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Autore: FairyCleo    16/02/2021    1 recensioni
Dal capitolo 1:
"E poi, sorprendendosi ancora una volta per quel gesto che non gli apparteneva, aveva sorriso, seppur con mestizia, alla vista di chi ancora era in grado di fornirgli una ragione per continuare a vivere, per andare avanti in quel mondo che aveva rinnegato chiunque, re, principi, cavalieri e popolani".
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Goku, Goten, Trunks, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La storia del mostro che abita nel quaderno
 
L’essere costretto a muoversi utilizzando mezzi umani non giocava a suo vantaggio. Non aveva mai voluto apprendere la tecnica del volo, essendo un tradizionalista, ma mai come in quell’occasione, se n’era pentito.
Se avesse veramente voluto, sarebbe stato capace di concentrare le energie sino a levitare, ma l’esperienza gli aveva insegnato che a quell’età, e in circostanze spaventose come quelle, era fondamentale mantenere la calma e preservare le forze. Il nemico da affrontare non era un nemico comune: Genio sapeva perfettamente contro chi avrebbe dovuto combattere, e data la generosa dose di incazzatura maturata dalla bestiaccia in questione, avrebbe dovuto doppiamente guardarsi le spalle.
Mentre viaggiava lungo i sentieri contorti, mentre cercava di rimanere concentrato per mantenere attivo il sigillo imposto sul suo nuovo pupillo, continuava a pensare a quando, tanto, troppo tempo fa, aveva incontrato quella splendida creatura per la prima volta. Quando, ingenuamente, si era fidato di chi, un giorno, lo avrebbe subdolamente tradito.
 
Tanto, tanto tempo fa…
 
Nessuno sapeva di preciso da dove venisse quel bambino, o chi fossero suo padre e sua madre. Sapevano solo che aveva gli occhi completamente aperti e che non aveva emesso neppure un vagito.
Quando aveva cinque anni, gli avevano raccontato di averlo trovato in una cesta, sotto la pioggia battente di una gelida notte di gennaio, con solo una coperta addosso e nessun altro segno, oggetto o ricordo che potesse in qualche modo ricollegarlo a chi lo aveva messo al mondo.
La sua infanzia era stata segnata dagli stenti e dall’umiliazione: chi lo aveva trovato sotto la pioggia aveva fatto presto a lasciarlo presso il vecchio monastero, diventato ormai da tempo la casa i bambini indesiderati. Non era di certo per puro spirito caritatevole se venivano accolti lì: i bambini, una volta raggiunta un’età idonea, sarebbero stati impiegati nei campi, sui cantieri e sui mercantili, costretti a lavorare sino allo sfinimento, a morire sotto il sole cocente, o per una malattia che li avrebbe consumati dolorosamente.
Lui era cresciuto in una grande stanza dove dormivano ammassati decine e decine di suoi coetanei. Aveva vissuto tra i topi, le feci dei neonati, l’urina dei ragazzi più grandi e tra le lacrime di chi sperava ancora che qualcuno venisse a sottrarlo da quel crudele destino.
Lui, però, non aveva mai pianto, né aveva mai sperato che sua madre e suo padre venissero a prenderlo. Non voleva niente da chi non lo aveva voluto.
In verità, sembrava che non desiderasse affatto: non diceva mai di volere la libertà, di volere un giocattolo, un cibo in particolare. Prendeva tutto quello che gli veniva offerto senza alcuno slancio emotivo: se gli veniva offerto, era un bene, se non gli veniva offerto niente, sembrava andare bene lo stesso.
Aveva vissuto così i primi anni della sua vita, senza desideri, e la cosa più triste era che aveva vissuto senza avere un nome e senza sapere quale fosse il suo aspetto. Non aveva mai avuto modo di osservare il suo riflesso e associare la parola che indicava il colore marrone all’immagine dei suoi capelli e dei suoi occhi.
 
