di sé e gli altri perché è un po' stronzetto e il sarcasmo e l'ironia solo la sua arma per via della sua condizione, e Lara lo usa sul fratello perché è appunto suo fratello e hanno un rapporto loro, non lo farebbe con nessun altro. Non è usato in modo da ferire qualcuno; se qualcuno che dovesse leggerlo si infastidisse mi dispiace veramente, è usato solo ed esclusivamente in questo contesto.
E ora… rieccoci! Sono stata via a lungo ma, come scritto in precedenza, tornerò ad assentarmi perché scrivo in modo discontinuo e non posso fare altrimenti, mi dispiace! Ma fintanto che ci sono… aaah, si ricomincia con un bel e lungo stand alone! E sì, gli altri minicapitoli saranno più lunghi…
Lo so, magari come ritorno vi aspettavate qualcos'altro, me ne rendo conto, anche se vi avevo preparato con la prefazione, e dopotutto eravamo arrivati qui e così…
Spero vi sia piaciuto ugualmente e che abbiate apprezzato questo nuovo scorcio, il primo passo verso l'inizio di qualcosa di grande, e che abbiate riletto almeno il capitolo 64 prima di approcciarvi a questo perché altrimenti potrebbe essere dura ricollegare i fili, ma in ogni caso:
Chi è Louie Luthor? Presentato oggi per la prima volta, lo abbiamo già sentito nominare nei capitoli scorsi, sia perché John Jonzz aveva iniziato a chiedersi di lui investigando sull'organizzazione, sia perché l'Angel Children's Memorial, la piazza dove si sono incontrate le ragazze, è stata fatta costruire da lui in memoria dei ragazzi persi in quell'autobus. Proprio in quell'autobus. È il padre di zia Lorna, che abbiamo conosciuto al matrimonio di Lillian e Lionel. Capelli neri, un po' inacidita; ha aiutato Lillian a prepararsi al suo matrimonio, è cugina di Lionel, e nel presente era anche al matrimonio di Lillian ed Eliza. Ha mandato via John Jonzz quando lui le ha chiesto del padre e pare, PARE da come ne parlavano le ragazze in piazza, che riserbi dell'astio per i Luthor. Che sarà successo…? Sarà vero? Louie è il fratello minore nato malato di Lara Luthor. Vi ricordate la tenera zia Lara sempre al matrimonio di Lillian e Lionel? Proprio lei, ma molto prima che diventasse la tenera zia Lara. Avremo modo di conoscerla. Ed è anche il fratello minore di Levi Luthor, il figlio di mezzo. Levi lo conosciamo leggermente meglio, si è visto in alcuni capitoli ed è stato nominato diverse volte: è il padre di Lionel, il signor Luthor che ha accolto Lillian nella sua famiglia e che voleva come sua erede, non scordiamocelo, lo ha detto Zod. Qui deve ancora diventare il signor Luthor, che è invece suo padre. Quindi Levi è il nonno di Lena morto quando suo fratello Lex aveva nove anni. Tutto torna, segnatevele queste cose XD Oh, vi avevo scritto, tempo fa, che questi personaggi sarebbero tornati…
Perché è importante Louie Luthor? Lo vedremo.
Ah, un'altra cosa: Louie ha di fatto una malattia mentale, oltre al suo fisico debilitato. E in realtà, anche questo c'entra…
Spero con tutto il mio cuore di non aver trattato male la tematica disabilità.
Dunque magari si è capito, ma se non è così lo dico ora, che questo capitolo, tutti questi minicapitoli del macrocapitolo 65, parlando delle parti solo al presente, sono ambientate nella stessa giornata dello scorso capitolo. Vedremo i pezzi che ci mancano; ad esempio qui abbiamo la mattina poco prima che Kara andasse in piazza, lo dice il messaggio a Megan. Ricordiamo che Maggie è arrivata dopo, che Kara doveva andare da sua zia, e che magari lei e Lena si sono ritrovate più tardi, a fine serata…
Spero che tutto questo non sia troppo incasinato XD Dai prossimi minicapitoli le parti al presente saranno più sostanziose e vedranno personaggi diversi.
E nulla, spero vi sia piaciuto anche se si va a esplorare un passato non così passato ;)

Ci rileggiamo con il minicapitolo 65.2 Riscatto: La nuova società sabato 20! Non mancate! (Sì, i minicapitoli, a meno di variazioni dell'ultimo minuto, saranno pubblicati uno a settimana!)


   
 
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