Allo scadere dei suoi cinque anni – conteggiati da chi lo sorvegliava dal giorno in cui aveva messo piede nel monastero – era stato affidato a un uomo enorme, con la pancia cadente, le mani nodose e una lunga barba nera. Non aveva salutato nessuno dei bambini che avevano trascorso quel periodo insieme a lui: sembrava che non avesse sviluppato affetto per nessuno di loro. Non era neppure incuriosito dall’uomo che lo aveva prelevato, né lo aveva emozionato l’idea di iniziare finalmente a vivere. Era come se non gli importasse di niente e definirlo apatico, asociale, sarebbe stato a dir poco riduttivo.
Stava di fatto che quell’energumeno lo aveva portato in una grande fattoria ai piedi di una cascata, gli aveva mostrato la branda su cui avrebbe dormito, la scodella in cui avrebbe ricevuto il suo rancio, gli attrezzi con cui avrebbe dovuto lavorare la terra e lo aveva lasciato in compagnia degli altri contadini, schiavi da lavoro poco più grandi di lui.
Stabilire quanto tempo avesse effettivamente trascorso lì, in quel posto, non era stato possibile.
Le giornate si erano susseguite tutte uguali, segnate dalla fatica e dall’abbrutimento. Mai un momento di pausa, mai un momento di gioia. Neppure sapeva cosa fosse la felicità. Aveva persino dimenticato quale fosse il suono della sua voce. Perché parlare con chi si trovava lì? Cosa aveva da condividere con loro? Niente… Proprio un bel niente.
Poi, un giorno, un violento temporale si era abbattuto sulla fattoria e sulla campagna circostante: la pioggia battente aveva fatto ingrossare il fiume sino a farlo straripare, e l’acqua, gelida, nera come la notte, violenta come un’esplosione, aveva travolto ogni cosa. Lei, che bagnava i campi irrigandoli, che nutriva alberi e fiori, aveva spazzato ogni cosa, divorando tutto ciò che incontrava sul suo cammino come un drago, come uno spaventoso leviatano impossibile da fermare.
Aveva visto l’uomo che lo aveva preso dal monastero annegare: l’acqua lo spingeva giù e poi lo faceva riemergere, lo spingeva giù e lo faceva riemergere, e lo stesso aveva fatto con gli altri, con i compagni di lavoro e con i famigliari dell’uomo, fino a che non erano riemersi più.
Non era mai stato un grande nuotatore, ma era furbo, diabolicamente furbo: per sfuggire a quella furia, era semplicemente salito sul tetto nel momento in cui si era accorto del rumore spaventoso che proveniva dal fiume. Si era arrampicato nonostante gli altri gli avessero ordinato di non uscire dal capanno, nonostante lo avessero maledetto e deriso per la sua idiozia e il suo essere così avventato, sconsiderato, stupido. Ma lui non era né avventato, né sconsiderato, né stupido. Era intelligente. Era scaltro. E, nella sfortuna, continuava a essere sfacciatamente fortunato.
Il mattino dopo, col sorgere del sole, si era lasciato alle spalle i cadaveri gonfi dei compagni e dei padroni. Il mattino dopo, senza alcuna particolare espressione in volto, si era incamminato lungo il sentiero fangoso, deciso nel passo e nelle intenzioni.
 
Aveva dormito nelle tane vuote degli animali che popolavano il bosco, aveva mangiato bacche e radici e aveva bevuto l’acqua di sorgente. Si era lavato nel fiume, aveva pescato a mani nude le trote spinose e aveva divorato le loro carni crude, sputando via le lische che gli raschiavano la gola.
La pioggia, il gelo, il sole, il vento, niente sembrava scalfirlo, nulla sembrava poter arrestare il suo cammino. Lui proseguiva, imperterrito, deciso ad arrivare in un posto che forse non esisteva, perché non sapeva, di preciso, cosa stesse cercando.
Aveva attraversato villaggi, pascoli, boschi, cittadine, aveva mendicato, lavorato, sofferto la fame, ma non si era mai lamentato. Probabilmente, nessuno avrebbe mai udito il suono della sua voce. Nessuno, avrebbe mai potuto chiamarlo per nome, se mai ne avesse avuto uno.
Eppure, dopo un tempo che a qualunque altro essere mortale sarebbe parso interminabile, alla fine si era fermato. Il suo peregrinare sembrava essersi arrestato, e non in un luogo qualsiasi.
Non aveva mai visto una costruzione come quella, prima di allora: era una casa a un solo piano, interamente costruita in legno, con uno strano tetto a spiovente. C’erano tante finestre, e da quello che sembrava essere l’ingresso, si poteva notare uno grande spazio vuoto all’interno, una specie di giardino dove alcuni bambini e alcuni adolescenti vestiti di bianco si muovevano al suono della voce di un uomo dalla lunga treccia candida come la neve.
Ne era rimasto come ipnotizzato: per la prima volta, qualcosa aveva catturato la sua attenzione, sfondando quel muro di apatia che per tanti anni lo aveva contraddistinto e segnato.
Mai prima di allora aveva visto tanto impegno, tanta dedizione. Non aveva la minima idea di cosa stessero facendo quei ragazzi, del perché agitassero in quel modo i pugni, del perché muovessero le gambe e le braccia con decisione ma eleganza, con forza ma con ritmo, quasi come se danzassero, ma gli provocava uno strano sentimento mai provato prima: piacere.
Sarebbe rimasto a guardarli per ore. E per un po’ di tempo, c’era riuscito: furbo come una volpe, si era nascosto al limite del bosco, tanto vicino da poter vedere ma non abbastanza da essere visto.
E, dopo aver osservato, dopo aver udito gli insegnamenti, aveva cominciato a riprodurre meccanicamente quello che aveva appreso da lontano. Si agitava come un ossesso nel tentativo di imitare i ragazzi vestiti di bianco, nella speranza non solo di poter somigliare loro, ma di essere migliore.
Furbo era furbo, ma non abbastanza da poter sfuggire agli occhi – seppur nascosti – di chi si era accorto della sua presenza sin dal primo istante e che, incuriosito, aveva osservato indisturbato l’impegno e la dedizione di quel bambino sporco e denutrito.
Era comparso alle sue spalle senza fare il minimo rumore, impartendo correzioni in merito al movimento che aveva provato a eseguire. A causa dello spavento, era caduto in avanti, e avrebbe sbattuto la fronte se l’uomo che lo aveva spaventato non lo avesse afferrato per il colletto di ciò che rimaneva della sua canotta.
Era sbalordito per la velocità e la precisone con cui lo aveva afferrato. Possibile che quell’uomo dall’aspetto così bizzarro fosse tanto rapido e forte?
 
“Se vuoi imparare puoi farlo. Ma solo una volta varcata quella soglia”.
 
La sua voce era calma, tranquilla, ma anche decisa. Avrebbe dovuto iniziare a divincolarsi, avrebbe dovuto cercare di scappare, avrebbe dovuto tremare di paura, forse, ma non lo aveva fatto: quel buffo uomo non troppo alto, dai capelli neri come la notte aveva sul visto uno strano oggetto nero che gli copriva gli occhi, ma nonostante quelle bizzarrie, gli trasmetteva calma e sicurezza, in qualche maniera, sembrava avergli fatto capire di potersi fidare ciecamente di lui.
 
“Allora è deciso: entrerai nella scuola come mio allievo… Ma prima dimmi… Qual è il tuo nome, figliolo?”.
 
Il bizzarro uomo col viso coperto da quello strano oggetto nero, era stato il primo a scoprire il nome del bambino che credevano non avesse una voce.
 
*
 
Aveva trascorso dieci lunghi anni sotto la sua ala, protetto come un figlio, cresciuto come un soldato, educato come un guerriero. Rivelatosi un prodigio, il bambino sporco e smunto era diventato un adolescente avvenente, impeccabile, dal fisico atletico e delle doti combattive e intellettive ineguagliabili. La persona che lo aveva accolto e allevato aveva lottato ardentemente contro il volere del Sommo maestro, che non vedeva il ragazzo di buon occhio. Continuava a sostenere fermamente di aver percepito in lui qualcosa di estremamente insolito, quasi di inquietante, che quel ragazzo portasse dentro di sé una tempesta, e che essa sarebbe stata devastante. L’uomo che lo aveva accolto, al contrario, sosteneva di aver visto un enorme potenziale in lui, e che l’opinione – seppur rispettabilissima – del suo maestro, era sicuramente infondata. Non era la prima volta che si accettava di formare un ragazzo orfano, quindi perché crearsi remore proprio nei confronti di uno talmente desideroso di apprendere e crescere?
Davanti all’ostinazione del suo allievo prediletto, il maestro non aveva osato insistere oltre: sarebbe stata l’esperienza a temprare chi ancora aveva tanto da apprendere, ed era fermamente convinto del fatto che una caduta, seppur rovinosa, sarebbe stata solo un beneficio per quel giovane ancora così acerbo che aveva preso sulle sue spalle il carico della formazione di quel ragazzino.
 
Il tempo passava, e le azioni non facevano altro che confermare la non troppo velata bizzarria che caratterizzava il bambino diventato uomo. Era schivo, silenzioso, incapace di instaurare un legame con i compagni. Le sue abilità crescevano così come cresceva l’aura di mistero che gli aleggiava attorno. Dopo quel primo impeto provato tanti e tanti anni prima, sembrava essere tornato il ragazzo privo di qualsiasi emozione umana: non provava fame, sete, freddo, gioia, dolore. Era quasi come se fosse un burattino. Trascorreva la maggior parte del suo tempo libero da solo, a meditare, o a provare e riprovare un nuovo esercizio, accrescendo la propria forza spirituale e fisica sino al punto di riuscire a levitare a pochi centimetri dal suolo. Prima di allora, solo il Sommo maestro ne era stato in grado.
 
“Il tuo ragazzo va guidato… Se non ne sarai capace, potrebbe diventare un pericolo molto serio per se stesso, per questa scuola e per l’intero villaggio”.
“Maestro… Non vi fidate di me?”.
“Non è questo, figliolo… È che colui che sembra non desiderare niente, potrebbe in verità desiderare ogni cosa”.
 
*
 
Era accaduto tutto, ancora una volta, in piena notte, durante un violento, improvviso temporale.
Aveva scelto di portare il ragazzo in pellegrinaggio, nella speranza che un maggiore contatto con la natura potesse risvegliare in lui un qualche genere di interesse. Quel giovane uomo era come una missione, per lui. Il Sommo maestro era stato chiaro sul pericolo di nutrire dei sentimenti di affetto nei confronti degli allievi, sull’attaccarsi a loro al punto di considerarli come figli, ma lui non era stato in grado di rispettare quella regola fondamentale, scoprendo, suo malgrado, che reprimere i propri sentimenti non era affatto semplice. Quegli occhi profondi, quella determinazione e quella ricercatezza in gesti e parole rendevano il ragazzo una vera calamita. Con lui, sentiva di poter essere se stesso, e per la prima volta dopo tanto tempo si era lasciato andare a confessioni e confidenze sulle sue avventure intime con il gentil sesso, l’unica sua debolezza.
In sua presenza si sentiva libero, sicuro, ma erano stati questo affetto e questa fiducia a segnare la sua rovina.
Pochi giorni prima di quel rovinoso evento, aveva deciso di rivelargli la reale natura di quegli addestramenti così intensi: nessuno degli allievi della scuola ne era a conoscenza, questo perché quel segreto sarebbe stato confidato solo agli alunni più meritevoli, e lui era di certo uno di essi. Nello stesso momento in cui avevano intrapreso quel pellegrinaggio, lo stesso era successo ad altri tre compagni scelti da altrettanti maestri.
Quattro allievi, quattro maestri, quattro prove, tutto volto a scegliere i futuri custodi, tutto volto a scegliere gli eredi di quella setta millenaria.
I ragazzi non si sarebbero incontrati, e l’auspicio era quello che tutti e quattro superassero la prova e diventassero i custodi del mondo sotterraneo, della prigione dorata che proteggeva il mondo dalla crudeltà di chi aveva intenzione di dominarlo.
Ma la segretezza non era bastata a rendere giustizia a quella pratica millenaria: il suo allievo aveva scoperto che non sarebbe stato il solo a doverla affrontare, e questa scoperta lo aveva reso stranamente irrequieto. Un custode sarebbe bastato. Perché smembrare la conoscenza, il potere di sottomettere i nemici, invece di concentrarlo nelle mani di un’unica persona? Non disconosceva la valenza dei suoi compagni, ma poteva realmente considerarli meritevoli anche solo di essere scelti per affrontare una simile prova?
 
Non aveva posto domande, non si era mostrato incerto, sdegnato. Aveva continuato a seguire gli insegnamenti del suo maestro, obbedendo ciecamente, fino a quando… Fino a quando non era sopraggiunto il giorno della prova finale. Prima di quel momento, aveva appreso tutto ciò che poteva, assorbendo ogni parola, ogni gesto, rendendoli parte di sé, diventando più forte, più scaltro e, sicuramente, molto più determinato.
 
“Sei pronto, finalmente… La prova sarà dura, ma sono certo che sarai in grado di superarla. Hai conosciuto la verità sulla scuola, su quello che rappresenta. Il Sommo maestro è la creatura più antica che questo mondo abbia mai visto nascere. È il suo più vecchio protettore, il suo custode. Neppure lui ricorda quanti anni abbia, da quanto tempo cammina in questo mondo, ma la sua saggezza e il suo senso di giustizia lo hanno condotto a prendere la decisione di condividere con altri esseri umani le sue conoscenze, le sua abilità, la sua forza. L’ordine a cui appartengo dovrà proseguire con voi. Il Sommo maestro ha bisogno del nostro aiuto per proteggere la Terra, per difenderla dalle creature mostruose che la abitano. I demoni sono ovunque… E spesso si nascondono dentro noi stessi. Noi abbiamo gli strumenti che ci hanno reso in grado di combatterli… Li affronterai e li sconfiggerai, prendendo così il posto che ti spetta nel mondo”.
 
E lo avrebbe preso, il posto che gli spettava, ma non era quello che credeva il suo maestro.
L’arte del sotterfugio sembrava essere diventata la sua specialità, così come quella di insinuare nella mente altrui il dubbio, il sospetto, la paura. Esperti maestri erano caduti sotto la sua influenza, un’influenza indiretta, ma letale. Di lì a poco, la prigione sotterranea, la caverna dorata che per tetto aveva l’acqua cristallina di un’oasi, aveva accolto nuovi inquilini, sigillati negli oggetti che avevano usato assiduamente nel quotidiano.
I suoi rivali erano stati così messi fuori gioco da chi li aveva proposti come canditati ideali e lui, proprio come all’epoca, quando aveva visto per la prima volta i ragazzi al di fuori della scuola, quando era un orfano sporco e malnutrito, aveva appreso la tecnica segreta, quella che padroneggiavano i maestri dell’ordine, il Mafuba.
Ma aveva deciso che sigillare i maestri non sarebbe stato saggio: la morte era la via per ottenere il controllo, la morte era la via per ottenere il potere di controllare il mondo e proteggerlo. Così, uno a uno, aveva posto fine alla loro vite, macchiandosi le mani del loro sangue.
 
Lo sgomento e il dolore si erano fatti spazio nel cuore del suo maestro, dilaniandolo. Di quale orrore si era macchiato il suo pupillo, quale nefandezza era stato capace di commettere?
 
“Sei stato cieco…” – aveva detto il Sommo maestro, morente – “E ci hai condannati a morte tutti”.
 
Aveva dato un senso a quelle parole solo dopo aver varcato la soglia della scuola: il suo pupillo aveva sterminato ogni possibile rivale, aveva ucciso tutti i ragazzi, dal più giovane al più anziano, rendendo quel luogo sicuro un cimitero a cielo aperto, un ghiotto banchetto per i crudeli avvoltoi.
La responsabilità di quelle vite spezzate era piombata all’improvviso sulle sue spalle, schiacciandolo, devastandolo sin dentro l’anima. Aveva pianto, dietro quelle lenti scure, aveva pianto tutte le lacrime che aveva in corpo, e poi aveva deciso di reagire, spinto dalla sete di giustizia che albergava in lui sin dalla più tenera età, e lo aveva raggiunto lì, al limitare del bosco, nel punto più alto, il punto da cui egli lo osservava, con le mani sporche di sangue e lo sguardo che brillava di una luce proveniente direttamente dall’inferno. Aveva preso su di sé le abilità del Sommo maestro, la sua forza spirituale e vitale, la sua immortalità, per farne un uso che violava qualsiasi legge scritta e non della casa in cui era stato allevato.
Lo scontro, avvenuto sotto la pioggia battente, era stato lungo, devastante, non veramente alla pari. La nuova potenza di quello che era stato il suo pupillo lo aveva travolto. Aveva scoperto di essere un bersaglio facile.
Era stato ferito gravemente. Nel corpo, nel cuore e nell’orgoglio. Era stato ferito perché sapeva di non essere in grado di fermarlo, perché sapeva di aver creato un mostro, di averlo plasmato con le sue stesse mani, le stesse che non erano in grado di distruggerlo.
Sarebbe morto. La sua vita sarebbe finita quel giorno, se chi lo aveva protetto da sempre non fosse intervenuto: il Sommo maestro, nonostante non fosse più una creatura di questo mondo, era tornato indietro per un breve attimo dando al suo pupillo un’ultima chance, un’ultima occasione.
Ed era stato tra il dolore e le lacrime che aveva reagito: non ci sarebbe stata possibilità di errore, non ci sarebbe stata una seconda occasione.
Guidato dal bene supremo, lui, Muten, non aveva fallito: il quaderno dalla copertina nera che il suo pupillo custodiva come un tesoro, il suo diario dei pensieri, era stato l’oggetto prescelto, la dimora che avrebbe ospitato il male che da sempre aveva albergato nel cuore di quel bambino abbandonato.
Il Mafuba aveva funzionato: proprio come era successo ai suoi compagni, aveva separato l’anima dal corpo, intrappolandola per sempre. Solo dopo tanto, tantissimo tempo, aveva perfezionato l’antica tecnica, riuscendo a imprigionare in qualsiasi tipo di giara o contenitore corpo e anima di chi non era meritevole, inventando un sigillo cartaceo che avrebbe concesso alla bizzarra prigione di fortuna di non doversi trovare necessariamente all’interno della caverna per poter funzionare.
 
Genio era rimasto l’unico e solo custode di quel mondo sotterraneo, di quel luogo, di quella vergogna che lo avrebbe segnato per tutta la vita.
Mai nessuno avrebbe dovuto avere accesso a quella caverna. Mai nessuno avrebbe più saputo dell’ordine, della sua storia. Avrebbe portato il peso di quella colpa da solo, tentando di tenere a bada i demoni che albergavano in lui e che forse, un giorno, sarebbe riuscito a sconfiggere.
 
Adesso che il quaderno era uscito da lì, dalla caverna, lo spirito imprigionato sarebbe potuto uscire indisturbato, ma avrebbe avuto bisogno di tempo per poter recuperare le forze e insinuarsi nel corpo di Goku. A quel punto, sarebbe stato inarrestabile.
 
Continua…


 
Ed eccomi qui,
Sempre in ritardo, ma carica come poche volte!
Voi come state?
E così, abbiamo appreso la storia dell’essere rinchiuso nel quaderno: la storia di un bambino sfortunato plasmato sino a diventare un mostro dall’orrore della vita quotidiana.
Tutto quello che ho scritto su Muten e sul Mafuba è completamente inventato, ovviamente. XD
Ho mantenuto solo gli occhialoni e la sua predilezione per le belle donne. XD
Che dire, la faccenda è complessa… Riuscirà Trunks a evitare di cadere totalmente sotto il controllo di questo nemico di cui non si conosce neppure il nome? E Genio arriverà in tempo e fermerà una volta per tutte il suo allievo prediletto?
Lo scopriremo, prima o poi…
A presto!
Un bacino
Cleo
   
 
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